AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud), Napoli, Controcorrente, 2001.
AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud)
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 64.
AA. VV., La storia proibita (Quando i Piemontesi invasero il Sud)
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 64.
Non esagera chi afferma che Alessio Di Giovanni è un grande poeta, sia pure dialettale, certamente uno dei maggiori del ‘900, e non solo siciliano. La sua è una poesia che esprime le variegate sfaccettature dell’ uomo nella quotidianità e nel contesto della terra in cui vive, facendola palpitare di vita negli usi, nei costumi, nella parlata della gente che quella terra popola. È una poesia che parla all’uomo, qualunque sia la sua appartenenza geografica, perché è a lui connaturata e, per questo, è universale.
Il poeta, dopo le sue prime esperienze di scrittura che sono vere sperimentazioni di poetica e di una ricerca tutta sua, auspica un ritorno alla natura con i richiami che sono suoi: la campagna sterminata (‘a campìa), ove si sente la voce del vento e quella degli animali che pare dicano: ci siamo, e si tocca con mano il lavoro dell’uomo, sia quello all’aria aperta che nelle cavità del sottosuolo. Con la differenza, rispetto agli altri poeti siciliani (in dialetto e no, e il riferimento è al Veneziano, al Meli, allo stesso Verga, al Martoglio), che in Di Giovanni ci sono un’aderenza e una fedeltà al vero effettivo, cioè, non sono letterarie e di moda. La scelta del dialetto o, meglio, della parlata, ne è conferma, come lo confermano la sua adesione al felibrismo di Mistral e degli altri poeti di Provenza e le simpatie e le attrazioni per il Santo d’Assisi che esternò in diverse occasioni e con altrettante opere.
L’intento di Alessio Di Giovanni fu quello di fare uscire dal solco tradizionale la poesia dialettale siciliana e di rinnovarla sotto il segno della semplicità e della verità delle cose. Scrive in una nota che pospone a Lu fattu di Bbissana: «Bisogna ritornare alla natura: all’osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero.» Ed è quello che farà in tutta la sua produzione, sia in versi che in prosa, nella lingua della gente. Perché, per lui come per noi, quelli che noi chiamiamo dialetti, vedi il siciliano, sono lingue che per ragioni storiche sono state asservite o, se vogliamo, soggiogate da altre, anche se continuano ad esserne linfa.
Scrive ancora Di Giovanni: «La lingua è il gran fiume regale che può rispecchiare nitidamente il roseo e continuo trasformarsi delle nuvole vaganti per il cielo, e la massa verde degli alberi fluviali, e persino l’ombra d’un branco d’uccelli migratori, e può attraversare e fecondare pianure e città, senza correre il pericolo d’anneghittirsi in limacciose paludi e perdersi in selvatiche lande acquitrinose, solo fin quando gli ignoti fiumicelli montani non si dimenticheranno d’apportargli con inconsueta vena, le pure acque fresche, limpidissime acque che loro concede l’alta montagna inviolata. Fate che codesti fiumicelli inaridiscano e il gran fiume perderà tutta la sua maestosa travolgente bellezza, per diventare un polveroso sentiero, irto di ciottoli e di inutili erbacce1».
Il dialetto, la cui importanza è fuori di dubbio, per Di Giovanni, è il mezzo migliore con cui non solo si comunica, ma permette di aderire meglio alla verità delle cose, perché rappresenta la parlata genuina della gente, spontanea e non mediata. E per soddisfare questa sua esigenza in lui non mancò mai né lo studio, né il bisogno continuo di confrontarsi con il patrimonio linguistico delle diverse parlate, né tanto meno l’esigenza di dare ascolto ai cunta della tradizione orale.
Maju sicilianu è la sua prima opera, pubblicata nel 1896, divisa in tre parti: la prima, Amuri rusticanu, dedicata a «Garibaldu Cepparelli, pitturi a Firenzi »; la seconda, Vuci di li cosi, a «Ciccu Lujacunu, paesista»; e la terza, Tipi e sceni paisani, a «Luici Di Giovanni, pitturi». Sulla scia della poesia classica, il poeta apre la silloge con una invocazione alla Poesia, perché gli stia vicino e lo ispiri, e con essa motiva il titolo: «Ora ca, a maju, spuntanu li rosi / E li gigli s’adornanu pumpusi; /.../ Jetta supra di mia li to grann’ali / Eccu … t’aspettu cu affannu murtali2.»
Il tema che caratterizza la prima parte è quello dell’amore, contornato qua e là da spunti che richiamano la vita della natura nel tempo che incede. Per lo più si tratta di ottave siciliane, ma anche ottave e quarti ne abbinate, con rima alternata (ABABABAB, sulla scìa delle canzonette popolari e delle ottave classiche di Antonio Veneziano), come questa: «E cantanu li gaddi a lu matinu / Ji mi susu pi jiri a cacciari. / M’accumpagna pi via lu me vicinu: / Cu iddu ti vegnu, bedda, a salutari. / Sùsiti di ssu lettu beddu finu, / Sùsiti di ssu lettu e nun tardari. / Ca c’è l’amanti to, ccà, a tia vicinu, / Ca ti voli, o bidduzza, salutari3.»
Il sentimento d’amore è qui espresso in modo rozzo, da contadini e da gente di paese quali sono. Essi non conoscevano altri modi, né giri di parole, eppure il loro è un amore sentito, espressione di uno stato d’animo che dice il bene che si vuole alla donna amata, un bene che spesso fa smaniare e non prendere sonno o, non potendolo godere nella realtà, sognare, come è nell’ottava IX (ottava toscana, rima alternata e negli ultimi due versi baciata, ABABABCC).
Di Giovanni si rivela già abile conoscitore dell ‘uomo inserito nel contesto in cui vive; perciò ritrae strade e case di paese e campagne aperte, ricche di odori e di colori, come un bravo pittore sa fare. E si rivela anche abile dosatore della parola, capace di cogliere nel suo piccolo tanto sentire, com’era il parlare della gente umile, scarno nel suo insieme, di poche parole, ma ricco e aperto nel suo significante. Ma è pure un buon conoscitore di metrica, mai forzata nel glorioso endecasillabo e nella rima. Sicché la sua poesia è come un canto che ci è tramandato, perché possa dire la vita intimo è sempre lo stesso.
La seconda parte della silloge, Vuci di li cosi, cambia registro dal punto di vista tematico, che è più variegato e ricco. C’è pure il tema dell’ amore, ma gareggia con le voci e i rumori propri della campagna. Leggiamo: «Passi ntra li lavura tu cantannu, / C’un fazzulettu russu a la to testa. / Ni la vuccuzza to perli ci stannu, Di ddà la vuci nesci duci e mesta. / Li lavura ti vannu curtiggiannu, / Comu tu passi abbàscianu la testa. / Li paparini dicinu lampiannu: / – Binvinuta, bidduzza! Oh chi gran festa!4»
Ormai il poeta dà ascolto a tutto ciò che lo circonda. E sono i prodotti della terra, le semine, i lavori ciclici dei campi, e gli uomini che s’apprestano ad accudirvi, a dare voce ad una poesia che comincia a cambiare tonalità e ad essere più attenta alle cose degli uomini e della natura. Perciò, ora è la voce del padrone che chiama alla pausa le ciurme lavoratrici, ora è una considerazione che il poeta fa al termine della mietitura, ora sono il vento e il caldo afoso, che s’impongono e si fanno sentire, oppure è la solitudine della campagna, ove si sentono solo le stancanti serenate dei grilli. Ecco: «Ch’è occupusu lu cantu di li griddi / Nì la tacita notti rimitusa! / A du’, a tri, a quattru, a vinti, a centu, / a middi… / Ah! Cumincia l’urchestra piatusa. / E comu lu curaggiu a mia spiddi! / Comu si fussi arrè all’età scantusa: / Ca mi pari ci fussi ji sulu ed iddi / Ni sta gran sulitudini scurusa5».
Nella terza parte, Tipi e sceni paisani, abbiamo un insieme di sonetti, in tutto venti nove, alcuni dei quali raggruppati sotto un unico titolo ma numerati, come «Priludiu», che si compone di due sonetti, i quali, a mo’ di monologo rivolto all’amico della dedica, introducono una nota di nostalgia, da parte del poeta, per i trascorsi giovanili comuni, per essere lontano dai luoghi cari, e per il senso del passato che non torna più.
I sonetti sono tutti di buona fattura; risentono qua e là dell’influenza di Nino Martoglio, ma non più di tanto, come ben sottolinea anche Salvatore Di Marco6, perché in Di Giovanni c’è già l’esigenza di riprendere, attraverso l’arte di cui comincia ad essere padrone, nei pregi e nei difetti, la gente di Sicilia nella quotidianità della vita, che spesso nel suo lato comico nasconde il tragico dell’esistenza.
In Centona di Martoglio il dialetto è più contaminato dalla lingua; volutamente è storpiato (tanto per citare un sonetto, «Il telefrico senza fili»: ci troviamo dinanzi al popolano che, abitando in un grosso centro, è più evoluto, rispetto a quello di un paese contadino) e, inoltre, nel poeta di Belpasso c’è una fine vena comico-burlesca che caratterizza la sua poesia. Cosa che in Di Giovanni non troviamo; nei suoi versi trapelano, e via via divengono più forti, il disagio e la miseria di una vita di stenti, e c’è anche un forte senso religioso che spinge all’accettazione e alla speranza.
Pregi e difetti di gente paesana e campagnola, dicevamo. E Di Giovanni sa bene coglierli, come in «La carità di la genti» o i sonetti del «Jòvidi Santu», e in tutti gli altri, nei quali ci sono usi e consuetudini assodati nel tempo, registrati dimenticati. Anche perché ci troviamo dinanzi a un dialetto che è la lingua di questi popolani, siano essi i garzoni di bottega che i contadini. Essi parlano la loro lingua, e sono veri e ci si stagliano davanti, e s’impongono all’attenzione dei lettori per quelli che sono; con gli assensi e le battute asciutte che nella loro essenzialità dicono tutto. Perciò, quando ci si crede come abbia fatto il Nostro a passare dalla poesia al teatro, la risposta si trova proprio là, in quel modo di fare poesia che è la sintesi di tante voci raccolte, a cui il poeta ha posto l’orecchio e il cuore. Ancora non è nella sua piena maturità (si nota sia nei temi, che saranno diversi, sia in certe ricadute nella lingua), ma già conosce bene il suo mestiere e riesce a fare proprio un sentimento di tutti, come in «La Batti Matri», che dice tutta la religiosità che è nella gente nel giro di quattordici versi che sembrano cesellati a misura.
«Ch’ è bellu, ad ata notti, l’ascutari / La Batti Matri, ddu piatusu cantu! / O chi durmiti o chi stati a vigliari / Sempri è pi vu’ un suavi, duci, ‘ncantu. / […] Tu sula, Matri pia, m’arricupari, / Tu sula m’à salvari nni ssu mantu. / […] Acchiànanu li vuci a lu rimpiantu. / Ni la quieti vasta a risunari: / – Tu, Matri, stàvatu a la cruci accantu7».
Il poeta fa degli altri quello che è un suo stato d’animo, un sentire religioso che lo prende tutto e gli fa respirare un desiderio di pace, solo a sentirsi tutelato dalla Madonna, che conosce il dolore e il perdono e, perciò, a lei si rivolge e da lei vuole essere tutelato («Tu sul a m’à salvari nni ssu mantu») e, nel canto che s’innalza e si diffonde nel silenzio della notte, la sua diviene una preghiera composta e riverente che tutti accomuna nel ricordo dell’atroce sofferenza di Cristo e al pensiero della pia Madre che, desolata, non lo lasciò un istante.
L’anno 1900 fu un anno proficuo per Alessio Di Giovanni, sia dal punto di vista della produzione, che lo vide impegnato nell’ode Cristu, pubblicata poi nel 1905, nel saggio Contadini di Valdensa e Villani di Realmonte, in Lu fattu di Bbissana e in Fatuzzi razziusi, sia da quello di una elaborazione di poetica che caratterizzerà le sue opere successive. Fino a questa data, dietro l’influenza di amici, quali Garibaldo Cepparelli e Giuseppe Tumbarello, aveva sperimentato, aderendovi, il fonografismo in piena stagione veristica, e lo scopo era quello di voler riportare sulla carta la parlata viva della gente, riproducendo con la grafia anche i suoni (Bissana: Bbissana; ziti: zziti; bonu: bbonu; ecc.). Dopo quell’anno, Di Giovanni accantonerà la fonografia per scrivere in un dialetto fedele alle varie aree linguistiche isolane. Già anni prima aveva scritto: «Ma certamente nella poesia non si può trovare la vera arte che non è posseduta dal contadino e dal popolano. Il poeta dialettale, quindi, deve ricorrere alla grazia del dialetto nativo ma non può dimenticare la sua arte e i suoi studi. La poesia dialettale possiede una spontaneità riflessa, cioè una spontaneità popolare, unita all’ Arte. Il poeta deve dare a quella poesia la forza immaginosa e fantastica della sua mente8.»
Più semplicemente, egli anticipava quanto, a proposito dello scontro-incontro che Di Giovanni ebbe con Verga (il Ciancianese non accettava che I Malavoglia fossero stati scritti in lingua dialettale), ebbe a scrivere P. P. Pasolini: «Il dialetto è materiale che riceve forma da una poetica che la trascende, che appartiene alla cultura in lingua, i cui centri non sono solo nel continente italiano, ma in Europa. Di Giovanni appartiene a questa cultura come ci appartiene il Verga. In realtà, tra I Malavoglia, scritti in lingua dialettale ma non ancora in dialetto, e Lu fattu di Bbissana, scritto nel più chiuso dei dialetti, la differenza è solo apparente. Ambedue sono scritti in un linguaggio che non è in realtà né lingua né dialetto, ma è contaminazione, non solo fisica, non solo grammaticale o sintattica, ma di cultura e cultura. La cultura superiore dello scrivente e la cultura inferiore del parlante9.» Che significa che è il poeta, con gli strumenti di cui dispone, qualunque essi siano, il manipolatore della materia grezza della sua poesia, l’artefice capace di elevarla, perché di venti patrimonio e documento, e canto indelebile e vero, capace di sfidare le intemperie del tempo e le miserie degli uomini.
