Antoine de Saint-Exupéry

Lo scorso anno, il 29 giugno, Google dedicò la pagina di apertura al 110° anniversario dalla nascita di Antoine de Saint-Exupéry, essendo nato a Lione il 29 giugno del 1900 e morto nel Mar Tirreno il 31 luglio 1944, il suo aereo di ricognizione abbattuto dalla contraerea tedesca.
Di nobile famiglia, fu subito avviato agli studi, nel 1909 nel collegio dei Gesuiti di Notre-Dame de Sainte- Croix au Mans, dove si fece notare per discontinuità nello studio, ma era molto portato per la meccanica e l’invenzione; poi, nel 1914, nel collegio, sempre dei Gesuiti, di Mongré a Villefranche-sur-Saône. Successivamente andò in Svizzera e terminò gli studi superiori a Friburgo; s’iscrisse in architettura a Parigi. Qui, dopo il servizio militare nella marina e poi nell’aeronautica, fece diversi mestieri, dandosi nel tempo libero alla scrittura e alla lettura.
Il suo primo racconto, “L’aviatore”, è del 1926, un anticipo di Courrier Sud, pubblicato a Parigi presso Gallimard nel 1929. Sempre nello stesso anno fece un corso per pilota a Brest e diventò direttore della Compagnia Aeropostale Argentina. 
Nel 1930 fu insignito del titolo di Cavaliere della legione d’onore e fu protagonista nel salvataggio dell’amico Guillaumet nella cordigliera delle Ande. Di qui trasse lo spunto per scrivere Vol de nuit, con cui ottenne il premio Femina nel 1931. Ancora nel 1930 incontrò a Buenos Aires la donna che dopo un anno diverrà sua moglie, Consuelo Suncin. 
Altre pubblicazioni, oltre alle citate, lo avevano fatto già conoscere come autore di libri di avventura e di riflessione. Ricordiamo: Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), in cui, non tralasciando di andare oltre la semplice narrazione, riporta la sua esperienza di uomo tra gli uomini e il suo approccio con la natura nelle sue manifestazioni che esprimono una sensibilità, al pari di quella umana, ora dolce e aperta, ora cupa e minacciosa, come quando con il suo aeromobile l’Autore si trovò nel mezzo di una bufera.
Il piccolo principe era stato pubblicato un anno dopo, nel 1943, in inglese, senza che l’Autore ne avesse dato il consenso. Era stato scritto nel 1942, ed ebbe subito un successo strepitoso.
Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, autore di opere da leggere e meditare, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, a cui si rivolge con molta cura e rispetto, da signore qual era. L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai di un bisogno di emergere e di farsi notare. 
Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva della sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate.
Alternò alle opere di narrativa saggi e scritti di riflessione, considerazioni di vita ed altro in cui si rivela acuto pensatore e valido amico di viaggio alla volta della ricerca e della conoscenza.
Citadelle (Fortezza) è del 1948, pubblicato postumo da Gallimard; Écrits de guerre (1939-1944) è apparso nel 1982; Manon danseuse è un romanzo giovanile portato a termine nel 1925 e pubblicato nel 2007; poi, i saggi e corrispondenze varie che fanno di Antoine de Saint-Exupéry un autore prolifico e aperto a sé e agli altri.
Fu attaccato dai detrattori – abbiamo scritto -, e ciò perché, prima gli si rimproverò che la sua letteratura era frutto di esperienza vissuta, poi, quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’Uomo (lo scriveva così, con la U maiscola), come se ci fosse uno stacco tra le prime opere e le successive, non venne accettato nella nuova veste di saggista e di pensatore. Ma tra le une e le altre opere non c’è ancuno stacco, non c’è passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa da un’opera all’altra. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione che non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, bensì diviene più insistente, frutto della ricca elaborazione esperienziale e del dialogo che sa instaurare con gli uomini e le cose. Altrimenti non ne sarebbe stato capace, perché in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince, l’opera che gli diede la notorietà mondiale. 
Écrits de guerre (1939-1944) lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, non risente dei dolori residui delle tante cadute, gioca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni»; quando, invece, per età avanzata non gli si consente di volare è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson del “The New York Tribune”, pubblicata il 7 giugno 1940:

«Nessuno, attualmente, ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con il proprio corpo.»

Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto a molti suoi scritti, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato. L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney.
Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore della sua esperienza di volo, è il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, alla luce delle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui.
Già molto noto per i libri sopra citati, raggiunse notorietà internazionale con Il piccolo Principe, tradotto in tutte le lingue, con il primato delle vendite. Questo perché è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti, parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei suoi valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare.
Antoine de Saint-Exupéry trova la molla ispiratrice nell’infanzia, nel ricordo vivo, sempre presente della sua:

«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. […] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)… »

La dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosí due livelli di lettura), riflette lo stato d’animo del suo autore che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età.
Il piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio e del deserto, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida, pronta a svuotare di ogni nobile sentimento l’uomo e farlo belva per rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza del piccolo Principe, ragazzino biondo, capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo sono gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, ponendo la sua attenzione sugli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che tutti accomuna.
Incontri indimendicabili sono quelli che il ragazzino fa con la volpe e con la rosa. La volpe è guardinga, perché agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e si fa addomesticare.

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità,, – disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa…»

Antoine de Saint-Exupéry ricorre ad aforismi, come questi, molto citati, segno che colgono nel vivo lo stato d’animo dell’uomo che ha già in sé i mezzi sufficienti per gestire il suo destino. Ma il racconto è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento, per renderlo più ingentilito e più buono nei rapporti umani, perché lo scopo dell’Autore è di riportare l’uomo nella condizione di appropriarsi ciò che gli appartiene, ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità che rende succubi dell’effimero e del vano.

 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 30-32.




Rosa Barbieri, Il volto delle Madri, Foggia, Bastogi, 1992.

Un viaggio dell’anima

Non a caso la nuova silloge poetica di Rosa barbieri, dal titolo emblematico Il volto delle Madri è dedicato ad Andrea, il nipotino adolescente incompreso, a tutti i fanciulli che soffrono, poiché la genesi ispirativa ed esistenziale di questo canto risale a questa remota pena nel salvifico dono della poesia.. La raccolta si allinea su 70 composizioni liriche (suddivise in tre segmenti: Adolescenza, Il viaggio delle madri, Iside cantare), senza titolo, quasi stazioni di un “viaggio” dell’anima, tenero e struggente, nelle contrade della memoria, ognuna, autonoma e singolare ma, in realtà, legate tra loro da un filo di luce, in progressione dialettica, per delineare un diorama, estetico e ideologico, dell’eterno rapporto madre-figlio, donna-bambino, che si dilata, da una testimonianza vissuta e sofferta, agli orizzonti della società e del mondo.

Un atto d’amore, trafitto dall’infelicità e dal dolore, tramite un lirismo intenso e vibratile, si trasforma un atto d’accusa verso la disintegrazione di giovani vite avviate a un domani senza bussola e senza ideali. La poesia di Rosa Barbieri raffigura, così, un elemento di rottura, una scheggia di polemica pungente contro le aporìe della incivile civiltà contemporanea, balenante di violenza, di odio, di droga, di scientismo, di egoismi, di razzismo, che minacciano di travolgere le nuove generazioni. Il verso si fa ora grido di protesta, ora sussurro di preghiera, ora rabbiosa disperazione, ora mistico incantesimo,ora consolante messaggio. Le problematiche, a sfondo etico-pedagogico, sono come fiori di montagna sospesi su baratri di luce o madrepore sprofondate negli abissi memoriali o di frammenti di cristallo custoditi nel segreto dell’inconscio. La tessitura semantica degli stilemi, a volte si fa affannosa e franta, quasi imbrigliata nei viluppi criptici del pensiero che rischia di soffocare il sentimento e i sogni. Ma il linguaggio è, tuttavia, coerente nell’architettura dell’impeto che governa i moduli ispirativi, i ritmi musicali, mai banali, raramente patetici o retorici, spesso doviziosi di colpi d’ala e di dissolvenze pindariche, con opportuni richiami mitologici, riferimenti biblici o evangelici, frutto di una robusta cognizione umanistica e filosofica, di autori classici e moderni. L’Autrice, infatti, ha coltivato con lungo studio letture di filosofi e di poeti, e si è dedicata con passione alla pittura e alla musica. Il talento naturale di Rosa Barbieri, incanalato verso le arti, ha trovato, nel rapporto con le cose, con la vita, con la visione del mondo, il suo sbocco spirituale nella fede cristiana che l’ha sorretta nelle ore crudeli che hanno ferito il suo sensibile cuore di donna e di madre.. E potrebbe dire con Maritain: «…solo chi è accesa può accendere, solo chi è convinto, può convincere, solo chi è stato scosso può scuotere, solo chi è entusiasta può entusiasmare, solo chi ha pianto, può commuovere…»

