Insieme nella pittura La lettura di un quadro 

Il quadro è come un libro da leggere, a qualsiasi epoca o tendenza o movimento artistico appartenga. Occorre anzitutto conoscere bene l’autore pronunciando correttamente il nome, specialmente se straniero – ed il titolo. 

Come ogni libro, il quadro ha una prefazione su cui bisogna indugiare a lungo, soppesandone contenuto e valore di chi l’ha scritta, prima di iniziare a «sfogliarlo». Nella prefazione è indicata la storia dell’autore, quella umana con le vicende della sua vita e quella «critica» con la collocazione nel periodo e nella corrente che gli competono. È inutile visitare una mostra senza essere a conoscenza dei dati essenziali che riguardano gli artisti che espongono le opere. È come voler leggere un libro senza sapere grammatica e sintassi della lingua in cui è scritto. 

Visitare una Pinacoteca o un Museo o una Galleria d’arte, è un fatto impegnativo e drammatico, un episodio importante in cui si misura la propria intelligenza ed il grado d’ansia di conoscenza che ognuno ha dentro di sé. Già «il desiderio» di guardare e capire l’opera d’arte, ci distingue dalla massa, la cui immaturità ed indifferenza – nel campo dell’arte – «è uno dei dati costanti ripetitivi ed ingannevoli dell’umanità». 

Davanti ad un quadro importante che non comprendiamo, occorre dirigere le qualità della mente e dell’animo verso il porto sicuro della consapevolezza obiettiva, incanalandone l’acqua sorgiva dell’intuito e dell’istinto. Guardare in silenzio, evitando la banalità di un «mi piace» o «non mi piace»; riunire gli elementi acquisiti nell’indagine prima espletata, collocando l’opera nel giusto spazio storico e critico appreso in precedenza. Ed infine, cercare di capirne il senso e la validità. 

Vediamo in che modo ci si può arrivare. Da soli, è praticamente impossibile. Purtroppo, le fonti di apprendimento per aiutarci a capire, si sono andate via via deteriorando a causa del tumultoso divenire delle nuove esperienze e correnti espressive, in particolare nella pittura. Alla lunga e meravigliosa «stagione» della prima metà del ‘900, così ricca di felicità inventiva e magistero nei grandi talenti che la espressero, ha fatto seguito una serie di proposte spinte da un mercato interessato ed avventuroso, e però condizionante – le quali hanno prevaricato confondendo nomi ed idee, e producendo guasti notevoli nel processo di avvicinamento della gente comune alla comprensione e fruizione dell’arte moderna. Esamineremo poi le varie correnti che si sono succedute dal Sessanta in poi e che costituirono «la rottura» con il «grande magistero» del primo Novecento, dall’arte gestuale all’arte povera, alla Bodyart fino ai «comportamenti» e all’arte di équipe delle nuove cosiddette avanguardie (condotte e spiegate – tra l’altro – con un nomadismo linguistico intercambiabile di assai dubbia chiarezza). 

L’incontro con un vero pittore 

Mi preme ritornare al concetto dell’apprendimento, in pittura, di un mezzo semplice e chiaro – comunque possibile – per arrivare al senso e alla validità del contenuto di un quadro, come già accennato. È necessario che, prima o poi, una persona di buona sensibilità – anche se di media cultura, a cui queste note sono rivolte – incontri un «vero» pittore e ne conquisti l’amicizia. Per «vero» pittore, si intende un professionista oltre che del pennello, anche della conoscenza della pittura alla quale abbia dedicato tutta la propria attività mentale ed esecutiva. 

Di pittori, in Italia, ce ne sono quanti, ahimè, ne enumerano ed illustrano le varie ed incolte enciclopedie fiorite negli ultimi anni, le quali altro scopo non hanno se non quello di soddisfare la vanità della gente che dipinge, spillando e facendo di tutta l’erba un fascio. In realtà, i nomi dei pittori che contano, quelli «veri», sono, nel nostro Paese, un centinaio, un esiguo gruppo, dunque, per ogni regione (a fronte dei trentamila e più, propinatici dai tanti ingombranti dizionari in giro). 

Ogni artista «che conta» ha il proprio bagaglio di riferimenti storici e critici ed una carriera di attiva militanza e riconoscimenti da parte degli studiosi e critici d’arte più validi e noti (autori cioè di importanti volumi sulla pittura e redattori culturali di famosi giornali e periodici di alta tiratura). 

Incontrare un pittore autentico e diventarne amico, non è facile. Spesso l’artista lascia la grande città e si rifugia lontano dal rumore e dallo smog. Per avvicinarlo, occorre sensibilità e buona cultura, ed anche simpatia, per infrangere la riservatezza e, a volte. il bisogno di solitudine del pittore, sempre alle prese con i propri fantasmi e alla ricerca delle infinite possibilità tecniche per realizzare l’opera. Una volta conquistatane la fiducia e l’amicizia. è bene coltivarle con discrezione e buon senso. 