In quegli anni c’erano tutte le condizioni perché poeti e letterati cominciassero realisticamente a interessarsi di ciò che stava loro attorno. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in Europa come in Italia, sulle ceneri del romanticismo andava covando il naturalismo-verismo con tutta una serie di problematiche che aprivano a nuovi scenari sociali mai prima di allora evidenziati: lo sfruttamento e le condizioni di miseria dei lavoratori, sia nel Nord che nel Sud, sfruttato, questo, dai grossi proprietari di terra e di miniere. Ad appesantire il disagio delle popolazioni c’era la disastrosa politica economica di Crispi, in attrito con la Francia, e tesa a concretare e potenziare l’idea di rendere grande l’Italietta con possedimenti oltremare.
Forte era il malcontento della povera gente, ora sostenuto dal movimento operaio che stava organizzandosi (il «Partito dei lavoratori italiani», fondato nel 1892, diventerà «Partito socialista italiano» nel 1895) ora dalla Chiesa che aveva fatto sentire la sua voce di protesta con l’enciclica Rerum Novarum (1891). Ci fu così nell’aria un bisogno di giustizia e di solidarietà che si traduceva in richieste di terra, di aumenti salariali e di un’adeguata legislazione che mettesse fine ad ogni forma di sfruttamento e di ingiustizie, anche da parte dello Stato. Proprio in questo periodo i contadini e minatori dell’agrigentino si organizzavano nei «Fasci dei lavoratori » (1892-1894) che in poco tempo si estesero in quasi tutta la Sicilia. Ed era tutto da sperare, se Crispi, ridivenuto capo del governo nel dicembre 1893, non avesse stroncato tutto sul sorgere, proclamando lo stato d’assedio.
L’amarezza in tutto il paese fu grande, e alle reazioni di piazza subentrarono quelle degli animi più eletti che cominciarono a fare proprie le altrui sofferenze e aspettative per riproporle nelle varie forme artistiche. Alessio Di Giovanni fu uno di questi e sentì, ancor giovane, l’esigenza di un rinnovamento della poesia che desse voce ai fatti per evidenziare l’umanità che è in essi, o denunciasse, per dare inizio ad un riscatto, la miseria e i lavori disumani in cui la povera gente era stata da sempre relegata.
Lu fattu di Bbissana (Bbotta di sangu) è il poemetto, composto di sei sonetti, che dà inizio alla grande poesia di Alessio Di Giovanni. L’argomento già faceva parte della tradizione orale. Attratto dal cuntu di un contadino, il poeta lo elabora e poeticamente lo ricrea, dando risalto al sentire degli uomini e al dramma che essi consumano, a cui sembra partecipare anche la natura con i suoi odori, i colori e i rumori che la animano, pur nell’afa d’un meriggio assolato. Non spargimenti di sangue, non risse; è un dolore forte, cupo, tutto interiore che prende Caluzza tradita nell’amore e la stramazza a terra come folgorata. È uccisa da una «botta di sangue», mentre nessuno sa niente e tutt’attorno continua la vita di sempre, allorché il canto dei mieti tori invita al lavoro usato.
I sonetti di Fatuzzi razziusi riprendono nel dialetto di Noto il tema dell’ amore e della bellezza femminea. Solo a chiusura della silloge un sonetto affronta il tema del lavoro nella zolfara e della sofferenza dei carusi («Iu la sientu ssa vuci ri tirruri / c’acciana, acciana sempri cciù ccunfusa / comu timpesta ri milli furturi»), che fanno venire i brividi a sentirli nel loro lamento angoscioso, indistinto, come tempesta combattuta da mille altri fortunali. Ancora poca cosa, ma già il poeta comincia a calarsi nell’«osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero».
L’ode a Cristu, composta in quegli anni e pubblicata nel 1905, segna il definitivo trapasso dalla poesia tradizionale a quella nuova, fatta di sussulti e di richiami che spingono a guardare in faccia una realtà di stenti e di miseria, sia che si tratti della vita dei campi, sia che riprenda il lavoro duro, faticoso e inumano della zolfara, lavoro fatto di lamenti («ddi lamenti / ca pàrinu suspira, e ‘na prijera / Scura di morti») imprecanti l’essere nati e lo stesso Dio che li tiene in quelle condizioni di vita, «misi comu li cani a li catini».
L’andante è discorsivo, e chi parla è il poeta, mentre Cristo non fa alcun cenno. Perché tanto silenzio? «Chinu di scantu, / Cu la vuci ca trema puru idda, / Cu lu pettu affannatu di lu chiantu, / Ti gridu e dicu: / – Chi è ca penzi? Puru tu, tu puru / Vo’ abbannunari stu munnazzu anticu?10». E in quel silenzio il poeta riscopre l’umanità del Cristo, impotente dinanzi alla malvagità del male, implorante serenità, gioia di vivere, auspicante maggiore giustizia e un mondo di liberi e uguali.
L’ode è intrisa di una forte spiritualità, ed è un’ode bella, ricca di armonia, ma drammatica, forte. Alessio Di Giovanni qui ha recuperato il senso del divino, che è nelle cose e negli uomini, ma perché ritorni ad essere palese e vivo, perché Cristo non continui a guardare triste («Ma di lu muru, / ora cu l’occhiu ‘nfuscu mi talii» ), è bene che quelle ingiustizie vengano denunciate: l’uomo deve tornare libero e non deve essere più crocifisso. Per questo il poeta chiede un lampo di quello sguardo, perché la sua sia voce di fuoco, e di sentenze: «Dammi, o Signuri, un lampu di ssu sguardu, / Dammi vuci di focu e di sintènzii»!)
È la stessa spiritualità che riscontriamo in A lu passu di Girgenti del 1902. Fra’ Matteo, animato di buona volontà, è travagliato dalle contraddizioni, ma non vuole venir meno al suo credo e alla sua missione, e niente può se non dare un esempio di dedizione e di coraggio, andando incontro alla morte. Ma è anche la stessa spiritualità che troviamo in Lu puvireddu amurusu (poema francescano), pubblicato nel 1907. Sono diciotto componimenti in siciliano con traduzione italiana a fronte, costituiti di quartine di settenari ed endecasillabi a rima baciata, andante, carica di una musicalità che dice la gioia di vivere nell’armonia e nella pace tra le creature, figlie tutte di un Dio, a cui devono essere riconoscenti. «Pirchì in ogni armaluzzu / Sempri vidi vi tu lu Signiruzzu! / Nni tia tutti l’armali, / Puru li vermi, puru li cicali, / Truvavanu la mamma / Cu lu sò amuri ardenti comu ciammall.»
L’anelito alla fratellanza e all’amore reciproco è il tema portante del poema, in cui il poeta riprende i momenti salienti della vita del Santo d’Assisi, calandoli nella campìa della sua Valplàtani, nella zona della Difisa, e rivivendoli col desiderio di vedere attuato ovunque quel disegno evangelico che tutto riporti nella luce gioiosa del Creatore. È l’anelito ad un socialismo umanitario, cristiano, un socialismo di cui i cattolici più spinti, come Miglioli e Murri, si facevano portatori. Ma in Alessio Di Giovanni non c’è alcuna spinta alla lotta sociale, non c’è nemmeno una rivendicazione, c’è una ferma fiducia negli uomini, nel loro buon senso e nella capacità che hanno di compenetrarsi nei bisogni altrui.
Il poeta di Cianciana è come se stesse al di sopra delle parti, speranzoso di concordia («Pòviri cci nni su’, / Ma ‘un stannu cu li ricchi a tu pir tu … / Invidia, no, nun n’hannu / E pàssanu la vita travagghiannu12», fiducioso che prima o poi potrà realizzarsi una pace sociale capace di annullare ogni contrasto e di vivere in una amorosa cooperazione. È l’aspirazione di Francesco e, ancor prima, di Gesù, di Pascoli e di tanti altri che esularono dalla realtà, dimenticando che l’uomo rimane sempre abbarbicato nel suo egoismo che fa rivendicare a sé quello che dovrebbe essere degli altri.
Al 1904 risale un opuscoletto, Nella Valplàtani. Versi siciliani, pubblicato per il matrimonio dell’amico Giuseppe Tumbarello di Realmonte, comprendente tre componimenti («La fava», «Morti scunzulata» e «Ni la massaria di lu Màvaru», con traduzione francese a fronte di Tommaso Cannizzaro), che successivamente Di Giovanni inserirà in Voci del feudo. Sono tre gioielli di vivo realismo nei quali il poeta infonde un senso di virile accettazione. La miseria, il freddo, le privazioni sono come se fossero un dato di fatto naturale che solo l’avanzare della bella stagione porta via.
L’immagine delle fave che cuociono e l’attesa gioiosa di chi aspetta per mangiare sono indimenticabili; così pure non è da dimenticare la morte a cui va incontro la zz’Annuzza, che dopo una vita di stenti e di fame muore nell’abbandono e nella solitudine come era vissuta («Pari ca dormi, ‘n’arma nun si senti … / Comu si ‘un asistissi cchiù lu munnu»). Come se il mondo non esistesse! È quello che capita a questa povera donna, ma tanti nel mondo vivono ai margini, sconsolati e soli!
Non così è nel terzo componimento. «Codda lentu lu suli […] Mancu ‘n’arma si vidi nni lu feu, / ‘Mmenzu li terri gerbi e li ristucci, / ‘Ntra poja e ‘ ntra vaddati, e la campana / Di li vacchi ca pàscinu, arrispunni, / Cu ‘na mota ca pari ca chiancissi, / A ‘na vava di ventu ca trasporta / Pi ddi timpi lu sciàvuru di l’ervi13.»
Qui è la natura, con le sue voci, i rumori e il gesticolare delle creature che la popolano ed animano, ed essa s’impone offrendo un idillio di vita campestre che distende e riposa. Non c’è il tema teocriteo dell’amore, anzi il poeta fa trapelare un certo malessere (il boiaro è vecchio, stecchito e pallido), eppure la descrizione è tutta un palpitare di vita fino a tramonto inoltrato, quando i grilli fanno ancora sentire il loro canto. E l’attaccamento alla terra, alla propria terra, che, spinge il poeta ad allargare lo sguardo e a cogliere tutto in un insieme che piace.
La silloge Nni la dispensa di la surfara, pubblicata a Palermo nel 1910, si compone di quarantaquattro sonetti e, a dire di Alessio Di Giovanni, dovevano far parte di ‘Nfernu veru, rimasto incompiuto. Qui il poeta riprende usi e costumi della sua gente e, in particolare, degli zolfatai. II tutto è affidato al cunta-cunta, ad un affabulatore assoldato dai padroni per abbonire con racconti, che si tramandavano oralmente, i lavoratori stressati e smunti dall’inumano lavoro delle miniere. Unico diversivo sono il vino e il gioco delle carte, poi poche altre ore di riposo per riprendere a lavorare con le prime luci dell’ alba. L’intento del poeta è, sì, letterario, perché realisticamente descrive la vita fuori delle miniere, nell’unico ritrovo di dopolavoro, ma il suo vero scopo è far conoscere la miseria e gli stenti degli zolfatai, e il loro disagio esistenziale che fa preferire loro il non vivere piuttosto che soffrire ed essere sfruttati.
Voci del feudo è del 1938. II poeta vi include alcuni componimenti già pubblicati e i Sunetti di la surfàra, anch’essi destinati a far parte di ‘Nfernu veru. In Voci del feudo c’è tutto il mondo poetico di Alessio Di Giovanni, consistente nella poesia che canta la vita nel feudo, accostata a quella che tanta altra povera gente vive nelle miniere di zolfo della zona. È un mondo accomunato da enormi sacrifici e da miseria, da cui non sembra esserci scampo. Il poeta lo ritrae nelle voci, nelle cose, nella gente che lo vive, ma non va oltre. Solo in qualche tratto assume un tono di protesta, di una denuncia silenziosa, come se tutto dipendesse da una mano misteriosa che da un momento all’ altro potrebbe alleviare ogni ingiustizia e ridare dignità all’uomo.
Il poeta dà voce alle cose e agli uomini: il lamento dei mieti tori, una giornata al pascolo nelle terre del Màvaro, un ritorno nella casa natìa, reso amaro dai ricordi e dal tempo passato che non torna più.
«Lu vidi ca turnavi? / Cchiù vecchiu, è veru, e stancu: ma chi ‘mporta? / Lu me’ cori nun cancia: ‘un ti scurdavi14.» E il poeta enumera oggetti familiari, rievoca una persona cara, e la sente vicina, intenta a lavorare, mentre la consapevolezza che s’impossessa di lui gli fa dire che è inutile «ripensare a quel tempo felice che non torna più». Bellissimo componimento, in cui Di Giovanni ricrea un momento di pathos indimenticabile e lo partecipa al lettore che con lui condivide la nostalgia degli anni che furono vissuti nella casa che lo vide crescere e gioire.
Il feudo era anche luogo di insidie e di morte. In La minnitta il poeta riprende un agguato, ritraendolo nei particolari, tra la malvagità dell’uomo e lo stupore della natura che assiste inorridita e senza parole: «Niscìu di lu pagghiaru / E s’appustò ddassutta la trazzera: / Eccu du’ cani … doppu un picuraru. / Po’ mancu ‘n’arma … / … ‘Na lustrura, / ‘Na botta … un sgriddu: ahjai! ‘na vuci: mori! / E lu punenti / Chiuji … Spunta la luna e talìa tutta / Scantata unu ca scappa, e poi… cchiù nenti15.»
C’è uno sbalordimento generale, un rimanere di stucco proprio di chi assiste, quasi inconsapevolmente, ad una malvagità, e qui a rimanere stordita è la natura che non concepisce la vendetta, perché non sta scritta in nessuna parte.
Troviamo inseriti in Voci del feudo alcuni sonetti dedicati ai minatori di zolfo16, sfruttati in modo inumano e senza ritegno da padroni privi di scrupoli. Le zolfare, veri e propri «carnai, non di morti ma di vivi», sono il terrore degli zolfatai che invidiano gli animali i quali, se non altro, vivono a cielo aperto e godono del sole. In «Scìnninu a la pirrera», ecco come il poeta esprime la loro amarezza: «Oh, putìssiru, allura, abbannunari / Dda vita ‘nfami, dda vita assassina, / Comu l’armali, ‘nfunnu a li vadduna!»
