Ionesco e la critica

 Ionesco e la critica 

Ionesco, agli inizi della sua carriera di drammaturgo, era rimasto disorientato e abbastanza risentito per un certo modo di fare critica. Non aveva tutti i torti, perché spesso tutt’altro si fa che criticare un’opera o, nell’insieme, un autore. Criticare, checché ne dicano i professori, è sapere ascoltare con umiltà e mettersi nelle condizioni di sentire ciò che l’autore dice attraverso la sua opera. Così facendo, se si troverà dinanzi a un vero interlocutore, il critico – io direi il lettore – ne sarà affascinato e ne gusterà l’arte, perché quello gli parlerà direttamente al cuore e lo esalterà nell’anima e nel corpo. Al contrario, si troverà come dinanzi a un muto, mancherà ogni tipo di allusione e vano sarà il tentativo di stabilire un qualsiasi dialogo. 

L’autore, capace di tenere vincolato a sé il fruitore, e di esaltarlo, è quello che diciamo vero artista, che – a sua volta – opera nella piena libertà, lavorando la materia grezza della sua fantasia e dei suoi sogni, avendo cura soltanto del suo lavoro. Il vero artista non è affatto come i politici che, già fin dall’inizio, devono essere inquadrati in questo o in quel partito e in quella corrente; egli è veramente libero e opera incurante di ogni movimento o 

corrente, lasciando, appunto, che siano i critici a interessarsene e a perdersi poi in un labirinto di parole vuote. Venditori di fumo, piuttosto che mediatori d’arte tra l’autore e il suo pubblico. 

Ciò che è capitato inizialmente a Ionesco è stata un’incomprensione tale da far gridare allo scandalo. I critici, più disorientati che mai, pensarono all’arrivo di una nuova barbarie, e netto fu il loro rifiuto nei confronti di quello che poi verrà detto «nuovo teatro». E gliene dissero di tutti i colori. Lo presero per un provocatore (in senso negativo – s’intende -, perché positivamente a tutt’altro porta l’opera di Ionesco), per un dilettante e un imbroglione. Ma non mancarono quelli che lo apprezzarono e lo incoraggiarono fin dalla prima rappresentazione di La cantatrice chauve, riconoscendolo come drammaturgo. E André Breton, per fare un nome, andava dicendo e scrivendo che questo tipo di teatro era proprio quello che mancava al surrealismo che già aveva avuto una poesia e una pittura surrealiste, ma non un teatro (1). 

Noi non percorreremo tutta la bibliografia critica, ché sarebbe troppo lungo: ci limiteremo a citare alcuni saMi che riteniamo abbiano contribuito enormemente a far conoscere e a far comprendere l’uomo e l’artista Ionesco. 

Già nel 1954 Jacques Lemarchand. nella sua prefazione al l° volume del Thédtre d’Eugene Ionesco. dopo essere stato dei primi più accaniti sostenitori della Cantatrice chauve. dice di essere attratto da questo genere di teatro che diverte “perché i suoi personaggi assomigliano a noi indistintamente, agli uomini importanti e a me, – di profilo, – ed è proprio il nostro profilo che egli lancia con brio in queste avventure impreviste, imprevedibili in apparenza. e che spesso riconosciamo addirittura più vere di tutte quelle che ci sono potute capitare». E, avvicinandosi alla conclusione, scrive: «Il teatro di Eugenio Ionesco è sicuramente il più strano e il più spontaneo che ci abbia rivelato il nostro dopoguerra… Esso rifiuta la leziosità drammatica. e con tanta naturalezza che non c’è nemmeno verso di scorgere una “provocazione” – ciò che accomoderebbe tutto – in questo rifiuto». 

Lemarchand individua fin dalle prime opere di Ionesco qual è la motivazione profonda del suo teatro, la quale non è certo quella di fare arte per arte, o di rimpiazzare col suo un certo modo di fare teatro. E quello che meravigliò, e stordì i primi spettatori e i critici, fu proprio la mancanza di un riferimento concreto al reale, mentre, a guardarci bene, era la realtà umana nella sua essenza che veniva loro imposta. Lemarchand intuì lo sforzo di Ionesco di voler cogliere nelle sue sfaccettature l’uomo, presentandolo così come egli è, e non nelle sue apparenze fittizie. 

Ionesco porta sulle scene i mali della società di cui l’uomo è lo specchio fedele (la rozza banalità dilagante, il conformismo, la solitudine, la violenza) e in cui si dibatte per trovare una sua identità e tutelarla dalle quotidiane oppressioni della vita e dalle invadenze della materialità che tende a uniformarlo e a renderlo un oggetto. 

