AA . VV., Dio nella poesia del Novecento (a cura di R. Ricchi-M. Rosito), Firenze Libri, 1991.

La coscienza del sacro

Una lunga catena di poeti, ordinati alfabeticamente, sfila come le perle di una collana bene assortita nel colore prescelto; in questo caso la religiosità in campo letterario nella sublimazione poetica. È nell’amore che parla al proprio Dio, è nell’io trascendente l’amore dell’anima assetata in cerca della fonte della vita che nella quiete contemplativa si fa domanda, esce dal tormento e si fa estasi. Nel libro così impostato da Renzo Ricchi e Massimiliano Esposito, direttore della rivista “Città di Vita”, si susseguono poeti noti e meno noti, poeti santi e poeti inguaribilmente scettici, dove sussiste qualche sprazzo di luce e dove l’ironia sorniona è assunta per sottolineare la cecità degli uomini chiusi alla lunga mano di Dio insita anche in un timido coniglio (vedi il caso Prévért).

Nella vasta geografia letteraria europea del Novecento sono accostati poeti russi, spagnoli, francesi, inglesi, greci, tedeschi e italiani. Dalla russa Anna Achmatova che chiede consolazione a Cristo nel suo dolore stringato di madre e di sposa, il confronto, a rigore di pagina, con Guillaume Apollinaire che, svolgendo il suo credo in una ininterrotta discorsività spesso vaniloquente, addita poi «la torcia dalla rossa chioma che nessuno può spegnere». Insieme vanno Alfonso Gatto in “Santa Chiara” e Kahlil Gibran con la sua mistica orientale che «giunge a vedere il mondo come un’unità perfetta, e la vita un’armonia eterna». Così è per Rabindranath Tagore che dalla via del dolore risale alla gioia della conoscenza ed esclama: «La vita è immensa!».

Anche se da più parti si è gridato alla morte di Dio, gli Autori di questa bella antologia trovano la coscienza del sacro in ogni poeta; siano essi agnostici, nel tarlo del dubbio o nella dimensione della trascendenza, non negano mai l’esistenza di Dio in assoluto. La porta della Verità è lì che attende, sino alla fine dei secoli per dire ai giusti: «Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il Regno, perché mi avete beneficiato nella persona dei miei fratelli»; dirà ai peccatori: «Andate maledetti al fuoco eterno, perché non mi avete amato nella persona dei fratelli bisognosi».

Nella ricerca di Dio attraverso il dolore pur necessario a smuovere la coscienza della Verità, il canto religioso si fa preghiera di conforto. Illuminato dalla fede il cammino della conoscenza si fa ardore in Ferdinando Antonio Nogheira Pessoa, macerazione in Clemente Rebora, abbandono in Miguel de Unamuno: «Non cerco più, / non mi posso più muovere, m’arrendo; / t’aspetto qui, Signore, e qui t’attendo…». Il distacco riverente di Costantino Kavafis accede alla “pietas” nel senso umano, non va oltre:«Forse sarà la luce altra tortura».

Incombe la paura nella caratteristica follia dei tempi moderni in cui la mancanza di equilibri genera smarrimento e diffidenza in tutto ciò che va oltre il visibile percettivo. Paura e pigrizia mentale non offrono sostegno allo scavo interiore. Anche Guido Gozzano si trincerà dentro rifugi d’avorio e in un suo sonetto semiserio dice: «Amare giova! Sulle nostre teste / par che la falce sibilando avverta / d’una legge di pace e di perdono: / – non fate agli altri ciò che non vorreste / fosse fatto a voi!». E mi pare giusto per la pace del mondo.

La poesia religiosa si è fatta preminente in questi ultimi decenni, di buon auspicio per il nuovo millennio. Ben vengano queste antologie. I poeti riportati sarebbero tutti da citare, ma ci contentiamo di concludere con un’attenzione al poeta Herman Hesse, considerato un maestro delle nuove generazioni che apprezzano soprattutto il forte equilibrio interiore che è nelle sue opere e certe forme di misticismo orientale. Così scrive in una sua riflessione: «Dio è lo Spirito ed eterno, / Incontro gli andiamo, strumento di Esso / ed immagine; a questo aspiriamo nell’intimo: / diventare com’Esso, brillare della sua luce». Nella discordia dei tempi moderni ora si avverte un incipit vita nova.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 62-63.




Elena Milesi, Paggio in viaggio, Torino, Genesi editrice, 1991.

Un viaggio augurale

Si legge con gusto Paggio in viaggio di Elena Milesi; è una miniera di immagini che si rincorrono, si perdono, si cercano a rimpiattino con un gioco festoso e splendido come può esserlo il leit motiv di una sinfonia cromatica di altri tempi. È la musica che ci viene da lontano sul filo delle tradizioni da ritrovare di cui il Paggio è l’annunciatore felice con la sua spada d’argento in pugno per fugare le tenebri incombenti del nostro tempo perverso. Ci fa riprendere coscienza del contrasto con il nostro rumore assordante dove l’arrembaggio è parola d’ordine, e il disordine nel corpo e nella mente. Il Paggio dice basta a tutto questo e parte, lancia in resta a testa alta, fiero di precedere «un altro Angelo (che) sguainerà la spada/ contro questa peste». Paggio come Amore, come Angelo, Spirito guida per aiutarci a « scavare il pertugio d’oro / per l’occhio del sole».

Noi vediamo crescere i fanciulli con disappunto e dolore; gli anni dell’adolescenza ancora fusi all’infanzia e proiettati nell’ignoto del futuro rimangono delusi della realtà, il disamore li traumatizza mentre vorrebbero nutrirsi d’amore come la loro età li sollecita d’istinto. È l’età in cui prendono coscienza di un mondo violento e falso da abbordare loro malgrado; unificarvisi oppure cedere a paradisi artificiali per surrogare quelli dell’infanzia felice o mancata. Tutti i fanciulli del mondo sono piccoli paggi brutalizzati in questa civiltà corrotta che li priva di tenerezza e di comprensione.

I loro desideri sono fugati troppo 

presto dalla loro anima assetata di gioia cui vorrebbero uniformare il mondo per un futuro da conquistare a misura della loro umanità. Purtroppo solo i più fortunati riescono a equilibrare le loro nascenti pulsioni sul filo dei “palloncini colorati” da far scoppiare nel momento creativo di sensate iniziative. Il punto è avere i maestri giusti, altrimenti rimangono immensi nelle nevrosi e nelle inquietudini che ammalano l’anima per tutta la vita fino a scendere nell’abisso della violenza e del terrorismo, giusto quello che la società ha insegnato loro, e nel «delirio salpa la nave dei pazzi».

Paggio in viaggio sollecita alla memoria la visione di una gioventù felice ed appagata nelle sue pulsioni interiori proiettate al bene, e certo il viaggio non può essere che augurale della buona novella risanatrice verso una riconciliazione umanistica per l’edificazione del III millennio. Avanti, sembra dire, venite con me ad altre sponde.

Lasciamoci guidare dal Paggio fanciullo amico dei fanciulli. Egli viene alla testa di un corteo già formato di giovani ansiosi di marciare con lui verso la luce limpida del mattino per le nuove tenzoni dello Spirito ed esorta come Gesù. Il Paggio con passo lieve li condurrà «in alto là dove cadono le cose / splendono eterne, particelle divine».

L’attesa del sacro si fa voce per un futuro meno aberrante e caduco dove le nuove generazioni più attente alle profonde intuizioni dell’essere sappiano fare tesoro delle meravigliose risorse dello Spirito, il solo che unisce le genti nella ricerca di un dominatore comune, Dio. Purtroppo i nostri paggi sono ammalati: la morte di Dio come l’assenza del Padre è stata fatale alla loro evoluzione psichica, ma per fortuna c’è un Paggio Padre che li segue dall’alto; silenzioso e accorto illumina dove vuole perché la ricerca sia fruttuosa. Ecco l’invocazione salvifica: «Si è coricato il sole e non si sveglia / Paggio, teniamoci per mano in questo buio». A testa alta!, esorta il poeta, la dignità ormai è: «senza cinte: i costumi rilassati»; non attendiamo oltre. Tuttavia, quando tutto sembrerà perduto ci sarà sempre la salvezza per chi: «ritorna dentro l’uomo / alla scoperta del mistero», e per i bimbi ci sarà per sempre un Paggio ad attenderli a braccia aperte, e saranno «quelli che cambieranno il mondo».

Il Paggio è una figura regale e la poesia di Elena Milesi gira attorno a problemi esistenziali drammatici con fare regale, li punzecchia anche con ironia come si addice dal’alto di una superiore forza, li stringe infine amabilmente nell’intento di entrare senza forzature nell’animo del lettore. Se sarà in grado di cogliere il messaggio, sfronderà da sé le scene delle parti per capirne l’essenzialità e farne tesoro. Un po’ per celia e un po’ per non morire, dunque, ma che l’abilità del poeta si avverte attenta e sagace al punto di servirsi di un’entità magica come il Paggio Spirito-Guida per aprirsi a sfere di conoscenza meditativa ed instaurare così una filosofia di vita nuova.

