Un solido iter propositivo 

Gentili Signore, gentili Signori, quando qualche tempo fa il mio amico Salvatore Vecchio mi rammentò che proprio in quest’anno sarebbe caduto il ventesimo anniversario della nascita della rivista “Spiragli”, di cui è stato fondatore e, a tutt’oggi, direttore, e aggiunse che avrebbe voluto dare un certo e giusto risalto all’avvenimento, gli promisi di dare, come Associazione per la tutela delle tradizioni popolari del trapanese che mi onoro di presiedere da oltre un ventennio, la mia disponibilità e quella dell’Associazione. 

Siamo qui presenti per mantenere il nostro impegno ma, soprattutto, per rendere omaggio alla rivista, il cui primo numero vide la luce nel mese di gennaio del 1989. 

La titolazione della rivista, appunto “Spiragli”, era già simbolo di un impegno, come a volere accendere un lumicino all’interno delle tante difficoltà che l’editoria, spesso, presenta e un cercare spazio e consistenza in mezzo all’indifferenza ed allo scetticismo che contornano iniziative del genere. A queste, spesso, si accompagna l’indifferenza se non la critica del tessuto sociale a cui la rivista cerca di proporsi. 

Così nel primo numero: 

“Spiragli” al di là di ogni connotazione politica, vuole essere una rivista aperta al dibattito e al confronto 
delle idee. Ha carattere culturale e, volendo essere mezzo valido di conoscenza, pubblica articoli originali di 
carattere letterario, artistico, scientifico, socio-economico, scolastico e concernenti problemi del nostro tempo”. 

Queste le caratterizzazioni individuate dal fondatore e direttore responsabile, caratterizzazioni cui hanno 
mantenuto fede, in questi quattro lustri di vita della rivista, tutti i collaboratori e che hanno fatto sì che essa mantenesse uno standard elevato di qualità. 

La stessa durata testimonia che si sia colto nel segno e che, ai giorni nostri, può benissimo trovare spazio e suscitare interesse una rivista di letteratura e scienze. Sappiamo, d’altronde, le difficoltà cui si va incontro nell’assumere un impegno di tal fatta, sappiamo altrettanto bene che continuare a vedere in vita l’iniziativa fa scordare sacrifici, impegni e, a volte, frustrazioni. 

La rivista nasce nel lontano 1989 proprio nell’anno in cui, nel novembre, si aprirà uno spiraglio nel processo di democratizzazione che fu la caduta del muro di Berlino ove, per la prima volta, concretamente crollarono quelle barriere che non fecero tanto onore al vecchio continente culla della civiltà. 

Spiragli s’erano aperti qualche anno prima nel 1956 con i fatti d’Ungheria e di Cecoslovacchia e Polonia dopo. Spiragli quindi come attese, aspirazioni, realizzazioni di altro tipo naturalmente che sono stati alla base dell’ideazione e messa in opera della rivista cui facciamo riferimento. 

Ci sono stati altri momenti in Sicilia e in questa nostra provincia in cui si è dato corpo a riviste che dessero spazio ad iniziative tendenti ad evidenziare l’esigenza di mettere assieme forze ed intelligenze e far crescere e coltivare l’amore per la letteratura e le scienze. 

Ci riferiamo a quel nobile tentativo che fu l’Antigruppo degli anni Settanta cui diedero contributo autorevoli scrittori e poeti, quali Rolando Certa, Nat Scammacca, Franco Di Marco, Gianni Diecidue, Crescenzio Cane, Ignazio Apolloni, Santo Calì per citarne alcuni. Loro obiettivo era quello di dare spazio ad un’editoria, se vogliamo, d’avanguardia e scomoda che non trovava posto nell’editoria ufficiale e di moda. Il tentativo si spense piano piano, cosìcome si spengono, in questa nostra terra, quasi tutte le iniziative autonome e che non fanno comodo ai potentati locali di turno. Assume, quindi, maggiore risalto ed evidenza, in questo contesto, la rivista ”Spiragli“ che da vent’anni continua imperterrita a vivere e crescere. 

C’è, mi chiedo, oggi l’esigenza di una rivista del genere e quale ruolo può essa rivestire? La risposta non può che essere positiva. “Spiragli”, infatti, oltre a soddisfare l’esigenza di ‘dire’ da parte dei redattori e di quanti vi collaborano, soddisfa quella fascia di lettori che non vuole farsi indottrinare da riviste e quotidiani litigiosi, mistificatori e, spesso, asserviti. Essa soddisfa coloro che cercano valori più duraturi tali da contribuire alla formazione e all’approfondimento di tematiche particolari da proporre come riflessioni a chi ad esse si accosta. 

La rivista, sin dalla sua nascita, ci appare equilibrata nella sua composizione. Consiste di una sezione che offre informazioni sul recente e del recente: “Notizie ed Opinioni”, con un taglio non solo locale ma ampio, internazionale o, con un termine in uso ai nostri giorni, globale. Sono notizie ed opinioni che riguardano avvenimenti culturali, scientifici, artistici e di cronaca seria. 

Segue “L’Argomento” dove si considerano tematiche impegnate di filosofia, di letteratura, di problematiche sociali, esistenziali, trattate dalla penna e dall’intelligenza di intellettuali di indubbio spessore culturale. Anche qui è sorprendente come, nel tempo, siano stati coinvolti eminenti studiosi, docenti universitari, uomini di cultura non solo locali ma di altri posti della terra. È il caso di Oliver Friggeri dell’Università di Malta, docente di Teoria letteraria ed autore di una Storia della Letteratura maltese; Jorge Velasquez Delgado dell’Università Autonoma Metropolitana del Messico; Helmut Koenigsberger, storico inglese di fama internazionale che ebbe rapporti di vera amicizia con lo storico siciliano Virgilio Titone, che apprezzòl’analisi storica che l’inglese fece sulla Sicilia durante il regno di Filippo II; Ángeles Arce dell’Università Complutense di Madrid, italianista; Maxime Louise Lawson, David Boyd Carrigan; Calogero Messina che scrisse le belle pagine sul rapporto tra Koenigsberger e Titone, già citato. Poi, Antonino Contiliano, Vincenzo Monforte, Oreste Carbonero, Donato Accodo, Irene Marusso, Rita Vecchio, Romano Cammarata, per citarne alcuni. 

Altra sezione della rivista è dedicata all’“Arte” ed anche qui si affrontano temi e scrittori di indubbio valore, vuoi come collaboratori, vuoi come pittori recensiti. È il caso di Germana Parnykel, russa nata a Kiev e morta a Torre Pellice, artista di fama che sposa il marsalese Tommaso Giacalone Monaco ed alla quale viene offerta la possibilità di allestire una mostra nella cittàlilibetana. L’avvenimento è ricordato da uno scritto di Gaspare Li Causi nell’“Itinerario umano ed artistico di Germana Parnykel”. La rivista riporta in bianco e nero alcune tele esposte in quell’occasione. 

Trova spazio con un articolo di Donato Accodo l’opera pittorica di Emilio Guaschino che “sulla scia della matrice guttusiana racchiude, nelle sue tele, storie della sua terra, con un’attenzione particolare alle tematiche vicine alla condizione del bracciantato siciliano”. 

Ma, ancora, la rivista presenta le opere di Antonello da Messina, Morandi, Marcucci, Milluzzo, La Scola, 

Laura Cutuli, Mario Tornello e tanti altri di rinomanza internazionale. 

La poesia ha trovato sempre spazio nella rivista che ha riportato testi di autori italiani e stranieri. Questi ultimi andrebbero sistematicamente tradotti perché i lettori ne colgano i contenuti ed i valori. Ma questo già si sta facendo con i poeti di lingua portoghese e latina. 

Le schede di recensione degli ultimi anni hanno presentato ai lettori un numero rilevante di testi costituendo un vero serbatoio di contenuti e di stimoli per chi alla lettura voglia approcciarsi. 

Anche la veste tipografica ha subito una positiva evoluzione passando dal monocromatismo dei primi anni alla quadricromia degli ultimi. 

Vorrei evidenziare, a questo punto, la copertina dei primi numeri raffigurante, a mio avviso, una strada lastricata convergente in un punto di fuga, “spiraglio” appunto, e contenente delle figure solide che, sempre a mio avviso, possono benissimo starci con i solidi propositi di chi sa di dover trattare argomenti rilevanti ed impegnativi allo stesso tempo. Le modifiche alla copertina, che hanno portato alla quadricromia, ritengo non siano state dettate da un puro fine estetico e che siano, invece, testimonianza del successo della rivista e della colorita soddisfazione che essa ha dato al suo direttore e all’intero gruppo di redazione. 

Mi piace, infine, evidenziare come la rivista “Spiragli” sia rimasta fedele alle sue promesse iniziali, cioè quelle di dare spazio a tutti coloro che avessero da esprimere il proprio pensiero nella massima libertà. 