È un discorso nuovo, e come tale, ci vorrà tempo prima che venga accettato. Ora, magari, siamo abituati a questo genere di teatro, ma negli anni Cinquanta fu considerato strano, perché diverso in ogni aspetto dai precedenti, e persino dissacrante di una consuetudine teatrale universalmente accettata. Dalla messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore a quella della Cantatrice chauve erano passati trent’anni e molte cose erano cambiate. Se dal punto di vista prettamente scenico Pirandello aveva trovato soluzioni che verranno attuate e fatte proprie dal «nuovo teatro», e da quello della rappresentazione aveva dato risalto ai personaggi con tutte le loro problematiche. Ionesco opera sul linguaggio, disarticolandolo, e dà grande rilievo agli oggetti. facendo tutto procedere in maniera illogica e priva di un significato apparente. Da qui l’imbarazzo e la difficoltà di capire il testo, da qui anche la taccia di assurdo che questo teatro inizialmente dovette meritarsi. 

Il teatro di Ionesco non solo rompe i ponti con la tradizione, ma pretende che la disposizione dello spettatore sia di uno che rinunci al divertimento fine a se stesso. Insomma, il teatro non è più un posto ove si sciorinano soltanto i panni altrui e la partecipazione è disinteressata, come se non si fosse minimamente toccati dal dramma proposto: esso è divenuto ormai lo specchio della nostra esistenza che costringe a vedere quello che non si vorrebbe, visto che si stenta a riconoscersi in quello che realmente si è. Ma questo ha comportato il non volerlo accettare e ha fatto sì che venisse considerato come assurdo, mentre assurdo non è, se si tiene conto della precarietà della vita odierna. Certo, può sembrare contraddittorio, come lo stesso titolo della Cantatrice chauve, non notando sulla scena una cantante, e tantomeno calva. Lo stesso potremmo dire dell’uomo di oggi che è nella solitudine più nera, nonostante sia più che mai a contatto col suo prossimo e abbia una vita abbastanza frenetica. Egli vive di apparenze e si mostra quello che non è: finge e s’immedesima bene nella sua finzione che a lungo andare lo tradisce, e scoperto, si difende a spada tratta e insiste nella sua testardaggine. Come non si accetta nella vita. non si riconosce nelle rappresentazioni del «nuovo teatro» che, rifuggendo da ogni tipo di sofisticheria drammatica, ce lo presenta nella sua misera nudità. 

Jacques Lemarchand, senza niente indulgere all’amico, riconosce la grande validità della sua opera, e questo suo giudizio troverà – come avremo modo di constatare – riscontro in tutto il teatro ioneschiano. 

Gabriel Marcel è tra quelli che criticheranno negativamente le pièces di Ionesco, specialmente le prime. In un suo saggio apparso nel 1958, La crise du thédtTe et le crepuscule de l’humanisme, considerato che i nuovi drammaturghi 

sono stranieri trapiantati in Francia, parla di « sradicati di cui si potrebbe dire che il pensiero si muove in una specie di terra di nessuno. Un Bechett, un Adamov, un Ionesco, in realtà, vivono ai margini della vita nazionale, quale essa sia, e questo fenomeno di non appartenenza è legato a certi caratteri distintivi della loro opera. Sono dei nuovi arrivati, e con ciò bisogna intendere, non diciamo solamente quello che potrebbe risultare ingannevole, dei diseredati, ma degli uomini che rifiutano ogni eredità… Le opere di questa avanguardia sono in linea di massima espressioni rivelatrici di quella che chiamo qualche volta la coscienza sogghignante». 

L’impressione che si ha a leggere il saggio di G. Marcel è quella di uno che non solo è insofferente a ogni novità, chiuso com’è nell’orto tradizionale, ma che non riconosce all’arte una patente internazionale, facendo differenza e valutando le opere in rapporto al luogo di origine dei singoli autori. Questo è grave in una Francia che predicò la cultura come mezzo di elevazione dei popoli. Vero è che, negli anni a cui ci riferiamo, il nazionalismo era più che mai acceso (lo è tuttora, forse un po’ meno), ma nessuno poteva pensare che si sarebbe arrivati al punto di discriminare autori validissimi che stavano in quel periodo vivificando il teatro. sforzandosi di trovare vie nuove e una nuova credibilità, solo perché stranieri d’origine. 

Gli autori nuovi stavano portando avanti un discorso di rottura con la tradizione, e in questo solo trovavano il loro punto in comune, perché ognuno di essi poi avrebbe sviluppato tematiche proprie; ciò non deve essere considerato motivo di debolezza. bensì pregio e segno di vitalità. 

L’avanguardia degli anni Cinquanta non fu una moda, ma una scelta che in maniera diversa fu portata sino in fondo. Le mode non durano e nel giro di una o due stagioni diventano sorpassate. Le scelte, se sono valide, trovano conferma e si consolidano nel tempo, com’è avvenuto col teatro di Bechett e di altri, Ionesco compreso. i quali – ciascuno a suo modo s’adopereranno a portare sulle scene l’uomo nella sua realtà più profonda, più vera e niente affatto assurda. dando così il via non al “crepuscolo” ma al consolidarsi di un nuovo umanesimo. 