Così l’artista diventa una fonte inesauribile di apprendimento e discernimento per chi cerca la verità in arte. Ci si rende conto, via via, di cosa sia la positività o la mediocrità o la nullità di un dipinto. come si imposta un quadro, dai primi gesti sulla tela sino alla firma. 

Spesso il pittore è estroverso e generoso e concede perfino la visione della propria alchimia e della propria tecnica a chi lo cerca e frequenta. Il mondo misterioso ed affascinante delle forme e dei colori. che attrae perfino i bambini, si rivela ed abbaglia. 

Entrare nello studio di un vero pittore è come entrare nella stanza della luce dal buio delle cose comuni del mondo. Non tanto perciò che di fisicamente è accertabile (il cavalletto, i barattoli, i pennelli, i colori, le tele, gli stracci), quanto, e soprattutto, per l’atmosfera di creatività e di cultura che vi aleggia. È un’esperienza semplice ed esaltante insieme, che tutti dovrebbero provare. L’artista, già nel descrivere le proprie opere – con la velata insoddisfazione, propria dell’autentica professionalità – nell’ambiente odoroso di vernice ed acqua ragia di misteriosa attrazione, usa parole ed atteggiamenti che convincono molto di più di una prosa accademica di libri o giornali o della stessa televisione. 

Si delinea e si concretizza. nella mente del visitatore, quel «linguaggio» fatto di piccole nozioni grammaticali e sintattiche, che gli consentirà quella «lettura» come di un libro, del quadro prima incomprensibile. È il primo approccio per saper distinguere il bello dal brutto. la pittura autentica da quella del dilettante, per raggiungere, a seconda del grado di intelligenza e duttilità del pensiero, quel momento che definirei «sublime» in cui si intravede il concetto della «qualità» in pittura e nell’arte tutta. Di questa magica ed inquietante parola: «la qualità», nell’arte (e nella vita), nel cui significato sta forse una delle ragioni più alte della nostra coscienza, scriverò nel prossimo articolo. 

Noi ci tramutiamo ed invecchiamo. Capire in tempo il significato e la qualità di un’opera d’arte, e goderne, è forse la nostra possibile terapia per sfuggire alla malattia dell’indifferenza e della tristezza dei nostri giorni. 

Proviamoci insieme.

Carlo Montarsolo 




Cielo dell’Attica

Cielo dell’Attica azzurro
spazio e respiro profondo,
un mare verde
per i marinai dell’anima.
Navigare è sogno,
la luce rincorrere, il sorriso.
Cielo dell’Attica azzurro
la sera che ti ho visto
eri raccoglimento, silenzio illimitato.
Già mi ritrovo tua memoria,
sfumato affresco negli occhi,
lievi colori, la tua bellezza.
Ma tramonta il sorriso
sfiorisce la dolcezza,
si perde il grido
nella pieghe delle labbra.
Cielo dell’Attica verde
il colore dei tuoi occhi
forse ho perduto per sempre,
chè se tornano il sorriso e la dolcezza
penserò ad un diverso cielo
senza colombe e senza voce,
un silenzio che incombe solenne
e seppellisce gloria e amore.
Cielo dell’Attica azzurro
mia tenerezza, illusione e pianto,
sei come il mio cielo cangiante
come il mio sogno errante.

Rolando Certa

(Il sorriso della Kore, Palermo, Il Vertice, 1985)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 54.

 




 Natura come essenza d’arte 

I luoghi della memoria dove aleggiano i ricordi dei nostri padri hanno in sé quell’essenza religiosa che ci invita al raccoglimento e ci ammutolisce in riflessioni profonde. 

L’uomo antico, oltre al sole, ci ha lasciato in eredità i suoi paesaggi simbolici che, in terre perdute e lontane, contengono messaggi misteriosi. Singolari rovine, sconcertanti solchi ed iscrizioni sul terreno, operati da una maxicalligrafia fantasiosa, visibili soltanto da un aereo in volo, sono i luoghi sacri dove egli cercava la comunione con il soprannaturale. Certamente elevava inni suonando rozzi strumenti d’osso e canna e percuotendo pelli distese: il luogo avrà avuto risuonanza particolare perché essa si elevasse senza echi. 

Oggi, le imponenti pietre di Stonehenge o gli immensi disegni del deserto di Nazca in Perù o, ancora, i monoliti scultorei dell’isola di Pasqua, sono i luoghi dove senti vibrare una tensione religiosa a testimonianza di una sacrale vitalità passata. 

Il monolito, in particolare, è una tra le più alte espressioni di preghiera dell’uomo verso un Ente supremo, quale muta richiesta intercedente per attraversare l’Ade. 

Isolato o aggregato in file lunghissime, come nei viali megalitici di Camac resta il segno tangibile delle fatiche immani e del tempo spesi dall’uomo per ingraziarsi l’Altissimo. 