Il discorso raffinato fa risaltare la volgarità imperante ancora più disgustosa nel confronto di chi nella sua fragilità mostra una sapienza millenaria che ribadisce, in sostanza, che l’uomo può cambiare le carte della sua esistenza finché vuole, ma che sempre si troverà ad indagare nelle domande di sempre, dinanzi alle quali l’oracolo di Delfi dette una sola risposta, per prima cosa: Uomo, agnosce te ipsum.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 60-61.




Rosa Barbieri, Il volto delle Madri, Foggia, Bastogi, 1992.

Un viaggio dell’anima

Non a caso la nuova silloge poetica di Rosa barbieri, dal titolo emblematico Il volto delle Madri è dedicato ad Andrea, il nipotino adolescente incompreso, a tutti i fanciulli che soffrono, poiché la genesi ispirativa ed esistenziale di questo canto risale a questa remota pena nel salvifico dono della poesia.. La raccolta si allinea su 70 composizioni liriche (suddivise in tre segmenti: Adolescenza, Il viaggio delle madri, Iside cantare), senza titolo, quasi stazioni di un “viaggio” dell’anima, tenero e struggente, nelle contrade della memoria, ognuna, autonoma e singolare ma, in realtà, legate tra loro da un filo di luce, in progressione dialettica, per delineare un diorama, estetico e ideologico, dell’eterno rapporto madre-figlio, donna-bambino, che si dilata, da una testimonianza vissuta e sofferta, agli orizzonti della società e del mondo.

Un atto d’amore, trafitto dall’infelicità e dal dolore, tramite un lirismo intenso e vibratile, si trasforma un atto d’accusa verso la disintegrazione di giovani vite avviate a un domani senza bussola e senza ideali. La poesia di Rosa Barbieri raffigura, così, un elemento di rottura, una scheggia di polemica pungente contro le aporìe della incivile civiltà contemporanea, balenante di violenza, di odio, di droga, di scientismo, di egoismi, di razzismo, che minacciano di travolgere le nuove generazioni. Il verso si fa ora grido di protesta, ora sussurro di preghiera, ora rabbiosa disperazione, ora mistico incantesimo,ora consolante messaggio. Le problematiche, a sfondo etico-pedagogico, sono come fiori di montagna sospesi su baratri di luce o madrepore sprofondate negli abissi memoriali o di frammenti di cristallo custoditi nel segreto dell’inconscio. La tessitura semantica degli stilemi, a volte si fa affannosa e franta, quasi imbrigliata nei viluppi criptici del pensiero che rischia di soffocare il sentimento e i sogni. Ma il linguaggio è, tuttavia, coerente nell’architettura dell’impeto che governa i moduli ispirativi, i ritmi musicali, mai banali, raramente patetici o retorici, spesso doviziosi di colpi d’ala e di dissolvenze pindariche, con opportuni richiami mitologici, riferimenti biblici o evangelici, frutto di una robusta cognizione umanistica e filosofica, di autori classici e moderni. L’Autrice, infatti, ha coltivato con lungo studio letture di filosofi e di poeti, e si è dedicata con passione alla pittura e alla musica. Il talento naturale di Rosa Barbieri, incanalato verso le arti, ha trovato, nel rapporto con le cose, con la vita, con la visione del mondo, il suo sbocco spirituale nella fede cristiana che l’ha sorretta nelle ore crudeli che hanno ferito il suo sensibile cuore di donna e di madre.. E potrebbe dire con Maritain: «…solo chi è accesa può accendere, solo chi è convinto, può convincere, solo chi è stato scosso può scuotere, solo chi è entusiasta può entusiasmare, solo chi ha pianto, può commuovere…». 

In questo libro, Barbieri ha toccato le cuspidi più alte del suo itinerario artistico, perché, con uno stile perentorio, icastico, articolato, elitario e, nello stesso tempo, umorale, cattivante, e umano, ha saputo trascendere i confini del suo dolore per parlare a tutti i figli di mamma, di oggi e di sempre, esaltando, con appassionata esaltazione polifonica, la miracolosa vigilia dei “bambini di luce” nell’amorosa visione delle piccole madonne terragne che recano, con dolore nel loro grembo i destini della storia. Non c’è tesoro più prezioso, non esiste bene più grande che il candore e l’innocenza di un fanciullo che dorme o che sogna; non c’è bellezza più bella di una madre che veglia la sua creatura che gioca; non c’è preghiera più alta di una nenia su una culla che dondola nell’ombra. Sono gocce d’azzurro le lagrime e le sofferenze di una donna che, con gioia senza confini, consegna alla luce del mondo il frutto del suo amore. Ma, spesso, l’umanità, la sorte, la vita lacera e distrugge questa dolce poesia del sangue e dell’anima e, allora, dinanzi a un “figlio crocifisso”, il volto delle madri “indossa il cappuccio dei monatti”. E il pianto di una madre umiliata e offesa, diventa il pianto del Cielo, il pianto della Madre celeste, il pianto degli angeli. Unico rifugio alle sovrumane tragedie dei tanti figli che cadono sotto la croce dell’infamia, la pietà di Cristo, la voce dell’Eternità, il sorriso delle Mnemosine che raccolga il grido delle donne smarrite nelle ceneri della solitudine e dell’abbandono, le lucciole della poesia, le perle di ogni nuova poesia, come allodole innocenti verso il sole, dischiudono, allora, paesaggi ancora inesplorati, dove, unica sorella del dolore, è la speranza.

Franco Calabrese

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 59-60.




Ciro Spataro, Garibaldi a Marineo (con il Diario di Antonino Salerno, 1848-1882), Palermo, ISSPE, 2011.

Garibaldi e…«il governo di spoliazione»

Gli studi di storia patria, che in questi anni vedono una fioritura un po’ dappertutto, hanno spesso una peculiarità: quella di dire in tutta buona fede e con coraggio ciò che altri studi storici di ben più ampio respiro non dicono e, anzi, fanno di tutto per affossare la verità. Basta dare uno sguardo ai libri di testo per rendersi conto che il capitolo dell’unità d’Italia, per esempio, è trattato con molta enfasi adulatoria dei vincitori, e Garibaldi è l’eroe venuto a dare libertà e giustizia, non il mezzo di cui i nuovi padroni si servirono per impinguare e ingrandire il Piemonte.

Garibaldi a Marineo (con il Diario di Antonino Salerno, 1848-1882), edito da ISSPE di Palermo nel 2011, di Ciro Spataro ha il merito di rievocare persone che ebbero un ruolo di primo piano nell’impresa, e fatti successivi allo sbarco e alla conquista di Garibaldi avvenuti a Marineo e dintorni, teatro di scontri e di battaglie decisivi per le sorti future. E, ancora, il libro riporta qualcosa in più: la delusione, che trapela forte dallo scritto di Antonino Salerno, di quanti avevano sperato di vivere in un futuro migliore. Sulle prime, il libro non lo dà a vedere, e l’impressione è quella di una semplice rievocazione.

A parte i liberali più noti (Giuseppe, Calderone, Rosolino Pilo, Giuseppe La Masa, G. Cesare Abba), sono tanti i popolani ricordati che agirono dietro la spinta di promesse mai mantenute, e tanti quelli che sperarono di veder realizzato il sogno secolare dei Siciliani di avere una Sicilia autonoma, così come ci furono anche quelli che si fecero garibaldini perché non poterono farne a meno, spinti dai proprietari terrieri per i quali valeva la norma del cambiare per non cambiare niente.

“Documenti e testimonianze” corredano la narrazione che tiene conto degli invasori e dei loro sostenitori; gli altri non c’è motivo per essere ricordati: sono nemici da combattere o, tutt’al più, briganti che vanno stanati e uccisi in modo esemplare. Ci volle un bel po’ per capire che si trattava di protesta sociale e non di brigantaggio. Ma ai Piemontesi non interessò la differenza, l’una valeva l’altro, e furono combattuti non con una legislazione adeguata ma con le armi, seminando sangue e terrore. Nel vuoto che si era creato nel passaggio dal Borbone al Savoia, ci furono i profittatori che agivano per tornaconto, come Santo Mele citato, che non vanno confusi con i protestatari si- lenziosi delle vessazioni, delle esosità delle tasse, delle famiglie penalizzate dalla coscrizione obbligatoria introdotta dal Savoia.

Altro aspetto molto indicativo, ri- portato nel libro di Ciro Spataro, è dato dal  prospetto dei risultati plebiscitari del 21 ottobre del 1860. I comuni del palermitano, ad eccezione di Palermo con 20 votanti No, risultarono favore- voli al 100% all’annessione.

Evidente, ed è risaputo, che si trattò di un plebiscito-falsa, voluto per giu- stificare l’invasione  del  Regno  delle Due Sicilie, da parte di Vittorio Ema- nuele II. Si votò senza alcuna garanzia per Francesco II e, tanto meno, per la libertà di voto. I votanti erano guardati a vista e tante furono le minacce e le bastonate per coloro che avrebbero vo- luto votare o votarono No. Moltissimi i non votanti le cui schede furono re- golarmente utilizzate per il Si. Eppure, di questo non se ne parla e si fa finta di niente; si preferisce la retorica, come se tutto fosse stato rose e fiori, voluto dal popolo osannante, quando invece esso aveva ben altro a cui pensare!