In questo libro, Barbieri ha toccato le cuspidi più alte del suo itinerario artistico, perché, con uno stile perentorio, icastico, articolato, elitario e, nello stesso tempo, umorale, cattivante, e umano, ha saputo trascendere i confini del suo dolore per parlare a tutti i figli di mamma, di oggi e di sempre, esaltando, con appassionata esaltazione polifonica, la miracolosa vigilia dei “bambini di luce” nell’amorosa visione delle piccole madonne terragne che recano, con dolore nel loro grembo i destini della storia. Non c’è tesoro più prezioso, non esiste bene più grande che il candore e l’innocenza di un fanciullo che dorme o che sogna; non c’è bellezza più bella di una madre che veglia la sua creatura che gioca; non c’è preghiera più alta di una nenia su una culla che dondola nell’ombra. Sono gocce d’azzurro le lagrime e le sofferenze di una donna che, con gioia senza confini, consegna alla luce del mondo il frutto del suo amore. Ma, spesso, l’umanità, la sorte, la vita lacera e distrugge questa dolce poesia del sangue e dell’anima e, allora, dinanzi a un “figlio crocifisso”, il volto delle madri “indossa il cappuccio dei monatti”. E il pianto di una madre umiliata e offesa, diventa il pianto del Cielo, il pianto della Madre celeste, il pianto degli angeli. Unico rifugio alle sovrumane tragedie dei tanti figli che cadono sotto la croce dell’infamia, la pietà di Cristo, la voce dell’Eternità, il sorriso delle Mnemosine che raccolga il grido delle donne smarrite nelle ceneri della solitudine e dell’abbandono, le lucciole della poesia, le perle di ogni nuova poesia, come allodole innocenti verso il sole, dischiudono, allora, paesaggi ancora inesplorati, dove, unica sorella del dolore, è la speranza.

Franco Calabrese

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 59-60.




Un ritratto della madre

C’era pure un ritratto della madre
– di lei nessuno sa niente, s’affaccia a guardare con aria stranita,
rispunta tra le carte di una lite che il tempo non può più sedare.
Che suonava l’armonium nella chiesa lo ricorda qualcuno,
e che cantava
inni sacri alla gloria del Signore;
e si nutriva di letture bibliche, conversava con Sara e con Isacco, con Esaù che volle le lenticchie. E lottava con angeli, a sua volta.
Ai ragazzi insegnava l’alfabeto
e a far di conto.
Le diedero persino una medaglia con l’ef gie del re: c’era una volta…