E fatto religioso è sembrato il mio causale ritrovamento di un monolito, quale scoglio perduto, del peso di circa tre tonnellate dai chiari connotati artistici per le sue sembianze antropomorfe che da una discarica al bordo stradale di una via secondaria nel trapanese mi è apparso emergente tra massi informi. Calamitato il mio interesse e provveduto a farlo districare, mediante una potente gru, da quanto gli si sovrapponeva, d’improvviso si è stampato nell’indaco del cielo mentre roteava lentamente su se stesso a mostrarsi come creatura nascente dal grembo della grande madre natura. 

Il richiamo mentale immediato agli «uomini di pietra», tema ricorrente da decenni nella mia pittura e l’emozione di veder materializzata la visione dei miei uomini della fantasia hanno reso indimenticabile quel momento di grande suggestione. 

Tale «opera d’arte della natura» figliata da un terreno su cui si accanisce la speculazione edilizia. porta in sé il martirio delle onde marine che per millenni hanno scavato ed eroso la sua superficie in modo assai singolare. Numerose conchiglie fossili. infatti. lo testimoniano. Le sue cavità, di diversa profondità e larghezza, alcune attraversate dalla luce. appaiono come parti segrete messe in evidenza dalle rifrazioni solari che nel volgere del giorno creano su di esso inattesi volumi. 

Effettuati gli opportuni interventi manuali, come per purificarlo dal liquido amniotico che lo avvolgeva, ho provveduto ad elogiarlo come opera d’arte sistemandolo in un residence Club di Campobello di Mazara, dove ero ospite. 

La natura si esprime con linguaggio muto e sarebbe doveroso saperla leggere. Essa appare solenne a chi ne sa cogliere il senso misterioso oppure umile a chi guarda e non vede. 

È tempo di tralasciare le frenesie cittadine per ritrovarsi in quei luoghi religiosi che la natura e non l’uomo ha creato. È tempo di soffermarsi ad addolcire il proprio spirito immergendosi senza scia nell’abbraccio totale di un paesaggio come nell’osservare un insetto al lavoro. 

Il monolito e il menhir recano in sé i segni decifrabili dell’uomo mentre la pietra che reca naturalmente i segni della lontananza dei millenni ci si mostra come vivido messaggio artistico della natura. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 43-44.




 Il mare sano è vita 

Attendo la calda estate, da quando mi accorsi che il tuo Stagnone, o mare, stava a poche centinaia di metri da casa mia. E sono smanioso di tuffarmi nelle tue acque, perché solamente esse mi spogliano di tutti i pensieri che nascono e affollano il mio cervello, anche quando m’appisolo dopo pranzo. E in te m’illudo d’essere bambino o, meglio, embrione, immerso nel liquido amniotico. E più mi muovo in te e più mi sento libero, senza alcun disturbo, anche quando, giunto malconcio, agitandomi a più non posso, l’euforia che m’aveva preso aveva lasciato il posto all’incoscienza, che è uno stato paradisiaco. 

Non so se tale magnifico effetto, che somiglia – per quello che ho letto – a quello della droga, sia dovuto al tuo colore che non riesco a catalogare, tanto è vario e bello e si confonde in lontananza con quello del cielo, tranne dove ci sono isole alte, come le Egadi, di fronte a San Teodoro, o quando c’è foschia o al tuo sapore che pare di bibita eccellente, quando vieni ingoiato con una boccata di tramontana, che lì è di casa, o alla tuamusica incessante che anche quando è debole, è sempre dolce e struggente, ancor più di quella di Brahms o di Schubert che sono le mie predilette. 

Quando sei immobile, mi stendo come un cartellone pubblicitario o, meglio, uno spaventapasseri e faccio il morto con il petto gonfio d’aria e il viso rivolto al cielo. Attratto dal tuo fondo che scopro nitidamente, mi tuffo con gli occhi aperti ma dolenti e lacrimosi alla ricerca di un qualcosa che non conosco, infilo le mani nella ghiaia, nella sabbia o nella melma o in una polla d’acqua dolce e fresca. Allora mi piace scavare, seguire l’andamento geometrico delle dunette sabbiose prodotte dai tuoi moti, che gli anglosassoni chiamano ripple marks, tastare gli scogli erbosi sino a toccare un granchio, leggere le impronte dei gasteropodi, il lavorio del paguro, studiare il comportamento dei neonati tra ciuffi algacei o in praterie di posidonia, e risalgo sbuffando, come un palombaro, quando il fiato mi viene meno. 

Tutto filmerei, perché sei vario, dal Baltico alla Patagonia, e nello stesso luogo da oggi a domani e ininterrottamente girerei per conoscerti meglio. La tua immensità, la molteplicità dei tuoi habitat, con la vivacità, le forme, i colori, le abitudini dei micro e macrorganismi che t’abitano, le tonnellate e tonnellate di elementi chimici e le innumerevoli molecole che ti costituiscono, il cui calcolo approssimato farebbe soffrire il più quotato cervello elettronico, mi fanno minuscolo ma grandemente consapevole che tu sei – permettimi, forse ti sentirai offeso – una creatura come lo sono io, o come lo è quella farfalla bianca che approda sulla terraferma visibilmente stanca, dopo non so quante ore di volo, come lo sono quei germani reali che remigano allineati e coperti come fanno i ciclisti, velocemente verso settentrione, come lo è l’aria o quella stella che fiammeggia ininterrottamente da miliardi di anni prima della comparsa dell’uomo, come lo è tutto il sensibile e tutto quello che ancora non percepiamo che, a prescindere delle anime dei trapassati, è più abbondante del pur maestoso visibile. 