La realtà fu più palese qualche anno dopo, quando, spenti i fumi della con- quista, ci si rese conto che il nuovo governo «era andato avanti a colpi di decreti scontentando non solo gli auto- nomisti ma anche i veterani reduci del- le spedizioni del 1848 e del 1860». Qui Spataro cita Salvatore Costanza: «Alle promesse non erano seguiti i fatti: né terra per i contadini né benessere per i ceti  produttivi delle città; né libertà ed autonomia per la Sicilia come ave- va  reclamato  l’intellettualità  isolana, schierata quasi tutta sul terreno auto- nomistico. Anzi erano arrivati i funzionari piemontesi a uniformare le leggi, a imporre più tasse, a reclutare la leva».

Il “diario” di Antonino Salerno offre uno spaccato della realtà dei fatti vissuti da vicino, da liberale convinto e votato alla causa del re piemontese, seguace di Garibaldi che aveva interesse a coinvol- gere persone leali come lui per raggiun- gere il suo scopo senza riguardo per le sorti  delle  popolazioni.  Lo  denuncia Salerno  nel  suo scritto che riporta fe- delmente lo stato d’animo degli uomini del tempo nel passaggio da un governo ad un altro, dal sogno delle aspettazioni alla cruda realtà in cui essi nel giro di pochi anni vennero a trovarsi.

Antonino Salerno è il cronista della sua vicenda personale che, però, riflet- te  quella collettiva delle popolazioni del Sud. Egli si aspettava chissà che cosa e, invece, non fu integrato nel co- stituente esercito e non fu risarcito dei suoi beni andati a malora. Il rifiuto del

1862 a Garibaldi nasce da questo scon- tento  non  tanto  da  un  ripensamento della scelta a suo tempo fatta. Scrive:

«… io era alquanto scannaliato di avere fatto parte dell’armata e spedizione per la Calabria al ‘48 e al ‘60, che ben mi ho ravveduto essere ingannata la Sicilia; come tali, non intendo in nessun conto per fare parte a questa armata,sino an- che mo alzassero al grado di Generale, perché sembrami che l’inganno siegue più dippiù del passato».

C’è, nel “diario” dell’ex combattente la delusione che fu propria delle popo- lazioni che si trovarono soggiogate da un altro governo e disagiate ancora di più nella loro quotidianità. Ed esse che non avevano mai conosciuto l’emigra- zione («Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale») diedero inizio alla diaspora, prima nel Nord, poi nelle Americhe. Maltrattate e derubate, mentre i loro beni rubati e confiscati andavano ad impinguire le casse del nuovo Stato che li investiva ad uso e consumo dei nordici.

Con quale spudoratezza Bossi e la Lega dicono male del Sud, quando tuttora i Meridionali la ricchezza del Nord?

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 57-59.




Cenni sulla fortuna di Dante, Foscolo e Leopardi nella poesia maltese

Premessa storico-culturale

L’acquisto dell’autonomia costituzionale fu la prima vittoria importante dei Maltesi nella loro marcia verso l’indipendenza conseguita nel 1964.

Dal 1921 in poi la piccola nazione continuò a crearsi la propria fisionomia, organizzando meglio il sistema dei partiti e superando la polemica linguistica nel 1934, allorché il maltese, insieme con l’inglese, divenne lingua ufficiale. Attraverso gli assidui contatti con esuli italiani, e considerando le condizioni del risorgimento della penisola analoghe alla situazione del loro Paese, il popolo maltese trovò l’ispirazione e la motivazione che gli mancavano.

Alla base di tutto questo c’era il patrimonio culturale comune1. Per interi secoli a Malta si sviluppò una vasta letteratura in italiano, frutto di intellettuali educati “italianamente” (come si diceva) che seguivano costantemente l’architettura stilistica e la gamma tematica (largamente religiosa, civile e personale) degli autori italiani.

Quando poi ebbe inizio lo sviluppo di una letteratura in lingua maltese, accessibile facilmente a tutti, lo scrittore fu finalmente in grado di interpretare fedelmente e direttamente il sentimento proprio e collettivo e non più l’ambizione accademica, spesso distaccata dalle tensioni attuali della comunità.

L’autore non poteva rinchiudersi più nello stretto santuario delle sue care precettistiche e dei suoi preziosi formalismi, ma doveva incontrarsi con il popolo e ispirarsi alle sue esperienze.

A Malta il principio della popolarità della letteratura, un’eredità illuministica che il romanticismo modificò secondo le nuove profonde esigenze, non poteva realizzarsi pienamente in italiano.

Si ebbe così, «entro i limiti di una sola esperienza culturale», il dualismo fondamentale: l’italiano, la lingua dotta della tradizione. e della classe colta, e il maltese, la lingua incolta (anche se antica e ricca) delle masse popolari.

Tale processo di sviluppo in lingua maltese nacque all’incirca nella prima metà dell’Ottocento – se si vuole parlare in termini di movimento diffuso e di dimensione nazionale – quando chi scriveva in maltese non poteva prescindere dal fatto che, nonostante il substrato semitico del suo veicolo, la tradizione, la struttura dell’espressione e l’intera educazione letteraria di tutti erano esclusivamente italiane. Perciò la nuova produzione maltese era costretta a seguire la stessa direzione, ed in effetti a mantenere la continuità storica che è sempre essenziale nell’evolversi del pensiero e della forma.

Tra letteratura antica e letteratura moderna (o romantica) c’è, dunque, quasi a spartiacque, la distinzione linguistica tra italiano e maltese. C’è anche la distinzione inerente alla polemica tra il classico e il romantico, l’antico e il nuovo. Ma in ultima analisi c’è una sola identità che in termini di storia letteraria e sociale significa il trapasso dall’indifferentismo tradizionale alla maturazione di una nuova consapevolezza nazionale. In termini di polemica linguistica significa la scoperta romantica della lingua incolta, popolare.

Dunque la conoscenza della letteratura italiana come conoscenza della letteratura della regione (la presenza della cultura italiana è essenzialmente un aspetto della complessa identità mediterranea dell’Isola) è un bisogno indispensabile per la valutazione delle due esperienze della sensibilità maltese. A causa di questa presenza, ispirata alle personalità più distinte (Dante, Manzoni, Foscolo, Leopardi e numerosi altri), la poesia maltese, come del resto tutta la narrativa, è direttamente riconducibile alle caratteristiche fondamentali della tradizione europea. Non si trattano soltanto di influssi e di assimilazioni, si tratta anche di una autentica esperienza maltese che, vista sotto questo profilo, è un altro contributo alla formazione di un’unica, anche se complessa, spiritualità continentale.2

La visione spirituale di Dante

Frequentemente l’italiano è descritto dai letterati e dai politici maltesi come “la lingua di Dante”. In effetti è questa la frase che può introdurre il discorso sulla vasta fortuna che ebbe il poeta nell’Isola, sia sul piano educativo sia su quello della prassi letteraria.

Già nel 1643, anno della pubblicazione del primo libro stampato a Malta (I Natali delle Religiose Militiae de’ Cavalieri Spedalieri, e Templari, e della Religione del Tempio l’Ultima Roina, opera di G. Marulli da Barletta), c’è qualche eco della poetica della luce nel paradiso in un sonetto del Marulli e un certo riflesso dell’atmosfera infernale in un altro sonetto di Carlo Cosentino.

Sono elementi, comunque, rappresentati con una sensibilità e con un gusto di tipo barocco. In fondo, questa sintesi tra elementi danteschi e barocchi costituisce il carattere principale di tanta letteratura maltese in lingua italiana. Malta ha una vasta raccolta di inni religiosi e civili, di sonetti e di odi d’occasione che mettono in rilievo questa tipica scelta metaforica e lessicale.

Questo culto dantesco doveva per forza manifestarsi, particolarmente nell’Ottocento, anche nelle opere degli scrittori maltesi.

Accanto alla visione di Dante patriota c’è anche la scoperta sentimentale di Dante esteta del notturno, del terrore e della morte. È Richard Taylor (1818-1868) che introduce questo gusto nella letteratura in lingua maltese.

Egli comincia con la predilezione per la rievocazione di paesaggi indefiniti, ricchi di un fascino patetico e presto contribuisce all‘affermazione della sensibilità ossianica e sepolcrale del preromanticismo storico mediante la traduzione di un’opera dello Young, il Giudizio Universale (1845). Acquisito questo gusto attraverso la lettura di un poeta moderno, Taylor scopre la maggiore rilevanza di Dante. Lo stesso gusto lo spinse a tradurre, nel 1864, il canto XXXIII dell’Inferno (Il-Konti Ugolino, Malta, Borg, 1864), che Taylor definisce “il-kant tat-treghid” (il canto del tremore). Il poeta maltese pensava di tradurre tutta l’opera dantesca ma morì quattro anni dopo.

Con la traduzione di questo XXXIII canto si inizia il culto che poi ebbe vaste risonanze nella letteratura maltese.

Alla luce della psicologia apologetica con cui tanti letterati maltesi affrontavano il problema linguistico del maltese, tradurre Dante significava anche dare prestigio alla lingua nativa e fornire una prova della sua ricchezza espressiva. Nel 1899 Ganni Sapiano Lanzon (1858-1918) pubblicò Kant 33 ta’ l-Inferno: Il-Konti Ugolino e nel 1905 L-Ewwel Taqsima tad-Divina Commedia: l-Infern. Nello stesso anno, Alfredo Eduardo Borg pubblicò La Divina Commedia ta’ Dante Alighieri migjuba u mfissra bil-Malti, e nel 1907 uscì Att tal-Fidi miktub fuk il-Kredu ta’ Dante Alighieri (con una seconda edizione nel 1909) di Salvatore Frendo de Mannarino (1845-1918). Più tardi Sapiano Lanzon pubblicò anche Francesca da Rimini – Il-Hames Kant, ta’ l-Infern (1913) e II-Hajja ta’ Dante (s. d.). La traduzione più importante e più valida è indubbiamente quella di Erin Serracino Inglott (1904-1983), il cui primo volume uscì nel 1964. Accanto a questo corpo di traduzioni vi è una scelta abbastanza larga di saggi critici.