Ionesco non deride l’uomo, ciò che a primo acchito potrebbe sembrare, anche se lo presenta dimesso, trasandato, e apparentemente fuori della normalità, e non fa ironia; se presenta così l’uomo, è perché vuole riportarlo entro i confini dell’umano, da cui si è allontanato. Nuovo don Chisciotte contro i mulini a vento? Forse; intanto, il teatro di Ionesco, dalla prima all’ultima pièce, testimonia la volontà del suo autore di superare l’angusta realtà con una ricerca. condotta in prima persona, tesa a ridare un valore alla vita, tormentata com’è dai mali che s’accompagnano al progresso. 

G. Marcel difende a spada tratta il teatro tradizionale. «Vediamo qui verificarsi il ritorno a una specie di stato bruto. […] uno stato decaduto. […] Il teatro di cui si parla è un prodotto di disassimilazione». E, per dare credito alla sua affermazione, cita un saggio di Ionesco, Espérience du théatre, pubblicato nel febbraio del 1958, dove il drammaturgo, nel vivo della polemica, si lascia prendere la mano da una critica altrettanto pungente contro il teatro tradizionale, non risparmiando nessuno, tenendo conto solo dell’idea che si era fatta. secondo cui, «il teatro non è il linguaggio delle idee», e la sua riuscita consiste nel dare grande risalto agli effetti: «Spingere il teatro al di là di questa zona intermediaria che non è né teatro né letteratura, è restituirlo alla sua funzione, ai suoi confini naturali». E fa il nome di autori più o meno lontani nel tempo. Noi vorremmo solo ricordare che ogni autore vive e risente dello spirito della sua età, per cui, chi viene dopo è sempre avvantaggiato dalla ricerca altrui. A Pirandello (a parte che apporti positivi sono anche negli altri autori), pur accusato di essere troppo discorsivo, possiamo negare il merito di aver rivoluzionato l’arte teatrale? La stessa avanguardia. il «théàtre nouveau» in genere, Ionesco, non gli devono veramente molto? Pirandello, con la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, ebbe la stessa delusione che subirà trent’anni dopo Ionesco con La cantatrice chauve. Poche le presenze, moltissime le reazioni del pubblico e della critica. 

Il nuovo incontra difficoltà a essere accolto; è oggetto di incomprensioni e di tante riserve. come quelle di G. Marcel, che è portato a chiedersi, a un certo punto, perché sta accordando tanto spazio a questo teatro: non si spiega perché tanti spettatori cominciano a seguirlo. E trova la spiegazione nella stanchezza e nella loro capacità di sopportazione, così come avviene in certe riunioni che si protraggono fino a notte inoltrata: «In realtà, non si ha più niente da dire, non se ne può più, ma non si ha neanche il coraggio di separarsi, di fare lo sforzo necessario per uscire, per andare a coricarsi, e allora, si comincia a fare e a dire stupidaggini». Un modo come un altro per uscire da una rigida presa di posizione come questa, in cui il critico si ostina a non volere riconoscere una pur minima validità a un teatro che, nuovo in ogni suo aspetto, ha tutte le qualità che ci vogliono per imporsi e per farsi amare. 

Il teatro di Ionesco, che non ha niente di drammatico, si ascrive nell’ambito della farsa dove il comico più che muovere al riso disorienta perché non si riesce a capire bene l’obiettivo che l’autore vuole raggiungere. Tutto questo fa sì che lo spettatore rimanga fino all’ultimo come sospeso tra la realtà e il sogno, e solo quando tutta la matassa creativa si dipanerà dinanzi ai suoi occhi, allora vi riconoscerà la cruda realtà, spoglia da ogni conformismo, e avrà maggiore consapevolezza del suo io, quell’io che viene meglio preso in considerazione, e non ridicolizzato, come sembra a Marcel, come se Ionesco, lui tanto amante della vita, avesse fatto propria la filosofia del non-essere. 

Tra il giugno e il luglio dello stesso 1958, l’ “Observer” ospitò un acceso dibattito sull’opera di Ionesco. Il punto di partenza di questo dibattito (Ionesco interverrà con due scritti che avremo modo di ricordare più avanti) fu dato da un articolo di Kenneth Tynan dal titolo: «Ionesco: uomo del destino?», dettato dall’ammirazione per il drammaturgo delle Chaises, che proprio in quei giorni venivano rappresentate al Royal Court Theatre di Londra, e dalla meraviglia che il successo andava oltre le aspettative. Quell’ammirazione, da una parte, e questa meraviglia, dall’altra, spingono la Tynan a chiedersi se non ci si trovi proprio dinanzi a un «messia», e dove voglia arrivare l’autore con la sua «evasione dal realismo». 