Mi sia concesso, però di chiudere questo mio intervento, rivolgendo un ringraziamento ed un augurio affettuoso al mio amico Totò Vecchio, compagno di liceo e di università lui palmese di Palma di Montechiaro, io favarese di Favara, ambedue di quell’agrigentino non sempre sulle cronache per positività ma in grado di esprimere, in ogni tempo, filosofi, scrittori di talento da Empedocle a Pirandello, a Sciascia, a Russello, a Camilleri e tanti altri. 

Totò Vecchio, dicevamo, che è stato della rivista “Spiragli” ideatore e, a tutt’oggi, direttore responsabile, è firmatario di articoli e saggi in ogni numero della rivista. A lui vanno i nostri ringraziamenti per tutto quello che, sin qui, abbiamo detto e per l’impegno costante profuso in tanti anni come docente, educatore e come coordinatore della rivista che comporta sacrifici e dedizione. La sua “dolce modestia” ne fa un uomo forte ed impegnato, sensibile ed attento verso i tanti problemi in generale e quelli del sociale e della letteratura in particolare. 

Leggerò parte di un suo articolo apparso in “Spiragli”, Anno I, n. 4 dell’ottobre-dicembre 1989, dedicato a Jerry Essan Masslo, da cui traspare tutta quella sensibilità delicatezza e, nello stesso tempo, forza che attribuiamo a Salvatore Vecchio. 

Jerry Essan Masslo fu uno dei tanti giovani provenienti dalla profonda Africa che giunto in Italia, a Villa Literno, in cerca di lavoro e riscatto, trovò invece, la morte. 

«Jerry, amico mio, perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità i giornali se ne sono occupati per un po’ a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre. Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano, che venga fuori a dir la tua? 

E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? 

Tu che eri desideroso solo di un po’di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’dio fratricida … 

Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. 

Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al Paese d’rigine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’stinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità. 

Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? 

Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa». 

Ho voluto leggere di proposito questo articolo, perché da esso viene fuori la sensibilità dell’uomo Salvatore Vecchio e per sottolineare come questa sua sensibilità abbia permeato, permei e continuerà a permeare, sono sicuro, non solo i suoi scritti ma anche l’intera impostazione della rivista. Lunga vita, quindi, a “Spiragli” e un affettuoso complimento a tutto il suo staff. 

Salvatore Valenti

Da “Spiragli”, anno XXII n.1, 2010, pagg. 4-8.




GIOVANNI MONTI, A due voci. Colloquio con il padre, collana «Poesia / Oggi», I.l.a. Palma, Palermo – Sao Paulo.

Giovanni Monti – La poetica dell’onirismo 

Ecco un nuovo libro di versi di Giovanni Monti. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, vista la ponderosa produzione di Monti, i cui esordi letterari risalgono al 1962. E tuttavia, la pubblicazione di questo poemetto (A due voci Colloquio con il padre, Ila Palma Edizioni) va rimarcata per motivi sia formali che contenutistici, che danno all’opera caratteristiche peculiari e specialissime. 

Attraverso stilemi pseudo-narrativi, Giovanni Monti affronta il tema onirico del dialogo col padre morto (di cancro, ma poco importa). Si tratta di un onirismo di specie particolare, il cui compito è di coagulare gli aspetti della realtà attraverso la sua deformaz.ione. Nel quadro onirico prendono sostanza le immagini di una quotidianità filtrata dal ricordo. Tutto ciò consente al poeta di riattraversare il racconto della propria vita e di quella del padre, evitando il rischio dell’elegia e lasciandosi anche imprigionare dal suo mondo tutto kafkiano. Come? Attraverso una serie di espedienti ritmici (il nonario che inframmezza l’endecasillabo), che sostengono i due interlocutori immaginari del poemetto, che monologano quando sembrano dialogare e viceversa. Per questa via, l’autore ottiene un duplice risultato: far prendere alla lettera quello che si dice e dare nello stesso tempo la sensazione che di quello che si dice niente è vero, perché tutto è soltanto visione o follia. 

La grande novità di quest’ultimo Monti è la creazione di un verso assolutamente postermetico, colloquiale e teatrale, cantabile e ripetibile, privo di enfasi (o, peggio, di sentimentalismo). Un verso capace di trasformare l’introspezione in figure aggettanti, i grovigli emotivi in ingorghi dialogici e di rovesciare, l’uno nell’altro, il monologo e il dialogo. Eppure, Giovanni Monti è di formazione ermetica. I suoi maestri dichiarati sono Ungaretti e Montale, Verlaine e Rimbaud. Mai un tradimento aveva dato frutti tanto succulenti. 

Giovanni Monti appartiene a una generazione di poeti che ha saputo fare dell’amore e della morte i temi dominanti della propria poesia. E la morte è la presenza costante di questo poemetto (ed è davvero aderente la citazione, in prolepsis, da Discussione sul ponte di Giovanni Raboni). 

Per non essere complice della realtà, il poeta adotta un’ottica mortuaria. D’altronde, la morte ha sempre reso bene in moneta lirica. Però si guardava alla morte dalla parte dei vivi. Monti la guarda dalla parte dei morti. E fa parlare il padre morto; gli fa narrare le sue angosce e le sue ansie di uomo che forse ha scelto di morire per meglio comprendere le cose del mondo; o forse è morto contro ogni sua volontà perché un dio infame l’ha deciso. Solo Edgar Lee Masters ha saputo fare altrettanto. 

Ben vero, non sappiamo se questo A due voci sia una svolta nella produzione poetica di Giovanni Monti a quasi mezzo secolo dal suo debutto e superati i sessant’anni. Ci sembra, comunque di potere affermare che questo poemetto ha un tono tuttaffatto diverso dalle precedenti opere poetiche di Monti (una trentina) e che esso apre la strada a ulteriori, imprevedibili sviluppi. 

Luigi Vajola

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 55-56.




A futura memoria – Letteratura come vita.  Ricordo di Nino Tripodi 

Il romanzo di Francesco Grisi A futura memoria (edito dalla “Newton Compton” nel 1986, finalista al premio “Strega” con quattro edizioni) , sarà pubblicato nei “tascabili-economici” in Germania e in Italia. 

Per l’occasione siamo’ lieti di fare conoscere un breve saggio-recensione inedito di Nino Tripodi scritto pochi giorni prima di morire il 22 luglio 1988. 

Si tratta di una riflessione che prende avvio dal romanzo di Francesco Grisi e propone una visione della letteratura come problematica creativa. C’è nello scritto di Tripodi la cosiddetta “immaginazione teologica” che faceva da guida alla vasta cultura del politico e dello storico. 

L’articolo lo pubblichiamo per ricordare il Tripodi, scrittore, docente universitario, deputato e letterato. 

Il volume che diede al Tripodi popolarità ha come titolo Intellettuali sotto due bandiere. L’ultimo è una raccolta di novelle: Nuvole e simboli, del 1988. 

* * * 

“La ragione non è stata più sufficiente per capire la vita”: questo concetto conclude il libro che Francesco Grisi, con il titolo A futura memoria, ha recentemente pubblicato e che, allo “Strega” si è affermato al terzo posto, con uno scarto di appena qualche voto dal secondo. Il concetto – già del vecchio Shakespeare (“ci sono più cose al mondo di quanto non pensi la vostra filosofia”), anzi del tutto dell’antichissima saggezza latina (“cave a consequentiariis”) – è anche un po’ il filo conduttore del romanzo. Ma il libro è proprio un romanzo? O non piuttosto un riflessivo saggio intercalato, in apertura e in chiusura, dalla brillante inventiva d’arte con la quale Grisi narra la parentesi esistenziale del suo inquieto personaggio? 

Saggio o romanzo, nelle sue pagine la vita è avvolta nel velario del mistero. Per penetrarne il segreto, le simmetrie dei principi o la dialettica dell’ordine dello spirito, spiega il reale e guida il mondo. La fede rompe le tavole della ragione. Maria di Nazareth, non ricordo più in quale canto dantesco, suggerisce pacatamente alla “umana gente” di stare “contenta al quia”, cioè di fermarsi al poco che sa. 

Ma non è che ragionare sia superfluo o vano. Basta capire che i concetti nati dalle pur necessarie procedure logiche non chiariscono tutto. In fondo ad esse resta sempre una porta chiusa sulla quale i credenti scrivono la parola “Dio”. Se Grisi, ambiziosamente, tenta di forzarla attraverso le ramificazioni della fede. riesce appena a scorgere il sottile spiraglio che illumina l’anima e accompagna il disperato e disperante viaggio dell’esistenza. Come nella raffigurazione romanzata della madre di Maria, sottrattasi al mondo sotto il saio monacale della clausura. 

Il convegno narrativo – ed è qui l’arte di Grisi – consiste nel contrapporre un modernissimo personaggio piuttosto stravagante o del tutto schizofrenico come il suo Giovanni ai trapassati e rassegnati estensori dei vangeli cristiani. Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno tramandato quattro lettere indirizzate all’apostolo Filippo. “a futura memoria” per spiegare ai posteri le pieghe segrete dei loro racconti, che fanno testo nel Nuovo Testamento. Le lettere giungono, come che sia, a un santone integralista, Armageddo, che a sua volta le affida al protagonista del romanzo. mentre costui, in veste giornalistica, se ne va peregrinando tra guerriglieri e terroristi islamici. Le lettere a Filippo rappresentano la vita di Gesù secondo le testimonianze e i diversi disegni dei quattro evangelisti. E sono quattro modi. utili a ognuno, per intendere il messaggio lasciatoci da nostro Signore. quasi predizione della vocazione ecumenica soprattutto oggi avvertita dalla Chiesa di Giovanni Paolo II. 