La fortuna di Dante è dovuta in gran parte al profondo riconoscimento datogli dal poeta nazionale Dun Karm Psaila (1871-1961), noto popolarmente come Dun Karm. È opportuno soffermarci brevemente almeno sull’influsso di Dante nella sua opera, visto che è la figura culturale maltese più importante e un sicuro punto di riferimento per la conoscenza del carattere della letteratura maltese in più di mezzo secolo.

L’ammirazione di Dun Karm per Dante traspare non soltanto attraverso i giudizi di valore che lo collocano tra i maggiori poeti del mondo, ma anche dagli influssi tematici e stilistici che si manifestano varie volte nelle sue poesie, particolarmente in quelle della prima raccolta del 1896. Ma egli mostra ancor più schiettamente questa sua devozione nelle tre parti di un suo lungo commentario filosofico, Il monumento commemorativo del congresso. Nella prima parte Dun Karm dà un esempio stilistico di come Dante si servì di una figura geometrica per significare incrollabile fermezza, e presenta la sua giustificazione per questa scelta: «La piramide difatti tra le molte figure geometriche è forse la più stabile, giacché essa ha un centro di gravità più vicino alla base che al vertice e ugualmente lontano dai lati3». Si riferisce all’ episodio dell’ incontro di Dante con il suo trisavolo Cacciaguida nel quinto cielo del Paradiso, dove appaiono al poeta gli spiriti militanti. Nella seconda parte l’autore ritiene che dal felice sposarsi di due ritmi nascono il piacere estetico e la bellezza. Come esempio di questa fusione tra forma esterna e senso interno, la sostanza dell’ispirazione, Dun Karm cita l’episodio dell’incontro tra Dante e Casella. Nella terza parte del saggio Dun Karm discute la complessità che si dibatte nell’esperienza spirituale dell’artista, soprattutto del poeta.

Egli trova il massimo modello nella personalità di Dante. Oltre che in questo lungo articolo, in un suo discorso del 1901, trattando della gloria come uno dei motivi principali che conducono l’artista a compiere una grande opera, Dun Karm mette in rilievo la figura di Dante: «E fu questo magnanimo sentimento che poté produrre un Dante, il quale lavorò instancabilmente ventinove anni, procacciandosi nella vita d’esilio un pane che sapeva di sale 4». In una delle sue liriche maggiori, Lill-Kanarin Tieghil (“Al mio canarino”), scritta in un momento di amarezza personale, il poeta tocca il tema dominante dalla solitudine e adopera l’immagine del pane per dare un’impostazione sensuale all’esperienza di sofferenza spirituale.

In un altro momento Dun Karm discute la rilevanza di Dante come poeta nazionale: «Lontano da Firenze, scrivendo il suo poema, Dante se ne servì a redimere se stesso dall’infamia a cui è stato sottoposto, e a spargere (e simultaneamente calmare) la collera della sua mente e del suo cuore contro i suoi nemici che lo avevano separato dalla città che amò affettuosamente e che fino all’estremo della sua vita sperava di rivedere5».

La luce, la forma che Dante sceglie per esprimere l’indicibile nella terza cantica, ispirò Dun Karm a coniare qualche frase che descrive Dio. Dante scrive: «luce eterna6», «eterno lume7», «somma luce8», e Dun Karm, forse ricordandosi anche del «sommo sole» di Manzoni9, scrive «sole divino10», e «mar d’eterno lume11». Il motivo della luce si sviluppa in varie poesie; ad esempio, nel brano che segue il motivo dello splendore si fonde con quello dello spazio: «del sol d’eterna luce, / onde s’ammanta Dio discese un raggio, / che d’un fulgor superno ti vestío12».

Per Dante la Chiesa è «l’esercito di Cristo13», mentre per Dun Karm è la «vincente repubblica di Cristo14». È anche la sposa del Signore,15 e Dun Karm riproduce l’immagine dantesca, adoperata anche da Monti16, in alcune delle sue opere più impegnate come La Chiesa e Leone XIII, Per Novello sacerdote – II, La Framassoneria in Malta, Nel Giubileo Episcopale di Leone XIII, e Ancora l’Alpinista. La crisi foscoliana Dun Karm pubblicò la traduzione dei Sepolcri foscoliani nel 1936. Intendendo dare evidenza alla sua piena adesione al sentimento di rispetto dovuto alla lingua nazionale, Dun Karm costruì una versione di alto valore linguistico, basata quasi esclusivamente sulla componente semitica del lessico maltese. Ma questo è soltanto il motivo esteriore, storico di una esperienza che riconosce nella traduzione soltanto un primo momento. Il poeta stesso dichiarò che intendeva comporre un poema concepito come compagno ed epilogo dei Sepolcri. Si tratta di II-Jien u Lilhinn Minnu (L’io e l’aldilà), il capolavoro del poeta e una delle opere maggiori di tutta la letteratura maltese.

La prima fase dell’esperienza foscoliana di Dun Karm consiste in un’accettazione aperta della supremazia stilistica e fantastica del carme17; la seconda prende la forma di una radicale contestazione della sua filosofia. Si tratta di una reazione calma, malinconica e tormentata, anche se è sempre svolta alla luce della sua profonda fede cristiana. A volte il poeta finisce per abbracciare in parte alcuni elementi della concezione pessimistica. Fondamentalmente Dun Karm rimane sempre un romantico e la sua spiritualità si dibatte costantemente in un clima di effusione sentimentale e di rassegnato rimpianto.

Da un’accurata analisi della visione dei due poeti, si deduce che il loro interesse si concentra, essenzialmente, sul problema della sopravvivenza. La soluzione è del tutto differente; tra le due posizioni c’è l’abisso che separa una visione metafisica, anche se sofferta, dallo scetticismo che emana dal razionalismo puro.

Dun Karm reagisce cristianamente contro la teoria dell’io come il centro del mondo, e dell’illusione come il principio che motiva l’attività umana. Negando questa visione, risultato del soggettivismo kantiano, Dun Karm restaura questa costruzione intellettuale introducendo il motivo dell’amore divino (riflesso nella fede) come il fondamento inalienabile di tutta l’esperienza terrena. Contro «il sistema della continua illusione», per citare Rosmini, il cristiano riconosce un punto oggettivo di riferimento (il paradiso nell’oltretomba) invece dell’ «illusione creante» (il paradiso soggettivo che Foscolo colloca nello spirito e nella memoria umana). La restaurazione di Dun Karm è vicinissima a quella che Rosmini presenta nel Saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo, in cui sostituisce la funzione affidata all’illusione (creata dall’io egoista) con la missione del cristianesimo che realmente «soddisfa tanto a tutte le umane necessità18».

Mentre Foscolo sposta la sua visione sull’ordine mitologico e leggendario del mondo pagano, Dun Karm cristianizza tutto il suo panorama e sceglie le immagini dalla cultura evangelica.

Nei Sepolcri ci sono i colli, i giardini, i fiumi, le fonti, il mare; in II-Jien u Lilhinn Minnu ci sono le rose, gli uccelli, le stelle, il mare. C’è soprattutto il sole; quello del Foscolo risplende sulle «sciagure umane» e quello di Dun Karm è avvolto da cupe nuvole mentre «piange» sul dolore e sull’essenziale aridità della terra.

Noto per la sua devozione verso la madre, Foscolo fonde il tema autobiografico con il tema metafisico; nel «tetto materno» raffigura tutti i sospiri per la vita familiare che non poteva più godere. Il ruolo affidato alla madre nel Jien u Lilhinn Minnu non suggerisce soltanto una memoria di una donna morta; è lei la personificazione della verità rivelata, il simbolo vago ma presente di una fonte inesauribile di principi morali. Le figurazioni foscoliane riassumono in sé la grandezza umana.

Sono inconfondibili nella loro linearità scultorea, e hanno una fisionomia che giganteggia sull’ambiente. Dun Karm mescola l’inno con l’elegia, la gloria sul livello metafisico con l’annientamento della materia.

L’opposizione fondamentale tra i due poeti si illustra anche attraverso un semplice confronto tra il verso iniziale dei Sepolcri, «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne», e il verso l42 del poema maltese, «gos-sigar tac-cipress u qalb is-slaleb» (intorno ai cipressi e fra le croci). L’intonazione ritmica del verso di Dun Karm conserva la malinconia della cadenza foscoliana, e gli accenti dell’endecasillabo danno maggiore rilievo alle due parole più importanti: “cipressi” e “urne”, “cipress” (cipressi) e “slaleb” (croci). Si rispecchia sinteticamente il divario sostanziale che c’è tra le due opere. Il poeta maltese cristianizza il contenuto razionale di Foscolo. Lo spettacolo è unico, caratterizzato dalla presenza suggestiva dei cipressi ma, mentre le urne foscoliane sono la dimora concreta della nuova sopravvivenza ideale, le croci di Dun Karm rievocano emblematicamente un’altra realtà.