L’incomunicabilità che è ne Les chaises può non essere condivisa («Questo mondo non è il mio, ma riconosco si tratti di una visione completamente legittima, presentata con molto equilibrio immaginativo e audacia verbale»), ma – sempre secondo K. Tynan – «il pericolo comincia quando lo si presenta come esemplare, come il solo accesso possibile verso il teatro dell’avvenire, – questo lugubre mondo da dove saranno escluse per sempre le eresie umaniste della fede nella logica e della fede nell’uomo». 

Il teatro di Ionesco, allora, più che ora, non poteva non disorientare, perché in queste prime opere effettivamente non si intravvede alcuno spiraglio; è come se ci venissero presentate delle allucinazioni (tra l’altro poco comprensibili e sul filo di un giuoco verbale molto acceso, che alla Tynan sembrano interessare solo Ionesco), le quali costituiscono la premessa di un lungo straziante itinerario 

destinato a essere ulteriormente proseguito. E ciò che apparentemente sembrava interessare soltanto l’autore, a poco a poco riusciva a coinvolgere quanti gli si accostavano, perché in quel fuori del normale, o del reale, c’era una verità latente e troppo inquietante. 

Fa, comunque, piacere notare che già in quegli anni le pièces di Ionesco varcarono i confini e cominciavano a essere conosciute e rappresentate nei teatri europei. Il 1958 è stata la volta di Londra, ma anche dell’Italia, dove, precisamente a Genova, Paolo Poli rappresentò La cantatrice calva per la regia di Aldo Trionfo, e ad Atene. Ciò significò l’interesse crescente verso quest’autore che, partendo da piccoli teatri parigini, si impose all’attenzione di un pubblico sempre più vasto, conquistando i maggiori teatri del mondo. 

Gilles Sandier, scrivendo di Ionesco nel libro Thédtre et combat, del 1970, a un certo punto, riferendosi alle opere successive del drammaturgo, dà risalto alla retorica e al meccanismo allegorico che le caratterizza e nota una recessione, come se Ionesco, preso dall’idea ossessionante della morte, rinnegasse gli elementi costitutivi dell’antiteatro e, in poche parole, ciò su cui poggiava la sua originalità che consisteva in «una concezione tragica del linguaggio, impotente a esprimere sentimenti e pensieri», e continua: «L’universo favoloso e sinistro che la sua comicità di una volta ci rivelava nel quotidiano ha ceduto il posto a un fantastico di scarso valore e senza pericolo». Ionesco, insomma, stando a quanto afferma Sandier, nella nuova fase del suo teatro dice cose già dette, servendosi, però, di un linguaggio più esplicito, cioè, più letterario e meno poetico. 

Abbiamo scritto che Ionesco disorienta. Così ci troviamo dinanzi a una parte della critica che, dimostratasi indifferente e del tutto ingenerosa verso le opere scritte intorno ai primi anni Cinquanta, cominciò a interessarsi di lui da Rhinocéros in poi, mentre, partendo sempre da quest’opera, un’altra parte di essa (noi abbiamo citato Sandier) ritiene, all’opposto, che Ionesco si sia discostato dal suo modo iniziale di fare teatro, facendo registrare in negativo la perdita della spontaneità che era alla base della sua originalità. A scanso di equivoci, va detto che non c’è stato alcun cedimento da parte di Ionesco. Se è vero che inizialmente Ionesco fu spinto dalla necessità di ridare vigore al teatro, è pure vero che la sua non era soltanto ricerca di nuove formule drammatiche, bensì ricerca spirituale, dibattito aperto soprattutto con se stesso prima che con gli altri: una ricerca che gli permetteva di chiarirsi alcune verità elementari e, al tempo stesso, di servirsi d’un linguaggio più semplice e adeguato a esprimere le conquiste del suo animo. Gli stessi gesti, il moltiplicarsi degli oggetti, le allusioni, saranno ancora presenti e sempre con una funzione di grande importanza per la comprensione; nelle pièces successive, magari, non saranno veri e propri oggetti (come nel Roi se meurt le crepe nelle pareti o le notizie diverse e allarmanti che sopraggiungono dall’inesistente regno, o il proliferarsi delle coma in Rhinicérosl. ma siamo nell’ambito di un equivalente che dice lo stesso il degrado dell’uomo e del mondo odierni. Nonostante questo, a cominciare da Macbett, Ionesco riprenderà il tono parodistico delle prime pièces. 

La tematica è sempre la stessa: l’incomunicabilità, la solitudine, il conformismo, la sete di potere che getta nell’imprevedibile e spinge verso la morte e, ancora, la precarietà della vita e il senso della morte, che annientano ogni illusione; temi che, seguendo uno sviluppo circolare, acquistano via via sfumature diverse. ma che riportano al drammaturgo delle prime opere. Segno di estrema coerenza morale oltre che artistica, grazie a cui Ionesco è, a buon diritto, uno dei massimi esponenti della drammaturgia contemporanea.