Matteo è il più ebreo; accentua l’estrazione ebraica del Nazareno; avvalora la possibilità del cristianesimo di vivere nella legge giudaica, in attesa del Regno. Marco si libera invece dalla ritualità israelitica, distingue il cristianesimo dal giudaismo, e, poiché vive a Roma, tenta di dare alla perseguitata religione di Gesù il supporto del potere romano: il centurione, sotto la Croce, simboleggia il riconoscimento del figlio di Dio da parte dell’Urbe universa; storicamente, è Marco che vince. Luca non ha cure temporali; per lui solo la fede è salvifica, le istituzioni sono il segno terreno della caduta; in Luca è la chiesa del futuro. Giovanni è l’apostolo prediletto, al punto che il Messia gli affida sua madre prima di morire; Giovanni è “l’utopia amore” disegna il Maestro come il vertice della tradizione esoterica degli esseni, della contemplazione ellenica e del simbolismo orientale: Gesù è “il profeta e il compimento”. 

La traduzione di queste quattro arcaiche missive costituisce una documentazione sagace per gli studiosi e una piana, persuasiva informazione per i comuni lettori. Occupando per altro la parte centrale del libro, ne lievita la valenza sotto il profilo saggistico. 

Narrativamente, la comparazione del mondo evangelico con l’odierna esperienza quotidiana scava un distacco abissale. Si potrebbe congetturare una polivalenza di abitudini espressive, un Grisi uno e due, la coesistenza del Grisi immaginifico col Grisi raziocinante, lo sdoppiamento insomma di uno scrittore tra spregiudicatezza e conformismo, modernità e tradizionalismo. Forse però il conflitto da nient’altro discende che dall’antitesi voluta per separare stilisticamente e antropologicamente due linguaggi: l’uno insaziato, spesso sconnesso e morboso del giovane Giovanni, errabondo tra la ragione che non appaga e la fede che non lo redime; l’altro iniziatico, convinto, controllato, dei quattro evangelisti. “Narrare è cosa diversa che scrivere un romanzo”, fa dire Grisi al Giovanni evangelista; e lo convalida col “romanzare” egli stesso i discorsi del protagonista e col “narrare” le lettere a Filippo degli evangelisti. La narrazione, chiarisce, è completamento della storta “in un quadro dove trovano accoglienza i racconti, le allegorie, le meditazioni e le emozioni come simboli della eternità dei tempi e non della cronaca”. 

Data la sacralità del tema in discussione, la trama libresca non coinvolge però solo la storta che ha dimensione umana e terrena, ma anche la teologia che è divina e trascendente. Le tesi con le quali Grisi fa giustificare dagli evangelisti le loro nozioni sulla vita di Gesù rasentano talvolta l’eresia. Quando Marco parla dell’ “ipotesi” del suo vangelo, e di essere stato “costretto”, nonostante le sue “perplessità”, a inserire a motivare a modo suo il pagamento del trtbuto a Cesare, di avere cioè architettato una “messinscena” per accattivarsi la benevolenza di Roma, vulnera un precetto della parlata dei credenti che, quando dicono “è vangelo”, intendono sottolineare l’inconfutabilità di un fatto. Che vangeli sarebbero mai questi se la loro stesura fu forzata dalla necessità di ricorrere a un’ipotesi, o, peggio, a una sceneggiata? 

Però anche questo scoglio, al giorno d’oggi, è superabile. Non si va parlando di “immaginazione teologica” come stampella della fede e perciò a fin di bene? Dunque la questione sarebbe risolta. E Grisi può fare recitare al tormentato 

Marco, magari ovattando la zampata del leone, che pure è il suo simbolo: “Tu mi dirai che ho ingannato i lettori. E posso darti anche ragione. Ma che cosa mi restava da fare? La mia comunità romana dovrà trovare nell’impero romano le strutture per raggiungere tutti i popoli civili e convertirli. E, allora, potevo io impedire questo grande disegno, raccontando, a proposito del tributo quello che veramente Gesù pensava? .. Ho agito nella convinzione di servire nostro Signore… Ho scritto questa mia ipotesi di vangelo per il domani, convinto che solamente dalla collaborazione tra Chiesa e Impero romano potrà nascere qualcosa per il futuro”. 

Sì, è vero, canterà molto più tardi Carducci, recIiminando: “son chiesa e impero una ruina mesta”. Ma nei secoli antichi Marco non poteva conoscere gli esiti esiziali di certe collaborazioni debordate dalla donazione di Pipino il Breve alle pastoie del diritto concordatario, senza citare fra Dolcino e i roghi dell’Inquisizione. 

Grisi ha scritto un libro non solo intelligente, ma coraggioso. Libro che induce a riflettere, sia prima di dargli ragione che di dargli torto. La provocazione è nelle pagine nelle quali l’Autore si cala nell’interpretazione del personaggio fino a tradurne nel lessico le frantumate espressioni del pensiero; e lo è nell’evidente contrasto con il fluido e agevole discorrere degli apostoli. Lo è anche nell’ammettere la contraffazione delle lettere a Filippo, sapendo che ciò accresce l’interesse per il saggio ridivenuto romanzo. Vero o non vero Grisi riprende dal teatro lo spettro della verità: “La vita è la verità che noi crediamo”. Come Pirandello, per la verità: “lo sono colei che non si crede”. Ma Grisi rincara: “I vangeli non sono anche romanzo? E i romanzi non sono frammenti di verità?”. 

Tutto è relativo. Non resta che rompere gli argini della ragione. Ma è il guado ribollente della fantasia che preoccupa, forse più delle acque gelide della ragione. A meno che la fede non venga a salvarci dalle insidie dell’immaginario. 

Nino Tripodi 

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 54-57.




Un cherubino a Parigi

Quasi un racconto di Mario Tornello 

Dalla notissima Place Pigalle di Parigi sale una via tortuosa; è Rue Lepic che conduce a Montmartre, il quartiere degli artisti dove la musica, la letteratura e la pittura coabitano. 

La place du Tertre è il punto focale di incontro di artisti da strapazzo in cerca di gloria radicati con i loro cavalletti e dipinti tra gli stentati alberi della piazzetta. «Au pichet du tertre» è uno dei ritrovi di questa gente squattrinata in cerca di caiore umano e, d’inverno, di quello fisico dove dinanzi ad un bicchiere d’assenzio pare scompaia il disagio esistenziale di chi lotta per sopravvivere sulle orme sbiadite di quei pittori che lì posero le basi dell’impressionismo. 

Il fumoso locale è letteralmente tappezzato di dipinti di artisti che hanno saldato così un lungo conto sospeso con il proprietario del locale. E sono tante quelle opere che ad occhi in su è possibile ammirare sospese al soffitto, rivolte verso il basso e trattenute da opportuni sostegni. 

Tanti artisti, Manet, Seurat, Monet, Tolouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Matisse e l’epigono Utrillo, vissero parte della loro vita in questo quartiere, attratti dal suo fascino particolare, dove numerose gallerie d’arte odorano di vernici e resine delle opere esposte. 

La breve rue Norvins·offre una visione ormai classica, infiorata com’è, a distanza, dalle imponenti bianche cupole del Sacre Coeur. Non c’è pittore che non ne sia rimasto ammaliato e non l’ abbia ritratta. 

Rue Rustique, la parallela, accoglie nelle sue mansarde quegli artisti squattrinati che vivono la loro bohème tra esaltazione e sconforto, tra idealismo esasperato e vicissitudine umana. I suoi lampioni, a sera, diffondono una luce che, giungendo fioca in alto, spande una luminescenza d’alba alle finestre degli studi. 

Le vecchie librerie d’antiquariato, internate negli stretti vicoli, espongono delizie grafiche di altri tempi: incisioni e volumi che, pur a prezzo sostenuto, hanno un vivace mercato, e cultori d’ogni paese vi trascorrono intere ore alla ricerca della rarità da altri non notata. 

«Le lapin agile», «Le moulin de la Gallette» e «Le moulin rouge», vicini l’un l’altro, sono luoghi che hanno consegnato alla narrativa dell ‘ arte vizi e virtù, baldoria effervescente e storie umane esasperate vissute tra interminabili discussioni. 

Quell’animata vita artistica è scomparsa quasi del tutto, e ad essa se n’è sovrapposta un’altra dai valori meno radicati, superficiali, con la prospettiva unica della resa economica in vista dell’afflusso turistico. Non c’è più un Modigliani con le sue donne e la poetessa russa Anna Akhmatova ritratta in nudi memorabili; ora non tracanna più assenzio e non assume stupefacenti alla ricerca elegiaca della poesia interiore; né c’è più de Chirico che per la sua presunzione esasperante le prendeva da Picasso irritabile. 