Tu, o mare, ogni qualvolta vengo a te, cosa che faccio spesso nella calda stagione, rinnovi la mia vita, al pari dell’elettrauto che ricarica le batterie. Ed anche oggi, mentre la Rotonda e la Torre, da cui per mesi interi si levarono odori di fritture e suoni agitati, stanno uscendo dal letargo, mentre alcune roulottes già si preparano ai viaggi, e nubi bianche e sparse gareggiano nell’alta troposfera da Ponente ad Oriente, io sono là, al sole di mezzogiorno, con Maria Antonietta e Paoletta, insaziabili quanto me. Non te la prendere, ti prego, se mi vedrai per molto a mollo e saltellare come un fauno forsennato sulla tua spiaggia bagnata, dove oggi ho tentato ancora una volta, ora che il curioso è impegnato altrove, di battere il record del mondo stabilito da Mennea, perché tu, che sei un componente essenziale dei miei liquidi vitali, che entri in me attraverso i pori e per le decine di migliaia di scambi osmotici che trame e te si stabiliscono, dal momento che m’avviluppi, e talvolta a sorsi dalla bocca, mi sei gradevole lassativo: accettando le mie annuali scorie, mi disinquini e riequilibri le condizioni fisico-chimiche dei miei ambienti interni, condizione determinante per poter vivere sano e a lungo, Mi trattieni quasi con un elastico invisibile, forse testimone delle origini dei nostri lontanissimi progenitori o perché in te solo riesco a scaricare le tensioni dell’anima mia senza nuocere a nessuno. 

Anche i viaggi mi rasserenano, e per questo ho girato un po’ per l’Europa, Mi piace l’alta montagna, quella delle nevi eterne e l’intricata foresta, e la tundra e la nuda hammada, ma in esse non saprei starci che qualche mese, mentre mi scoppierebbero certi organi se dovessi lasciarti per qualche anno, mare vivo, fecondo, ventilato, pulito, genuino e musicale, accolto come mamma da coloro che t’hanno avvicinato, medicina naturale polivalente, Anche se non sempre sei accettato, e sconsigliato da certi che, non avendo ben compreso le funzioni semplici ed insostituibili della natura, si affidano a somministrazioni di farmaci ottenuti per sintesi. Sostanze che inquinano gli ambienti interni e non giovano, anzi rovinano spesso irreparabilmente il paziente. 

Avviciniamoci alla natura con animo fiducioso, e rispettiamola, se vogliamo essere amati come figli e tutelati. 

Aldo Nocitra 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 14-16.




I PESI CHE TI PORTI APPRESSO

Con questi pesi che ti porti appresso
giri per la città, tutto da solo,
la cattiva coscienza t’importuna:
un vino inacidito dentro l’anima.

C’è un bar all’angolo dove ti faranno
la carità di un dito di J&B
e una voce sospira Summer time
portandoti veleni d’oltre Oceano.

Le colombe s’inventano Venezia
e tu rianneghi nella tua laguna, 
senza violino.

La cassiera sorride a una battuta
arguta sul suo seno che è in rigoglio,
ti tratta già da vecchia conoscenza
e niente sa di te, dei tuoi fantasmi.
Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 29.




UN RITRATTO DELLA MADRE

C’era pure un ritratto della madre 
                      – di lei nessuno sa niente,
s’affaccia a guardare con aria stranita,
rispunta tra le carte di una lite
che il tempo non può più sedare.

Che suonava l’armonium nella chiesa
lo ricorda qualcuno,
e che cantava 
inni sacri alla gloria del Signore;
e si nutriva di letture bibliche,
conversava con Sara e con Isacco,
con Esaù che volle le lenticchie.
E lottava con angeli, a sua volta.

Ai ragazzi insegnava l’alfabeto
e a far di conto.
Le diedero persino una medaglia
con l’effigie del re: c’era una volta…

Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 29.




Jane Austen: The Economic Vulnerability of Women

Jane Austen’s works can be easily read as novels which simply provide lively entertainment in their vivid description of the manners of her times, but in doing so a very important concern of the author would be missed. A more careful study of Austen’s novels clearly points to her awareness of the economic vulnerability of women in the 1800s, a vulnerability which quite often leads to the lack of provision for their needs and those of their children.

To better understand Jane Austen’s preoccupation with the economic status of women and its importance in her works, it would be helpful to briefly mention her social position in life. Jane Austen was the unmarried daughter of a country clergyman. She was fully aware of the difference between her own station and that of the landed classes.