Salvatore Vecchio

(1) «Voilà ce que nous aurions voulu faire au théàtre. Nous avons eu une poésie surréaliste, une peinture surréaliste, mais nous n’avons pas eu un théàtre surréaliste, et c’était celui-là qu’il nous fallait».

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 17-24.

 




Tempo presente 

Sono qui a guardare 
diamanti sparsi nell’acqua 
che riflettono raggi di sole 
e il mare di Sicilia 
che traduce l’azzurro del cielo. 
Solo il rude profilo dei monti 
nudi di roccia 
nasconde una città che piange i suoi morti. 
Chi sono quei giovani così disperati 
che hanno paura di vivere 
in un mondo di adulti così degradato? 
che marciano in composto silenzio? 
l fantasmi della nostra coscienza!

Romano Cammarata

 

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 47 




Chi sono? 

Chi sono? 
Ragazzi, 
Uno, cento, mille e poi? 
Vediamo scorrere numeri che 
Quantificano entità, 
Ma non ci dicono nulla 
Sulla realtà, sulle identità 
Di questi uno, cento, mille, 
Come i consuntivi dei morti in guerra. 
Perché non cerchiamo da subito queste 
Identità perché possano aiutarci ad 
essere realisticamente vivi, per 
Stabilire da ora un rapporto con 
Questi uno, cento, mille. 
Allora sarà più facile contarli, 
Non solo, ma guardarli, conoscerli, 
Capirli e così non saranno più 
Soltanto uno, cento, mille, 
Ragazzi. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 46




Ho sognato i miei sogni 

Ho sognato i miei sogni. 
Sogni di un tempo lontano 
eppure necessariamente presente. 
Sogni già fatti sofferti o gioiti, 
persone, magie, gesti d’amore. 
Fantasie confuse al reale 
che si concreta al mattino. 
Mi risveglio? Non so! 
Forse è un cadere nel vuoto 
di una vita assiderata, 
che non appartiene a nessuno 
che ti lega i gesti, comprime le idee 
che subito esauste 
creano soltanto 
un nuovo bisogno di sogno 
un bisogno di sognare i tuoi sogni. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 45




Magellano ’90 

Avevo pensato 
non sognato 
a oceani d’acqua 
a orizzonti lontani 
a rotte complesse 
per approdi intelligenti. 
Ho ripiegato 
sul piccolo mare 
sul traffico interno 
in circoli chiusi 
con approdi a vista 
scontati con burrasche sperate. 
Oggi governo un traghetto 
con l’unica fatica 
ad ogni approdo 
di voltare le spalle 
per ricominciare 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 44.




Fantasmi a Milano 

Nel cortile cercato 
come un traguardo 
Visitato nel buio 
ho trovato i fantasmi 
Lungo il muro su per le scale 
Figure aggrinzite sbiadite 
Di compagni lasciati un giorno lontano 
eppure presente 
Li ho visti necessariamente immobili 
Come il ricordo 
Ho teso la mano non per toccarli. 
Un saluto? Nemmeno 
Cari fantasmi del vecchio cortile! 
Via Commenda ancora ci unisce 
Per come eravamo coi segni sul viso 
Per quello che siamo coi segni nel cuore. 
Viviamo lontani un giorno diverso 
Stasera tornato tra voi 
Col volto bagnato da lacrime e pioggia 
Grido nel buio la mia redenzione. 
Vi lascio leggero con ignoto sorriso 
Appeso a quel muro 
C’è l’altro fantasma di quel che ero io. 

Romano Cammarata

Da Spiragli, anno IV, n.3, 1992, pag. 43




Un sogno

Ho aperto le porte del canile municipale e 
cani senza collare mi sono venuti dietro. 
Poi sono andato allo zoo e ho aperto le 
gabbie, i cancelli e leoni, tigri, orsi e uccelli di 
tutte le specie sono usciti liberi e si sono uniti 
ai cani e insieme siamo andati davanti alle 
scuole e tutti i bambini saltando e ridendo si 
sono confusi con gli animali, poi siamo passati 
vicino alle caserme e i giovani sono usciti senza 
fucili per unirsi a noi, e donne e uomini 
lasciavano le macchine in mezzo alla strada e 
tutti andavamo liberi nella luce per fondare la 
città del sole. 
D’un tratto uomini vestiti di bianco, 
piangendo, mi hanno fermato, portato dentro 
una stanza e legato ad un letto e ora mandano 
via gli uccelli che, dalla finestra aperta, vengono 
a farmi compagnia. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 42

 