Ben altri tempi e personalità si sono sovrapposti con diverso marchio. Gli anni Cinquanta a Montmartre, tranne che per Bernard Buffet, non sono rimasti nella storia dell’Arte. Non hanno segnato un periodo di fertilità figurativa, cosicché quel quartiere oggi sembra spento. 

Gli artisti si sono dispersi tra i vecchi edifici di Montparnasse dai muri su cui campeggiano ancora pubblicità e scritte ottocentesche, tra boulevard Saint Michel e il boulevard Raspail, tra il «Café de la cupole» e il «Procope», dove Sartre e Simone de Bouvoir, nonché Prèvert e la Greco, attorniati da altri intellettuali di quegli anni, posero le basi dell’ esistenzialismo. 

Il «Café Procope», dove alla fine del XVIII secolo nacque il gelato per genialità del palermitano Procopio dei Coltelli, è ancora un ritrovo di intellettuali di ogni lingua. Qui e alla «Cupole», come alla «Rotonde», negli anni ’20 Modigliani ed altri non lesinavano di ritrarre qualche avventore annoiato. 

Su tali orme vagheggiò, ai primi anni ’50, un giovane artista siciliano, Placido Marino, attratto da tanto nome. Si stabilì sulla collina dei Martiri per il fascino particolare e la tanta storia che vi era trascorsa, a partire da George Michel a Coro t, da Gericault a Louis Daguerre, il pioniere della fotografia, da Berlioz a Chopin, da Franz Liszt a Eugene Sue, autore del popolarissimo I misteri di Parigi, fino a Susanne Valadon, madre di Maurice Utrillo. 

Marino, presa in affitto una mansarda sui tetti di rue Rustique, vi alloggiò con idee non tanto chiare. Ebbe bisogno di riequilibrare i suoi pensieri, mentre scopriva il quartiere e la sua gente. Passò più di un mese da solo a confrontare idealmente le proprie concezioni pittoriche con quelle esposte nelle gallerie. Cercò pure un volto compiacente tra i tanti anonimi a conforto del suo iniziale scoramento. La tasca gli cantava per le regalìe di parenti e amici che avevano creduto in lui, e quel periodo di ambientamento, data la primavera avanzata, gli servì per osservare con attenzione l’ umanità che vi risiedeva e allo stesso tempo vagliare le possibilità di affermazione che vi si sarebbero potute prospettare. 

Una sera al «Pichet du tertre» si specchiò negli occhi di Angela Paraiso, una bella ragazza portoghese dai capelli “orvini e il viso ambrato. Poche parole valsero a leggersi l’anima, scoprendo lentamente che si erano cercati senza saperlo: lei raffinata, in figura esile, di eleganza naturale, orgogliosa come rosa sullo stelo con un innato senso di protezione; lui alto, scattante, pervaso da un’ansia palpitante di cavallo di razza mitigata da un’ apparenza rassicurante che celava una fragilità nervosa. 

Bastò una sera fitta di rispettive rivelazioni e gli animi furono scorticati in una confessione catartica. Si attrassero come chiodi alla calamita e furono giorni vòlti alla scoperta di sé, pervasi dalla stessa frenesia del vivere: messe insieme le scarse finanze, unirono anche i loro destini: lui in cerca del suo fazzoletto di notorietà, lei votata a mostrarsi, a bussare alle case di Moda di Montparnasse per sfilare in passerella. 

A place du Tertre il turista sbadato si soffermava curioso tra i cavalletti dei pittori e la rara opera venduta permetteva all’autore un pasto caldo ed un bicchiere di quell’anice sciolto in poca acqua che, ravvivando lo spirito, stimolava la creatività, si diceva. 

Nella mansarda dei due innamorati, d’inverno, il gelo era sovrano, cosicché qualche volta capitò loro di coricarsi vestiti tra le due coperte che possedevano. Il fornellino elettrico contribuiva a mantenere un minimo di tepore in quel nido e spesso si addormentavano abbracciati per darsi reciproco calore, mentre i lampioni da giù spandevano nella misera stanza un alone che giungeva loro come l’aurora primordiale che avvolse la terra agli albori. Eppure, d’estate, da quelletto al buio, spesso s’intravedeva il sorriso di una luna compiacente a conforto della loro indigenza. 

Credendo fermamente nel proprio talento artistico, Placido continuava a proporre ai mercanti d’arte di Montmartre una pittura che, esulando da quella vilmente commerciale, aveva tutti i numeri per affermarsi, e fu in tale rovinìo 

spirituale che assistette incredulo ad un evento inaspettato: un suo corregionale, artista anch’egli in cerca di notorietà, ebbe la casuale idea di dipingere un volto di bimbo, dolcissimo in verità, che gli spalancò d’improvviso le porte del mercato di Montmartre. Le ordinazioni gli fioccarono al punto da essere imitato da altri con uguale fortuna. 

Placido se ne avvilì e, seppure sollecitato, non volle concorrere a firmare analoga pittura come souvenir parigino. Ne fu sconvolto, ma continuò a percorrere con tenacia il binario della sua ispirazione su cui aveva adagiato i suoi soggetti. Lo sconforto lo avvolgeva e fu sul punto di abbandonarsi alla tentazione di lasciare il campo, pur conscio di dover affrontare il ludibrio di quanti avevano creduto in lui. Resistette e non volle svilire la sua pittura, anche se pressato da un’indigenza sempre più manifesta, e proseguì con la sua voce artistica inascoltata. Continuò a dipingere con il cuore i suoi paesaggi lontani, assolati, visti in un inno evocativo intriso di nostalgia per quella natura che lo aveva allevato, esaltandone persino le dune di torrida sabbia, in riva ad un mare maestoso, infiorate di fichi nani dal frutto mielato e di ginestre fragranti che concorrevano nei giorni uggiosi a lenire la tristezza. 

Quella vita stentata tra ristrettezze economiche e il rifiuto sistematico delle gallerie li portò presto a frequentare all’alba con altri artisti i Mercati Generali «Les Halles», dove, raccattando resti di ortaggi, realizzavano una calda minestra con la mente rivolta ai pranzi domenicali nel calore delle famiglie di provenienza. 

Angela era attratta dall’ artista di cui, in certe espressioni dialettali, coglieva assonanze con la sua lingua d’origine, al punto di percepirne il senso e ciò la legava di più a quella personalità scontrosa, pronta ad un’amara autoironia. Percepiva nei confronti di Placido vibrazioni d’anima mai provate e, invaghendosene sempre più, sentiva germogliare dentro l’idea sommersa di dover provvedere alla sua protezione, date le prime manifestazioni di una insofferenza fisica accresciuta da una macerazione d’anima. 

Placido si accaniva a dipingere per gionate intere, in un’euforia sfrenata, paesaggi evocati dai nudi di Angela, passando, poi, d’improvviso a giornate cariche di un’angoscia introspettiva in cui ammutoliva pervaso da un’abulia che non permetteva alla mano di accompagnarsi al pensiero creativo. Accadde che nel trascorrere di pochi anni, tra sbalzi di umori ed intime macerazioni, il fisico di Placido tendesse all’esaurimento delle energie vitali insieme ad una opacità mentale. 

Un mattino Angela ebbe chiara la sua missione terrena: appena desta da un sonno profondo costellato di sogni nebulosi premonitori di qualcosa che ritenne nefasto, avvertì su di sé, all’altezza delle scapole, due escrescenze cartilaginose dalla vaga sembianza di ali. Sorpresa e incuriosita si alzò di scatto, volgendosi al frammento di specchio alla parete dove il suo viso s’ illuminò di un radioso sorriso per ciò che scoprì, indicandole chiaramente la promozione, tanto attesa, a cherubino. Tale la felicità che, fremente, non resistette a svegliare Placido, il quale, ancora tra le braccia di Morfeo, a sguardo spento, mostrò un vago interesse per l’eclatante novità fuori da ogni immaginazione. 

Montmartre fu scossa da quella notizia e sembrò rianimarsi dal suo torpore. Gli scettici, e furono tanti, incrociando Angela per le vie tendevano a toccare quelle ali già chiaramente manifeste; dopo che, scuotendo il capo e ritenendola una mistificatrice, si allontanavano, mentre lei, orgogliosa ed altera, proseguiva quasi levitando per il quartiere. 

Qualcuno arrivò a chiederle se non si fosse prestata per una trovata pubblicitaria; fu addirittura intervistata dal «Paris Macht», ma non volle definire i termini della sua missione terrena né l’origine di quelli ali; in sintesi, riferì soltanto del gran dono ricevuto. 

Il caso fu eclatante; un angelo o pseudo tale, a Montmartre e nel mondo intero, non si era mai visto né sognato. Quelle ali bianche, carezzevoli sulla sua persona, evocando quelle di una maestosa aquila o di certi dipinti rinascimentali, fecero scalpore. Altra stampa, anche straniera, si occupò del caso, che ben presto, superata la novità dell’accadimento, fu dimenticato restando nella memoria di quel quartiere. Ed Angela s’inserì come personaggio in perfetta sintonia con le stravaganze tipiche del luogo. 

