“Un porco italiano o un maiale tedesco?” 

Vallecorsa, terra ciociara di F(uori) R(oma), dimenticata da Dio, non dai Santi che v’han chiese e feste, accomodata sulla propaggine rocciosa che divide !’imbuto della valle, fa a destra quanto non fa a sinistra, memore dell’evangelico: “La destra non sappia della sinistra”, che tutti conoscono ma che solo i furbi praticano, non a gloria di Dio ma a proprio vantaggio. 

Nel borgo e nella valle, cristiani e cristiani per fame e miseria lavoravano a spacca-schiena i giorni della settimana, le domeniche e le feste comandate, perché lo stomaco non ragiona come agli ammutinati plebei del Monte Sacro spiegava il buon Menenio Agrippa che la faceva corta per non farsi scoprire lungo. 

Nel borgo e nella valle, arciprete, abate, canonici e seminaristi di Anagni godevano le domeniche e le feste comandate per dovere, come dicevano, per vocazione, come spiegavano per convincere il popolo devoto: il dovere di tutti, la vocazione degli eletti. 

Nel borgo e nella valle, godevano domeniche e feste comandate la guardia civica e la guardia campestre sempre in giro per cogliere in flagrante chi stendeva panni sul suolo pubblico, chi legnava nelle selve demaniali, con multe e sequestri provando la loro fedeltà al Comune. 

Nel borgo e nella valle, godeva domeniche e feste comandate il Camposantista che nel Camposanto a garbo suo e a sgarbo dei morti scavava fosse convinto che i morti han pazienza da vendere e non avallano cambiali a scadenza. 

Nel borgo, non nella valle, gli impiegati del Comune godevano i giorni della settimana, le domeniche e le feste comandate; costoro poltrivano in poltrona e indurendo con calli le chiappe carnose, non facevano distinzione tra i giorni lavorativi e i festivi, sicuri di posto e di stipendio. 

Nel borgo e nella valle, non godevano le domeniche e le feste comandate i mercanti d’olio, di lana, di frutta e ortaggi che sui carri stracolmi tirati da muli petenti e fetenti, andavano per le polverose strade della Ciociaria a far mercati. 

Nel borgo e nella valle, godeva le domeniche e le feste comandate l’esigua pattuglia dei macellai che lavorando all’occasione per i privati, nelle feste vendevano carni scelte ai ricchi clienti, versando quota dell’incasso ai Comitati delle Feste per ringraziare i Santi che sapevano come mandare avanti il commercio perché la “destra di Dio” è sempre “destra” anche per chi usa la “sinistra”. 

Tra i signori macellai, figurava Ernesto Giuliano N’Zellotto, fiero dell’arte, della bottega e del soprannome ereditato, facendo onore all’adagio: “Quale padre. tale figlio”, profetico programma per quanti lo capiscono e per quanti non lo capiscono: sempre in maggioranza. 

Ernesto teneva bottega allo Sciurarieglio con insegna di robuste corna al sommo dell’arco della porta, chiusa da tenda di variopinte cannucce che bloccavano l’esercito delle mosche ma davano accesso ai clienti. 

Nulla e nessuno nei tempi passati era riuscito a scuotere !’immobile società dell’antico borgo ma quello che non riusciva ai briganti, alle Camice Rosse di don Peppino Garibaldi, ai Carabinieri dei re Savoia e ai Centurioni del Duce Benito, riusciva ai Granatieri di Adolph Hitler, Fuehrer delle Camice Brune e Kanzler di 

tutti i Laender germanici, a tradimento occupando Vallecorsa bloccandone entrata e uscita con Panzer e blindati, con “PeKaWé” e “ElKaWé”. 

In quei giorni di ansie e delusioni, Ernesto teneva bottega aperta per onor di firma; non essendoci in giro bestie da macellare, Ernesto non disperava; di nascosto macellando, di nascosto vendendo, Ernesto metteva in scarsella in barba alle “SS”, aiutato nell’imbroglio dalla gente decisa a far dispetti ai Gcrmanesi. 

A turbare chi non ci teneva ad essere turbato, scendeva dal Vicolo Traverso l’Obergefreiter Udo Offenbach della “San-Kar-Einheit Haupt. Otto Hotegger” massiccio nella statura, fiero dei parafernali di “Panzer-Grenadier”, battendo i ferrati tacchi dci corti stivali chiodati sugli sconnessi selci dello Sciurarieglio. 