Torno all’isola 

I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine 
attraverso l’oceano 
della vita passata 
correnti invisibili 
tessono lo spazio 
rotte segnate dal destino 
tomo all’isola 
circondata di ignoto 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni 
Illuso 
il tempo rotolando 
beffardo sulla mia vita 
ha dato a me 
nuova dimensione. 
Non trovo i margini 
i nomi delle cose 
non trovo i simboli 
miti realtà 
e disperato cerco 
vane coordinate 
(Per dare colore al tempo’, pag. 51) 

Romno Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 41




F. Hoefer, Senza partitura – diario poetico dall’ U. R. S. S., Ragusa, Ed. Duemila, pagg. 58.

L’ultima raccolta del poeta empedoclino si evolve con graduale e visibile intensità affettiva che confluisce in una vera e propria «dichiarazione d’amore» a quello terra così sterminata e così lontana che è la Russia, quasi fosse un mondo di favole oltre l’umana dimensione, un mondo sospeso eternamente fra antichissime tradizioni che accen- dono la fantasia e una realtà immu- tabile. avvolta nel mistero.

Tramite un’impalpabile velina di «metafisica respiro», l’autore rivela i sentimenti ispirati da luoghi, imma- gini e situazioni, realizzando undiario di viaggio sospinto senza forzature dell’anima, intrepida e instancabile moderatrice di emozio-ni. Il titolo stesso del libro ne è il segno premonitore, che indica come la spiritualità poetica sia sciolta da qualsiasi costrizione lirica per librarsi nella marea di motivazioni psicologiche che agiscono sull’impulso creativo.

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 78




“Un porco italiano o un maiale tedesco?” 

Vallecorsa, terra ciociara di F(uori) R(oma), dimenticata da Dio, non dai Santi che v’han chiese e feste, accomodata sulla propaggine rocciosa che divide !’imbuto della valle, fa a destra quanto non fa a sinistra, memore dell’evangelico: “La destra non sappia della sinistra”, che tutti conoscono ma che solo i furbi praticano, non a gloria di Dio ma a proprio vantaggio. 

Nel borgo e nella valle, cristiani e cristiani per fame e miseria lavoravano a spacca-schiena i giorni della settimana, le domeniche e le feste comandate, perché lo stomaco non ragiona come agli ammutinati plebei del Monte Sacro spiegava il buon Menenio Agrippa che la faceva corta per non farsi scoprire lungo. 

Nel borgo e nella valle, arciprete, abate, canonici e seminaristi di Anagni godevano le domeniche e le feste comandate per dovere, come dicevano, per vocazione, come spiegavano per convincere il popolo devoto: il dovere di tutti, la vocazione degli eletti. 

Nel borgo e nella valle, godevano domeniche e feste comandate la guardia civica e la guardia campestre sempre in giro per cogliere in flagrante chi stendeva panni sul suolo pubblico, chi legnava nelle selve demaniali, con multe e sequestri provando la loro fedeltà al Comune. 

Nel borgo e nella valle, godeva domeniche e feste comandate il Camposantista che nel Camposanto a garbo suo e a sgarbo dei morti scavava fosse convinto che i morti han pazienza da vendere e non avallano cambiali a scadenza. 

Nel borgo, non nella valle, gli impiegati del Comune godevano i giorni della settimana, le domeniche e le feste comandate; costoro poltrivano in poltrona e indurendo con calli le chiappe carnose, non facevano distinzione tra i giorni lavorativi e i festivi, sicuri di posto e di stipendio. 

Nel borgo e nella valle, non godevano le domeniche e le feste comandate i mercanti d’olio, di lana, di frutta e ortaggi che sui carri stracolmi tirati da muli petenti e fetenti, andavano per le polverose strade della Ciociaria a far mercati. 

Nel borgo e nella valle, godeva le domeniche e le feste comandate l’esigua pattuglia dei macellai che lavorando all’occasione per i privati, nelle feste vendevano carni scelte ai ricchi clienti, versando quota dell’incasso ai Comitati delle Feste per ringraziare i Santi che sapevano come mandare avanti il commercio perché la “destra di Dio” è sempre “destra” anche per chi usa la “sinistra”. 

Tra i signori macellai, figurava Ernesto Giuliano N’Zellotto, fiero dell’arte, della bottega e del soprannome ereditato, facendo onore all’adagio: “Quale padre. tale figlio”, profetico programma per quanti lo capiscono e per quanti non lo capiscono: sempre in maggioranza. 

Ernesto teneva bottega allo Sciurarieglio con insegna di robuste corna al sommo dell’arco della porta, chiusa da tenda di variopinte cannucce che bloccavano l’esercito delle mosche ma davano accesso ai clienti. 

Nulla e nessuno nei tempi passati era riuscito a scuotere !’immobile società dell’antico borgo ma quello che non riusciva ai briganti, alle Camice Rosse di don Peppino Garibaldi, ai Carabinieri dei re Savoia e ai Centurioni del Duce Benito, riusciva ai Granatieri di Adolph Hitler, Fuehrer delle Camice Brune e Kanzler di 

tutti i Laender germanici, a tradimento occupando Vallecorsa bloccandone entrata e uscita con Panzer e blindati, con “PeKaWé” e “ElKaWé”. 