Placido iniziava ad avvertire i sintomi di una grave sofferenza fisica che minandolo di giorno in giorno ne consumavano le energie vitali, ma con fermezza continuava a rifiutare il ricovero in ospedale, desideroso soltanto di avere accanto a sé il suo angelo custode, come era solito chiamarla, a conforto dei penosi giorni che gli si prospettavano. Morì all’alba di un livido mattino d’autunno, dopo aver chiesto di baciare la mano del suo cherubino. Il trapasso avvenne nell’alone di luce dei lampioni di rue Rustique. Angela Paraiso, al dolore di quella scomparsa silenziosamente sofferta, associò la conclusione della sua missione terrena. Assorta in tale riflessione le sembrò d’improvviso di cogliere un frullare d’ali alla finestra; due colombi s’erano posati lievi sulla cordicella per il bucato, rimanendo immobili rivolti verso l’interno di quel che era stato un nido, come a chiedere di trasportare le spoglie. Si era conclusa in quella misera stanza una vita di artista svenduta ad un amaro destino. 

Sette amici, un prete ed Angela l’accompagnarono all’ultima dimora nei pressi del cimitero degli animali. Sotto un velo di pioggia la breve cerimonia religiosa suggellò il funerale. Alla fine, quelle persone, salutata Angela, tornarono ai loro affanni quotidiani. Sulla tomba scavata nel prato restarono tre garofani ed Angela, pietrificata, chiusa come crisalide nelle sue ali. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 38 -41.




 Ddu paisi arruccatu 

 Ddu paisi arruccatu 

(A Salvatore Vecchio) 

Arrassu ri muntagni ri Palermu, 
arruccatu comu stidda ri carta, 
c’è un paisi chin’i suli 
chi tribbìa i so jurnati. 
Chianci, riri, 
si scuòtula, comu cani vagnatu, i so rulura 
e abbrazza ‘nta chiazza i picciotti allèiri. 
Si nni sta sulitariu comu gran signuri 
e ri drancàpu si nni pria ri so culura. 
“Saecula et saeculorum” 
hannu passatu supra r’iddu 
faciènnuni a so storia 
cu jurnati r’acitu e mieli; 
ma iddu è siempri ddà, 
tisu com’un picciuttieddu, 
mientri tanti figghi so, 
straminati munnu munnu 
pi circari u paraddisu, 
gira, vota e firrìa, 
vivi o muorti, hannu riturnatu ddà, 
‘nte so vrazza. 

 

Quel paese arroccato.
Distante dalle montagne 
di Palermo, /arroccato come stella di carta,/ 
c’è un paese di sole/che miete le sue giornate./ 
Piange, ride,/rimuove, come cane bagnato, i 
suoi dolori/e raduna in piazza i giovani allegri./ 
Se ne sta solo come un gran signore/e dall’alto 
si rallegra dei suoi colori. /”Saecula et 
saeculorum”/ sono passati sopra di lui!scrivendo 
la sua storia/con giornate di aceto e miele;/ma 
lui è sempre là,/dritto come un giovanotto, 
mentre tanti figli suoi,/dispersi per ti mondo/ 
per cercare il paradiso,/gira, ruota e rigira,/vivi 
o morti, sono ritornati là,/tra le sue braccia.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 18.




 Natura come essenza d’arte 

I luoghi della memoria dove aleggiano i ricordi dei nostri padri hanno in sé quell’essenza religiosa che ci invita al raccoglimento e ci ammutolisce in riflessioni profonde. 

L’uomo antico, oltre al sole, ci ha lasciato in eredità i suoi paesaggi simbolici che, in terre perdute e lontane, contengono messaggi misteriosi. Singolari rovine, sconcertanti solchi ed iscrizioni sul terreno, operati da una maxicalligrafia fantasiosa, visibili soltanto da un aereo in volo, sono i luoghi sacri dove egli cercava la comunione con il soprannaturale. Certamente elevava inni suonando rozzi strumenti d’osso e canna e percuotendo pelli distese: il luogo avrà avuto risuonanza particolare perché essa si elevasse senza echi. 

Oggi, le imponenti pietre di Stonehenge o gli immensi disegni del deserto di Nazca in Perù o, ancora, i monoliti scultorei dell’isola di Pasqua, sono i luoghi dove senti vibrare una tensione religiosa a testimonianza di una sacrale vitalità passata. 

Il monolito, in particolare, è una tra le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade. 

Isolato o aggregato in file lunghissime, come nei viali megalitici di Camac resta il segno tangibile delle fatiche immani e del tempo spesi dall’uomo per ingraziarsi l’Altissimo. 

E fatto religioso è sembrato il mio causale ritrovamento di un monolito, quale scoglio perduto, del peso di circa tre tonnellate dai chiari connotati artistici per le sue sembianze antropomorfe che da una discarica al bordo stradale di una via secondaria nel trapanese mi è apparso emergente tra massi informi. Calamitato il mio interesse e provveduto a farlo districare, mediante una potente gru, da quanto gli si sovrapponeva, d’improvviso si è stampato nell’indaco del cielo mentre roteava lentamente su se stesso a mostrarsi come creatura nascente dal grembo della grande madre natura. 

Il richiamo mentale immediato agli «uomini di pietra», tema ricorrente da decenni nella mia pittura e l’emozione di veder materializzata la visione dei miei uomini della fantasia hanno reso indimenticabile quel momento di grande suggestione. 

Tale «opera d’arte della natura» figliata da un terreno su cui si accanisce la speculazione edilizia. porta in sé il martirio delle onde marine che per millenni hanno scavato ed eroso la sua superficie in modo assai singolare. Numerose conchiglie fossili. infatti. lo testimoniano. Le sue cavità, di diversa profondità e larghezza, alcune attraversate dalla luce. appaiono come parti segrete messe in evidenza dalle rifrazioni solari che nel volgere del giorno creano su di esso inattesi volumi. 

Effettuati gli opportuni interventi manuali, come per purificarlo dal liquido amniotico che lo avvolgeva, ho provveduto ad elogiarlo come opera d’arte sistemandolo in un residence Club di Campobello di Mazara, dove ero ospite. 

La natura si esprime con linguaggio muto e sarebbe doveroso saperla leggere. Essa appare solenne a chi ne sa cogliere il senso misterioso oppure umile a chi guarda e non vede. 

È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro. 

Il monolito e il menhir recano in sé i segni decifrabili dell’uomo mentre la pietra che reca naturalmente i segni della lontananza dei millenni ci si mostra come vivido messaggio artistico della natura. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 43-44.




 I 30 ANNI DELL’ACCADEMIA SICULO-NORMANNA  di PALERMO E MONREALE 

L’Accademia Siculo-Normanna di Palermo e Monreale ha festeggiato il suo 30° anno di attività. Un traguardo al quale il benemerito sodalizio presieduto dal prof. Pino Giacopelli è giunto avvalendosi di studiosi e di esperti di chiara fama, aprendosi al dialogo fra civiltà e culture diverse, coniugando le ragioni della storia e dell’arte con quelle della società, contribuendo in tal modo a sviluppare le potenzialità positive esistenti nella realtà siciliana. I suoi programmi mirano, infatti, a valorizzare l’opera di quanti concorrono al progresso e alla elevazione civile e morale della società, all’affermazione della libertà, della democrazia e della legalità. 

La qualità e la quantità dei Riconoscimenti assegnati dal Senato Accademico in questi 30 anni ad eminenti personalità della cultura, della scienza, dell’ arte e delle professioni con il Premio di Cultura Città di Monreale (alla sua XV edizione) e con il conferimento del Diploma di Accademico Honoris Causa, evidenziano soprattutto la ricchezza ed il fermento del panorama della nostra Isola la quale, se da un lato presenta ancora fenomeni di imbarbarimento, come la mafia che insulta la civiltà, dall’ altro rivela la capacità del nostro popolo a sapere reagire e a portare avanti quel processo di liberazione che agisce in tempi lunghi, ma che (a cura di S. Marotta). ha cominciato a dare risultati significati vi tali da fare immaginare l’avvento di un nuovo Rinascimento. 

Non a caso Pino Giacopelli ama ripetere che l’Istituto Accademico, da lui presieduto, si propone di operare nello spirito delle gloriose Accademie del Rinascimento che, oltre ad essere fucine di arte e di pensiero originali, furono anche innovative ed oppositive. In ogni caso la funzione del sodalizio monrealese non avrebbe potuto avere una funzione di mera conservazione della memoria del passato. Da qui anche la continua ricerca e la realizzazione di rapporti di collaborazione e di cooperazione con Università, istituzioni scolastiche e centri culturali, italiani e stranieri, ed il farsi strumento privilegiato per esercitare quel ministero di verità che è proprio della cultura. 

In occasione della ricorrenza trentennale che si è svolta nell’aula magna del Palazzo Sora a Roma (via Vittorio Emanuele 2 17), è stato conferito il Diploma Honoris Causa al pittore Ugo Attardi, al presentatore della Rai-Tv Pippo Baudo, alla giornali sta Franca Calzavacca, alla poetessa Miranda Clementoni, al diplomatico Antonella Colonna, al pittore Fabrice de Nola, allo scrittore Melo Freni , all ‘ incisore Pippo Gambino, alla poetessa Maria Grazia Lenisa, al critico d’arte Angelo Lippo, al poeta Dante Maffia, al prof. Francesco Mercadante, al giornali sta Vito Sansone. 