Si fermava il Caporalmaggiore della Wehrmacht a gambe divaricate davanti alla porta della macelleria e con occhiate, con accenni di capo e cenni di mani e con parole stracciate cercava di far capire al macellaio che la “Kommandantur”gli chiedeva di scannare un “ghi, ghi”:· un porco pronto per il macello. Ernesto capiva ma fingeva di non capire perché con i Germanesi: “Fidarsi è bene; è meglio non fidarsi” come consigliava ai Troiani in giuggiole il sarcedote Laocoonte esortando a non dar fiducia ai Greci anche se portavano doni: “Timeo Danaos et dona ferentes!”. 

Ernesto stufo del lungo tira-molla cedeva come il debole cede davanti al forte che nella forza pone la sua ragione. Mogio andava Ernesto dietro a Udo a mo’ di giaculatoria ripetendo a labbra strette: “Meglio scannare un maiale tedesco che un porco italiano!” e stringeva nella destra la “scannatora” come i padri stringevano canna e calcio del “novantuno”, le bombe a mano, i pugnali, i tubi di gelatina contro gli Austresi sul Montello, sul Monte Grappa, sulle rive dell’Isonzo e del Piave. 

Al Curtino, Ernesto provava grande imbarazzo. 

La bestia da scannare: un gran bel porco, dal colorito moro, dalle setole scure e dal grugno tutto bianco; “Questo un porco italiano” si diceva Ernesto” i maiali tedeschi sono bianchi, con le setole chiare e con il grugno roseo”. 

Rimaneva l’ultima prova: Ernesto chinandosi avvicinava l’orecchio al grugno della bestia e sentendola grugnire: “grù, grù, grù”, non “ghi, ghu, ghi” come grugniscono i maiali tedeschi, Ernesto imprecava contro la malasorte che lo costringeva a scannare un porco italiano quando avrebbe preferito far la festa ad un maiale tedesco. 

Come la Wehrmacht aveva ordinato, la bestia veniva scannata con gran soddisfazione di Udo, con rabbia di Ernesto che si vergognava d’aver contribuito alla resistenza delle Forze Armate Germaniche sul fronte di Cassino e di Anzio perché la Patria si serva anche facendo la guardia ad un bidone di benzina. 

Passavano gli anni ma al caffè Nardoni, agli Arbeletti, Ernesto raccontava la curiosa storia e a chi a brutto muso gli chiedeva: “N’ Zellotto, che differenza tra porco e maiale?”, a brutta ghigna rispondeva: “Se chi dice porco, non dice maiale, la differenza c’è, eccome!”. 

Nella domanda impunita e nella stizzosa risposta, la ragione della Taratalla obbligata a sciogliere il dubbio e a risolvere il problema filologico delle voci: “porco” e “maiale”. 

Le due voci italiane derivate dall’identiche voci latine: “porcus” e “maialis” indicano oggigiorno la stessa bestia nella diversità dei suoni ma nell’identica indicazione della bestia e per traslato, riferibili agli uomini, comportando significato offensivo. 

In latino le cose stavano diversamente perché come la società si svilisce 

catatropizzandosi, si sviliscono anche le parole catatropizzandosi. 

“Maialis: mai+alis”, aboriginalmente aggettivo, indicava il porco nato in maggio e destinato al sacrificio come prova il suffiziale: “-alis” indicante riferimento alla pratica religiosa1; il riferimento al culto restava nella parola anche quando questa indicava il sacrificio del “maiale” di un anno alla dea Maia, madre di Mercurio che tardivamente entrava dall’Olimpo greco nel pantheon romano2. Nello sviluppo del “rhematogramma” si perdeva via via il riferimento alla pratica religiosa, restando intatto il riferimento alla bestia come si nota in italiano se “porco” e “maiale” hanno lo stesso significato anche nella metafora3. 

“Maialis porcus”; il porcellino nato di maggio e che castrato veniva sacrificato a Maia, madre di Mercurio4. 

Il sostantivo “porcus” lo si fa derivare da “porceo; por-ceo” = tener lontano, difendere” perché gagliardo il porco difende territorio e prole5; lo si fa derivare dal grugno allungato: “a rictu porrecto seu prominente”6; Bienveniste, dopo ampia e dotta escursione nelle lingue indo-europee, convinto vuoi convincere che “porcus” nelle fonti latine appare col significato di: “animale giovane”, ·il giovane porco”; in seguito “porcus” occupava il posto lasciato da “sus”, questa voce finendo per scomparire dalle fonti e dall’uso o continuava significando il “porco selvatico”; “porcus” perdeva il suo significato e il diminuitivo: “porcellus” di recente conio indicava il “porcello” o “giovane porco”7. 