In quei giorni di ansie e delusioni, Ernesto teneva bottega aperta per onor di firma; non essendoci in giro bestie da macellare, Ernesto non disperava; di nascosto macellando, di nascosto vendendo, Ernesto metteva in scarsella in barba alle “SS”, aiutato nell’imbroglio dalla gente decisa a far dispetti ai Gcrmanesi. 

A turbare chi non ci teneva ad essere turbato, scendeva dal Vicolo Traverso l’Obergefreiter Udo Offenbach della “San-Kar-Einheit Haupt. Otto Hotegger” massiccio nella statura, fiero dei parafernali di “Panzer-Grenadier”, battendo i ferrati tacchi dci corti stivali chiodati sugli sconnessi selci dello Sciurarieglio. 

Si fermava il Caporalmaggiore della Wehrmacht a gambe divaricate davanti alla porta della macelleria e con occhiate, con accenni di capo e cenni di mani e con parole stracciate cercava di far capire al macellaio che la “Kommandantur”gli chiedeva di scannare un “ghi, ghi”:· un porco pronto per il macello. Ernesto capiva ma fingeva di non capire perché con i Germanesi: “Fidarsi è bene; è meglio non fidarsi” come consigliava ai Troiani in giuggiole il sarcedote Laocoonte esortando a non dar fiducia ai Greci anche se portavano doni: “Timeo Danaos et dona ferentes!”. 

Ernesto stufo del lungo tira-molla cedeva come il debole cede davanti al forte che nella forza pone la sua ragione. Mogio andava Ernesto dietro a Udo a mo’ di giaculatoria ripetendo a labbra strette: “Meglio scannare un maiale tedesco che un porco italiano!” e stringeva nella destra la “scannatora” come i padri stringevano canna e calcio del “novantuno”, le bombe a mano, i pugnali, i tubi di gelatina contro gli Austresi sul Montello, sul Monte Grappa, sulle rive dell’Isonzo e del Piave. 

Al Curtino, Ernesto provava grande imbarazzo. 

La bestia da scannare: un gran bel porco, dal colorito moro, dalle setole scure e dal grugno tutto bianco; “Questo un porco italiano” si diceva Ernesto” i maiali tedeschi sono bianchi, con le setole chiare e con il grugno roseo”. 

Rimaneva l’ultima prova: Ernesto chinandosi avvicinava l’orecchio al grugno della bestia e sentendola grugnire: “grù, grù, grù”, non “ghi, ghu, ghi” come grugniscono i maiali tedeschi, Ernesto imprecava contro la malasorte che lo costringeva a scannare un porco italiano quando avrebbe preferito far la festa ad un maiale tedesco. 

Come la Wehrmacht aveva ordinato, la bestia veniva scannata con gran soddisfazione di Udo, con rabbia di Ernesto che si vergognava d’aver contribuito alla resistenza delle Forze Armate Germaniche sul fronte di Cassino e di Anzio perché la Patria si serva anche facendo la guardia ad un bidone di benzina. 

Passavano gli anni ma al caffè Nardoni, agli Arbeletti, Ernesto raccontava la curiosa storia e a chi a brutto muso gli chiedeva: “N’ Zellotto, che differenza tra porco e maiale?”, a brutta ghigna rispondeva: “Se chi dice porco, non dice maiale, la differenza c’è, eccome!”. 

Nella domanda impunita e nella stizzosa risposta, la ragione della Taratalla obbligata a sciogliere il dubbio e a risolvere il problema filologico delle voci: “porco” e “maiale”. 

Le due voci italiane derivate dall’identiche voci latine: “porcus” e “maialis” indicano oggigiorno la stessa bestia nella diversità dei suoni ma nell’identica indicazione della bestia e per traslato, riferibili agli uomini, comportando significato offensivo. 

In latino le cose stavano diversamente perché come la società si svilisce 

catatropizzandosi, si sviliscono anche le parole catatropizzandosi. 

“Maialis: mai+alis”, aboriginalmente aggettivo, indicava il porco nato in maggio e destinato al sacrificio come prova il suffiziale: “-alis” indicante riferimento alla pratica religiosa1; il riferimento al culto restava nella parola anche quando questa indicava il sacrificio del “maiale” di un anno alla dea Maia, madre di Mercurio che tardivamente entrava dall’Olimpo greco nel pantheon romano2. Nello sviluppo del “rhematogramma” si perdeva via via il riferimento alla pratica religiosa, restando intatto il riferimento alla bestia come si nota in italiano se “porco” e “maiale” hanno lo stesso significato anche nella metafora3. 

“Maialis porcus”; il porcellino nato di maggio e che castrato veniva sacrificato a Maia, madre di Mercurio4. 