Ma la ricorrenza dei 30 anni di attività dell’Accademia, piuttosto che momento di celebrazione, è stata anche occasione di riflessione. Una riflessione iniziata cinque anni fa con l’aggiornamento dello statuto, nel quale si è stabilito, tra l’ altro, che l’Accademia non può superare i 199 membri (è diventata, cioè, a numero chiuso). Tant’è che dal 1974 ad oggi gli accademici italiani “viventi” sono soltanto 

183. Molte, in questo trentennio, le personalità venute da ogni latitudine a ritirare il Premio di Cultura e/o il Diploma Honoris Causa: dalla Francia al Belgio, alla Spagna, alla Germania; dal Kossovo al Perù, alla Bolivia, al Kenia; dagli Stati Uniti al Giappone, alla Russia, alla Georgia; dalla Cina al Brasile; dalla Siria alla Tunisia, a Israele. Per fare soltanto qualche citazione, fra gli stranieri, ricordiamo Rafael Alberti, Eugenij Evtuskenko, Irina Baranchèeva, Dominique Fernandez, Andrée Chouraqui, HisiaoChin, Micha Van Hoecke, Jean-Paul De Nola e fra gli italiani Consolo, Bonaviri, Bufalino, Vasile, Collura, Gioacchino Lanza Tomasi, Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Gina Lagorio, Stefano Zecchi, Renato Civello, Giuseppe Quatriglio, Franco Buffoni, Tullio Tentori, Antonino Zichichi, Renato Guttuso, Bruno Caruso, Alfredo Muzio, Maurizio De Simone, Francesca di Carpinello, Carla Tatò, Carlo Quartucci, Paolo Borsellino, Pietro Grasso, Salvatore Vecchio, l’ex Comandante Gen. dell’Arma dei Cc. Gen. Umberto Cappuzzo, il Commissario straordinario del Governo dei beni confiscati ad organizzazioni criminali dott. Margherita Vallefuoco e lo scrivente. 

Mario Tornello




Un melanconico ottimismo 

Una “svolta” nella produzione letteraria di Romano Cammarata segna il breve romanzo Violenza, oh cara, apparso nel 1986. Dalle pagine autobiografiche Dal buio della notte, dalla raccolta poetica Per dare colore al tempo, trascrizione lirica del primo libro, egli approda, così, alla narrativa. 

La vicenda è collocata in una città anonima: Agostino Bertoni, un onesto pensionato, benché innocente, viene coinvolto in una vicenda giudiziaria, perché assurdamente accusato di essere stato complice di un sequestro di persona. Convinto di subire una violenza dalla giustizia (oltre a quella già subita dalla vita, con la morte della moglie che lo ha costretto a vivere in solitudine, con la compagnia di una cagnetta bastarda) rifiuta di difendersi e di collaborare col giudice che lo accusa; a costui, anzi, chiede di provare la sua innocenza. (Alla violenza del destino, che gli ha tolto la moglie, egli non ha saputo ribellarsi, si ribella, ora, alla violenza degli uomini, a suo modo.) 

Nella narrazione si inseriscono, intanto, vari personaggi; i quali, attraverso un inquieto, imprevedibile dipanarsi di eventi, tutti legati alla violenza, contribuiscono a sciogliere l’intreccio dell’azione con una soluzione inattesa. 

La trama del libro, quindi, è innestata sul motivo della “violenza” che si insinua in modo imprevedibile nelle cose degli uomini, e agisce su di esse, manovrandole e pilotandole oltre la difension di senni umani: sicché tutti i personaggi del romanzo sono costretti a subirne le conseguenze, da cui altrettanto impreviste, spuntano grossi risvolti positivi: è un incessante alternarsi di sfiducia, e fiducia, col susseguirsi di eventi lieti, che alla fine rendono più accettabile la violenza stessa, cara, che sia o che sembri tale. 

Il racconto è, dunque, una variata e talvolta allucinante meditazione sulla collocazione esistenziale dell’uomo, esposto ai colpi della violenza, ma serpeggia nelle pieghe della narrazione un’intima sofferenza, sfuggente e inquietante, che consente tuttavia di cogliere bene il giudizio dell’autore, sospeso fra pessimismo e ottimismo, perché questi atteggiamenti, eterni in quanto appartengono all’uomo, coesistono nel libro, senza che l’uno prevalga sull’altro, determinando sfiducie e fiducia; sicché anche il “lieto fine” è avvolto da una malinconia – appena un’ombra – : quella “felicità”, raggiunta dopo tante dolorose esperienze, ha in fondo la sua radice nella “violenza”, che può sempre riprendersi quello che, attraverso l’intrecciarsi di tanti avvenimenti, ha elargito. 

Le meditazioni di Agostino, dopo la raggiunta “felicità”, sono illuminanti: «… oggi comincia un giorno nuovo; quello tanto atteso; nascono altri interessi intessuti di motivi profondi. 

Ma non può non ricordare gli avvenimenti che, indirettamente, ora, gli consentono di recuperare la vita, la gioia di vivere. 

Eppure sono stati avvenimenti che avevano tutti la radice della violenza: il suo arresto, e il carcere; Carlo con le sue tristi e dolorose esperienze che lo avevano fatto criminale; l’uccisione della guardia, marito di Sofia, caduto per compiere il proprio dovere. 

Ognuno di quegli episodi, per un misterioso gioco del destino, per un intrecciarsi di segreti disegni, si era congiunto con gli altri…»l. 

La “filosofia” di Agostino non è problematica: egli parla a se stesso con confidente abbandono e si esprime con brevi riflessioni, con semplicità tranquilla, quasi rassegnato all’ordine immutabile dell’esistenza, che egli accetta per quello che essa è, ma che pure guarda con anima poetica, per concludere che in fondo “tutto questo è bello”. 

In tutto il racconto si coglie l’intricarsi del rapporto tra l’autore-narratore-personaggio, ma talvolta il rapporto si pone in maniera gerarchica, nel senso che l’autore prevale, come quando, nel carcere Agostino è colto da un sonno ristoratore, che “arriva ad acquietare quel fiume di pensieri, di meditazioni”, per riportarlo, mediante il rifluire dei sogni, “in un mondo innocente, lontano, intimistico, di ragazzo che amava la solitudine, in continuo rapporto-dialogo con la natura, le cose”. In quella circostanza l’autore si stacca, quasi con delicatezza, dal suo personaggio per annotare: «Un sorriso lieve si è posato sulle labbra dell’uomo che dorme in una cella di isolamento di un carcere sprofondato nel buio della notte e del tempo»2. 

Oppure, quando, a fissare la monotonia logorante dei giorni trascorsi in cella, l’autore interviene direttamente nella narrazione, sostituendosi al personaggio: « Il tempo passa, i giorni si succedono ai giorni e tutti figli dello stesso padre, con gli stessi caratteri scontati, tanto che si poteva scommettere sul giorno dopo e sugli altri ancora»3. 

Altre volte la presenza dell’autore si avverte in maniera meno evidente, come quando si sofferma o indugia su notazioni naturalistiche che, improvvise, qua e là, affiorano per dare alla narrazione il tocco lieve di un colore, o per insinuare un attimo di pace o di “straniamento”; «… il cielo sereno, limpido e luminoso che prometteva una giornata di sole, i cui primi raggi, ancora obliqui al di là delle case di fronte, indoravano le cime di alcuni abeti cresciuti alti in una villa vicina». «La primavera era inoltrata e la natura splendeva partecipando alla nuova stagione, ammantandosi di verde e di luce». «Allora il cielo sembrava vicino, sulla collina, nel silenzio bello della natura. Il vento, col cambiare d’umore recava ora la resina pungente dei pini, ora la salsedine del mare vicino … Ma allora in quel cielo azzurro oltre le nuvole bianche c’era Dio e a casa, vicino al mandorlo, l’amore della mamma». « Il riquadro del cielo è l’unico contatto con la natura, anche se il cielo sembra tanto alto e lontano. Almeno lo si può guardare a piacimento e perdersi a seguire le nuvole che mutano forma, libere come sono di sentire il vento “. « … corre ad aprire i battenti del balcone sul quale brilla il sole 

e dove i pochi vasi di geranio hanno ripreso i colori»4. 

L’autore si identifica e si diversifica al tempo stesso dal personaggio; in fondo, però, a dare respiro e colore alla pagina è sempre quell’inconfessato bisogno di Cammarata di ritornare alla terra e alle acque, ai venti e ai profumi della sua Sicilia. Ma nella conclusione del libro la presenza dell’autore è senza dubbio più scoperta perché in quelle ultime parole (“tutto questo è bello”) c’è lo stesso approdo delle altre due opere, sempre con quella melanconica consapevolezza del provvisorio, del transitorio, con lo stesso invito a continuare, a vivere, sia che siamo oppressi dal dolore e sia che siamo vittime della violenza5. 