Riflessione e sentimento. L’io e l’altro nella poesia di Gaetano Trainito

Gaetano Trainito (Gela, 1928) è uno tra i poeti italiani viventi più rappresentativi di questa nostra età. A voler fare una sintesi della sua poesia, diciamo che si rivela poeta a partire dalla silloge Le mani degli angeli (1994). Sebbene non avesse pubblicato altro no ad allora, da sempre era rimasto vicino alla poesia attraverso letture ed esercizi che plasmeranno la sua sensibilità e lo apriranno alla parola poetica, come lo stesso poeta afferma in una breve nota ancora inedita: «Mi piace fare un’altra considerazione: io le poesie le ho scritte sempre, sin da quando sedevo sui banchi del Liceo Classico “Eschilo” di Gela. Nei momenti nei quali i sentimenti tracima- vano e gli interrogativi non trovavano risposte, la maniera primaria di esprimermi era il linguaggio poetico fatto di parole autentiche come l’acqua di roccia mai cercata e ricercata».
Nella raccolta Le mani degli angeli abbiamo già il poeta che ritroviamo nelle altre sillogi successive, da Il viaggio, del 1996, e sempre nello stesso anno, a Filo spinato, libro che raccoglie i primi due. Seguiranno Stelle di gesso (2000) e Lontani approdi (2003), più controllati, anche se mantengono forti i legami con i precedenti (da Il viaggio, ad esempio, sono prese la lirica omonima, con qualche piccola variante, e riproposta in Lontani approdi, e “A Cinzia”, ripubblicata in Stelle di gesso). Lo si nota in questi versi:
Ho visto il sole e tutte le comete. Già vecchio e stanco,
io non ho più sete
di colori e di spazi.
Sono versi che compongono la lirica “Il viaggio”, ripubblicata – abbiamo scritto – in Lontani approdi. Ha elimi- nato i primi due versi («Il mio volo / l’ho fatto» e abbinato il terzo e il quarto che formano il primo, un endecasillabo, apportando qualche ritocco ai tre che seguono. Piccoli accorgimenti, ep- pure dicono il lavoro di lima di Trainito che mira all’essenziale. Ciò che gli preme non è tanto l’effetto da raggiungere, quanto la pregnanza di significato per dire quel che ha dentro e comu- nicarlo, per gridare forte lo scontento e lo stato d’animo, lui che, giunto ad una certa età, non ha niente da sperare («io non ho più sete / di colori e di spazi.»), perché non ha più un futuro davanti a sé e il tempo presente non gli prospetta alcuna aspettative; sente solo il biso- gno di dire sul “visto” e il fatto. Perciò, ora che non si aspetta altro, guarda con occhi sereni la vita e il mondo che lo circonda, riflette e partecipa sentita- mente a sè e agli altri situazioni e coseche la musa ispiratrice gli detta dentro. La poesia di Gaetano Trainito si svolge tutta per ritorni interni o, me- glio, per moti circolari, che coinvolgo- no e delimitano l’io individuale e, al tempo stesso, allargano i punti di vi- sta, sviluppando i temi di sempre con un’ottica diversa, più raccolta, meglio interiorizzata. Moti circolari e ritorni, fatti di chiari cazioni e di sempli ca- zioni, dovute a tagli – come abbiamo notato – volti ad eliminare impurità, a dare maggiore pregnanza alla parola. E questa è il suo punto di partenza, enunciato in “Poetiche”, a cui sin da Le
mani degli angeli tiene fede.
Non ho intrecciato endecasillabi
in strofe arcaiche né ho cantato
con ritmo ilota
i miei lamenti.
Ho solo sofferto nelle brevi sillabe del mio linguaggio il vissuto1.
Trainito ha le idee chiare. Ciò che conta non è tanto la struttura del verso, la rima, o l’effetto che ne può deriva- re, ma ciò che il poeta sa estrinsecare e cogliere dalla parola che si carica di signi cato e di musica, per esprimere l’intimo, la vita, più che nell’essere, nell’essenza, senza esternazioni passi- ve, proprie di chi subisce.
Il poeta virilmente non si ferma in supercie, esprime il sofferto attraverso «brevi sillabe», scava e ri ette sull’umano operare e nella concisione dice tanto; e la parola arriva al cuore dell’uomo senza tanti intermediari, per immagini e riflessioni che acquistano una forte carica e la comunicano.