Her position was one of insecurity and it is never forgotten in her novels. She fully comprehends the hardship and restrictions caused by the lack of income1. In Austen’s Emma, a perfect example of this is Mr Knightley’s reaction to Emma’s harsh treatment of Miss Bates:

How could you be so unfeeling to Miss Bates?
How could you be so insolent in your 
wit to a woman of her character, age and 
situation? Emma, I had not thought it possible…
Were she a women of fortune, I would
leave every harmless absurdity to take its
chance, I would not quarrel with you for any
liberties of manner. Were she your equal in
situation – but Emma, consider how far this
is from being the case. She is poor; she has
sunk from the comforts she was born to;
and if she live to an old age, must probably
sink more. Her situation should secure your
compassion. It was badly done, indeed!2.

The words spoken by Mr Knightley are written by Jane Austen to stress the fact that a woman’s economic status is precarious, especially that of a single woman, such as Miss Bates who is forced to care for herself and her mother.

Austen knows that income is necessary to maintain life and that the loss of income brings financial difficulty which can easily lead to material hardship. The Dashwoods, the Bennets, Miss Bates and her mother are the characters brought to life by Jane Austen, not only to amuse her readers but to underline the harshness of the economic reality the women of her period faced. The period’s single most important source of capital was the possession of land. As Tony Tanner so rightfully points out, the society of which Jane Austen was a part and of which she wrote was based on landed interests, the sacredness of property.

Tanner reminds us that since John Locke affirmed in The Second Treatise of Government, written in 1690, that the end of government was the preservation of property, the rights of property were continually stressed. Through the 1800s society’s order and stability were tied to the rights of property until they became considered as identical 3.

The theme of the vulnerability of women regarding the right to inherit property is a dominant one in Austen’s works. In Pride and Prejudice, Austen informs her readers that:

Mr Bennet’s property consisted almost entirely
in an estate of two thousand a year,
which, unfortunately for his daughters was
entailed in default of heirs male, on a distant
relation; and their mother’s fortune, though
ample for her situation in life, could but ill
supply the deficiency of his. Her father had
been an attorney in Meryton, and had left
her four thousand pounds4.

With no inheritance rights to their land, consequently, the Bennet women in Pride and Prejudice are destined at the death of Mr Bennet to lose the Longbourn estate to Mr Collins, the nearest male heir, and become dependent on the meagre income to be derived from the interest on the 4000 pounds from their mother’s marriage articles. The Dashwood women in Sense and Sensibility upon the death of Mr Dashwood are forced to leave their home, the estate of Norland which is bequeathed to Mr Dashwood’s son, John, from his first marriage.

Jane Austen was very interested in the condition of women who are subjected to the loss of home. As a clergyman’s daughter, she knew that her home depended only on her father’s life, once he died, the Rectory would go to another incumbent, and, as his income was the chief financial resource, she and her mother and sister would be dependent on the generosity of her brothers. Jane Austen was fully aware of the dangers and difficulties inherent in relying upon the kindness of male relatives. John Dashwood’s idea of “generosity” towards his sisters and their mother speaks loudly enough:

It will be better that there should be no annuity 
in the case; whatever I may give them
occasionally will be of far greater assistance
than a yearly allowance, because they would
only enlarge their style of living if they felt
sure of a larger income, and would not be
sixpence the richer for it at the end of the
year. It will certainly be much the best way.
A present of fifty pounds, now and then, will
prevent their ever being distressed for money,
and will, I think, be amply discharging
my promise to my father5.

Even women who did possess fortunes did not have direct control of the money they owned in Jane Austen’s times. Male trustees would have the custody of their fortunes. If the trustees were honest and careful to make safe investments, women could then rely on a fixed, regular income. If the trustees were, on the other hand, dishonest or made bad investments, then a woman could be left with nothing6. However the case, women had no power of decision. In Jane Austen’s Persuasion, Anne Elliot’s friend Mrs Smith falls victim to the indolence of Mr Elliot, the executor of her late husband’s will, who refuses to pursue her rights to an income from her West Indian property: 

Mr Smith had appointed him the executor of
his will; but Mr Elliot would not act, and the 
difficulties and distresses which this refusal 
had heaped on her, in addition to the inevita-
ble sufferings of her situation, had been such 
as could not be related without anguish of 
spirit, or listened to without corresponding 
indignation. 
Anne was shewn some letters of his on the
occasion, answers to urgent applications
from Mrs Smith, which all breathed the
same stern resolution of not engaging in a
fruitless trouble, and under a cold civility,
the same hard-hearted indifference to any
of the evils it might bring on her. It was a
dreadful picture of ingratitude and inhumanity;
and Anne felt at some moments, that no
flagrant open crime could have been worse7.

It can safely be assumed that Anne’s feelings are those of Jane Austen’s, that is, that a woman’s economic position was always at risk because it was always in the hands of others. 

In the 1800s, women in England, whether they belonged to the gentry, the urban middle class, or the rural poor, all saw matrimony as a safeguard which provided them with the economic support they needed. Women who were members of the gentry or the aristocracy were given capital sums but they were largely small sums.