I Sunetti di la surfàra sono componimenti nei quali dominano la desolazione e lo sconforto dei minatori, costretti a lavorare dalle prime luci dell’alba al tramonto, chiusi nella profondità della terra e soli. Sembra siano stati abbandonati da tutti, persino dal vento, che nelle poesie del feudo fa sentire viva la sua voce, scuotendo le cime degli alberi o carezzando le biade, facendole ondeggiare, mentre qui, nella zolfara, esso tace o, se dapprima sibila qua e là, sentendo il lamento dei minatori, simile ad un pianto, esso va subito a rintanarsi, facendo perdere le sue tracce.
Leggiamo da «Lu cantu di li surfàri»: «E sempri di ddassutta veni un cantu / Ca pari di ddu scuru lu lamentu. / Si ferma un pocu … ddoppu, ad ogni tantu, / S’jsa cchiù malancònicu, cchiù lentu. / Ogni acidduzzu, pigghiatu di scantu, / Fùji ddu locu scuru, ddu spaventu: / Li timpi, muti, ascùtanu ddu chiantu / E si va ‘ntanari macari lu ventu17.» È un lamento che si diffonde ovunque e nessuno vorrebbe sentire, perché è innaturale, oltre che struggente. Lo si può ben notare: al poeta non sfugge niente, ma tutto è intriso di questo dolore che attanaglia e strugge.
Poco sopra è stato citato «Scìnninu a la pirrera»: agli zolfatai è negato persino il sole («Cà no pi iddi, pi l’ervi di lu chianu, / Luci lu sul i biunnu a la campìa», che splende per le erbe dei campi, e non per gli uomini. È uno splendido sonetto nel quale il poeta delinea con tratti da pittore conoscitore dell’animo umano, l’intimo sentire degli zolfatai e dei carusi, il loro interiore contrasto, la ribellione che non porta a niente, se non all’accettazione di quello stato di cose.
Alessio Di Giovanni è il cantore della sua terra e della sua gente, sia che lavori nei campi, che si cali nel fondo di una miniera, ed egli ne rimane il custode depositario della storia, che spesso non viene scritta, degli usi atavici, come lo furono il padre Gaetano e l’amico Corrado Avolio. La sua importanza è certamente destinata a crescere, perché con la sua opera, che andrebbe divulgata anche nelle scuole, rappresenta una pietra miliare nel contesto letterario del primo quarantennio del Novecento. Egli, da grande poeta qual è, ha saputo fare verismo nel senso vero del termine, senza fronzoli, senza sguainare coltelli, con una parola sempre pesata, lavorata, scavata come pietra dall’acqua, martellata dall’uso secolare che ne avevano fatto i padri; una parola ricca di significati che sa di cantilena e, anche, di cristiana speranza.
Salvatore Vecchio
NOTE
Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 7-15.
«Le petit prince, qui assistait à l’installation d’un bouton enorme, sentait bien qu’il en sortirait une apparition miraculeuse, mais la fleur n’en finissait pas de se préparer à ètre belle. [ … ] Et puis voici qu’un matin, justement à l’heure du lever du soleil, elle s’était montrée. Et elle, qui avait travaillé avec tant de précision, dit en bàillant: – Ah! je me réveille à peine… Je vous demande pardon … Je suis encore toute décoiffée …
Le petit prince, alors, ne put contenir son admiration: – Que vous
ètes belle!
– N’est-ce pas, répondit doucement la fleur. Et je suis née en mème temps que le solei!…” (*)
Negli anni della fanciullezza avevo letto Il Piccolo Principe, ma non gli diedi, allora, il peso dovuto. Non avevo colto nel vivo il suo messaggio: lo avevo letto come un bel racconto e basta. Tutto era finito li, come tante altre letture.
Ricordo di avere ammirato la semplicità, la dolcezza con cui il protagonista, un ragazzino biondo, si muove e agisce, ma, per il resto, non ero andato oltre. Ci sono dei momenti in cui non si dà spazio a cose che, magari, ripresentandosi, acquistano un significato cosi forte e pregnante da sentirne il fascino e da assaporarle.
Diversi anni dopo la relazione deludente e dissacratoria sul Piccolo Principe, tenuta da una signora agli studenti stranieri di una scuola parigina, mi produsse una reazione contraria; accese in me il desiderio di rileggere il libro, se non altro, per constatarne di persona la validità e considerarlo per quello che effettivamente è. Per me fu come se lo leggessi per la prima volta, come se quel ragazzino biondo mi si rivelasse nella sua totalità e mi dicesse, da buon amico. le piccole grandi verità che fanno l’uomo e lo rendono degno della vita.
Il Piccolo Principe è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale, che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti e parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare.
Esso trova la molla ispiratrice nell’infanzia:
«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. [… ] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)…»
In questa dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosi due livelli di lettura), è riflesso lo stato d’animo del suo autore, che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età.
***
Il piccolo principe, allora, non poté contenere la sua ammirazione: – Che sei bello!
– Vero, rispose dolcemente il fiore, e sono nato insieme al sole…”
Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, ma, soprattutto, poeta degno di essere chiamato tale, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, vivo, parlante, che agisce e si muove sempre in direzione dell’uomo e per l’uomo.
Di famiglia aristocratica (nato a Lione il 29 giugno 1900, scomparso durante una ricognizione aerea sulla regione di Grenoble-Aubérieu-Annecy il 31 luglio 1944, per un guasto al motore del suo aereo, secondo alcuni, abbattuto dalla contraerea tedesca, secondo una fonte più accreditata), Antoine de Saint-Exupéry fu nella vita un signore, dedito al bene del suo Paese e del prossimo. Un signore come il suo piccolo principe, lui, piccolo grande principe alla corte dell’uomo.
L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai un bisogno di emergere e di farsi notare. Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva sulla sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate. Dapprima gli si rimproverò che la sua letteratura era esperienza
vissuta (Courrier Sud, 1929; Vol de nuit, 1931; Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), ma quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’uomo, come se ci fosse uno stacco tra le prime e le opere successive, non venne accettato nelle vesti di saggista e di pensatore.
Nelle opere di Saint-Exupéry non c’è stacco alcuno, non c’è il passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa, dalla prima all’ultima. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione; ed essa non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, ma diviene più insistente, perché più ricca è l’esperienza acquisita. Altrimenti Antoine non ne sarebbe stato capace: in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince.
Écrits de guerre (1939-1944) ce lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, dimentica i dolori delle tante cadute, giuoca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni» (1); quando, invece, non gli si consente di volare per l’età avanzata, allora è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson di “The new York Tribune” e pubblicata il 7 giugno 1940:
« – Vi sbagliate appieno, ha risposto. Nessuno, attualmente. ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa personalmente alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del Verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con i! proprio corpo (2)»
Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto ai libri sopraccitati, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato, L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney.
Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore dei suoi voli, bensì il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, o nelle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui.
«Ed ora, come un guardiano nel cuore della notte, scopre che la notte evidenzia l’uomo: i suoi richiami, le sue luci, questa inquietudine. Una semplice stella nell’ombra: l’isolamento di una casa. Essa si spegne: è una casa che si chiude sul suo amore. O sulla sua noia. È una casa che cessa di far segnali al resto del mondo. Non sanno cosa sperano quei contadini seduti attorno alla tavola dinanzi al loro lume: nella grande notte che li circonda non sanno che il loro desiderio va tanto lontano. […] Quegli uomini credono che la loro lampada splenda per l’umile tavola, ma a ottanta kilometri da loro, qualcuno è già toccato dal richiamo di quella luce, come se essi l’agitassero disperati, da un’isola deserta, davanti al mare (3)».
Nelle opere successive il richiamo all’uomo diviene sempre più insistente. Già Terre des hommes inizia con una dichiarazione molto significativa: la terra ci insegna a conoscere noi stessi più che tutti i libri messi assieme (4). Vale a dire che basta guardare attorno per considerarci e apprezzarci per quelli che siamo, senza torcere mai l’occhio da questo che dovrebbe costituire il nostro vero interesse: conoscere e amare l’uomo.
Antoine de Saint-Exupéry ama e considera l’uomo senza andare lontano, attorno a sé: nell’aereo che pilota, nei compagni di lavoro, nella solitudine del deserto. Non è facile, se si considera che spesso barriere invisibili e insormontabili si frappongono al nostro cammino, rendendoci ciechi sopraffattori di noi stessi.
In Pilote de guerre, pubblicato nel 1942, c’è la consapevolezza di una guerra impari e assurda che, nonostante tutto, andava combattuta.
«Noi lottiamo in nome di una causa che consideriamo causa comune. È in giuoco la libertà, non soltanto della Francia, ma del mondo: consideriamo troppo comodo il ruolo di arbitro. Ma siamo noi che giudichiamo gli arbitri (5)».
Nel suo racconto Antoine affronta da uomo, prima che da soldato, l’amara realtà, andando indietro nel tempo, alla sua infanzia, quasi per crearsi un baluardo, un blocco di forza che lo faccia resistere e continuare. E qui non è più il pilota – scrittore con cui abbiamo a che fare, è il poeta che qua e là emerge con prepotenza e s’impone per dire delle verità molto elementari, che durano fatica ad essere prese in considerazione, eppure fanno parte di noi e per questo occorre reimpossessarcene per renderci degni della vita che, altrimenti, non avrebbe senso.
A maggiore conferma di quanto abbiamo esposto, dobbiamo rifarci a Citadelle, l’opera postuma, di cui era geloso, e a cui affidò tutto se stesso. Il titolo, che tradotto significa “fortezza”, è molto indicativo, perché è una fortezza costituita da quei valori (l’amicizia, l’amore, la libertà, la giustizia, la famiglia, il senso di Dio, ecc.) a cui l’Autore è attaccato morbosamente e che difende a spada tratta, riprendendoli, sottolineandoli nella loro importanza, andando contro i pregiudizi, smussando i contrasti, dando ascolto ai sentimenti, perché l’uomo possa emergere nella sua totalità.
Antoine de Saint-Exupéry, lontano da ogni ideologia, tende al recupero della parte più buona e sana dell’uomo («Se voglio giudicare il cammino, il cerimoniale O il poema, considero l’uomo che ne viene fuori. O meglio, ascolto il battito del suo cuore» (6)) in nome di un umanesimo integrale che lo veda finalmente all’unisono con gli altri per costruire un mondo migliore, dove, non esistendo più le velleità che rendono vani i nostri sforzi, egli possa volgere la sua attenzione a ciò che c’è di vero e di duraturo.
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Nel Piccolo Principe, come del resto in ogni altro suo libro, Antoine de Saint-Exupéry dichiara la sua professione di pilota e si presenta tale, pur trovandosi in una situazione poco piacevole di forzato riposo. Questa dichiarazione è importante, perché viene a confermare quanto abbiamo detto, che, cioè, l’azione precede ogni suo scritto, anche quelli – come in questo caso – che in parte sono frutto di inventiva e di immaginazione.
Nella notte fra il 30 e il 31 dicembre del 1935, nel tentativo di stabilire con il suo aereo Simoun un primato nella trasvolata Parigi-Saigon, un guasto al motore lo costringe a fare un atterraggio di fortuna nel bel mezzo del deserto del Sahara, a 200 km. del Cairo. Verrà soccorso, assieme al suo meccanico André Prévot, da una carovana di nomadi, dopo una lunga ed estenuante marcia.
A parte la permanenza in Africa, che gli fece apprezzare la pace e la solitudine del deserto, questa avaria gli procurò un’esperienza che non poté mai dimenticare e che qua e là affiora nella sua opera.
«Ricordo il giorno in cui, essendomi smarrito in inviolate distese. mi sembrò dolce, quando ritrovai le tracce dell’uomo, poter morire tra i miei. Ora, niente distingueva un paesaggio da un altro, se non da lievi impronte nella sabbia. per metà cancellate dal vento. E tutto era trasfigurato.» (7)
Di fronte alla tragica fine che si sarebbe potuta verificare di lì a qualche giorno, o a poche ore, in mancanza d’acqua, invece di chiudersi dinanzi al pericolo minacciante, si apriva alla comprensione e all’amore del suo simile, materialmente lontano, ma molto presente e vicino al suo cuore.
Il Piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida pronta a svuotare ogni nobile sentimento e a rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza che è del piccolo principe, ragazzino biondo con i capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo fossero gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, guardando gli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che li accomuna.
Già il titolo dice molto. Vero che ci troviamo dinanzi ad un piccolo principe, ma, a tutti gli effetti: egli ha l’autorità di un principe. Non appartenendo a questa terra, è come un angelo, proveniente da un asteroide lontano. Si è venuto a trovare cosi, senza volerlo, in quel regno grande, di cui fanno parte gli uomini che egli richiama con l’autorità disarmante dei piccoli, spesso capaci di mettere in difficoltà i grandi. In poche parole, è come un extraterrestre che s’avvicina agli umani, ma, nel momento che lo fa, trova molto strano il loro comportamento.
Antoine de Saint-Exupéry inizia il libro (cap. I) con un ricordo della sua infanzia accompagnato da alcuni disegni che gli diedero l’opportunità di conoscere gli adulti e di diffidare di essi, visto che i loro interessi non corrispondevano ai suoi.
Un colloquio, un vero rapporto di amicizia, lo avrà più tardi, per caso, con il piccolo principe, e il ricordo di quei disegni d’infanzia lo aiutò molto a comprendere il bambino biondo e le sue esigenze. Sicché la sosta nel deserto gli fu piacevole e salutare, più che stare con gli uomini, perché lo fece meglio accostare ad essi. Questo dominante senso del reale è il motivo per cui Antoine non iniziò la sua storia come di solito iniziano le fiabe; volle che fin dall’inizio venisse considerata come un racconto (<<Perché non voglio che il mio libro si legga con leggerezza» (8), con il rispetto e l’importanza che gli sono propri.
