Venne la stagione della cresima e nel paese la gente preparava la festa. Madri e padri in giro per trovare padrini e madrine per figli e figlie da cresimare.
L’arciprete don Clemente Altobelli spiegava a quei villici figli di villani briganti il significato della domanda che il vescovo avrebbe rivolto ai cresimandi prima di far il segno di Cristo sulla loro fronte con l’olio santo e di congedarli con lo «schiaffo» di rito1.
L’arciprete capezziava convinto: nessuno dell’impavida brigata l’aveva capito, se l’aveva pur ascoltato, per la ragione che neppur egli capiva l’espressione: «Satana e le sue pompe», anche se aveva chiaro, chiarissimo che non si trattava di «pompe» per dar l’acqua ramata alle viti, perché al seminario non aveva sentito che Satana, Satanasso possedesse viti, vigne, vigneti e «pompe».
Spuntò il giorno della cresima e il sole radiava luce e calore nella valle e da Veroli, città di antica storia e ricca di tradizioni, arrivava il vescovo e tutti a fargli ala e coda per accompagnarlo in chiesa. Andava il vescovo per le vie e, benedicendo a dritta e a manca, sorrideva a tutti come abitudine del buon pastore verso le pecore del gregge.
In chiesa, il vescovo, in mitra e pastorale, apriva tra nugoli d’incenso alla cresima chiedendo: «Abrenuntias Satanae eiusque pompis?», cresimando e padrino a gran voce rispondendo: «Abrenuntio!», sicuri di non intendere quanto avevano udito, certi di non intendere quanto avevano risposto, come chi non aveva mai conosciuto Satana, come chi non aveva mai visto le «pompe» di Satana. Per tante generazioni in quel paese paesani e paesane avevano rinunziato a «Satana e alle sue pompe» e nessuno aveva patito guai da quella rinunzia; da Satana e dalle «pompe» guai capitavano a chi guai non si aspettava, a chi non s’aspettava botte per aver rinunziato a «Satana e alle sue pompe». Venne il tempo di «pompare» le viti e il padre Mario, che aveva fatto cresimare il figlio Davide, invitava il figlio a seguirlo nella vigna; questi ubbidiva perché i figli hanno il dovere di obbedire ai padri. Nella vigna quel figlio preparava la mistura bordolese e ne riempiva la pancia della «pompa» ma non si decideva a passare le braccia nelle cinghie di pelle per caricarsela sulle spalle,
Al padre che l’incitava a caricarsi la «pompa» sulle spalle, il figlio rispondeva che, avendo rinunciato a Satana e alle sue «pompe», non voleva commettere peccato mortale trasgredendo la promessa fatta alla Chiesa Cristiana, Apostolica, Cattolica e Romana, per giunta.
Per tre volte il padre pregava il figlio; per tre volte il figlio ripeteva al padre la sua decisione e fu il finimondo: tra urla e urlacci da indemoniato quel padre scaricava cinghiate a non finire sulle povere spalle del figlio, che urlava e piangeva deciso a non commettere peccato mortale; urlava e non piangeva il padre deciso a spiegare a quella «cocuzza» di figlio che «pompare» le viti non era peccato mortale e neppure veniale.
Questo capitava in quel paese e tutto perché padre e figlio convinti di aver la ragione dalla propria parte non si rendevano conto che tutti e due erano nel torto non sapendo essi chi e cosa fossero Satana e le sue «pompe».
Quel ragazzo a distanza di tempo fatto vecchio ricorda il padre e non gli rimprovera le cinghiate di quel mattino, perché sicuro che il padre gliele aveva somministrate non per crudeltà ma per lo stesso nodo e vincolo d’ignoranza che legava il padre al figlio e il figlio al padre.
In questa ignoranza la premessa per la «Taratalla». «Pompa» voce volgare derivata da «pompa» latina traslitterata dalla greca: «pompé», sostantivo derivato dal verbo: «pémpo»: il «rhematogramma. della «parole» greca chiarirà la vicenda della «pompé» greca dalle origini ai giorni nostri.
Aboriginalmente, i Greci della Grecia, delle Isole, della Magna Grecia, della loma e delle colonie: «apoikiai», sparsi in tutta l’Ekumene Mediterranea, fino a Histria, Tomis, Mangalia sulle coste del Mar del Ponto, facevano «pompé» quando i devoti in processione andavano al tempio a portar al dio ex-voti e omaggi di canti e di preghiere nella ricorrenza della festa Più viva la fede, più lunga la processione: «pompé», più sentiti i canti e più ardenti le preghiere.