L’avvio della vicenda farebbe pensare a Kafka (Il processo); ma si tratta di un riferimento del tutto esteriore, senza alcun riscontro effettivo, in quanto l”‘ideologia” sottesa al romanzo di Cammarata è tramata da una inespressa fiducia, che, senza essere rigorosamente ancorata ad una concezione metafisica, opera e agisce nella vita umana, con la stessa forma del suo antagonista, la violenza; sicché il mondo di Agostino è un mondo in cui splende sempre la luce: un pezzo di cielo si apre anche sullo squallore del carcere; e la sua solitudine non è mai angosciosa o desolata, ma è riscaldata dal calore della memoria del passato: la casa, l’amore della mamma, il cielo azzurro, il mandorlo fiorito, immagini salde e reali che legano il personaggio-autore alla “sua” terra, da cui non si sente “sradicato”. E l’attesa di qualche cosa che deve accadere non resta mai delusa, perché c’è sempre quel “varco” montaliano che riesce a stabilire, nella imprevedibile trama dei gesti e delle vicende umane, una comunicazione con la vita. 

Nel libro autobiografico Dal buio della notte il “varco”, attraverso cui Andrea riemerge alla vita dalle sofferenze del male, è l’amore per il prossimo; nella raccolta poetica Per dare colore al tempo il protagonista del male di vivere approda all’isola della poesia, con la voglia di resistere, di continuare; nel romanzo Agostino, senza essere mai abbandonato dalla sua coscienza critica, pur nella condizione di passività, scelta come estremo rimedio contro le “ragioni” del mondo, che con i suoi ingranaggi stritola ed umilia l’uomo onesto e dignitoso, trova la via d’uscita attraverso il “varco” dei vari risvolti positivi, che, anche se scaturiscono dalla violenza, sono stati sempre intravisti dalla coscienza critica del personaggio, che rafforza la sua fiducia nelle qualità positive dell’uomo, facendo appello alle potenti risorse spirituali che ciascuno porta in sé. 

Il rigore stilistico, a cui Cammarata ci ha abituato con le due opere precedenti, trova nel romanzo un’ulteriore conferma: il linguaggio semplice, scarno, lucido e nitido, da cui traspare la tensione intellettuale e morale dello scrittore, attento anche agli effetti di un’accorta punteggiatura, conferisce alla pagina una pulizia formale e sottende un significato profondo, straordinariamente intenso: il dramma dell’uomo sconfitto dai perversi meccanismi della realtà sociale, ma anche il suo anelito di speranza, di un ottimismo sano, capace di trovare nelle vicende della vita spazi sempre più ampi, dimensioni più durature e meno precarie. 

Altre caratteristiche emergono, però, dalla prosa del romanzo. Se le pagine dell’autobiografia (Dal buio della notte) si leggono tutto d’un fiato, come un diario, le pagine di Violenza, oh cara, precise, levigate, dal sapore talvolta realistico, o delicatamente liriche, rivelano non poche novità, che rinviano a frequentazioni di scrittori assai diversi, ma sempre impegnati sul versante formale e stilistico. Per prima cosa il ritmo della narrazione, che si attesta sulla cadenza, talvolta persino ossessiva, dei “ritorni verbali”, che si individuano nella coppia presente/futuro o presente/condizionale. Certo, il tempo presente domina l’azione del libro: l’ordine del vissuto e quello della parola scandiscono il medesimo ritmo; la vita, in fondo, è scrittura, e la «grammatica del vivere» (Svevo), diventa anche la grammatica del testo. 

La fissità rigida dei tempi storici (in particolare dell’imperfetto) è rispettata solo nelle prime pagine del libro e in quelle – brevi – che riproducono il “flusso della memoria”, e sono parti di racconto, operato dal personaggio-narratore, che parla o racconta o interpreta muovendo dal nunc: subito dopo, ricompare il tempo presente, con una persistente coerenza, nel “monologo interiore”, in cui Agostino si rifugia (ma Carlo, il giudice, e, in tono minore, un po’ tutti gli altri personaggi del romanzo), per esercitare al meglio le capacità di riflessione e di osservazione e per esplicare il massimo dell’immaginazione psicologica garantito dal massimo di verosimiglianza, la quale è verità fantastica – è bene avvertirlo -, lontano, quindi, dalla verità empirica e documentaria della cronaca6 . Proprio il “monologo interiore” immette il lettore, fin dalle prime pagine, nel pensiero del personaggio principale e di quelli secondari, i quali nello svolgimento ininterrotto del proprio pensiero allineano i dati della coscienza di quanto loro accade, attivamente o passivamente, come soggetto e come oggetto. 

Il ricorso, dunque, alla forma del “discorso vissuto” spiega l’uso dominante del tempo presente, che dà la connotazione del “non-essere” del futuro, ma spiega anche l’uso del passato, nei momenti in cui la memoria rifluisce al tempo andato7. E ciò rende anche ragione del modesto spazio riservato nel romanzo alle battute dialogiche: il dialogo, per lo più, tende a risolversi in monologo, in cui il personaggio, quasi collocato fuori della dinamica narrativa del racconto, segue il corso del proprio ragionare e riflettere, cioè dei suoi reali processi mentali attraverso l’invisibile intrico dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti8. 

Quale la collocazione storica del romanzo di Cammarata? Il lettore che si fermasse su alcuni elementi che, pur essendo i più appariscenti, sono senz’altro esteriori e poco determinanti per inquadrare l’autore in una precisa linea di tendenza, sarebbe senza dubbio indotto in errate valutazioni. 

Il “lieto fine” e la fluidità della narrazione potrebbero, infatti, indurre a definire il romanzo Violenza, oh cara, come un libro di stampo ottocentesco: ma un esame attento, o meno sbrigativo, della pagina e del libro complessivo non giustifica e non autorizza una siffatta definizione, Perché non poche sono le caratteristiche che conferiscono al libro un’indubbia attualità. L’architettura del romanzo, cioè l’organizzazione razionale degli eventi, colti nella loro successione logico-cronologica9 , l’ideologia sottesa ai fatti con la inquietudine per la condizione dell’uomo, legano intimamente il libro a problemi della realtà di oggi; ma è soprattutto lo stile, con le caratteristiche individuate e messe in risalto, che porta decisamente il romanzo di Cammarata fuori di certi schemi ottocenteschi. Senza dire che il continuo “interscambio” o intreccio di autore-narratore-personaggio, anche in quei momenti di sopra-impressione o gerarchia dell’autore sugli altri due, toglie alla realtà del libro i caratteri dell”‘oggettività” o della “rappresentazione scientifica”, per conferirle, invece, non solo quelli più propri e più personali dell’interiorità del singolo, della coscienza, soggetto-oggetto, che svela se stessa, ma anche i segni del desiderio del puro gusto del “raccontare”, di muoversi con originalità, appunto, nel mondo del linguaggio. 

Walter Tommasino

l. R. Cammarata, Violenza, oh cara, Caltanissetta-Roma, Sciascia Ed., 1986. pag. 192.
2. Op. cit., pag. 64. 
3. Op. cit., pag. 84. 
4. Op. cit., pagg. Il, 18, 61, 92, 174. 
5. Cfr. i nostri due interventi: Vivere attraverso il dolore, ovvero “Dal buio della notte”, in “Il Corriere del giorno”, 26-2-1984; La poesia di Romano Cammarata, tra sogno e realtà, in “Istruzione tecnica e professionale”, n. s., Roma, Palombi Ed., n. 84, 1985, pagg. 222-227.6. Per il “monologo interiore”, che i tedeschi chiamano erlebte Rede (“discorso vissuto”) e i francesi le style indirecte fibre, cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, pagg. 593-600: il volume, pubblicato postumo con presentazione di E. Montale, raccoglie le lezioni universitarie degli anni Sessanta (dal ’60-61 fino al ’65-66). Sul discorso critico che si è sviluppato sulla nascita in ltalia del romanzo antinaturalistico, cfr. anche, M. Guglieminetti, Strutture e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964, ora, in nuova edizione, col titolo lievemente diverso, Il romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986. 
7. L’autore introduce i monologhi con l’uso delle “virgolette”, come veri discorsi diretti che i personaggi stabiliscono con la propria interiorità; cfr. Op. cit., pagg. 11-12; 19-20; 39-46; 70-74; 91-92; 107-108; 186-187. 
8. Cfr. Op. cit., pagg. 28; 55-57; 75-76; 94-95; 98-106; 116-117; 129-130; 156-158; 176177. 
9. La separazione tra ordo artifteialis dell’intreccio e quello criticamente formalizzato dalla fabula consente di cogliere la dinamica del racconto. le intenzioni espressive del narratore, il suo modo di porsi nei confronti del lettore. Per un discorso critico più approfondito sulla narratologia si rinvia a T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino. Einaudi. 1968: C. Segre. Semiotica filologica, Torino. Einaudi, 1979: S. Chatman. Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 63-68. 