Il sostantivo “porcus” lo si fa derivare da “porceo; por-ceo” = tener lontano, difendere” perché gagliardo il porco difende territorio e prole5; lo si fa derivare dal grugno allungato: “a rictu porrecto seu prominente”6; Bienveniste, dopo ampia e dotta escursione nelle lingue indo-europee, convinto vuoi convincere che “porcus” nelle fonti latine appare col significato di: “animale giovane”, ·il giovane porco”; in seguito “porcus” occupava il posto lasciato da “sus”, questa voce finendo per scomparire dalle fonti e dall’uso o continuava significando il “porco selvatico”; “porcus” perdeva il suo significato e il diminuitivo: “porcellus” di recente conio indicava il “porcello” o “giovane porco”7. 

Lode altissima a Bienveniste pcr le sue dilucidazioni in merito anche se dal famoso filologo non apprendiamo il significato del1a voce “porcus” sulla quale bisogna operare, in base agli assiomi della Filologia Sperimentale come abbiamo fatto con “maialis”. 

In latino la voce: “porca” indicava le due gobbe che delimitano a difesa il solco aperta nella maggese dall’aratro: “lira”; nella “porca” si seminava con la speranza d’aver frutto le messi. 

l) “Maialis”: “porcus castratus ein geschnitten Schwein, ein borg; Varro, De Re Rustica. II, 4 et 7. Conf. Turneb. Advers. 21, 15. Nomen est ex eo quod Mqjae sacrificetur, ut est in Glossis Isidod” (B. Faber, Thes. Erudit. Scholast., Lipsia. 1717, col. 1576, Tom. Ls.v.). 
– La Filologia Sperimentale osserva: valido fissare i significati delle voci fondati sulle fonti e sull’uso; più valido fissare il significato aborigeno delle voci necessario alla ricostruzione del “rhematogramma” portatore della storia della società che le parole inventava, usava e trasformava nel tempo: diacronismo. 
2) “Parentalia“, “Satumalia”, “Volturnalaia”, “Volcanalia”, “Mortualia” etc.: il suffiziale: “‘ale”, “-alia” comporta l’idea della festa religiosa; “Flamen Dialis”, “Voltumalis Flamen”; il suffiziale: ··alis, “-ale” comporta riferimento al sacerdote. 
La Chiesa sapeva quel che cantava quando cantava: “Victimae paschalis” o quando indicava: “Vigilia paschalis”; questo quando i reverendi sapevano latino e ignoravano la “pissicologia”. 
3) L’uso reale o metaforico del1e due voci in italiano non chiede chiose, non merita postille. Del1e due parole, stando agli assiomi della Filologia sperimentale, una scomparirà e una resterà. 
4) Not. l. 
5) “Tertium etymon est, ut porca dicatur a porceo, quod ipsum dicitur quasi porro arceo” (G. J. Voss, Etymol. Ling. Lat. Reg. Typ., Napoli, 1763, pars altera, p. 553, s.v.). 
6) “Porcus, i,m.a rictu porrecto seu prominente dictus est, ein Schwein; ut ·Porci sacres”, Plaut. Rud. 4, 6, 4, i. e., sinceri, puri, integri & idonei sacrifriciis, uti explicat Varro de Re. R. Il, I & 4 ” (. B. Faber, op. cit., Tom. II, col. 1886, s.v.). 
7) E. Bienveniste, n Vocabolario dell’Istit. Indoeur., voI. l, Torino, Einaudi, 1976, pp. 19-24.
“Porca” indicava il genitale femminile nel quale si seminava con la speranza d’aver frutto di prole. Se alla “porca” si affidava il seme perché rendesse buon frutto alla stagione, consegue che al “porcus” il romano affidava capitale e speranza per aver alla stagione i frutti del lavoro, del capitale e della speranza: “porcus” la bestia della quale tutto rende e nulla va perso. 
Il significato della voce così ricavato potrà essere considerato valido se confortato da altra via. La Filologia Sperimentale batte la via dell’apofonia o gradazione vocalica che dà: “parc-“, “perc-“, “porc-“, avvalorando il significato di “porcus” ma dando significato altro al verbo: “parco”; “mettere a frutto”, “far valere”, “far fruttare”, che così inteso pone sotto altra ma vera prospettiva la politica di Roma che se fondava la sua direttiva nella prima arte e nella terza arte d'”imperium”, poneva centralmente la seconda arte: “parcere subiectus”, con essa perseguendo l’obiettivo di far “pari” i popoli, d’essi ·mettendo a frutto” le qualità delle braccie e delle menti, indifferentemente. Sotto questa nuova prospettiva filologica anche il cognome della “gens Porcia” acquista valore diverso e più impegnativo se “Porcius” non l’allevatore di porci ma chi sapeva trar frutto dalle sue qualità. 

Davide Nardoni 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 7-9.