As a consequence, women, for accommodation and for the expenses of running a household, depended on men: initially their fathers and subsequently, it was hoped, their husbands8.

In Austen’s Pride and Prejudice, Charlotte Lucas, the daughter of Sir William and Lady Lucas, accepts the courtship. of Mr Collins despite his evident stupidity.

Austen admits that Collins was “neither sensible nor agreeable, his society was irksome……But still he would be her husband.” Charlotte Lucas, as many women of Austen’s times, saw marriage as her main object. Sir William could give her little fortune and so matrimony was “the only honourable provision for welleducated young women of small fortune and …..must be their pleasantest preservative from want”9.

Those women who could not turn to male relations for economic support had few alternative choices. Jane Fairfax’s economic situation when we first meet with her in Austen’s Emma does not include the financial support of a father, a brother, or a husband. She, in fact, is an orphan, the only child of the youngest daughter of Mrs Bates. Her father’s close friend, Colonel Campbell, decides to take her in and therefore Jane goes to live with the Campbell family. Colonel Campbell, however, not being able to provide for her decides “that she should be brought up for educating others; the very few hundred pounds which she inherited from her father making independence impossible”10. Jane Fairfax’s destiny, it seems, is to become a governess, the only choice of paid employment for middle-class women of that period. Governesses during this time typically worked long days teaching their charges for annual wages of about fifteen to twenty-five pounds. Jane Fairfax sees her future life as a governess as bleak and lonely, a life filled with hardship and sacrifice. Austen knows that her only other choice is matrimony and so in the end her secret engagement to Frank Churchill becomes known and the position found for her by Mrs Elton is quickly forgotten. Women during Jane Austen’s times did not have many rewarding job opportunities. Austen knows only too well that material comfort was provided by marriage.

In examining the constant presence of economic concern in Jane Austen’s works, the influence that Adam Smith had in those times should not be overlooked. It is very well known that his great work, The Wealth of Nations, published in 1776, signalized the end of feudal Europe and the beginning of the industrial age. It provided a ratio nale for the revolution in the economic order. His definition of “necessaries” was widely accepted by his contemporaries: 

By necessaries I understand, not only the 
commodities which are indispensably ne-
cessary for the support of life, but whatever 
the custom of the country renders it indecent 
for creditable people, even of the lowest or-
der, to be without11.

The pages of Jane Austen’s novels are filled with exact calculations of the sum of money needed by her female characters to supply those “necessaries” so clearly defined by Adam Smith. That sum more commonly called “competence”, as is explained by Edward Copeland, establishes exactly how much money was needed to live a life of gentility. Jane Austen teaches us that the competence could easily increase or decrease depending on the pretensions of the person to rank and status. A conversation which takes place between the two Dashwood sisters, Marianne and Elinor, in Sense and Sensibility, demonstrates this point, when they share their estimates of just what each one thinks an adequate competence might be. Marianne names “about eighteen hundred or two thousand a year, not more than that” as her ideal. Elinor quickly responds, “Two thousand a year! One is my wealth!”12.

Marianne’s competence is an income which is appropriate for the minor gentry; Elinor instead sets her income at an amount which represents that of a prosperous Anglican clergyman. At the end of the novel, Austen sees to it that each woman reaches her desired competence, through marriage of course!

Copeland’s study shows that the yearly income is a recurrent theme in women’s fiction at the turn of the century. Women novelists of all ranks and political opinions calculate the specific spending power of different annual incomes13. Among the annual incomes described throughout Austen’s novels, it might be of interest to dwell upon that of five hundred pounds a year. Fanny Dashwood in Sense and Sensibility enumerates the luxuries her four female in-laws will enjoy on this yearly income:

And what on earth can four women want
for more than that? – They will live so cheap!
Their housekeeping will be nothing at
all. They will have no carriage, no horses,
and hardly any servants; they will keep no
company, and can have no expenses of any
kind! Only conceive how comfortable they
will be!14.

Perhaps the harshness of Fanny Dashwood’s words take on an even stronger meaning when it is realized that Jane Austen’s competence was a little less than five hundred pounds a year!

After having examined Jane Austen’s works and their preoccupation with the economic status of women, the words of Watts and Smith in their study Economics in Literature and Drama ring especially true. Watts and Smith claim that even though literature and drama are considered as institutions that function separately from economic forces and conditions, they, nevertheless, influence and shape public opinion in many economic issues. Therefore, literature and drama should not be neglected because they are important sources for economic instruction15. In reading the novels of Jane Austen, it can be truly believed that her works have, in their own way, contributed to the realization of the econo mic freedom that women enjoy today. Let us not forget that :

“The prophet and the poet may regenerate. 
the world without the economist, but
the economist cannot regenerate it without
them.” Philip Wicksteed16.