Così, dopo i primi approcci (siamo ai capitoli II-VIII, e passeranno alcuni giorni perché Antoine ne venga a conoscenza), il piccolo principe paleserà i suoi sentimenti, i suoi timori, le apprensioni e l’insofferenza verso il complicato e il cervellotico propri degli adulti, l’amore per le cose a cui essi non danno tanto peso.
I capitoli XI-XXIII raccontano il viaggio che il bambino biondo compie per arrivare nel pianeta Terra, mentre il XXN riprende il dialogo tra lui e l’autore ed ha il suo culmine nel XXVI capitolo, quando il piccolo protagonista muore per far ritorno nel suo asteroide. Solo allora Antoine si reimpossessa del racconto e nel XXVII capitolo vuole rendere consapevole l’uomo di ciò che ha importanza e che realmente resta.
Antoine de Saint-Exupéry è uno scrittore che non schematizza ciò che sente di scrivere; ubbidisce solo agli stimoli che via via riceve e li struttura senza badare ad una vera e propria architettura del racconto. Sicché la struttura che abbiamo evidenziato è il risultato a cui l’autore è pervenuto, non il tracciato che si era prefisso. Ecco cosa scrive a proposito:
«Se, prima di scrivere, delineo a tratti qualche piano della mia opera [… l. non sarà quello schema a condizionarla. Altro non è che l’espressione dell’opera da scrivere. Perché evidentemente l’essenziale si presenta per prima cosa come struttura.» (9)
Uno scrittore non può essere condizionato dagli schematismi; guai se fosse così, tutto andrebbe a scapito della creatività, che altro non è se non la libertà di esporre e di esporsi, come hanno fatto da sempre i veri scrittori, come Antoine, in questo e negli altri suoi libri.
Per quanto riguarda il tempo in cui si svolge l’azione, Antoine de Sainte-Exupéry ci dà una precisa indicazione. Nel suo libro si rifà ad un guasto al motore del suo aereo e il riferimento risale alla fine di dicembre del 1935, anno della sosta forzata nel deserto del Sahara (101. Il Piccolo Principe verrà scritto nell’estate del 1942.
Lontano dagli uomini e dal mondo, al secondo giorno di sosta, Antoine ebbe la visita o, meglio, si trovò dinanzi, con un’apparizione improvvisa, il piccolo principe e con lui colloquierà per otto giorni (nella realtà rimase tre giorni nel deserto prima che arrivassero gli aiuti), giusto il tempo per non morire di fame ed essere tratto in salvo, e anche il tempo perché il bambino biondo potesse ritornare nel suo asteroide.
A parte il primo giorno, in cui Antoine fu veramente solo («Mi sentivo molto più isolato di un naufrago su una zattera in mezzo all’Oceano») (11), gliene bastarono sette perché potesse scoprire il mondo umano e spirituale del piccolo principe e innamorarsene fmo al punto di farsene banditore e amarlo.
L’azione, quindi, si svolge nel bel mezzo del deserto, per quello che attiene al racconto dell’autore, mentre, per quanto riguarda quello del piccolo principe, in buona parte, nell’immensità dello spazio planetario, costellato da una miriade di asteroidi, alcuni dei quali visitati prima di scendere sul pianeta Terra.
«La Terra non è un pianeta qualsiasi! Vi si contano centoundici re (non dimenticando. certo, i re negri), sette mila geografi, novecento mila uomini di affari, sette milioni e mezzo di ubriachi, trecentoundici milioni di vanitosi, vale a dire circa due miliardi di adulti.» {l2)
Se circoscritta e limitata la vita negli asteroidi, immensa appare al piccolo principe la Terra, molto varia nei paesaggi e nei suoi abitanti, ma altrettanto aperta a tutte le aspettative e al bene. Sicché, lo spazio reale di Antoine e quello illusorio degli asteroidi del piccolo principe risultano integrati in un’unica concezione della vita che, a sua volta, lega i due in un’amicizia indissolubile molto costruttiva e offre loro l’opportunità di riflettere sulle cose e sugli uomini. Ne deriva che la narrazione è un misto di monologo, di forma indiretta e di dialogo, ma essa diviene via via più serrata verso l’ultimo, quando comincia ad essere più manifesto il messaggio del libro e il ruolo del piccolo protagonista.
Il monologo smorza ed esplica il dialogo, come se l’io narrante prendesse coscienza delle verità che vanno emergendo dalle brevi battute e dalle secche domande dell’interlocutore, perché ogni domanda e ogni battuta non sono dette a caso e, più che un senso, hanno una motivazione ben precisa: mirano ad asserire qualcosa che già per lui è scontata, ma passata sotto silenzio e trascurata dagli adulti, che di ben altro si curano. Perciò, all’inizio, c’è una specie di incomprensione e solo dopo abbiamo la presa di coscienza e l’attaccamento al piccolo principe e al suo insegnamento.
«Mi ci volle molto tempo a capire da dove venisse. Il piccolo principe, che mi poneva molte domande, sembrava che non sentisse le mie…»;
«ogni giorno imparavo qualcosa sul suo pianeta, sulla partenza, sul viaggio. Aweniva pian piano, per via di riflessioni. ..».
«Ah, piccolo principe! Ho capito cosi, a poco a poco, la tua piccola vita malinconica. Non avevi avuto tanto per distrarti se non la dolcezza dei tramonti. Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, quando mi hai detto: – Mi piacciono i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto… » (13)
Così il distacco, con cui Antoine aveva accolto il piccolo principe, cede il posto ad una curiosità che va al di là del semplice voler conoscere. Tra i due comincia ad instaurarsi un’amicizia e una comunione d’intenti che difficilmente possono essere intaccate.
L’io narrante dell’autore-pilota espone in prima persona, dal I al IX capitolo, le conoscenze acquisite sul piccolo principe e il suo mondo. Successivamente, a partire dal X fino al XXIII capitolo (il tempo necessario perché questi potesse esporre le tappe del suo viaggio e gli incontri avuti), la narrazione si serve della terza persona, Solo nella parte finale, dal XXIV al XXVII capitolo, il discorso riprende alla prima persona, quasi a voler sottolineare il ritorno alla Terra, alla realtà del guasto e del deserto o, forse, per dare meglio l’idea che ciò che viene detto interessa da vicino e tocca fino a scuotere l’io profondo.
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Proprio per questo, il vero protagonista del racconto è no, voce e silenzio della nostra esistenza; è no che non si riconosce tra le storture esistenti e vuole evadere; ma, nel momento in cui lo fa, prende consapevolezza, s’afferma e s’impone per quello che è: buono, desideroso di vivere in armonia con sé e con gli altri; e, per far questo, ha bisogno di confrontarsi e fare delle scelte.
Chi sono, allora, gli altri personaggi? A ben guardare, è il mondo dei tanti io di quanti è effettivamente formato, ed è anche e soprattutto il mondo del poeta, frastagliato e ricco di nobili aperture.
Ma Antoine de Saint-Exupéry rimane nell’ombra ed è di supporto al piccolo principe, a cui crede profondamente. Sicché, egli segue sul filo del racconto il piccolo amico; qua e là interviene, il più delle volte si mette dalla parte dell’uomo, subisce per dare spazio alle acquisizioni e per meglio evidenziare quei bisogni che, pur essendo dell’uomo, spesso non vengono apprezzati o, addirittura, ritenuti di altro tempo e di altro luogo, di un asteroide, anziché della Terra. Per questo, spesso si chiude in se stesso e riflette. C’è nella vita di un uomo un momento in cui si comincia a fare un bilancio, accorgendosi che si è realizzato ben poco di quanto si sarebbe potuto fare. Antoine, a 43 anni («Il giorno delle quarantatre volte eri dunque talmente triste?» (14)), avendo sentore della propria fine, guarda indietro nel tempo e si rivede, con i sogni belli che lo aprivano alla vita, nel mondo favoloso e puro dell’infanzia. Si rivede, magari, a giuocare al cavaliere Aklin, con accanto Paula, la cara governante e compagna di giuochi rievocata in Pilote de guerre (15).
Ed ecco venir fuori come dal nulla il piccolo principe, il ragazzino biondo dai capelli al vento, che non si accontenta di una risposta e insiste nella sua semplicità di fanciullo. È l’irradiazione a 360 gradi dell’innocenza che stenta a capire (e non ammette) le banalità di cui è piena la vita e s’adopera perché si dia spazio ai sentimenti; è l’alter ego di Antoine che finora ha urtato contro gli interessi degli adulti, ed è anche la bontà che nel silenzio apre strade aperte da sempre e sempre trascurate per manie di grandezza e di superiorità, e gli uomini gli appaiono bizzarri e strani, poco affatto straordinari.
«Che strano pianeta! pensò allora. È secco, pieno di punte e tutto rovinato. E gli uomini mancano d’immaginazione. Ripetono ciò che si è detto loro… Da me avevo un fiore: parlava sempre per primo… » (16)
La malinconia del piccolo principe è data dal disagio di vivere e dalla constatazione che è difficile contrastare con le abitudini consolidate e ritenute buone. Sicché, a mano a mano che è preso da questa consapevolezza, diventa sempre più nostalgico per ciò che ha lasciato (per il suo fiore, per i tre vulcani, anche per la solitudine che gli permetteva di essere se stesso) e medita il ritorno nel suo asteroide incontaminato.
Tutti gli altri personaggi (il re, il vanitoso, l’ubriacone, l’uomo d’affari, il geografo) sono delle comparse; rappresentano gli adulti con i loro interessi e le loro meschinità e, come tali, hanno un’azione limitata, quasi a dire che non bisogna loro dare tanta importanza.
Un posto a parte occupano, invece, la volpe e la rosa. Contrariamente a quanto si possa pensare, esse avvicinano il piccolo principe agli uomini. “Addomesticata” prima la rosa, poi la volpe, sarà la volta di Antoine e di quanti accolgono il messaggio di amicizia e di amore di cui si fanno banditori.
A differenza di tutta la favolistica antica e moderna, che presenta la volpe furba, pronta a rubare e a scappare, mettendo nel sacco i suoi antagonisti, la volpe del Piccolo Principe è solo guardinga, agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e tende ad addomesticare, come farà con il piccolo principe, e si rivela saggia.
«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità, disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa… » (17)
Questa della volpe è una toccante umanità che, se coglie sulle prime di sorpresa, rende consapevoli e fa molto apprezzare ciò che ci appartiene: la vita e, con essa, l’amore in ogni sua manifestazione.
La rosa è una protagonista silenziosa. Sicura della sua bellezza, degna di ogni attenzione, più che parlare, fa parlare. Antoine la descrive sul nascere, e il piccolo principe la vede gonfiarsi di giorno in giorno e aprirsi. La sua semplicità, il mostrarsi cosi com’è («Il piccolo principe, allora, non poté contenere la sua ammirazione: – Che sei bello! – Vero, rispose dolcemente il fiore, e sono nato insieme al sole…»), potrebbero irritare ed invece conquistano e la fanno amare, perché niente può contrastare con la purezza che di per sé rende molto docili e arrendevoli.
Antoine de Saint-Exupéry, sempre puntuale persino nei dettagli, scrive e descrive ciò che vede e, d’altronde, non poteva essere cosi per uno, come lui, abituato all’osservazione. Pertanto, come abbiamo già notato, il vedere e l’osservare, per lui, vengono prima dello scrivere (l8).
Nel Piccolo Principe ne costituiscono anche una prova i disegni che lo corredano e che sono di supporto a tutto il discorso.
«Quando avevo sei anni, vidi, una volta, un magnifico disegno in un libro sulla Foresta Vergine intitolato “Storie vissute”. Rappresentava un serpente boa che mangiava una belva. Ecco la copia del disegno.» (19)
Il racconto del piccolo principe è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento.
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Nel Piccolo Principe è compendiata la tematica sviluppata negli altri scritti, siano essi racconti, romanzi o saggi. Il volo o l’aeroplano in Antoine de Saint-Exupéry non sono motivo di esaltazione o di spinte nazionalistiche, bensì occasione di incontro con il piccolo principe; non evasione, ma avvicinamento all’uomo, un modo per comprendere meglio il finito e ciò che lo circonda. Per questo, ricorre spesso alla figura del giardiniere, e lo vorrebbe essere lui stesso («Ero fatto per essere giardiniere») (20), ma di buoni propositi e di valori; di quei valori e di quei propositi che elevano, allo stesso modo dell’aereo, l’uomo e lo rendono umanamente accettabile, e solo così la vita gli sorride.
La solitudine e l’ascolto del deserto riportano Antoine nel mondo o, meglio, nei tanti mondi in cui si frastaglia: quello degli adulti, che offre lo spunto (spesso in negativo) a tanta riflessione, e quello dei bambini e delle creature, come la volpe e la rosa, più bello, più umano e sicuramente degno di tanta considerazione. Se nei primi, però, la descrizione tende all’ironia, negli altri al sentimento, che viene recuperato senza peraltro cadere nel sentimentalismo, cosa che alcuni gli rimproverano (21).
Il deserto stesso non lo apre alla solitudine, ma costituisce motivo di ascensione e di arricchimento; esso non è chiusura con il mondo, è bisogno di ricerca: chi insiste troverà l’acqua dissetante per sopravvivere.
«- Il deserto è bello, aggiunse. Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia e non si vede niente, non si sente niente. E tuttavia qualcosa splende in silenzio…
– Ciò che rende bello il deserto, disse il piccolo principe, è che nasconde un pozzo in qualche parte… » (22)
Un pozzo è la speranza della vita, e la distesa ondulata di sabbia è capace di far «germinare e crescere come un sole»(23), L’incontro fortuito di Antoine con il bambino biondo nel bel mezzo del deserto fa nascere un’amicizia destinata a consolidarsi e offre lo spunto per una presa di coscienza contro il male, che affonda le radici dovunque (i baobab), e contro ogni pretesa degli adulti che danno peso al caduco («Gli uomini s’infilano nei rapidi, ma non sanno più cosa cercano. Allora s’agitano e girano attorno…»)(24), trascurando la semplicità del vivere nel rapporto disinteressato con gli altri. Così gli adulti, incapaci di svincolarsi dai loro interessi, sono oggetto di ironia.