Lode altissima a Bienveniste pcr le sue dilucidazioni in merito anche se dal famoso filologo non apprendiamo il significato del1a voce “porcus” sulla quale bisogna operare, in base agli assiomi della Filologia Sperimentale come abbiamo fatto con “maialis”. 

In latino la voce: “porca” indicava le due gobbe che delimitano a difesa il solco aperta nella maggese dall’aratro: “lira”; nella “porca” si seminava con la speranza d’aver frutto le messi. 

l) “Maialis”: “porcus castratus ein geschnitten Schwein, ein borg; Varro, De Re Rustica. II, 4 et 7. Conf. Turneb. Advers. 21, 15. Nomen est ex eo quod Mqjae sacrificetur, ut est in Glossis Isidod” (B. Faber, Thes. Erudit. Scholast., Lipsia. 1717, col. 1576, Tom. Ls.v.). 
– La Filologia Sperimentale osserva: valido fissare i significati delle voci fondati sulle fonti e sull’uso; più valido fissare il significato aborigeno delle voci necessario alla ricostruzione del “rhematogramma” portatore della storia della società che le parole inventava, usava e trasformava nel tempo: diacronismo. 
2) “Parentalia“, “Satumalia”, “Volturnalaia”, “Volcanalia”, “Mortualia” etc.: il suffiziale: “‘ale”, “-alia” comporta l’idea della festa religiosa; “Flamen Dialis”, “Voltumalis Flamen”; il suffiziale: ··alis, “-ale” comporta riferimento al sacerdote. 
La Chiesa sapeva quel che cantava quando cantava: “Victimae paschalis” o quando indicava: “Vigilia paschalis”; questo quando i reverendi sapevano latino e ignoravano la “pissicologia”. 
3) L’uso reale o metaforico del1e due voci in italiano non chiede chiose, non merita postille. Del1e due parole, stando agli assiomi della Filologia sperimentale, una scomparirà e una resterà. 
4) Not. l. 
5) “Tertium etymon est, ut porca dicatur a porceo, quod ipsum dicitur quasi porro arceo” (G. J. Voss, Etymol. Ling. Lat. Reg. Typ., Napoli, 1763, pars altera, p. 553, s.v.). 
6) “Porcus, i,m.a rictu porrecto seu prominente dictus est, ein Schwein; ut ·Porci sacres”, Plaut. Rud. 4, 6, 4, i. e., sinceri, puri, integri & idonei sacrifriciis, uti explicat Varro de Re. R. Il, I & 4 ” (. B. Faber, op. cit., Tom. II, col. 1886, s.v.). 
7) E. Bienveniste, n Vocabolario dell’Istit. Indoeur., voI. l, Torino, Einaudi, 1976, pp. 19-24.
“Porca” indicava il genitale femminile nel quale si seminava con la speranza d’aver frutto di prole. Se alla “porca” si affidava il seme perché rendesse buon frutto alla stagione, consegue che al “porcus” il romano affidava capitale e speranza per aver alla stagione i frutti del lavoro, del capitale e della speranza: “porcus” la bestia della quale tutto rende e nulla va perso. 
Il significato della voce così ricavato potrà essere considerato valido se confortato da altra via. La Filologia Sperimentale batte la via dell’apofonia o gradazione vocalica che dà: “parc-“, “perc-“, “porc-“, avvalorando il significato di “porcus” ma dando significato altro al verbo: “parco”; “mettere a frutto”, “far valere”, “far fruttare”, che così inteso pone sotto altra ma vera prospettiva la politica di Roma che se fondava la sua direttiva nella prima arte e nella terza arte d'”imperium”, poneva centralmente la seconda arte: “parcere subiectus”, con essa perseguendo l’obiettivo di far “pari” i popoli, d’essi ·mettendo a frutto” le qualità delle braccie e delle menti, indifferentemente. Sotto questa nuova prospettiva filologica anche il cognome della “gens Porcia” acquista valore diverso e più impegnativo se “Porcius” non l’allevatore di porci ma chi sapeva trar frutto dalle sue qualità. 

Davide Nardoni 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 7-9.

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