Mary Scorsone

Note

1 Mary Evans, Jane Austen and the State (1987), pp. 10-12. London: Tavistock Publications. 
2 Jane Austen, Emma (1816) 1996, p. 346. New York: Barnes and Nobel Books.
3 Tony Tanner, Jane Austen (1986), p.16. London: Macmillan.
4 Jane Austen, Pride and Prejudice (1813) 1996, p.29. London: Penguin Books.
5 Jane Austen, Sense and Sensibility (1811) 1990, p. 9. New York: Oxford University Press.
6 Edward Copeland, Women writing about money: women’s fiction in England, 1790-1820 (1995), p. 17-
20. Cambridge: Cambridge University Press.
7 Jane Austen, Persuasion (1818) 1985, p. 215. London: Penguin Books. 
8 Mary Evans, Jane Austen and the State, p. 18, op.cit. 
9 Jane Austen, Pride and Prejudice, p. 120, op. cit.
10 Jane Austen, Emma, p. 149, op. cit.
11 Adam Smith quoted in Edward Copeland, Women writing about money: women’s fiction in England, 1790-1820, p. 8, op. cit. 
12 Jane Austen, Sense and Sensibility, p. 9, op. cit.
13 Edward Copeland, Women writing about money: women’s fiction in England, 1790-1820, pp. 20-
24, op. cit.
14 Jane Austen, Sense and Sensibility, p. 9, op. cit.
15 Michael Watts and Robert F Smith, Economics in Literature and Drama in The Journal of Economic Education, Vol. 20 N° 3 (Summer 1989), p. 293. New York: Heldref Publications.
16 Philip Wicksteed quoted in Michael Watts and Robert F Smith, Economics in Literature and Drama, p. 291, op. cit.

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 25-29.




LINGUA E DIALETTU

Un populu
mittitilu a catina
spugghiatilu
attuppaticci a vucca,
è ancora libiru.

Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unni mancia
u lettu unni dormi,
è ancora riccu.

Un populu,
diventa poviru e servu,
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.

Diventa poviru e servu,
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.

Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu a chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.
Mentri arripezzu
a tila camuluta
chi tisseru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.

E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènniri;
i giuelli
e non li pozzu rigalari;
u cantu,
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.

Un poviru,
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.

Nuàtri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtani di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.

Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponnu rubari.

Nni ristò a sumigghianza,
l’annatura,
i gesti,
i lampi nta l’occhi:
chissi non nni ponnu rubari.

Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.

Ignazio Buttitta

(da Io faccio il poeta, Milano, Feltrinelli, 1972)

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag24.




FRANCESCO GRISI, L’affettuoso sentiero – poesie, Palermo, Thule ed., 1994.

L’affettuoso contemptus di Grisi 

Scoprire l’«affettuoso sentiero» che Francesco Grisi ci invita a percorrere è cosa difficile ed insieme facilissima. Difficile, perché nella raccolta non esiste una poesia eponima o per lo meno una nella quale ricorra l’espressione del titolo. Ma se guardiamo al trans-correre delle ventitre liriche, ci accorgeremo facilmente che il “sentiero” che costituisce la guida e quasi l’anima degli “affetti” che accendono la fantasia del poeta è l’ordine stesso con cui quelle liriche sono state raccolte e presentate al lettore.

La prima lirica (“Veleggiavo una mattina…”) sembra dire che la vita del poeta trova “ormai” significato soltanto nella “disperata memoria” del passato, negli anni dell’adolescenza calabrese dello scrittore. Ma se così fosse la poesia di Francesco Grisi sarebbe come quella di tanti altri, anzi, una di quelle voci “prometeiche” e pagane che, non sapendo dare un significato alla “realtà della morte” nella vita degli esseri e del mondo intero, si inventano favole di immortalità terrestre e battaglie baroccheggianti contro il tempo, la Morte e l’oblio nel tentativo “disperato” di essere ricordato dai posteri o di richiamare in vita il passato, il tempo perduto: magari illudendosi ed illudendo, come il buon Proust, che il sapore del tempo è superiore al tempo stesso e che il ricordo è l’unica realtà in un esistere ridotto a mera apparenza, senza più alcun barlume di trasparenza.

Il culto della memoria, per quanto seducente, è religione da disperati – dice Grisi; “allarga il cuore”, ma lascerebbe vuota la nostra esistenza, se il veleggiare nel mattino all’ombra degli ulivi di Crotone, si fermasse alla pura memoria, se non tendesse a trascendere il fatto o il ricordo in sé, se non diventasse mito facente parte di una globale armonia, nella quale il tempo non si divide più in “stagioni” perché gli uomini «siamo nati invece per non morire»; anzi, in verità, malgrado la presenza della morte e proprio grazie ad essa «siamo quelli della resurrezione». Ecco, Francesco Grisi non rimpiange, né ci attrista con il suo rievocare l’infanzia, la figura del padre, quella della madre, o le cadenze e i ritmi musicali del mare di Calabria (“Allora. Il mare”). La rievocazione non è canto dolente, né il “così sia” che egli scandisce e quasi frantuma con amabile, irriverente ironia, significa rassegnazione, bensì capacità di cogliere i ritmi dell’universo nella bellezza che contraddistingue le figure, le scene, gli accadimenti, le cose. Tutto e sempre, di là e oltre, la pura (o stupida) peculiarità di ciò che serve a caratterizzare un individuo o una civiltà, un momento della nostra vita o una tranche della storia.