Il malessere leopardiano

Uno dei poeti maggiori maltesi, Karmenu Vassallo (1913-1987) trova in Leopardi non soltanto l’artista che si avvicina di più al suo modo in cui, a suo parere, si deve creare la poesia, ma anche l’uomo autenticamente sin cero con se stesso (che soffre) e con gli altri (a cui sente il bisogno di svelare il proprio dolore). La sincerità è la qualità che unisce l’esistenza con la poesia, l’uomo che soffre con l’artista.

Il confronto Leopardi-Vassallo si realizza mediante un contatto diretto di conoscenza e di immedesimazione: «Sono entrato nel cuore e nell’anima della poesia leopardiana e… sono diventato una stessa cosa con lui19». Gli esempi seguenti sono alcuni del complesso rapporto psicologico e letterario

tra i due poeti.

L’escludersi, una esperienza prettamente leopardiana che anche Vassallo scopre troppo presto nella gioventù, si presenta sotto due aspetti. Il primo scaturisce dal confronto tra se stesso e la società che si sente gioire intorno, condannato alla solitudine dai mali fisici e da tutto quello che lo rende socievole.

Il confronto è, in primo luogo, ambientato poeticamente in un giorno di festa tradizionale. Zewg Ghidien (“Due feste”) si compone di due quadretti contrari l’uno all’altro. Nel primo si dà rilievo alla festa che si svolge in un paese; nel secondo si dipinge la triste scena di un giovane fatalmente ammalato che si sta portando all’ospedale.

Dalla contemporaneità delle due scene, svolte nello stesso luogo, nasce il contrasto. A guisa di Leopardi (La sera del dì di festa, A Silvia, Il passero solitario), Vassallo contrappone due circostanze, l’una lieta e l’altra  tristissima. Con la loro compresenza o contemporaneità arriva ad una fusione di inno e di elegia, rendendo così, in virtù degli opposti, più commovente il significato del contrasto e più malinconico il quadretto. È questa poesia del contrappunto felicità-dolore che spiega perché il poeta, pur essendo solitario, è continuamente consapevole della festa sociale che si sta svolgendo intorno a lui.

L’escludersi di Vassallo è leopardiano anche nella sua polemica contro la banalità della folla contemporanea. E, in fondo, la poetica, di ascendenza petrarchesca e poi alfieriana, che nel recanatese si preannunzia già con All’Italia e continua a maturarsi e a diventare una delle preoccupazioni salienti della sua vita. Vassallo degli anni 1932-1944 è polemico contro la folla insensibile, priva di valori che sollevano l’uomo al di sopra dell’animalità20. La definizione degli uomini contemporanei, atroci nelle loro azioni, e moralmente ipocriti, è data, sia in Vassallo che in Leopardi, dall’idea della superiorità spirituale del poeta nei confronti della leggerezza collettiva del popolo21. I due, in ultima analisi, si definiscono nemici del genere umano; l’isolamento, che in alcuni momenti sembra l’effetto di una sconfitta personale, si traduce orgogliosamente in motivo di netta distinzione degna dei grandi: «llbiebi kulma hlaqt Int: barra l-bnedmin!22 (I miei amici sono tutte le creature: fuorché gli uomini!); / E sprezzator degli uomini mi rendo23».

Il secondo confronto da cui esce il quadro dell’escluso, sempre in virtù della rievocazione contemporanea di due opposti, è quello tra il processo incessante e sovrabbondante della natura e la sterilità insanabile e moribonda del poeta. Da un lato, c’è il continuo rinnovamento di un programma stagionale che non si esaurisce mai; e dall’altro, c’è la staticità di una condizione umana.

Il susseguirsi dell’inno e dell’elegia è comune ai due poeti24. Accanto alla celebrazione della bellezza del mondo esterno, si erge la figura desolata, simbolo del mondo interiore, così che il trionfo dell’oggetto e l’agonia del soggetto, i superlativi per la natura e le parole di privazione per il poeta (individuo e rappresentante di una intera razza umana), si intrecciano in un doloroso insieme. Apparentemente, i temi sembrano accostati, in realtà si fondono perché la relazione tra l’esterno e l’interno è reciproca, intrecciata in rapporto di causa ed effetto. Più la natura rivela il suo incanto, più si addolora lo stato d’animo.

Nella contemplazione del limite (la realtà negativa) e nella sua sublimazione fantastica (la realtà poetica), si trovano i due poli estremi di un’unica esperienza: da un lato l’autobiografia, dall’altro l’arte. Nel centro di tutta l’esperienza c’è la metafora del mare visto sotto due aspetti: come visione infinita in cui si cerca di annegare e come simbolo che oggettiva lo stato d’animo inquieto. Come in Leopardi, in Vassallo è veramente difficile distinguere tra la necessità psicologica di «tuffarsi» nell’indeterminato e nel vago, e la volontà di utilizzare la stessa visione come immagine della condizione interiore. «La vastità della sensazione » è interiore, e rivela la crisi, ma la sua esteriorizzazione si trasforma in una esperienza estetica. Accanto all’effetto che fa nell’uomo la vista del cielo, Leopardi pone anche la visione del mare «e d’ogni sorta d’immagine presa dalla navigazione ecc. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo motivo25».

L’esperienza è, dunque, contemporaneamente un concentrarsi sul proprio io turbato e un dispiegarsi in uno spazio sconfinato. Come nell’Infinito, il mare è il più idoneo a raffigurare poeticamente la tensione interiore; in Vassallo è anche il mare che dà dimensioni vaghe e indeterminate al problema.

Conclusione

I due piani principali dello studio comparato, qui brevemente illustrato con alcuni cenni agli autori più rappresentativi, sono i seguenti: influenza diretta e influenza indiretta. È diretta quando un autore si identifica idealmente con un autore ‘straniero’ (ad esempio, Dun Karm con Monti, con Manzoni e poi con Foscolo). È indiretta quando l’influenza, ad esempio, di un Dun Karm foscoliano, trova eco in altri autori maltesi attraverso la conoscenza di Dun Karm, e non direttamente attraverso Foscolo; è il caso dei poeti minori che sono maturati sotto le ali di Dun Karm.

Si tratta di un processo complicato di contatti, confronti e assimilazioni. Ad esempio, alcuni romantici maltesi formano la loro identità alla luce del mondo italiano che, a suo tempo, ha subíto influssi tedeschi, inglesi e francesi.

Questi elementi, quando riescono a profilarsi nell’ispirazione maltese, sembrano il frutto diretto del contatto Malta-Italia. Gli elementi dello sturm und Drang che risalgono alla superficie nella personalità di Karmenu Vassallo sono controllati e relativamente superati perché sono passati dal filtro latino.

Gli autori minori si sviluppano attraverso l’influenza di Dun Karm, e il cammino dell’assimilazione assume qui un carattere triplice: dal mondo italiano al mondo di Dun Karm e al mondo dei poeti maltesi. Questo processo non vieta che qualche autore maltese si rifaccia all’autore originale, che ora può diventare una fonte rinnovata di metafore, tonalità e contenuti che l’autore maggiore stesso (Dun Karm in questo caso) non avrebbe mai assimilato.

Ad esempio, l’importanza di un Byron nella letteratura russa si è diffusa sia a causa dell’influenza di autori russi su altri autori russi, sia a causa dell’incontro diretto tra Byron e autori russi, tra i quali un Pǔskin, che ha poi influito su un Lermontov e su altri.

Più che il carattere diretto o indiretto dell’influsso, lo studioso del fenomeno maltese deve prendere in considerazione il bilinguismo (italiano-maltese, inglese-maltese) come punto di partenza e punto d’arrivo allo stesso tempo, e così riesce a far entrare il contributo maltese (ricco anch’esso di una sua forte originalità e di molte caratteristiche indigene) nel grande oceano della letteratura continentale e mondiale.

Sia che si analizzi il rapport de fait di Carré sia che si cerchi di individuare il courant commun di Van Tieghem, ritengo che il risultato conduca sempre ad una sintesi. L’indagine su tutti e due mette in luce alcuni aspetti extraletterari, ad esempio la distinta identità dei Maltesi come popolo. Questo rapporto si traduce in un documento di identificazione nazionale; è così, sia se si chiama iufluenza, adattamento, assimilazione, interferenza, fortuna letteraria, imitazione, sia se si considera – come ritengo doveroso nel caso maltese – come partecipazione diretta ad un mondo (grande), partecipazione che è naturale per un mondo (piccolo) fatto di un’isola definibile secondo una tradizione, una storia, una lingua antica e una situazione geografica. In altri termini, l’europeità di Malta letteraria è l’evidenza anche di un’europeità extra-letteraria, una caratteristica che risale alla superficie anche dal modo meraviglioso in cui un dialetto di origine semitica è diventato una vera e propria lingua autonoma, assumendo numerose tendenze romanze.