Un autentico maestro 

 E. Bonora, Montale e altro novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia ed., 1989, pagg. 267. 

Nel ripiego della copertina di questo nuovo ed atteso volume di Ettore Bonora si legge: «I saggi di questo volume sono in parte inediti – e fra questi c’è anche un’intervista con Montale del 1961 – in parte già noti perché apparsi in riviste, in memorie accademiche, in atti di convegni». Ora, oltre all’opportunità editoriale di raggruppare in volume gli sparsi interventi critici, anche se apparsi in autorevolissime edizioni, ad esigerlo è la omogeneità esegetica che bene li armonizza lungo l’iter delle proposte e delle conclusioni. Peraltro il volume fa seguito, non tanto cronologicamente, quanto ermeneuticamente ai tre precedenti volumi del Bonora su Montale: (Le metafore del vero. Saggi sulle «Occasioni» di Eugenio Montale, Bonacci, Roma 1981 – Poesia di Montale: Ossi di seppia, Liviana, Padova 1982 – Conversando con Montale, Rizzoli, Milano 1983) che insieme a questo, oltre che costituire una armoniosa tetralogia, rappresenta il corpus critico più qualificato ed autorevole sul grande poeta genovese. 

Undici saggi (di cui sei dedicati a Montale), un’avvertenza esplicativa ed un’assai opportuna notizia bibliografica compongono un volume ricco e corposo che già avvince per una tecnica scrittoria narrativa e per una misura stilistica fortemente equilibrata, gradevolmente ‘acidula’ che invita ad una piacevole lettura e ad un amabile conversare. E già solo questo sarebbe non poco, nel clima di revival di «vecchi tromboni» che nella foga di strombazzare obsolete primogeniture e fantomatiche benemerenze, mortificano i più elementari canoni stilistici, che sono parte integrante di una seria ricerca scientifica. 

Certo lo «stile Bonora» (e qui lo intendiamo nella sua più ampia accezione) non si improvvisa; esso è il frutto più vero ed autentico di una onestà e di un rigore intellettuale che, temprati da una rara acribia critica e affinati da robuste dosi di «sciroppo di tavolino», ne fanno uno dei pochi, autentici maestri dell’italianistica e della critica letteraria. 

Uscito ad un anno di distanza dalle sue Interpretazioni dantesche (Mucchi, Modena 1988) di taglio più squisitamente filologico linguistico, quest’ultimo volume montaliano è una ulteriore ed ennesima testimonianza della vastità, della duttilità e della versatilità critica dello studioso milanese. E anche se, nella prefazione alle Interpretazioni con l’umiltà dei valorosi, non osa dichiararsi un dantista per via della sua ‘poca’ produzione, egli, per certo lo è; lo è perché il confessato amore ermeneutico per Dante lo conferma; lo è per l’assoluta qualità dei suoi interventi; lo è per la rigorosissima selezione bibliografica; e lo è infine perché, tralasciando i suoi studi notevoli su Petrarca, Folengo, Bembo, Guarini, Tasso, Parini, Manzoni, ecc., è storico valoroso ed autorevole di tutta la letteratura italiana, come ampiamente testimonia la sua Storia della letteratura italiana (Petrini, Torino 1976). 

Ma ritornando al volume in oggetto, è subito da notare il richiamo pregnante all’attenzione ed alla lucidità di analisi di versi mai sufficientemente ascoltati nel loro carico di rimandi e di richiami intertestuali. Qui a registrarsi è una caparbia fedeltà al testo che induce il critico ad una lettura che non si attardi, o non subisca rallentamenti davanti a scarsa conoscenza delle fonti alle quali invece costantemente volle rifarsi il poeta: e attraverso lo studio delle quali si perviene al recupero di significati che in qualsiasi altro caso andrebbero irrimediabilmente perduti. 

Non meno diligente risulta l’analisi condotta sulle pagine di documentazione critica fiorita, senza soluzione di continuità, sulla figura e l’opera di Eugenio Montale. L’amico Montale viene sottoposto allo scrupoloso esame della sua squisita sensibilità interpretativa, mentre il rigore analitico sottolinea le indubbie difficoltà di decodificazione del verso. Difficoltà acuite dal fatto che il poeta ha sempre dispensato, anche agli amici, con molta parsimonia e con ampie riserve, la verità sugli enigmi dei propri versi, fino a depistare, e con gusto, la critica più invadente e sprovveduta. 

Ma se il suo era un gioco, o un ironico riserbo che lo sorreggerà anche quando si accorgerà di essere il più vecchio del «Nobel», il corpus del Bonora lo svela penetrando, con i piedi di piombo, nei meandri delle censure ed incastonando tessere fondamentali nel complesso e celato mosaico della sua poetica. Affondando il bisturi nei recessi più inospitali del ‘suo’ autore il Bonora ne scopre, oltre all’inventiva ed all’ironia, anche l’amarezza finale, la tristezza di chi si vede costretto a demolire quegli ideali di ‘coscienza’ di ‘sensibilita’ e di ‘dignità’ per i quali ha lottato, ponendo in discussione tutto, financo la cultura. 

Come non è difficile arguire, l’impresa di sistemazione critica non è stata certo delle più agevoli, in considerazione anche del ventaglio di linee orientative prospettate e delle difficoltà di selezione; ma questo conferisce maggior lustro ad un volume che, con i tre precedenti, più che utile è fondamentale per gli addetti ai lavori, ma che torna illuminante anche al lettore comune non disattento che vi potrà apprezzare, su un registro interpretativo, metodologicamente ineccepibile, una assai bene articolata indagine che lo rende strumento imprescindibile per una «paideia» montaliana fuori dai canoni libreschi e dal manierismo di schemi canonizzati. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 41-43.




 Un amore che si trasfigura 

A. Gamboni Mercenaro, Poesie d’amore e altre, Poggibonsi, Lalli 1989 

“Ho scritto questi versi con una penna-scandaglio riproponendo il tema antico e sempre magico dell’amore”, È questa la frase che apre l’autoprefazione alla raccolta di liriche di Antonio Gamboni Mercenaro. Una frase che, a primo acchito, potrebbe suonare come una disarmata e disarmante banalizzazione dell’eterno tema sentimentale, indagato ancora una volta, con lo scandaglio del rabdomante alla ricerca di un amore totale che non troverà. 

Ma in una poesia di intonazione eccezionalmente leggera, qual è quella di questa silloge, ove oggetti percepiti come frammenti della realtà dispongono ad una specie di idillio vissuto, aleggia un pathos lirico pregno di sensuale tenerezza: «La tua bocca una scialuppa di baci/ … / I tuoi seni due gole di tortora» “(Dormivi, pag. 27). Una tenerezza che illegiadrisce una passione ardente e fuga una malinconia che è fin troppo naturale in un uomo che sente riaccendersi d’amore per “tutte le donne che con il loro affetto hanno dato veste ai [suoi] sentimenti” (Dedica). 

Ed è proprio la contemplazione amorosa, evocata in Le tue dita di vento (pag. 24), ripresa in Sei bella quando ridi (pag. 33) e pur non chiusa in L’ultima volta (pag. 38), che porta il poeta verso simboli e verso metafore che sublimano. in un’unica, superiore sfera gnoseologica, la storia personale e la storia dell’umanità, sola e sofferente, che ha, come il poeta «[…] cuore di spugna seccai e labbra sterili di risa» (Nessuno, pag. 62). 

E benché Gamboni Mercenaro nei suoi riferimenti culturali non sia sempre prevedibile, anche perché montalianamente gli basta poco per ricavarne sostanza di poesia da letture più o meno recenti, non è difficile rilevare un suo debito al platonismo rinascimentale. Un platonismo “mediato” tra Gismondo e Perrottino che ricrea l’immagine di un cuore «vaso/ nel mio petto/ con un pesciolino rosso / Il mio cuore/ sei tu!» (Sei tu, pag. 46), ma che non rifiuta, anzi accoglie di Lavinello l’idea che «il silenzio è la preghiera udibile/ dell’anima che cerca Dio» (Il silenzio, pag. 71). 

Un amore, dunque, a tutto tondo, “nel senso più vasto”, sentito, anzi avvertito come una promessa di liberazione dell’umanità: un amore che si trasfigura per adattarsi ad una esperienza autobiografica, e nel contempo si significa e si alimenta della nota melanconica e solitaria. Proprio con “solitudine” e “notte” si apre la silloge: «La notte è solitudine densa»: «La notte è luna mussulmana»: «La notte è quercia dura» (Luna mussulmana, pag.11): per perpetuare questa”preziosa” melopea con le tre lettere ad una donna dove dai dadi truccati dentro «l’urna della solitudine», si passa all’eco di una rata scaduta, per concludersi nello slontanamento di uno «scoglio franato dal dirupo» che pur non cede alle insidie del mare ostile della vita. 

Per concludere queste brevi note non ci resta che rilevare le non poche reminiscenze da lettore colto che sono sparse per tutta la raccolta: essa non è corposa, dimostra tuttavia non poca familiarità con la lirica neosperimentalistica 

dell’ultimo Novecento: e non è azzardato dire che qui si tenta l’apertura di un frammentismo di maniera che, nel toccare le varie corde dell’amore, testimonia di una fine sensibilità “pudicamente” manifestata con navigato mestiere. 

Vito Titone

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 58-59