La solitudine nel Piccolo Principe, come negli altri libri di Antoine de Saint-Exupéry, è soprattutto riflessione, bisogno di silenzio per favorire l’ascolto di quanto c’è di buono. Essa apre ai contatti, e se non propriamente a quei rumorosi che poi non dicono niente, di sicuro a quelli che sanno crescere e ingrandire come il bocciolo della rosa. Sicché la volpe, dopo essere stata addomesticata può dire: «Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». Questo “essenziale” differisce la volpe e la rosa dalle altre simili a loro, e avvicina e lega Antoine al piccolo principe.
Ecco cosa dice il piccolo principe a proposito della rosa:
« – Voi non siete affatto simili alla mia rosa, voi non siete niente. Nessuno vi ha addomesticato e voi non avete addomesticato nessuno. [… ] Voi siete belle, ma vuote. Non si può morire per voi. Certo, un passante qualsiasi crederebbe che la mia rosavi rassomigli. Ma lei sola, lei è più importante di tutte voi, poiché è lei che ho innaffiata. Poiché è lei che ho messa al riparo. Poiché è lei che ho tutelata con il paravento. Poiché le ho uccisi i bruchi (eccetto due o tre per le farfalle). Poiché è lei che ho ascoltato lamentarsi, o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Poiché è la mia rosa» (25)
– Ce qui embellit le désert, dit le petit prince, c’est qu’il cache un puits quelque part…»
L’amicizia e l’amore vengono presentati nella loro luce migliore ed acquistano un effetto particolare perché è un bambino a farli riscoprire, nella semplicità dei suoi incontri, nell’attaccamento e nella dedizione con cui si dà agli altri, dando un esempio di come l’uomo può vivere a sua misura e a contatto con il prossimo.
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Antoine vuole riportare l’uomo (lui che s’ostinava a scrivere questo termine a caratteri maiuscoli) nella condizione di riappropriarsi ciò che gli appartiene (l’amicizia, l’amore, la gioia di vivere nella libertà e nell’espletamento dei propri sentimenti, l’attaccamento alle piccole cose), ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità, che rende seriosi, facendo uscire dall’umana dimensione.
Ricorrendo ad un’immagine un po’ forzata, ma pregnante, Antoine è l’amante tradito che finge di non sapere niente pur di riconquistare l’amata e, per far ciò, ripercorre con la mente e con il cuore i tempi belli e i luoghi che lo videro felice. Di qui la forte malinconia che è alla base del libro, non dettata, comunque, dal pessimismo, bensì dal sincero bisogno di recuperare ciò che è suo e che, purtroppo, sente lontano, perché altri interessi, altre motivazioni lo distolgono e lo assorbono.
«Era veramente molto irritato, e scuoteva al vento i suoi capelli dorati: – Conosco un pianeta dove c’è un signor chermisi. Non ha mai odorato un fiore, non ha mai guardato una stella, non ha mai amato nessuno. Non ha mai fatto altro che addizioni. E tutto Il giorno ripete come te: “Sono un uomo serio! Sono un uomo serio'” …» (26)
Antoine de Saint-Exupéry piccolo principe vorrebbe che non fosse così e che si desse, invece, più ascolto alla natura e al cuore, ingentilito, quest’ultimo, da un amore forte che renda simultanei i battiti.
Il Piccolo Principe è questo: un atto d’amore verso l’uomo e il mondo.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 12-27.
Spesso mi sono chiesto se erano proprio inevitabili questi referendum che avrebbero dovuto impegnare gli Italiani, se la maggior parte, per vari e discutibili motivi, non avesse deciso di astenersi.
Da anni si parla di caccia sì o no, di regolamentazione e controllo dell’uso dei pesticidi in agricoltura, e se n’è parlato in lungo e in largo, in difesa o contro, in dibattiti e in tavole rotonde, per mezzo stampa o per televisione; se n’è parlato a Palazzo, non recependo, però, i nostri onorevoli rappresentanti quelle che sono le aspettative dei cittadini e non facendo propria l’urgenza di dare loro leggi adeguate a passo coi tempi.
Rischiare l’impopolarità è un azzardo e nessuno è disposto a giocare a proprie spese. Eppure, vuoi o no, il governo è caduto lo stesso nell’impopolarità, perché il cittadino taccia di incapacità chi di competenza è delegato a legiferare. E non ha tutti i torti a pensare questo, dal momento che s’è vista rigettare la patata bollente tra le mani. È possibile che, sentita l’opinione pubblica, lo Stato non sia nelle condizioni di tutelare i suoi cittadini, di trovare una via di mezzo (non un compromesso) che soddisfi gli ambientalisti e i venatori, l’esigenze di tutela della salute di tutti e dell’ambiente e gli interessi economici di altri?
I referendum chiedevano al cittadino il sì e il no, mentre i partiti politici, tranne pochi che tuttora fanno propria la battaglia, sembravano guardare da lontano, come se niente li toccasse, ritenendo, forse, questa consultazione marginale o di poca importanza, o forse per timore di perdere adesioni – come s’è detto – facendo indirettamente il gioco di chi invitava la gente ad un’astensione in massa.
Mancando l’impegno politico, non era già prevedibile che questi referendum passassero sotto silenzio, facendo sfumare nel nulla 600 miliardi? È stata garantita una informazione corretta?
Il cittadino deve sapere. Deve sapere, per esempio, che è suo dovere votare e che, in ogni caso, bisognava andare a votare. Anzitutto per gratificare i promotori dei referendum – che si fosse votato sì o no, ognuno era libero di esprimersi secondo coscienza – il cui obiettivo era il nobile intento di migliorare il rapporto dell’uomo con l’ambiente e gli altri esseri che hanno pur essi il diritto alla vita. E poi bisognava votare perché dal risultato i nostri rappresentanti potessero trarre precise indicazioni di governo dalle quali sarebbero emerse le reali esigenze di tutti che non sono solo di carattere materiale.
A che vale che l’uomo progredisce in ogni campo, se le sue condizioni di vita sono pessime? Sinora non ha operato se non per tornaconto e sempre nell’ottica del proprio interesse? A che vale questo smodato benessere pagato a caro prezzo e col rischio di rompere in modo irreparabile un equilibrio così ingegnosamente perfetto?
L’uomo, guardando solo all’utilità, distrugge con la sua azione ogni cosa. In tempi non molto lontani si provava piacere a stare nella tranquillità della campagna con le sue varietà di coltivazione e al canto degli uccelli. Pettirossi e cardellini nidificavano dovunque, e le tortorelle svolazzavano in cerca di frescura da un albero d’ulivo secolare ad un altro… Era troppo bello avere la natura veramente a portata d’uomo!
Ricordo, bambino, le lunghe passeggiate nelle campagne di Montesole, un’altura che sovrasta Licata e guarda il mare, allora contaminata dal cemento, roccaforti di lepri e di conigli, ora deturpata e resa irriconoscibile da un abusivismo e da una speculazione che non rispettano regola alcuna. Ricordo che in primavera la natura sembrava veramente svegliarsi da un lungo sonno, rinnovata nei colori e nelle voci. Voci di uccelli vari, cardellini che gareggiavano nel canto tra gli ulivi, a quattro passi dalla pineta. Di tanto in tanto sentivi un rumore di piccoli passi, quasi in punta di piedi: mamma coniglia sbucava fuori di qualche cespuglio con tutta la sua nidiata: incurante della presenza dell’uomo, sicura di rimanere indisturbata. Di rado si vedeva un cacciatore: c’era ben altro a cui pensare! E l’aria… che aria ossigenava il corpo e ti rendeva leggero…
Vai a vederlo adesso, Montesole! Non è più quello, e nemmeno l’aria è pulita e leggera come una volta. Gli uccelli, i conigli, tutti gli animali che lo popolavano sembra si siano trasferiti altrove. La piana sottostante, caratteristica allora per la varietà dei colori che andavano dal verde denso allo sfumato o, a seconda la stagione, dal giallo oro del grano da falciare al rosso papavero, ora è ridotta ad un mare cinereo di plastica e avvolta nel tanfo nauseante di pesticidi.
Lo chiamate progresso questo. È evoluzione? E i morti per i mali oscuri del secolo dove li mettiamo? Quando ogni cosa è immangiabile, imbottita com’è di ormoni e di dosaggio esagerato e irresponsabile di veri e propri veleni, e non sei affatto tutelato come consumatore nella salute, non credi che sia proprio tempo di chiedere al governo una giusta regolamentazione dell’uso dei pesticidi?
È da ignoranti aver pensato e fatto capire agli altri che pronunciarsi contro la caccia o i pesticidi ne avrebbero decretato la loro abrogazione. Nessuno avrebbe voluto questo e tuttora ne chiede solo un’intervento immediato dello Stato che prenda seri provvedimenti per il bene di tutti. Il cittadino chiede leggi adeguate, a misura d’uomo, che facciano rispettare l’ambiente in cui vive, gli animali, la sua salute, mai come ora minacciata e così incessantemente bombardata dagli agenti negativi prodotti dalla stessa azione umana.
Chi ha detto che i prodotti usati nell’agricoltura moderna debbano essere venduti a casaccio e a chiunque li richieda? È possibile che debbano essere utilizzati senza alcun discernimento e senza alcuna cautela a rispetto dei consumatori? Il contadino pensa solo a se stesso, riservandosi magari, un piccolo angolo della serra per gli usi propri, non sapendo che i pesticidi in un ambiente chiuso infestano ogni cosa. E lui in prima persona maneggia quei prodotti senza alcuna prevenzione. Perché non affidarne le vendite ai tanti laureati in chimica· o in agraria in cerca di una prima occupazione? Veri e propri farmacisti con norme da osservare e far rispettare. Da parte di tutti si sente l’esigenza d’un immediato riparo a questi guasti che interessano la vita nel suo insieme.
La caccia? Perché non creare riserve pubbliche e private, permettendo agli appassionati della doppietta di sparare a loro piacimento? In un momento come questo, dove alta è la disoccupazione, ci sarebbe lavoro per tanta gente. E chiunque sarebbe contento, persino le fabbriche di armi continuerebbero nella loro produzione. Stabilite le modalità di accesso a queste riserve (in ogni caso a pagamento), lo Stato dovrebbe intensificare i controlli, servendosi di personale qualificato, in nessun modo ricorrendo – come spesso e tuttora avviene – a guardacaccia. volontari, i veri bracconieri che niente risparmiano e a cui tutto torna lecito, controllori incontrollati come sono.
Gli animali vanno tutelati e rispettati, perché anch’essi hanno diritto alla vita e fanno parte integrante di questo mondo. Ma, continuando di questo passo, noi decretiamo ogni giorno di più la totale estinzione delle varie specie. E intanto si spera all’innocuo e utile passerotto, si spara per il semplice gusto di sparare in qualsiasi stagione e momento dell’anno.
L’irresponsabilità dei cittadini è il riflesso di ben più altre e più gravi irresponsabilità che portano al disorientamento e, quindi, all’apatia verso le istituzioni. Perciò lo Stato non può rimanere impassibile dinanzi a queste storture e deve reagire energicamente, seIVendosi degli strumenti a sua disposizione, se vuole operare per il bene dell’intera collettività, per un mondo più sano e più giusto nel rispetto dell’ambiente e della vita in ogni sua manifestazione.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 11-14.
Chi poteva immaginare che di lì a qualche giorno te ne saresti andato per sempre? Come crederci, se prima di lasciarci, c’eravamo detti di ritrovarci a Velletri nei primi di settembre per discutere e portare avanti i nostri progetti?
Ma di lì a poco te ne sei andato in silenzio e senza alcun commiato!
Il sole d’agosto con le sue impennate ha voluto farci questo brutto scherzo!
Ora capisco perché, salutandomi non volevi che me ne andassi e, stringendomi forte nella morsa del tuo abbraccio di padre di fratello e di amico, m’intrattenevi con altri discorsi, con la tua parola calda, convinta, sincera.
Ora so perché, proprio quel giorno, hai voluto affidarmi quella registrazione, dove ci sei tu, vivo, parlante, vero! Ora so che ho sbagliato ad andarmene, nonostante l’invito della signora Caterina e le tue insistenze!
* * *
La fredda morte lava in profondità le umane miserie, ma restituisce e mette in risalto quanto ci appartiene. Romano Cammarata ci viene restituito così com’era, integro, diamantino, nella bontà e nell’umiltà che gli erano proprie e che lo distinguevano dovunque, nella vita privata e in quella pubblica, al Ministero della P. I. o tra gli amici. Dovunque egli s’imponeva con l’autorità della sua persona, equilibrata, formata da un’esperienza di vita di dolore e di studio intenso, nobilitata dall’arte, e non mai con l’autorità della carica che rivestiva: suo motto era privilegiare l’uomo, ridargli la dignità, smussare i contrasti.
Di qui il grande amore per i giovani e per la scuola, per cui spese le energie migliori. Romano Cammarata viveva la scuola: e guai a parlargliene male, guai a chi non mostrava un minimo di apertura ai problemi di cui essa oggi si fa carico. Agli uomini politici e di governo rimproverava l’averla gettata allo sbaraglio, a quelli di scuola l’inadeguata preparazione, la demotivazione, l’assuefazione ai luoghi comuni, l’attesa di magiche soluzioni venenti dall’alto, quando nella libertà delle scelte si può lo stesso operare e trovare soluzioni fattive e utili al bene comune.
Le indicazioni – era solito dire – vengono dall’alto, ma devono essere i presidi, gli insegnanti a gestirle e calarle nella realtà dei vari istituti. E biasimava la chiusura mentale di tanta gente chiamata a gestire la scuola!
Così sfogava la sua rabbia: ma era solo nei momenti di sfogo, perché trovava sempre le parole più inoffensive per dire le cose senza pesare, senza aggredire. E in questo era un gigante buono, un uomo forte, temprato dalla sofferenza, che comprendeva gli uomini e li amava di un amore profondo e, potendolo, li aiutava, rivolgendo, magari, una parola buona, di quelle che si dicono con il cuore e rimangono impresse per sempre.