A questo punto si impone il quesito se è giusto parlare di influenze, cioè di contenuti importati e imposti da una grande cultura su un’altra subalterna, o se si deve piuttosto riconoscere l’esistenza di un intero programma di partecipazione naturale e organica, consapevole e istintiva, ad una civiltà comune, quella mediterranea. Quando si riesce a constatare la presenza di vari elementi comuni che caratterizzano un’intera tradizione, e quando si trovano sentimenti, immaginazioni, forme di ragionamento, schemi retorici e altre componenti che tutti conducono verso la scoperta e la definizione di un’unica e sola identità regionale o continentale, lo studio comparato si riduce ad uno studio di una vasta civiltà unica. Alla luce di queste considerazioni fondamentali che il tema del presente saggio non ci permette di illustrare, Malta ci potrebbe interessare come una parte piccola e vivace di tutto l’organismo.

Sul piano letterario ciò conduce alla conclusione che il periodo tradizionale della letteratura maltese fa parte integrante dell’esperienza romantico risorgimentale italiana (e non è semplicemente il risultato di un influsso esterno), e che il periodo moderno, iniziato negli anni Sessanta del secolo scorso, costituisce una variazione o l’aumento di altri filoni su quello basilare (cioè mediterraneo, realizzato secondo una fusione di eredità italiana e di assimilazione maltese). Nonostante il fatto che questi giudizi siano stati qui consapevolmente ignorati, il loro valore rimane particolarmente in rapporto alla necessaria conoscenza di una linea di demarcazione tra una cultura nazionale e un’altra di provenienza straniera.

Gli autori maltesi del primo Novecento, inserendosi fedelmente nella strada aperta dai loro predecessori, si sono dedicati con tutta la loro forza intellettuale e linguistica alla conferma di un duplice ideale: rimanere fedeli alle esigenze della visione romantica (che, pur sorpassata come tale o quasi, era ancora a Malta la situazione storica più nota e l’unica via da battere in sede letteraria e, da un punto di vista ideologico, l’unica a potere sfruttare con efficacia il principio dell’identità razionale) e fare risalire la lingua maltese al livello di lingua letteraria.

In sede tematica intendevano raggiungere una profondità paragonabile a quella della letteratura italiana. Conservavano la disposizione dei poeti del secondo romanticismo italiano, e si servivano come loro di una irruenza retorica e di toni impetuosi (continuando così a camminare nella stessa direzione della generazione precedente), costruendo una visione sentimentale, irrequieta della vita privata e nazionale, che sublima la vita interiore quasi in uno sforzo incessante a realizzare un compromesso ideale tra il mondo esterno (turbato dai mutamenti politici e dall’insicurezza sociale) e il mondo esterno (in cui è evidente, in vari modi, il «male del secolo»).

È, comunque, sempre profondo il senso della presenza dei protagonisti del primo momento romantico italiano (e con loro, i maggiori dei secoli precedenti), ad esempio di Foscolo con la sua dottrina dei sepolcri e la sua ansia per l’immortalità, di Manzoni con la sua fede incondizionata manifestata negli Inni sacri e con la sua indomabile volontà di dare un posto stabile e perenne a Dio nel crogiuolo della storia, e di Leopardi con il suo pessimismo che non riesce a trovare significato nella vita, vista come perenne dolore, priva della possibilità di formare illusioni. Tradizione letteraria italiana, spiritualità maltese, lingua semitica: sono elementi che qui si fondono in un insieme, riconoscibile in sé e nel quadro di un’intera cultura europea.

Oliver Friggieri

Note

1 Uno dei più antichi documenti italiani a Malta è del 1409 (cfr. Archivio della Cattedrale, Malta, ms. A, ff. 171-176, pubblicato da A. Mifsud, Malta al Sovrano nel 1409, “La Diocesi”, II vol. VIII, 1918, pp. 243-248). Cfr. anche A. Mifsud, La Cattedrale e l’Università, ossia il Comune e la Chiesa in Malta, “La Diocesi”, II, vol. II, 1917, pp. 39-40; U. Biscottini, “Il Giornale di Politica e di Letteratura”, X, vol. VI, 1934, pp. 665-670. 
2 Cfr. O. Friggieri, Storia della letteratura maltese, Edizioni Spes, Milazzo, 1986, pp. 11-28 e passim. 
3 Il monumento commemorativo del congresso, “La Diocesi”, II, vol. X, 1918, p. 311. 
4 Il discorso pronunciato dal precettore sac. Carmelo Psaila il giorno della distribuzione dei premi al seminario, “La Palestra del Seminarista”, I, 4, 1901, p. 74. 
5 L-Oqbra, Stamperija tal-Gvern, Malta, 1936, p. 29. 
6 Paradiso, XI, v. 20; XXXIII, v. 43. 
7 Paradiso, XXXIII, v. 124. 
8 Paradiso, XXXIII, v. 67. 
9 La Risurrezione, v. 47. 
10 A San Filippo d’Aggira, v. 29. 
11 L’Assunzione, v. 20. 
12 Per novello sacerdote – IV, vv. 9-11. 
13 Paradiso, XII, v. 37. 
14 Nel giubileo episcopale di Leone XIII, vv. 129-130. 
15 Paradiso, XI, v. 32; XII, v. 43. 
16 In risposta al sonetto di Vittorio Alfieri, v. 14. 
17 A proposito dei diversi influssi foscoliani, qui appena accennati, sull’opera del maltese, occorre ricordare gli inizi di varie poesie. Diverse aperture di Foscolo prendono la forma di una conclusione di una precedente meditazione, e hanno parole come “così” (Luce degli occhi miei), “né” (A Zacinto) e “forse” (Alla sera). Dun Karm ricorre a questi inizi in numerose opere, e , ha “no” (A Leopoldo Dagradi), “e” (Nella morte dell ‘alpinista, Ancora l’alpinista, Al novello sacerdote G. Spiteri), “izda” (Lil Malta, II-Ghanja tar-Rebha), “issa” (Lill-Muza), “hekk” (Il-Bandiera Maltija) e “le” (II-X ta’ Frar – 1920, Lil Marija, Lil Dun Gwann Muscat, II-X ta’ Frar – 1927, Lil Dun Anton Galea). 
18 “Della speranza – saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo”, Apologetica, Milano, 1840, p. 100. 
19 Alla taz-Zghazagh, G. Muscat, Malta, 1939, p. 34. 
20 Cfr., ad esempio, Mysterium mysteriorum, vv. 37-40 e Il’ biza’ tieghi, vv. 19-36. 
21 Si può paragonare, tra l’altro, la figurazione del popolo Iftahli mà e Int biss con “la codarda gente” (Amore e morte, v. 12) che è presente in Il pensiero dominante, vv. 53-58, 65-68 e in Le ricordanze, vv. 30-33. L’avversione che ebbe Leopardi per il “borgo natio”, sentita già nelle prime lettere dell’epistolario, corrisponde all’avversione che Vassallo ebbe per la generazione contemporanea dei Maltesi; è un argomento che ritornerà con tutta la forza nell’ultimo periodo (1947-1970) in cui si fa meno sentito il profondo dissidio tra il mondo interiore e la realtà mediocre dei contemporanei, e si dà inizio ad un processo di smascheramento dell’ipocrisia e della bassezza morale della società. Fra le poesie dell’ultimo periodo, cfr. Jekk … , Il-lum, Unknown Island, II-Bniedem, Lil Dun Mikiel Xerri. L’introversione sparisce e viene fuori l’estroverso rigenerato, il Vassallo del periodo post-leopardiano che lancia invettive senza, però, ritirarsi e richiamare la propria miseria. 
22 Hbiebi, v. 40. 
23 Le ricordanze, v. 42. 
24 Cfr. Marzu, vv. 11-18 e Ultimo canto di Saffo, vv. 19-26.
25 “Zibaldone”, Opere, II, a.c. di S. Solmi e R. Solmi, R. Ricciardi, Milano-Napoli, 1956-66, pp. 387- 388. Cfr. anche pp. 314, 375-376.

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 15-24




Michele Falci, Luna sikana, Caltanissetta, Paruzzo Editore, 2010.

Un romanzo concentrato sulla dimensione della realtà

L’autore di Luna sikana, Michele Falci, insegnante di materie tecniche in una scuola media di Palermo, quando è andato in pensione, tornato nella sua città natale Caltanissetta, dove ha pubblicato il suo primo romanzo, nel 2001, dal titolo Pane e zolfo, sulle zolfare siciliane. Nel 2009 ristampa il libro, sempre con lo stesso editore Paruzzo, a cui aggiunge una seconda parte, in modo da rappresentare, complessivamente, sessant’anni di storia romanzata siciliana, che va dal 1879 al 1940. Ora esce questo ultimo libro, che ha, come sottotitolo, «Completa la trilogia di Pane e zolfo»

Si tratta però, di un’opera abbastanza diversa, in quanto il primo libro ha una sua struttura oggettiva e si avvale di approfondite ricerche e di fatti storici intrecciati a personaggi, quasi sicuramente esistiti, ma romanzati, nel secondo si ha una maggiore soggettività e una stesura sicuramente autobiografica, che arriva ai nostri giorni.

Luna sikana rappresenta la realtà di una Sicilia, impegnandosi con attenzione verso grandi temi etici e politici, segnati dall’approfondimento di questi temi, in sintonia con le grandi trasformazioni della società. È la storia di circa settant’anni di provincia italiana vista attraverso lo specchio di varie vicende intime e umane dell’autore, con un procedimento veristico tradizionale, in modo che il nesso connettivo non vada perduto, anzi ne esca sviluppato come il concorso di un coro. Vengono codificati nuclei contenutistici e canoni stilistici, senza che venga perduto di vista il necessario contatto con le consuetudinarie quotidianità. Gli eventi hanno un taglio naturalistico in una storia che bada ai sentimenti e li esprime con mezzi semplici, con discrezione e con misura, dove la comunicazione diventa esposizione asciutta ed efficace.