Il poeta è così sereno dinanzi alla prospettiva della morte da affermare che allora, quando che sia, egli tra giorni sarà “greco in Cielo”; ma noi vorremmo aggiungere che egli è greco, nobile figlio della Magna Grecia, anche per il suo sentimento di una vita che ha inchiodato Prometeo «per secoli/ a una rupe rassegnata» ed ha rifiutato l’atteggiamento implorante di  Orfeo («Orfeo implorante più non mi appartiene») per ricercare alla fine il Dio Ignoto della Resurrezione, rivelato agli Ateniesi da Paolo.

E allora, se la realtà vera è la resurrezione, la morte non fa più paura, né la vecchiaia si carica di attributi poco lusinghieri, né in essa e di essa si rilevano le sofferenze o gli acciacchi. Essa è un sereno avanzare per “i sentieri del ritorno” verso il Padre, dopo che la giovinezza e la maturità hanno esaurito quella carica, cosiddetta vitale, che ci aveva portato, come folli tralci, ad allontanarci dalla Vite-Vita, e ad inorridire della morte. Scrive il poeta: «Per ignoto privilegio / accolgo anche la morte / e docilmente la scrivo / in forme di vita».

In questa prospettiva autenticamente cristiana, attraverso la celebrazione mitica dell’infanzia, di Crotone, della nativa Cutro, del suo mare e del suo cielo, di Todi e dell’Umbria, terra di fede, attraverso il canto della donna, dell’amore, delle bellezze della natura, il poeta perviene ad una sorta di contemptus mundi rovesciato, dove l’attesa dell’altra vita e l’ansia della resurrezione non comportano il distacco dalla vita di ogni giorno o il disprezzo dei beni materiali, ma piuttosto un più attento e vigile amore per le cose del mondo, un disincantato “affetto” ricco di ironia, il quale, fra l’altro, ci fa scoprire che fra le verità religiose e le seduzioni terrestri non c’è contrasto ma complementarietà e che – anche in questa vita – la creazione e il mondo nei suoi infiniti aspetti di bellezza e bontà fanno parte di un piano armonico tutto da scoprire e da gustare: Dio – dice il poeta in forma potentemente suggestiva – è un racconto senza fine.

Vincenzo Monforte

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 64-65.




Salvatore Vecchio, La Terra del Sole. Antologia di cultura siciliana, 2 voll., Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2001.

Un’originale panoramica antologica 

Ho potuto leggere e apprezzare l’opera in 2 volumi di Salvatore Vecchio La Terra del Sole. Antologia di cultura siciliana. Il primo volume va dalle origini ai Borboni, il secondo dal Risorgimento ai nostri giorni. Elegante nella veste e densa di contenuti riccamente annotati, è originale nei dettagli e nella panoramica, anche antologica, della letteratura siciliana.

È un lavoro sobrio, proprio di chi rifugge dal perseguire effimere mode, convinto della necessità di sottoporre all’attenzione dei lettori contenuti efficaci, di scrupolosa fattura. Egli ci introduce nel teatro di trascorsi eventi e ci rende partecipi delle azioni dei protagonisti in un’analisi di piacevole scorrevolezza senza mai tradire, dall’inizio alla fine di ciascuna scheda d’autore, l’impegno a mantenere costantemente lineare la narrazione e a renderla accessibile in tutto il contesto esposto con puntigliosa fedeltà di una obiettiva ricostruzione che ravviva i tempi e penetra nell’intimo i fatti, ricercando e riscoprendo le lontane origini della civiltà sicula per riproporla, con solide fondamenta, a quanti ritengono giusto e doveroso difende la cultura dei nostri avi dallo scadere dei valori tradizionali della nuova lingua.

In quest’opera l’Autore dimostra spiccata professionalità ed ingegno non comune dotato di molteplici risorse nell’arte di sviluppare e coordinare il lungo percorso storico-letterario in argomento, evidenziando nei numerosi approfondimenti inseriti qua e là nell’intera opera le varie derivazioni dei vocaboli, spiegando e rilevandone, all’occorrenza, le avvenute trasmutazioni attraverso i secoli.

Nel contesto dei due volumi Salvatore Vecchio ricostruisce i tempi in cui si sono formati i singoli protagonisti e li segue nei loro vari itinerari culturali, fino al raggiungimento dei loro traguardi, progredendo in questo suo nuovo studio il discorso già da tempo avviato con successo in altre precedenti ternate editoriali dedicate a personaggi di spicco, quali Cardarelli, Pirandello e Ionesco. Il tutto sempre con ineccepibile rispondenza alle fonti ben rigorosamente controllate.

In conclusione, si può dire che l’opera induce a far riconoscere all’Autore un riuscito tentativo di rivalutazione di tutti i personaggi dei quali si è occupato con appassionate ricerche che mettono in rilievo la sua competenza di critico equilibrato e di vasta cultura.

Donato Accodo 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 63-64.