Il dolore gli aveva acceso il fuoco della poesia: e poesia è anche la sua prosa, dove le parole sono misurate e dense di significato, tanto che molte pagine vengono aformare lo splendido volume di poesie che è Per dare colore al tempo. E Romano Cammarata ha dato colore al suo e al nostro tempo, andando sul filo della memoria a rintracciare «i fantasmi buoni-, a rincorrerli, nel tentativo ben riuscito di catturarli per sempre, e restituirli alla terra, alla sua terra a cui tanto era legato e per cui soffri nei momenti di maggiore tensione e, di più, quando tristi eventi la martoriavano, facendola apparire agli occhi del mondo come una terra dove esiste e si coltiva soltanto il male.
Romano Cammarata amava di un amore filiale immenso la sua Isola e dedicò tutto se stesso per contribuire insieme ai tanti a riscattarla e presentarla al mondo per quella che è: terra generosa, ricca di colore e di sole, aperta ai contatti come è aperta al mare. E inveiva persino contro i pitoni nostrani, i quali spesso, allontanatisi dalla Sicilia, s’atteggiano a vati sproloquianti, dimentichi della realtà e della storia millenaria, che è freno ed è anche condizione per lo sviluppo sociale e per l’integrazione con il resto della Penisola.
* * *
Il nostro augurio è che il tuo ricordo, Romano, rimanga impresso nella mente di quanti ti conobbero e ti stimarono per quello che sei stato, per i tuoi scritti, per la tua poesia, per la tua arte, inconsueti e densi di umanità vera, senza fronzoli, bella. Che il tuo insegnamento abbia un séguito e sia di sprone a quanti vogliono che il bene predomini in una società più giusta e più umana, come speravi e volevi che fosse. E, per tutto questo, che tu rimanga sempre vivo in noi, a guidarci, a consigliarci, a volerci bene, perché possiamo con il tuo aiuto continuare i lavori intrapresi, a cui tenevi molto, e che speriamo vengano al più presto alla luce e onorare cosi la Sicilia che tanto amavi.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 3-4.
Jerry, amico mio,
perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità, come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità, i giornali se ne sono occupati per un po’, a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre.
Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano. che venga fuori a dir la tua?
E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? Tu che eri desideroso solo di un po’ di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’odio fratricida …
Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al paese d’origine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’ostinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità.
Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa.
L’Europa che nel corso dei secoli ha dettato leggi in materia di civiltà, ora ha da fare i conti con insorgenti forme di razzismo che fanno veramente pensare. Per non andare troppo lontano, l’Italia, a più di cent’anni dalla sua unificazione territoriale, assiste a «lighe» politicamente organizate contro i «terroni», segno che l’unificazione vera e propria ancora non si è avuta, ea niente è valso lo sforzo dei tanti uomini che vi hanno lavorato. Quando in una città come Torino si legge «Non si loca a siciliani», o in una Milano esiste ancora il «Vietato l’ingresso ai meridionali», città dove – lo sanno bene tutti i settentrionali – enorme è stato ed è l’apporto degli Italiani del Sud, i commenti vengono da sé.
Amico, come vedi, la discriminazione s’annida dappertutto; nelle scuole, per le strade, nei bar, e noi, presi come siamo dai nostri interessi, non ce ne accorgiamo o, meglio, non ci rendiamo conto che, così agendo, coltiviamo un terreno che a lungo andare potrebbe franare. L’Italia – mi si dice – non è stata, poi, tanto razzista. Vero. Durante il ventennio, grazie anche all’influenza della Chiesa, non si ebbero quegli eccessi che in Germania culminarono nell’uccisione di una gran moltitudine di Ebrei e di zingari. Eppure da noi
c’è un’insofferenza che via via s’è manifestata e si è accentuata negli ultimi decenni, da quando, insomma, nelle piccole città o nelle metropoli, sono sorti grandi complessi popolari – con tutti i problemi che si portano dietro – privi dei servizi più elementari, spesso incontrollabili e, perciò, facili preda di delinquenti e uomini senza scrupoli che vogliono ad ogni costo arricchirsi alle spalle degli altri. In ambienti del genere, viene praticata ogni sorta di violenza, e non solo gli scippi e le rapine sono di casa, ma sono anche frequenti le aggressioni ai deboli, agli handicappati e alla gente di colore. A parte il tuo, che ha toccato veramente il fondo della vigliaccheria più spietata, è recente il caso di quella giovane madre negra che, tornando dal lavoro da uno dei quartieri periferici di Roma, viene malmenata e costretta a scendere dal mezzo pubblico proprio perché negra. Aberrazioni isolate, senza dubbio, ma non per questo meno pericolose. Ad esse già sul sorgere, vanno trovati i rimedi, e solo così si potrà evitare il peggio.
Lo Stato con le sue istituzioni e i mass-media devono adoperarsi perché si crei nel cittadino una coscienza di fraterna solidarietà fra tutti gli individui, senza alcuna distinzione di razza o di religione. È quanto di più umano si possa sperare. Messa da parte, e per sempre, la famigerata superiorità dell’uomo bianco. che non è nemmeno il caso di prendere in considerazione, il problema va posto entro i termini della fortuna: questi nostri fratelli, vicini di casa, tra l’altro, per questioni storiche e ambientali, sono stati meno fortunati di noi ed ora, più che mai, ci chiedono aiuto, stanchi come sono di vivere nella miseria e nello sfruttamento.
Un giovane africano, l’altra sera, per televisione, parlava della situazione di disagio in cui si vengono a trovare gli immigrati di colore in Italia e non riusciva a spiegarsi questo trattamento di distacco proprio da un paese che ha sempre allacciato rapporti di amicizia e di commercio con l’Africa e tuttora trae vantaggi dall’emigrazione di tanta sua gente all’estero. Ed è anche vero. I Paesi industrializzati e l’Italia devono accettare i lavoratori di colore, così come dai Paesi europei e d’oltremare vennero accolti e accettati i nostri emigranti per accudire ad umili e faticosi lavori, proprio quei lavori che ora fanno da noi gli Africani.
Sono d’accordo con te, Jerry, quando dici che gli uomini del Continente nero non tolgono lavoro a nessuno. Per la maggior parte dei casi, questi immigrati vengono utilizzati o in fatiche ove si richiede tanta manodopera o in altre prettamente tradizionali che i nostri lavoratori non vogliono più praticare. Il benessere, per la maggior parte, – perché in Italia c’è ancora gente che vive nella miseria e tra gli stenti – ha portato anche questo: il rifiuto di quelli che vengono considerati. da che il mondo è mondo, lavori umili, umilissimi. La corsa verso la città ha spopolato, come mai in passato, le campagne, ed è qui che vengono maggiormente utilizzati i lavoratori di colore. Portano al pascolo greggi, raccolgono frutta, vendemmiano. Di tutto fanno questi poveri diavoli! Basta inizialmente guidarli, e allora trovi il manovale, il giardiniere, il marinaio, il tutto fare insomma, e il commerciante che va in lungo e in largo dappertutto: il «vu’ cumprà». A negri è affidata la cura dei boulevards parigini, Negri trovi a Londra e un po’ dappertutto. Si accontentano di poco, con la sola sacrosanta richiesta di vivere anch’essi umanamente la loro vita.
E così noi bianchi ce ne serviamo e poi li ghettizziamo. senza per niente curarci della loro presenza. Li mettiamo da parte come oggetti da riutilizzare alla bisogna, mentre – più degli altri – necessitano di comprensione e di amore. Se non altro, consideriamoli per quelli che sono, uomini che cercano, senza togliere niente a nessuno, un po’ di spazio per acquisire anch’essi una loro dignità.
Se facessimo almeno questo, Jerry, certamente ci troveremmo sulla buona strada e tu, per lo meno, non saresti morto invano! Sì, se accettassimo questa gente con quel tanto di umanità che è dovuta agli uomini, non assisteremmo a certe escandescenze, frutto di eccessiva birra, o a litigi che tra essa si verificano a volte per futili motivi. Ma è sempre un modo, come un altro, per reagire ai soprusi, allo sfruttamento, alle meschinità che spesso deve subire. In ogni caso, non c’è in essa certa spavalderia di Italiani all’estero che non sempre si sono mostrati riconoscenti presso i Paesi ospitali.
Caro amico, male, veramente male ci rimasi quel mattino di marzo del ’75 quando, trovandomi nel bar della stazione ferroviaria di Karlsruhe, un gruppo di Italiani, ultimato il turno di lavoro e consumata la colazione, cominciò a schiamazzare. gettando a destra e a manca tazze e piattini, imprecando «bastardi» ai Tedeschi. A niente valsero le proteste del gestore che, ad un certo punto, fintosi indifferente, diceva tra sé parole di biasimo e di riscontro in un gergo incomprensibile. Fu la polizia a disperdere in malo modo quell’ingrata gentaglia. Me lo ricordo ancora quel mattino – la primavera era già alle porte, la temperatura mite – me lo ricordo.
Eppoi, da più parti si predica un nuovo umanesimo. Ma quale? L’uomo nella corsa verso il benessere è impazzito, non domina più se stesso, ha messo da parte gli antichi valori, dandosene altri, inumani ed effimeri.
Scusami, Jerry, se mi sto dilungando. Non vorrei tediarti con le mie chiacchiere. Ma tu mi guardi con indifferenza, come se la discussione non t’interessasse. Mi agito. A volte non trovo le parole: è il mio io che, sconvolto, non mi dà pace. Spesso mi chiedo: perché nascondere la realtà delle cose? A fatti avvenuti, c’è la falsa pretesa di volersi dare delle risposte risolutorie, come se si volesse far tacere la coscienza. Non si ricercano nemmeno le cause e, nel caso tuo, c’è stata la volontà di addossare ad altri uomini di colore il tuo assassinio.
Gli abitanti di Villa Literno avrebbero voluto uscirne indenni: si preoccupavano della rispettabilità della cittadina. Lo stesso parroco del paese non ha fatto un discorso coerente, e le sue parole palesano un certo disagio. Il fatto è che ci si ostina tanto a nasconderci dietro ad un perbenismo che non regge ai primi scossoni e ci riveliamo spesso vuoti e inconcludenti.
Vorresti, caro amico, che per lo meno il tuo sangue servisse a qualcosa, a far capire agli uomini che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia, dove il rispetto e l’amore verso il prossimo, al di là delle razze e del colore, devono star di casa. So che non chiedi vendetta; ma, purtroppo, non ci sarà uguaglianza e giustizia sino a quando permarranno nell’uomo sentimenti di odio e di prevaricazione, rimanendo così indifferente ai problemi degli altri.
La strada da seguire non è poi tanto semplice, Jerry! Non per questo bisogna desistere: occorre adoperarsi perché i governanti prendano seriamente in considerazione il problema – di problema qui si tratta – la cui soluzione rimuoverebbe tanti ostacoli e dissolverebbe molte perplessità.
L’estate scorsa, in Italia, per esempio, si sono inscenate manifestazioni contro i «vu’ cumprà» e tanti commercianti sono caduti veramente nel ridicolo. Ebbene, per il momento assisteremo a proteste e tafferugli del genere, ma cosa si verificherà nel giro di qualche anno quando – statistiche alla mano – la popolazione diminuirà e gli immigrati aumenteranno a dismisura? A questo punto non rimane che affidarci al buon senso dei nostri governanti e a quanti operano disinteressatamente per il bene e la pace sociale.
Il rammarico per la tua triste fine è stato grande, Jerry. La buona e brava gente – ce n’è tanta ancora – è rimasta scioccata e non si spiega come fatti del genere possano ancora verificarsi. Eppure non c’è che rassegnarsi; vuol dire che doveva andare proprio così perché le cose potessero veramente cambiare, in meglio s’intende. E i primi frutti credo si stiano raccogliendo. Il fatto che si parla più insistentemente che non nel passato dei Negri in Italia, fa pensare che qualcosa già si sta muovendo in favore e che il tuo sangue non è stato versato invano. Me lo auguro di cuore, amico mio. Allora la tua anima potrà finalmente trovare pace e il sorriso ritornerà sui volti abbrutiti dalle fatiche: sarà come se non fossi mai morto, e noi ti ravviseremo nei tuoi che sono anche nostri fratelli.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 39-43.
Multi-dimensionalità e pluri-contestualità sono termini nodali e chiarificatori del modus essendi di un insegnanteeducatore, in quanto tale deve essere il suo carattere de facto in una società in cui non si procede più in maniera unidirezionale.
L’atto di operare in una scuola tutta integrante, luogo che trasforma il sapere in una sorta di conoscenza circolare ed enciclopedica, sommativa ed integrativa del saper fare e del saper essere, presuppone la continua ricerca-azione intrisa di saggezza umana e di sapienzialità nelle interazioni personalizzate in più contesti e in più dimensioni, e richiede agli educatori una metànoia interiore profonda capace di leggere l’intero nel frammento, la pluricontestualità nella mono-tematica vita scolastica. Il campo d’azione dell’ insegnante, quindi, si allarga; esce da quella chiusura cui era relegato precedentemente, divenendo l’educatore-insegnante specialiizato con compiti specifici e molteplici perché tali sono le caratteristiche richieste, e con una saggezza e un equilibrio di personalità che lo rendono esperto in umanità e che gli permettono di propagandare il ciceroniano detto della scuola come animi cultura. In tal modo, il ruolo dell’insegnante ha, iter facendo, mutato la sua funzione, ampliandosi e arricchendosi, rappresentando adesso il punto focale attraverso cui sicuramente transita l’integrazione e, nello stesso tempo, si pone come una presenza di natura preventiva rispetto a situazioni di difficoltà.
«Ottimo maestro è colui nel quale il fanciullo vede se stesso, l’interprete del suo mondo interiore in cui egli stesso non sa guardare a fondo, in certo modo la continuazione e l’esplicazione di se stesso come in un piano più elevato, la cui guida e direzione, lungi dall’essere temuta o aborrita, è desiderata e aborrita », così La Manna scriveva più di quaranta anni fa. Come non condividere questo pensiero? Il ruolo e la formazione dell’insegnante devono essere centrati sulla relazione e sulla comunicazione, sui rapporti tra area formativa e area informativa: gran parte della professionalità dell’insegnante specializzato consiste nella capacità di intervenire attraverso corrette modalità relazionali sia con gli alunni che con gli altri insegnanti.