Nella prefazione Francesco Luly scrive: «La ricerca e la riflessione della “identità siciliana“ da recuperare come bagaglio al seguito, porta a soffermarsi e innestare un processo di frammentazione della memoria a guisa di un’analisi dicotomica e semantica nella scelta di coltivare e proteggere il valore della propria memoria storica… Si intravede nello scritto il progetto del recupero di un’operazione culturale-politica dell’intera dimensione storica impron tata di distacco fisico dal territorio nazionale, da una cultura “multietnica”, da un differente assetto sociale, di tradizioni popolari, di sentimenti ancorati all’ideologizzazione della condizione siciliana dipendente da una reale condizione della propria storia antica costruita con tessere di vita sofferta e sofferente, di un forte rigore morale…»

Protagonista del romanzo è l’io narrante, uomo impegnato sul piano politico, etico e sociale, mentre è ricorrente la metafora naturalistico-filologica, vale a dire un grumo esistenziale di materie che consistono nella sostanziale realtà dell’uomo. La scrittura è austera ed essenziale in una struttura narrativa di stampo tradizionale mentre lo stile risulta scorrevole e senza alcun tipo di narcisismo.

Emanuele Schembari

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 56-57.




Domenico Cara, Le diagonali della psiche, Borgomanero (No), 2010.

Parola fluida e dilatata

Scrittore prolifico e autore di numerosi libri, sia in versi che di critica, a partire dal 1959, il calabrese Domenico Cara, abitante da molti anni a Milano e fondatore delle Edizioni Laboratorio delle Arti, continua a pubblicare con cadenza quasi annuale e sempre ad alto livello. Il suo ultimo libro di versi, Le diagonali della psiche contiene testi dal 1995 al 2006 dove emerge un’inquieta ricerca linguistica di strutturale avanguardia, che Cara ha, da sempre tenuto presente. Emerge dal silenzio della pagina essenziale la valorizzazione della forma, in modo che si realizza un’attenta ricerca, fino alla pura sequenza nominale, sin dall’inizio, che sta oltre la parola stessa, rifrangendola in parecchie direzioni, aprendo una nube di significati.

Andrea Rompianesi, nella sua postfazione, scrive, tra l’altro: «Simboli, complicità, lacerazioni coniugano il dettato tematico di Cara che giunge a tale riva attraverso viandanze che hanno conosciuto febbri, rigenerazioni, utopie, macerie, un dilagare anche corale e drammatico nel quale un approccio ermeneutico non soccombe all’incedere forzato dei relitti… Ma la poesia è qui conoscenza, incisione grafica connessa a ritmica definizione, enjambement filosoficamente rivolto all’accidentato percorso dei sensi… Energico, a questo punto, l’impegno intellettuale di Domenico Cara, il suo condividere epidermico passioni, ricerche, quesiti di senso, oltre le contaminazioni dei dettati stilistici, tale da costruire lo stile stesso in un attento edificare demiurgico.»

L’uomo e lo spazio, sia fisico, che spirituale, sono i capisaldi intorno ai quali ruotano molteplici significati di molti testi. Tutto è realizzato da un impasto linguistico, che ha risorse di rilievo proprio dove l’espressione si rasserena e diventa approccio diretto alle cose. E si ha una poesia compiuta, perciò autonoma, che trova la forza nel movimento fluido e nella drammaticità delle sue immagini, in cui il linguaggio della natura si traduce in forma di suono, e di sogno, di luce e di ombra. L’autore conosce la coscienza delle parole e il fermento dei pensieri e sa leggere la realtà di ciò che vi sta sotto, ma non è disposto a barattare la forma. Viaggia alla ricerca della propria intrinseca realtà, in un ostinato disincanto, tormentato e sfuggente.

Emblematiche sono alcune sue composizioni più brevi, dove il messaggio è più chiaro e più significativo. «Prima di me l’idolo arcano / sfiorava epoche perdute / adesso legge incantamenti / s’annida nelle mie preghiere / e affonda in aloni e cerchi» (“L’idolo“ ). «La pietà non raccontava fasi / di lamentazione ma si mostrava / attiva con il silenzio di soprassalto» (“ La pietà“). «Manipola la storia una sua rima / l’ibrido fatto o un desiderio / nel luogo di stupori / e il vento porta ricordi / odori di vendette cieche» (“Il clima”)

L’atto diretto dello scrivere, in Cara, si stagna come momento di un’istituzione espressiva che fa della parola qualcosa di fluido e si dilata sotto l’influenza di un io che vuole verificare la realtà per una sorta d’istinto viscerale. Vengono inventate ossimoriche strutture che determinano spazio alla  riproduzione reale di eventi e di emozioni devastanti, per ridare valore alla normalità, sublimando il reale.. Emerge dalla pagina la valorizzazione della forma, in modo che si realizza un’attenta ricerca del sostantivo, fino alla pura sequenza nominale, che sta oltre la parola stessa, rifrangendola in parecchie direzioni, aprendo una nube di significati. Gli impulsi più profondi attivano e animano il flusso incessante della comunicazione e, alla fine, si scoprono sollecitati da motivazioni verticali. Il segno tracciato dall’uomo e il significato che riassume è uno dei tempi di questa complessa ma interessantissima raccolta di versi, nella quale la parola, come mezzo di comunicazione, perseguita il poeta, che si sente impotente di fronte alla vita, data la molteplicità delle valenze che assume.

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg.55-56.




Maria Attanasio, Amnesia del movimento delle nuvole, Edizioni La Vita Felice, Milano, 2009.

Sensazione delle cose

Maria Attanasio, scrittrice calatina e intellettuale raffinata e profonda, alterna la pubblicazione di opere in versi, di grande rarefazione, a romanzi a carattere storico e sociale, con Sellerio, come Correva l‘anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Di Concetta e le sue donne, Il falsario di Caltagirone .In questo suo ultimo libro di versi, Amnesia del movimento delle nuvole, l’autrice di Caltagirone riesce a fondere le sue atmosfere, di sottile densità a dimensioni più realistiche. Sta qui, essenzialmente, la novità di quest’opera della Attanasio, nella metafora delle contraddizioni delle profondità dell’animo umano, dove coesistono varie spinte contrapposte.

Giancarlo Maiorino, nella sua prefazione, intitolata “Ansimare quotidiano e fantasie di mutamento“ scrive: «L’originalità e l’energia latente di questo bel libro sembrano inoltre matericamente risedere in una condensazione di elementi eterogenei sinora ritenuti opposti o comunque non passibili di compenetrazione reciproca. Sono ravvisabili difatti mosse di spostamento drasticamente figurate, mescolanti ‘sofferenza intelligente‘ e piacere delle risorse linguistiche, ansimare quotidiano e fantasie di mutamento, abbandono alla bellezza della natura e misurazioni psicologicamente acuite di corpi, sentimenti, gesti.»

Ci sono due filoni, infatti, nella stessa opera dell’Attanasio, una lirica più raffinata si alterna a versi duri e realistici. Per esempio a «Lampo di melograno / fiamma di malvasia / in una stanza globalizzata / rosso di poesia » (“Lampo“) si alternano composizioni come a «Repente, ahi dolore alla mente, / come se niente fosse la notte / senza salvacondotti allupata / la mano trema la casa vacilla» (“Repente“) e come «Roma sottonotte di ultras-clandestini / cosparsi di benzina-combusti resti / tra i cartoni del sottopassaggio / quietamente / sbucciando piselli in cucina» (“Notizia di cronaca”).

Si tratta di una poesia alla quale viene dato lo spessore della responsabilità di una testimonianza che cerca di rappresentare la sensazione delle cose e dei fatti. I versi sono attraversati da una sorta di fluido che cristallizza ricordi elencati a flash e riesce a liquefare tutto il concreto della vita quotidiana ricordata. La Attanasio interpreta una riflessione indagativa a carattere in parte onirico, in parte favolistico e, per il resto, realistico. Usa un linguaggio analogico e metaforizzato, con precisi riferimenti autobiografici, affondati in un’eco di occasioni disperse. C’è uno spessore personalissimo nel suo dettato, che si dipana in filamenti analitici, rilevatori di disagi esistenziali e di una lievitazione del vissuto. È un mondo dalle scabre modulazioni, con illuminazioni sui valori e sugli effetti. E, soprattutto, c’è la ricerca delle mutazioni dell’essere, nell’ambito del sentimento del tempo.

Emanuele Schembari

Domenico Cara, Le diagonali della psiche, Borgomanero (No), 2010.

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 54-55.




Grazia Guttilla, Nulla accade per caso, Palermo, Ila Palma, 2010.

Il fascino dell’amore provvisorio

Nulla accade per caso è un romanzo di Grazia Guttilla che la fertile editrice Ila palma di Palermo ha da poco mandato in libreria.