Si affievoliva nel tempo il sentimento religioso e venendo meno la pietà, la «pompéo, lasciati i templi, entrava nella «polis» a far politica e cortei: «pompai» muovevano per le vie in onore degli Olimpionici, in onore dei Caduti, pugnando per la patria e per gli dei della patria, a favor di questa, di quella parte, a propaganda di questo, di quel demagogo.
S’indeboliva lo stame del popolo greco e dalla Macedonia nella Grecia calavano i Macedoni e alla corte dei re Macedoni muovevano cortei e processioni per far omaggio di inni e di doni a quei re che sostituivano la loro persona alle divinità dei santuari greci.
Passava Filippo. passava Alessandro e passavano anche i Diadochi dei regni ellenistici ma continuavano le processioni: «pompai» dei sudditi che, persa la libertà, perdevano anche il rispetto di sé e il pudore nell’umiliazione della «proskynesis»: affare dcgno di cani, non di uomini.
I Maccabei in lotta contro i Seleucidi di Siria inviavano corteo d’ambasceria, «pompé., a Roma nella persona di Giuda Eupolemo bar Giovanni, bar Giacobbe e Giasone bar Eleazaro, per stringere amicizia e alleanza con il Popolo Romano2.
(2) Macchab. l, 8.
Ad Augusto che abitava nel «Palatium» sul Palatino di Roma, arrivavano cortei, «pompai», da tutti i paesi dell’Ekumene e fuori, portando omaggi e tanti doni all’Imperatore di Roma e di tutta la Romania,
A Roma continuavano ad arrivare cortei e processioni, «pompai», per rendere omaggio al soglio imperiale per tutti gli anni nei· quali il trono restava nell’Urbe.
Costantino Magno spostava la capitale dell’Impero a Bisanzio: Costantinopoli (Istanbul), e cortei e processioni, «pompai», mutavano strada e cambiavano rotta muovendo verso l’Oriente e così segnando il declino e la caduta dell’Occidente. Qui dalle Alpi tracimava la marea del barbarame nordico che alluvionava, invadendole, le terre romane non per farvi cortei, «pompai», ma per farvi preda e menarvi bottino, perché i vinti debbono tributo di donne e di ricchezze ai vincitori, se ogni operaio è degno delle sua mercede!
Nel vuoto politico subentrava la Santa Chiesa Romana e, annunziando l’Impero celeste al posto dell’Impero terrestre, predicava al popolo dei fedeli contro «Satana e le sue pompe», perché i devoti smettessero di far processioni, «pompai», ai templi degli dei falsi e bugiardi e di far cortei a Satana e facessero processioni in onore dei Santi che avevano praticato le virtù in modo eroico nella professione della fede e nella difesa del popolo cristiano che per secoli faceva processioni ai santuari della fede. Nell’attuale scadimento del sentimento religioso e nello svilimento della pratica cristiana nessuno parla di Satana e a nessuno interessano le «pompe di Satana», tutti le ignorano e chi le conosce finge d’ignorarle per non essere accusato di retrivo reazionarismo. Sotto le fanfare di tambureggiante propaganda alle processioni cristiane vengono sostituiti i cortei, «pompai», delle dimostrazioni politiche e chi le ordina e chi le subisce son tutti convinti di riempire il «vacuum» delle anime e delle coscienze che essi stessi han creato fidando nella democrazia, nella libertà e nel progresso.
In tale marasma è piombata la società che, tra l’altro, ha perso quanto di buono possedeva per la malaventura d’aver dimenticato il significato dell’espressione: «Satana e le sue pompe», una bagatella non dappoco, non dallo scarso peso, se doveva da essa emanare tanto disordine e tanta confusione. Nessuno crede più a Satana ma per dannata distrazione tutti credono alle «pompe di Satana», intese come l’«effimero».
Questa comune e generale miscredenza spinge Satana e le «pompe» a finire nel dimenticatoio, abbandonati nel mucchio dei fossili linguistici dal quale solo il Filologo Sperimentale, a nuova vita traendoli, dimostra e prova che il progresso materiale corrisponde a regresso spirituale e questo in tutte le civiltà e in tutte le culture apparse e scomparse dalla faccia della terra.
Questo la Filologia Sperimentale doveva dimostrare: tanto crede d’aver dimostrato come premio della sua fatica e della buona coscienza.
1. Il pretore romano dava schiaffo, «alapa», al figlio che con tre finte vendite veniva emancipato dal padre permettendogli di sottrarsi alla «patria potestas»; con schiaffo, «alapa», il padrone, «dominus» mandava libero lo schiavo dopo averlo liberato; con lo schiaffo, «alapa», il vescovo libera il cresimato dal losco potere di Satana. «Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto» (Lex XII tab).
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 8-14.
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