Questa è una caratteristica strategica elettiva che deve essere considerata come tratto fondamentale della figura professionale. Il fatto stesso di co-operare, inter-agire, co-agire e relazionarsi presuppone la molteplicità di situazioni che deve assemblarsi in questa figura: i diversamente abili, d’altronde, presentano ai docenti delle discipline difficoltà di insegnamento per il fatto che sono diversificati i processi di apprendimento1.
L’insegnante, perciò, per rispondere alle specifiche e diverse esigenze di apprendimento e di sviluppo umano dei soggetti in difficoltà, deve essere in grado di operare scelte consapevolmente critiche, come scrive Larocca, in base all’offerta di senso pedagogico, alla consapevolezza della dimensione formativo-educativa delle tecniche usate nelle azioni didattiche e degli elementi significativi per la rappresentazione metapoietica della realtà, e alle molteplici funzioni della scuola nel contesto della società contemporanea. Presupposto indispensabile per l’attuazione di ciò sono la capacità e la fattiva realizzazione del dialogo tra agenti diversi, cui l’insegnante-educatore si deve adoperare per attuare quale mediatore privilegiato in una società pluri-dimensionale che, molto spesso, ascolta poco e che allo «stare con gli altri» deve far combaciare «il fare con gli altri». La condizione di dovere operare nei vari aspetti della realtà (antropologici, filosofici, neurologici, pedagogici e didattici) e nella difficile dinamica del rapporto dicotomico fra l’insegnamento ad apprendere e l’apprendimento stesso di tutti gli studenti, tutti diversamente abili (Gardner docet) , è la prospettiva principale cui deve tendere2.
La multidimensionalità e la pluricontestualità sono insite nel suo ruolo di «progettare azioni», dove, al fine di mirare l’azione, si esige la conoscenza delle diverse dimensioni dell’insegnamento in generale e i contenuti della disciplina che si conosce di più, nonché la conoscenza della logica latente e interna che presiede a quella disciplina, ossia degli aspetti epistemologici più profondi. Tutto ciò che interviene nell’atto didattico occorre sia adeguato non tanto o non solo al contenuto, ma ai processi interiori necessari per far propri i contenuti. Ne deriva che l’insegnante deve essere capace di conoscere se stesso, le singole personalità, la realtà sociale intorno, e quant’altro entri in relazione con il soggetto, non facendo ricorso solo a strumenti standardizzati, quanto alle sue sensibili capacità di lettura dei dati rilevabili da una perenne ricerca-azione. Solo così potrà riuscire ad operare e mettere in pratica modalità e strategie adeguate e differenziate e pianificare un progetto di vita flessibile, dinamico e funzionale, avendo coscienza di tutte le variabili in gioco: dalle premesse antropologiche di fondo degli attori, alla capacità di dominio in situazione delle variabili intervenienti.
L’essere esperto in situazione richiede all’insegnante un’acuta capacità di osservatore delle personalità in sviluppo, di moderatore di situazioni difficili e di portatore di un modo di insegnare che deve andare oltre la letio ex cathedra. Non fu Collodi che fece acquistare la stima e la simpatia di tutti al suo personaggio che era stato inizialmente deriso e beffato, perché, a differenza degli altri, era un burattino? Il piccolo Pinocchio, alla fine, va dicendo: «Badate ragazzi: io non sono venuto qui per essere il vostro buffone. lo rispetto gli altri e voglio essere rispettato!»3.
Essere disponibile verso l’altro, sia a livello numerico che analogico, significa ascoltare e capire l’altro mettendosi in una dimensione unisona, di essere al servizio dei colleghi e dei genitori in quanto diventa capace di fruire di tutte le risorse presenti nell’istituzione in cui opera che egli aiuta a mettere insieme e a co-ordinare, per il miglioramento globaIe e generale della situazione delle classi in cui lavora, comprendendo i momenti più consoni per fare proposte di natura didattica capaci di aiutare gli allievi ad apprendere, come quando, prendendo spunto da eventi naturali o sociali, suggerisce azioni capaci di coinvolgere più docenti per problematizzare e contestualizzare le situazioni e gli apprendimenti in modo multi o pluridisciplinare e interdisciplinare, coinvolgendo l’intera comunità sociale in cui vive l’istituto scolastico: ne conosce le potenziali ricchezze e stimola i responsabili affinché da tali ricchezze non vengano esclusi tutti gli allievi, ma soprattutto i soggetti in difficoltà.
In una moneta del Medioevo si legge «Humanitas humana terre» (l’umanità sostenga l’uomo), riconnettendosi all’immagine cara del buon samaritano: «Un uomo viene derubato, spogliato, battuto, lasciato morente per strada. Passa un sacerdote e non si ferma, passa un levita e non si ferma … Si ferma solo il buon samaritano, scendendo da cavallo …» Questo sta a significare come, in una società così complessa e plurima, molte volte si perdono di vista le cose più vere!
Bisognerebbe anche imparare a ricoprire il ruolo del buon samaritano.
Rita Vecchio
NOTE
1. N. Cuomo, Pensami adulto, Torino, UTET.1995.
2. E. Fromm, Avere-a-essere, Milano, Mondadori, 1995.
3. R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 21-23.
«L’essenziale è invisibile agli occhi, continua la volpe riferendosi alla rosa che aveva tanto curato.» Così SaintExupéry scrive nel significativo dialogo per il suo Piccolo principe. Se è necessario addomesticare, allora molte volte davvero l’educazione può essere invisibile agli occhi di chi guarda? Dalla mappa logico-disposizionale (di cui tanto discutono i pedagogisti) all’azione, è un actus hominis o un actus humanus? Una svalutazione della teoria a favore della pratica, o un viaggio ascensionale che da cognizioni teoriche preparatorie all’azione conduce all’actus vero e proprio? Domande che rimandano a teorie pedagogiche che da anni si arrovellano intorno a questa querelle irrisolta: in un certo senso, l’azione umana precede la riflessione intrisa di motivazione invisibile e di intenzionalità mirata1, che spiegano l’actus fisico e l’inferenza pratico-induttiva posta in corrispondenza biunivoca di un dato osservato empiricamente e di un principio di valore che agisce da motivo-guida all’azione.
Se educare, in una scuola dinamica, pluralista e in itinere continuo, significa ricercare, costruire e trasmettere valori, non si può immaginare di operare in azione, in modo propositivo e costruttivo, senza un’ adeguata preparazione teorica: l’esplicitazione pratica di un intervento mirato presuppone, infatti, una propedeutica osservazione pedagogica che sottintende uno sguardo alle problematiche epistemologiche e metodologiche capaci di rendere l’educatore autore esperto di cognizioni teoriche e attive. In questo processo, l’intenzionalità nell’azione offre l’unità ontologica di un’azione pedagogica, in un processo educativo in cui svolgere il suo ruolo in ordine allo sviluppo umano. Studiare un progetto, quindi, e partire da esso per agire, significa capire le dinamiche che stanno dietro, i riferimenti puramente teorici che ne giustificano l‘iter attivo, le variabili esterne e interne che modificano la scelta di predefinite sottodisposizioni, in un processo in cui anche il voltarsi indietro e guardare eventuali errori è una marcia di sviluppo per il fatto che s’impara anche da un passato-storia.
La centralità della ricerca-azione è presupposto indispensabile per un mirato iter formativo, e un modello di progetto dinamico viene veicolato, in tal modo, all’interno di un’azione educativa, affinché raggiunga, nella realtà, la potenziale libertà dell’uomo con il conseguente incremento di sviluppo. Cogliere l’altro e incontrarlo significa carpirne i dati intellettivi, gli stili cognitivi e le strategie di pensiero in atto, al fine di definire e ri-giustificare una precisa azione. Come facciamo noi, insegnanti-educatori, ad agire senza ratio? Si può anche agire, è vero, ma non significa forse giocare a moscacieca? Stabilire un rapporto di somiglianza tra azioni educative studiate in letteratura o in pedagogia e quelle in atto significa creare inferenze analogiche che ne giustifichino la proporzionalità.
Anche questo è rapporto dialogico: se educare significa anche dialogare in un clima idoneo, compito dell’ educatore sarà quello di instaurare il dialogo con tutti coloro che ne sono coinvolti. Questo rapporto si porrà come ricerca del concetto di interdisciplinarità-interazione, proiettato a uno sviluppo umano, unico sapere oggi possibile, che in educazione si può costruire tramite il metodo clinico-dialogico, in quanto, proprio per l’importanza della teoria stakiana del microscopio e del telescopio, in base alla quale bisogna vedere bene alcune cose prima di guardare lontano, la problematica va sezionata in micro-parti, in modo da osservare da angolazioni visive diverse, e in maniera che i singoli punti di vista possano operare sinergicamente non in un semplice confronto dei risultati ottenuti, ma nell’ottica di un approfondimento e di un eventuale spostamento dello stesso punto di vista in virtù delle conoscenze emerse e acquisite cammin facendo.
Il problema principale della ricerca-azione è, quindi, il dialogo creativo fra gli educatori-attori, nell’ottica di un modificare-modificandosi; allo stesso modo, in un progetto pedagogico, dobbiamo considerare che, se ogni individuo può divenire quello che l’insieme ambiente culturale e sociale lo stimola a diventare, l’uomo è caratterizzato a diventare quello che lo stesso so strato educativo in cui vive gli permette di diventare, più che essere determinato dal suo patrimonio genetico. Sul progetto pedagogico non agisce direttamente, quindi, una determinata concezione dell’uomo, quanto invece il progetto storico della comunità educante: è essa stessa l’anticipazione teorica di un soggetto ideale medio in una determinata età.
Ecco spiegato il perché si parte da quella famosa e a volte criticata mappa logico-disposizionale, ovvero dalla rappresentazione grafica di una disposizione e delle sue sottodisposizioni (alias obiettivi e finalità) collegate tra loro da nessi detti «implicazioni disposizionali », in cui intervengono quelle variabili assegnate dette «condizioni di esercizio esterne, interne e rilevanti», in virtù delle quali si verificherà un evento educativo. Il passaggio da una mappa o formula alla realtà significa offrire a tutti la possibilità di impadronirsi delle proprie potenzialità e dei criteri di scelta per sviluppare il proprio poter essere; significa, parimenti, gettare in avanti le reti di apprendimenti specifici e personalizzati; pro-iettare quella «possibilità di umanarsi», ovvero la concezione «di come dover essere per quel poter accedere al proprio fondamento».
Tutto ciò giustifica il senso stesso di tale progettazione pedagogica: ricondurre l’essere umano a se stesso, al riconoscimento della sua origine e del suo destino, a quella dimensione neotenica, che contrappesa in modo terapeutico una compromissione data attraverso una giusta stimolazione della stessa, in una vera e propria interdipendenza dinamica che conduca alla finalità-disposizione pedagogica, come le capacità cognitive, linguistiche, affettivo-emotive. L’incremento di sviluppo dipende fortemente dalla progettazione, all’ interno della quale si colgono gli elementi di ciò che si ritiene possibile in quell’ hic et nunc di riferimento, considerate le condizioni socio-ambientali e con la implicita consapevolezza di anticipare non i bisogni dell’ educando, ma le potenzialità da far emergere, nonché prevedere possibili percorsi individualizzati e personalizzati con la logica dell’attuazione, in modo da operare con mens scientifica3.
In questo contesto si ritrova la risposta a uno dei miei quesiti iniziali: non è possibile attribuire un senso operativo all’ actus hominis (azione, cioè, priva di senso per chi la compie), ma solo l’actus humanus (azione dotata di senso) riceve significato, a prescindere dall’interpretazione dell’ osservatore. Un educatore deve essere anche ricercatore pedagogico che osservi, dall’esterno oltre che nell’interno, attraverso un’inferenza pratico-induttiva delle intenzioni e dei principi pedagogici che hanno agito da forza propulsiva dell’azione stessa.
Non si tratta di dar ragione a Larocca o al Gruppo interdisciplinare di Trento piuttosto che ad altri pedagogisti, o di cadere nelle reti di un ragno chiamato filosofia, puramente astratto e fantasioso, quanto di dare per assodate alcune certezze latenti: inutile negare quanto importante sia il pensare a un’azione, il cogito latino che si pone come preludio teorico di una determinata realtà. Il progettare, pre-vedendo e pre-visionando, da parte di educatori chiusi, corre il rischio di forgiare animi chiusi e il progetto impositivo è proprio di una società chiusa: un progetto pedagogico aperto, invece, nasce in una società plurima le cui forze agenti sono dinamiche.
I linguaggi simbolici utilizzati per tale trasposizione (un grafico, una formula, una mappa), non sono altro che mediatori mirati a un rinvio della realtà descritta e, in tal senso, l’educatore-ricercatore-progettista si pone come colui che sa vedere oltre quei semplici segni e, una volta che l’azione è fatta, il lettore, rapportandola al progetto, potrà dire che l’opera prova il progetto se tutto dell’opera era stato previsto. In una società caratterizzata da pluralismo e molteplicità, l’uomo è libero solo se esiste un progetto dinamico alla base che lo possa liberare dalle diverse ignoranze: se la libertà è una finalità condizionata, va progettata e realizzata mediante tutte le capacità implicate in un valore; questo vale anche per i soggetti «diversamente abili» che sono persone, ma che più di altre hanno bisogno di avere definiti obiettivi mirati ad accrescere le loro potenzialità.
Un progetto dell’uomo sull’uomo, quindi, che pur partendo da stereotipi schematici si libera al fine di liberare. Una concezione, però, non idealistica, in cui nessuna parola parla per se stessa, ma in virtù di un tropos, ousìa di un linguaggio analogico che agglomera elementi indispensabili all’ azione: l’ad quem, l’a quo e l’id quem sono prototipi che stanno alla base di una qualsiasi formula o mappa, dove il relatore precede sia il fine che il mezzo. Il progetto pedagogico richiede la presenza di variabili che non sempre si possono controllare o prevedere: ogni bisogno può essere trasformato iter facendo, ridefinendo, in tal modo, le anticipazioni intenzionali e trasformandolo mentre la stessa azione si svolge; è vero che bisogna prevedere, ma l’anticipare in toto l’uomo su di sé è un’utopia ed è la neotema stessa che lo mette in condizione di un’ estrema plasticità.