L’opera più che di storia sa di diario avventuroso ed intrigante di giornate vissute in un villaggio vacanze in Messico, scelto apposta per dimenticare i fallimenti affettivi, affogando nelle avventure e nella trasgressione. Sfilano perciò pagine tra balli e sballi, aperitivi e ubriacature, escursioni e lunghe nuotate, appuntamenti per cicaleggio da spiaggia e, ovviamente, concessioni al sesso provvisorio che l’attrattiva del luogo e la predisposizione psicologica della donna delusa e inquieta consentono. Difatti la protagonista è una Lisa, donna più che trentenne, fisicamente in forma e assai piacente, con appresso una figlia già in grado di prestarle all’occasione motorino o minigonna, con alle spalle un matrimonio fallito e la persistente ansia di comunicazione affettiva, per cui incorrerà in ulteriori delusioni con uomini affascinanti ma incapaci d’impegno durevole e di assunzioni di responsabilità. E nel molto animato villaggio non le mancheranno le occasioni di evadere, ora con uno spregiudicato Javier, ora con un misterioso Diego per il quale prenderà una cotta tormentosa.

Ma quello che fa di questa Lisa un personaggio tipico della femminilità come valore passionale è il suo continuo sentirsi legata al richiamo di un precedente amore, quello narrato nella prima parte del libro, un’esperienza che appare appagante in tutti i sensi, eccetto quello di voler prevedere qualcosa di duraturo. Nonostante ciò, quest’uomo, anzi il solo suo nome, affiorerà di continuo, quasi come fantasma nel corso delle vicende che animano i giorni di relax. Anzi alla fine, egli, Luca per l’esattezza, sembrerà addirittura rifarsi vivo per Lisa, come per agnizione teatrale, attraverso la figura del fratello, il Diego di cui sopra.

Forse questa conclusione disturba un po’ il clima di greve follia vacan  ziera al sole invernale dei Caraibi, nel  quale le pagine hanno coinvolto; o forse inficia la naturale leggerezza degli incontri e degli amplessi che nel libro a volte ben sanno di quella delicatezza erotica, umanamente plausibile, che però nulla ha a che fare con l’auspicata durevole felicità, raro sogno dei soliti amanti di questo mondo.

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 53-54.




Pino Aprile, Terroni (Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”), Milano, Ed. Piemme, 2010.

Apriamo gli archivi (e gli occhi), leggiamo la storia!

Di solito, dopo cinquant’anni, stemperati gli ardori e le passioni degli uomini che l’hanno condizionata, la storia si delinea e svela nella sua luce migliore. Ma non è così per quella unitaria del nostro Paese o, perlomeno, per la parte dello Stivale che fu conquistata per rendere grande il piccolo Piemonte. Questo pezzo di storia, a centocinquant’anni dall’unità d’Italia, non si conosce affatto e non si vuole che si conosca; meglio se rimane ancora richiusa a chiave negli archivi o distrutta, ad onore e gloria della retorica ufficiale che continua ad osannare ai “fratelli” che vennero a liberarci dalla “tirannia e dall’arretratezza”.

Sempre più in molti ci chiediamo: perché quest’accanimento contro la verità storica che non può essere taciuta? Forse si teme qualcosa? Ormai, l’Italia è stata fatta, e nel bene e nel male ce la teniamo. Nessuno la pensa diversamente, ma conoscere la storia, conservare la memoria di quello che è stato, è un diritto di tutti che avvicina a sé e all’altro. Venendo a mancare questa conoscenza, non ci può essere dialogo e si alimenta di più il razzismo. La riprova è in quello spavaldamente manifesto dalla Lega e dal leghismo di questi ultimi tempi. Qualcuno, nei primi anni dell’avvenuta unità disse, a ragione, che s’era fatta l’Italia, ma non gl’Italiani, e lo diceva con cognizioni di causa; a tuttora, non è cambiato niente. Si è creato un muro divisorio Nord/Sud discriminante, favorevole per il Nord e penalizzante per il Sud, con la complicità di tanti che, pur potendo, niente hanno fatto per risollevare le sorti del Sud, maltrattato sempre persino dai suoi uomini, tutti presi da pseudopolitica e da interessi di ogni genere. Tutto questo discorso, ben modulato e argomentato con solide pezze d’appoggio, è ripreso da Pino Aprile nel suo nuovo libro Terroni (Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”), pubblicato dalla Piemme ed., 2010. È un libro da leggere, a prescindere dalla geografia di appartenenza, perché è utile anche ai nordici conoscere la controstoria, se non altro, per ridimensionare il loro atteggiamento nei confronti della gente del Sud, e interessa quest’ultima per tenere alta la memoria e riconsiderarsi, riprendendosi l’orgoglio che era dei padri.

Il libro si compone di nove capitoli, e si legge come un romanzo, una pagina tira l’altra, ma romanzo non è, tanto meno è storia romanzata; bensì vera che non ha spazio (così vogliono!) nei libri di scuola e che è stata scritta da uomini che meridionali non erano prima dell’unità o, meglio, prima dell’occupazione piemontese del Regno delle Due Sicilie. C’è una frase che colpisce, leggendo il primo capitolo “Diventare meridionali”, a proposito delle malefatte, le angherie e le uccisioni perpetrate dai soldati piemontesi nei vari paesi messi a guerra e a fuoco: «Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai», come a dire che, se agisci per conto dello Stato, tutto è concesso; e, a colpi di crimini e di furti, si fece l’Italia, contro il diritto internazionale e contro l’umanità, così fu per la conquista dell’America, da parte di Hernán Cortés, così in Iraq e negli altri Paesi, dove Americani e Alleati fanno guerre in nome della democrazia. L’altro che difende la sua terra e la famiglia è un criminale e un terrorista, l’aggressore è il liberatore a cui tutto è concesso, anche lo stupro e l’uccisione di innocenti con la colpa di aver detto – ai soldati che chiedevano – Francesco, anziché Vittorio.

Eppure queste cose non si sanno, la storia ufficiale scrive ben altro; parla di briganti e dello Stato che interviene per imporre la legge dei vincitori, marcando di più la separazione dai vinti. A proposito del patriota borbonico Romano, Pino Aprile scrive:

«E mio padre ne doveva aver udito parlare in quei termini: da messia, non da delinquente. A lui, persone vicine ai fatti narrarono il coraggio di un uomo; a me, i libri di storia, il disonore di troppi ribaldi e del popolo che li espresse. Dall’orgoglio alla vergogna. Sono sempre più numerosi, al Sud, quelli che ripercorrono questo rio all’incontrario, per ritrovare, con la verità sull’origine della loro storia unitaria, la ragione di essere fieri. E uscire dallo stato di minorità.»

È, questo della “minorità”, un altro punto fermo del libro; è ripreso qua e là, e l’autore gli dedica anche un capitolo. Il Sud è stato – a cominciare dallo sbarco di Garibaldi a Marsala – oggetto di metodica spoliazione che lo rese nel giro di pochi anni povero e in condizioni pietose, sia dal punto di vista materiale che morale (basta pensare alla leva obbligatoria che tanti rifiutarono, dandosi alla macchia, e quella che fu una protesta di popolo fu chiamato brigantaggio), con la conseguente umiliazione del sé che, a lungo andare, condizionò di molto le popolazioni, facendole passare per arretrate e incuranti della legalità. Ma – ci chiediamo -, quale legalità poteva vigere in uno stato di continuo assedio in cui si trovava il Sud, vilipeso e martoriato dall’arroganza piemontese? La verità è che con quell’arroganza il Piemonte s’impadronì della ricchezza che aveva fatto potente il Regno borbonico, mentre l’umiliazione inferta alle popolazioni le condizionò tanto da subirne tuttora le conseguenze e, intanto, in quegli anni si sperimentavano ancora di più la mala politica, la delinquenza associata e la corruzione, che cominciò a interessare anche le istituzioni.

La frase che rimane impressa ed è stata un po’ prima riportata («Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai»), al termine della lettura del libro, appare ancora più chiara perché nell’immaginario comune razza di criminali sono i Meridionali che, invece, hanno subito e continuano a farlo, per questi centocinquant’anni dall’unità, il male dei nordici; non quest’ultimi, perché vincitori e fruitori delle ricchezze saccheggiate investite nella loro terra, rendendola ricca e privilegiata da avere il primato delle industrie e degli inve stimenti, a scapito delle altre regioni. 

Il libro – abbiamo scritto – è fatto con amore, è ben documentato, e merita di essere letto perché è un gran contenitore di notizie che, altrimenti, non potremmo conoscere, sia per i motivi sopra esposti, sia perché l’informazione ufficiale non è disposta a diffondere e rivelare notizie di questo genere. Piuttosto ha interesse a divulgare il negativo, e ad essere colpiti di più sono i Meridionali per mettere in risalto la loro “minorità”, rispetto ai Settentrionali che godono anche di questi favoritismi. Persino il cinema segue questa tendenza, diffondendo un’immagine del Sud e della Sicilia stereotipata e falsa, nascondendo le magagne del Nord, dove s’annida la vera mafia dei capitali e degli intrighi.

L’auspicio, che poi è quello con cui Pino Aprile conclude la sua analisi, è ritrovare il passato e l’identità che ci è stata tolta quasi del tutto, e nella consapevolezza cominciare a riprenderci il maltolto e governarci nella vera autonomia (non quella della Regione Sicilia, ancora rimasta sulla carta statutaria). C’è l’intraprendenza, c’è l’intelligenza, ci sono anche le risorse per potere emergere! Sono esse i lieviti forti che da soli possono e devono risollevare il Sud.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 51-53.