Il décalage piagetiano, ovvero la scomparsa del risultato di una disposizione-finalità, è uno dei problemi di educazione speciale che più si manifesta: il fatto di poter falsificare teoricamente un modello di progetto pedagogico e la micro-teoria disposizionale mirati all’incremento di sviluppo consistono nell’osservare la congruenza di una finalità e delle sotto-disposizioni con la concezione dell’ uomo che il modello assume o di considerarla a posteriori, rispettando la maturità pedagogica del soggetto e le sue strategie messe in atto per apprendere, dopo l’azione.
Prima di falsificare un intero modello di progetto pedagogico occorre falsificare l’atto della «causazione» e la stessa programmazione; solo l’analisi dell’ eventuale non-presenza di errori macroscopici porta alla negazione del modello. Ogni azione deve essere intenzionale e tale intenzionalità va comunicata secondo un teorema deontico che vede la co-partecipazione degli altri, in riferimento all’importanza dialogica insita. Programmare significa creare ambienti idonei, capaci di offrire sensazioni concrete e piene di significato, avendo come punto di partenza una teoria da cui si deduce un progetto.
L’educatore deve avere grandi doti di personalità che gli consentano flessibilità e capacità lungimiranti e, insieme agli aspetti cognitivi, si deve preoccupare dello stato d’animo del soggetto. L’azione che produce educazione è complessa e si può cogliere solo con un approccio collaborativo tra diversi punti di vista: è il dialogo interdisciplinare che porta a cogliere quello che ogni punto di vista di per sé non appare in grado di carpire. Ecco perché è importante che un insegnante non lavori «a porte chiuse», ma collaborando con i colleghi.
L’azione educativa provoca un incremento di sviluppo umano in un dinamismo
funzionale e disposizionale che vede interagire le varie condizioni necessarie in modo coerente e armonico e il binomio ricerca-azione sul campo può avere un effetto macroscopico anche sulla possibilità di incidere a livelli più ampi, fino a modificare le singole istituzioni e la mentalità diffusa. Fare acquistare senso al progetto deriva dall’importanza che si dà all’azione mirata e dal fatto che esiste un soggetto-tu che, fuori dal tempo e dalla presenza fenomenica, si realizza in merito a un dover-essere, giustificando il principio di progettazione pensato su di lui e per lui e rafforzando implicitamente l’etero e l’auto-educazione, ovvero le dimensioni dell’ ego che accompagnano il soggetto nel confronto costante tra il suo essere e il suo voler essere. L’azione non è altro che la conclusione di quest’inferenza pratica, la fine di un viaggio ascensionale iniziato con la teoria.
D’altronde, come possiamo costruire una casa senza avere un progetto? Certo, a costruzione finita, invisibili saranno le cognizioni degli architetti e visibile sarà il risultato; senza quelli, il rischio di inagibilità crescerebbe. Lo stesso avviene nell’azione pedagogica. Anche il mio discorrere potrebbe sembrare un’inutile teoria, ma come potrebbe esserci azione specializzata senza una primaria e, a volte, anche noiosa riflessione? Come potrebbe, altrimenti; esistere quello che Schon chiama professionista riflessivo in educazione?
Rita Vecchio
NOTE
Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 31-34.
I tuoi occhi
dietro le finestre scure:
avidi spietati lucidi
come la lama di una spada di mercurio
che illuminano il chiaroscuro.
I tuoi occhi
su un campo senza orizzonte
che attirano la selvaggina
per lo sterpeto dei sofismi.
I tuoi occhi
che frusciano come la seta
dopo una battaglia perduta.
Igna Vasile
(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989)
Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 33.
Un premio Scala per la narrativa, un premio Calliope per la poesia, ambiti riconoscimenti per la pittura e la fotografia, una intensa collaborazione a riviste e periodici, fanno di Romano Cammarata un protagonista del mondo artistico e culturale italiano.
Un fatto per molti aspetti eccezionale, se si pensa che Romano Cammarata è anche un alto ed efficiente Dirigente dello Stato, il supremo moderatore, presso il Ministero della P.I., della Direz. Gen.le classica, scientifica e magistrale: un settore particolarmente rilevante della cultura e della scuola del nostro Paese.
Il rapporto fra illetterato, l’artista, il pubblicista, da una parte, e il ruolo estremamente impegnativo del Dirigente, dall’altra, lungi dal far registrare, come pur si potrebbe essere indotti ad opinare, iati e dicotomie, è invece perfetto, incredibilmente armonico e come tale produttivo di risultati non comuni che rappresentano – ed è questo l’aspetto che più vorrei sottolineare – un fatto nuovo nella storia della P. I. che è oggetto di particolare interesse dentro e fuori le mura della nostra “Minerva”. I due momenti, meglio le due dimensioni dell’uomo, fanno registrare esemplari connotati della stessa spiccata personalità che si illuminano e si integrano a vicenda.
Ma non basta: l’avvertito bisogno di evadere dal chiuso del Ministero di Viale Trastevere, per raggiungere le varie regioni d’Italia, allo scopo di potere ascoltare, in maniera non mediata, la voce degli operatori della scuola, dei presidi, dei docenti, degli stessi studenti talvolta, per sentire il polso, per percepire le pulsioni di una istituzione (che spesso solo la dedizione e la passione dei suoi protagonisti salva dalle secche), l’esigenza di volersi rendere conto de visu di Situazioni spesso diversificate, questo bisogno di scendere in campo per conversare con animo sincero, scevro da pregiudizi e da stereotipati “tòpoi”, la piena disponibilità a recepire istanze da parte della scuola militante e a intrecciare con essa, anche in sede epistolare, scambi di vedute, fanno di R. Cammarata un Dirigente di tipo nuovo, una specie di magistratus novus atque mirificus, proprio perché singularis. Un ruolo certamente non facile, soprattutto in un momento di incertezze, di stasi, di lunghe e snervanti attese che contrassegna il mondo della scuola, a dispetto della conclamata volontà politica di riforme radicali o parziali, ma un modo di assolvere responsabilmente ad una funzione quant’altro mai complessa e delicata, spinto dalla forza impellente di un imperativo categorico, volto ad esorcizzare l’immagine di una Amministrazione centrale ferma, bloccata, passiva, mummificata, quasi, da un immobilismo di cui non è certamente responsabile e che essa vive con fastidio, con legittima insofferenza, sentendosi il tenninale di tensioni e di scontenti, che salgono dal mondo vivo della società e della scuola.
E quel che sorprende in questi contatti con R. Cammarata è l’atteggiamento di ascolto rispettoso, paziente, inteso ad offrire la sua proposta che, si badi, non è mai impositiva, ma di dialogo: testimonianza di questo suo modo di essere, la recente lettera ai presidi e ai docenti interessati sull’insegnamento delle discipline classiche.
Io debbo confessare che, nella mia ormai lunga milizia di ispettore centrale, non ricordo Direttori Generali che, in occasione di Convegni culturali o di Seminari di aggiornamento, abbiano partecipato con più vivo interesse di lui, vivendo le varie problematiche anche con una costante presenza fisica per tutto l’arco dei lavori, tirando alla fine le fila di lunghi e spesso divaricanti dibattiti, con competenza, con estremo equilibrio, con indiscussa sagacia.
Questa figura di Direttore Generale, per così dire “itinerante” e per molti aspetti davvero “inedita”, risponde, oltre che ad un’ottica moderna del ruolo direttivo, ad un intimo bisogno dello spirito, portato non ad esaurirsi in comode crociere attorno al proprio ufficio o attorno alla propria scrivania, ma a dialogare, a conversare, a cogliere l’ansia dell’inter1ocutore ed insieme a dar voce al proprio “io”, sensibilissimo ai richiami del mondo circostante. Questo modo di vivere la sua alta funzione non è perciò un fatto formale, esteriore, finalizzato a certo esibizionismo di gusto scenico: è una viva, profonda esigenza del suo spirito che, se non realizzata, lo farebbe sentire, se non un frustrato, certamente un dimidiatus!
E la stessa esigenza è alla base della sua attività di narratore e di poeta. Senza entrare in questo specifico campo, io vorrei soltanto sottolineare come il narrare, il poetare, rispondano ad una precisa tipologia umana, portata alla ricerca di uno strumento particolare per esprimere meglio, in maniera più compiuta, immediata ed incisiva, inquietudini, speranze e – perché no – un gran bisogno di certezze, in un’ottica che, nella sua sostanziale laicità, converge naturaliter verso le vette di un Cristianesimo avvertito non come qualcosa di estrinseco, di rituale, di moralistico, ma come una realtà di liberazione, di alleanze, di comprensione, di comunione, di amicizia!
Narrare, perciò, e poetare per dare voce al proprio “io’, per dare un senso, un colore alla vita: e la partecipazione è alta ed intensa, coinvolgente tutta l’esistenza, come quella che è intesa a riscoprire l’interiorità, non come fuga, bensì come luogo in cui contemplare e collegare insieme le due dimensioni di cui è intessuta la nostra vicenda storica: l’uomo e il mondo.
Chi come me, a parte la pagina scritta, a tutti accessibile, ha il privilegio di una continua frequentazione dell’Uomo, avverte che l’opera di Romano Cammarata, narratore e poeta, è lievitata, da quello stesso leit-motiv che pervade le più belle pagine delle “Meditazioni” di un Marco Aurelio, nelle quali tutto ruota intorno ad un aetemum intemum che è il motore di una continua rigenerazione, di un vero e proprio rinascere, che l’Imperatore-filosofo esprime con un verbo greco di particolare efficacia “ava~l(òvat” (VII, 2).
Un colloquio, dunque, quello del nostro Autore, con se stesso, vissuto come mezzo per la ricerca di una perfezione più alta, un colloquio che, lungi dall’essere, come dicevo isolamento dal mondo, si appalesa come lo strumento in virtù del quale l’uomo-cittadino collauda la virtus e, una volta fortificato, intende, senza iattanza, adoperarla per l’umanità, in un generoso ed operante ottimismo: una connotazione precisa della sua Weltanschauung che non mi pare lo collochi, come pure da qualcuno è stato detto, nella scia del suo illustre conterraneo: Luigi Pirandello.
A me sembra che l’analogia col grande agrigentino può essere data solo dal fatto che entrambi, figli di una terra che fu teatro fra i più interessanti della grande civiltà mediterranea, e centro di commercio spirituale fra i popoli, hanno saputo fare, talvolta, di certa “sicilianità” una chiave di interpretazione dell’universo umano.
Un viaggio, come dunque si vede, nel gran mare dell’essere quello del nostro Cammarata, il quale, nonostante il buio della notte, nonostante gli imperversanti marosi e lo sferzare dei venti di tramontana, non smarrisce la bussola, riuscendo sempre ad ancorare la sua navicella a quei lidi, prima intravisti e poi fermamente tenuti, che sono i fascinosi approdi illuminati dalla superiore luce del giusto, dell’onesto, della libertà, dell’umana dignità.
Di qui la presenza di un’etica civile e sociale profonda, saldamente radicata nell’uomo e nello scrittore: ed io mi chiedo, in proposito, se il dramma di un Agostino Bertoni, il protagonista di “Violenza oh cara” non sia un grido in faccia a certa società di oggi, – fonte spesso di violenza occulta o palese – proprio nel segno della libertà e della dignità dell’uomo e del cittadino, in nome di quella solidarietà, pronta ad essere da più parti sbandierata, ma altrettanto farisaicamente disattesa e tradita!
Di qui il bisogno di rifondare, da parte del nostro Autore, la sua fiducia nell’uomo, di qui il suo patto con l’esistenza, proprio a dispetto di quella violenza che, più di quanto non appaia, costituisce quasi sempre il tessuto connettivo della storia e contro la quale è possibile lottare con successo se ognuno di noi sa portare alla ribalta del vivere quotidiano con costanza, con coerenza, senza tentennamenti, le innate e latenti capacità reattive: una lezione, perciò, in sostanza, un vero e proprio messaggio a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni.
Ora se questo è il senso della pagina di Romano Cammarata, si comprende benissimo come il colloquio con se stesso, su cui ho ritenuto di dover mettere l’accento, scaturisca dalla convinzione che solo nell’interno, in interiore homine, per usare l’espressione di Agostino, è la sorgente più vera e più pura, che può riprendere e zampillare purché l’uomo la cerchi e la scavi. E come diceva il vecchio filosofo Epitteto, solo che tu lo voglia, troverai sempre un’ora di calma per farlo! E non è fuor di luogo richiamare in proposito anche una pagina delle ”Tusculane”, in cui Cicerone afferma che la massima forza morale è data dal colloquio che si svolge nell’interno del nostro cuore. Proprio da questo continuo ascolto vien fuori quel larghissimo senso dell’umano, fatto di misura e di signorile compostezza, che contrassegna Romano Cammarata come uomo e come dirigente: è il frutto, molto raro nella nostra convulsa e spesso alienante società, di una humanitas saggiamente dosata fra “‘3″toç ‘tCOPl1’tlKOç” e “pioç 1tpUK’ttKOç” e che lo autorizza, riecheggiando Menandro, a ripetere col poeta latino: Homo sum, nihil humani a me alienum puto.
Amante della riservatezza e della modestia, cultore dell’amicizia, espressione di una cultura per nulla aduggiata da conformismo o inquinata da estremismi ideologici, Romano Cammarata, quale Direttore Generale dell’istruz. classica scientifica e magistrale è un sicuro punto di riferimento per equilibrio e senso di responsabilità, sempre pronto a convogliare, sulla giusta rotta, ottiche non sempre ortodosse, come quando, ad esempio, invita a riflettere su certe strumentalizzazioni o pretestuose discussioni (valga per tutti la presunta antinomia fra le due culture), non esitando ad evidenziare i rischi di un sapere scientifico troppo spesso presentato come alternativo a quello umanistico.
Ma qui si è voluto dare solo un limitato specimen di quella prudentia, nella più pregnante accezione latina, di cui l’uomo è depositario ed insieme generoso dispensatore.
Giovanni Vanella
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 59-62.