C’è alla base di questa poesia il vissuto, continua acquisizione di sofferenza, che è la molla di ogni ispirazione e, in particolare, della poesia. Lo ha bene notato Mariella Vigliano che, da attenta lettrice qual è, scrive in un suo saggio che «di là di ogni generi- ca enunciazione, è evidenziato il tema di fondo di questa poesia: il dolore. Senza fronzoli, è la de nizione di una poetica, ma di quella che esclude i ru- mori chiassosi per darsi all’ascolto e per essere vera poesia2». Ed è quanto lo stesso poeta asserisce in “Povertà”: «Con limpida povertà / rivesto i miei pensieri / di parole. / Non ho gemme / né piume di pavone…3». La sua è una poesia asciutta, ma ricca di signi cato e profonda, capace di suscitare emo- zioni e riconoscersi in essa. E, ancora, quasi a chiarimento, scrive nella lirica “La parola”:
È come il cieco
– che vede troppo con l’anima
e trema –
la parola
caduta
sola
sulla carta bianca4.
L’immagine del cieco, cara alla poesia classica (Omero cieco va trascinando a stento i suoi passi in terra greca per interrogare i morti eroi; la stessa immagine è ripresa dal Foscolo per dare risalto alla poesia eternatrice), serve al Nostro, greco anche lui, per caricare di denso significato la parola che ”vede troppo / con l’anima” e che, quasi “caduta” per caso sul foglio, è capace di andare oltre e di fare intrave- dere la realtà foriera spesso di tensioni e di forti contrasti. Questo perché non i rumori e né i suoni lo interessano. Gli è cara la parole atta a tradurre i suoi pensieri, frutto di puntuali osservazioni, di riflessioni profonde e di nobili
sentimenti che interessano tutti, indi- stintamente l’io e l’altro.
La “limpida povertà”, di cui parla il poeta, è una libera scelta, è il preferire la parola autentica, “sola / sulla carta bianca”, alle costruzioni ef mere che dicono per non dire, come l’accostarsi all’acqua di roccia che disseta piutto- sto che alle tante altre che riempiono e lasciano l’arsura. Ed è un grande pregio, questo di Trainito (a buon ragione, Giuliano Manacorda5 parla di “bella virtù”), specie nella nostra età, in cui fattucchieri della parola s’improvvisa- no sperimentatori e vogliono farsi ac- clamare poeti.
Il fondo ri essivo, come l’acqua di roccia, caratterizza la poesia di Traini- to, rivestendo di una patina di saggezza uomini e cose, ricordi puri cati dalle scorie e volti di donne fossilizzati dal tempo. Si nota anche in “Lontani approdi” che dà il titolo alla silloge ci- tata, ma anche nella lirica “Silenzio”, ripubblicata in Filo spinato:
Quando
di pallide ombre
si empie la notte
e canti di cicale
attendono l’alba
il cuore di tutte le cose si ferma. Nell’ora della verità
c’è solo silenzio6.
Nell’ora in cui tutto sembra dormire è il momento propizio per ascoltare se stessi; solo nel silenzio si può sentire viva la verità che è in noi. Trainito lo afferma senza mezzi termini. C’è qui una punta di gnomicità che non gua- sta, anzi apre al dialogo e al confronto. Così è in “Beatitudini” o, ancora, in “Naufragio” («… Confuso / nei colori e nello spazio / in un naufragio / che non ha con ni…»), in cui è evidente l’aspetto metafisico della vita e il bisogno di trovare scampo o di gettare un’àncora di salvezza che possa alleviare il dolore e mettere freno alle difficoltà di ogni giorno.
Trainito, che pure ama la vita e, a modo suo, da poeta la partecipa, pur constatando lo sconforto e le amarezze del vivere, non si chiude in sé, tanto meno si rassegna, perché sa che nessuno ne rimane indenne. Il dolore, come categoria della vita, è il lievito che spinge verso gli altri, e il poeta, novello Prometeo, si fa portatore di umana solidarietà, aprendo alla speranza, che è consapevolezza, accettazione virile, coraggio nell’andare sino in fondo e vivere con dignità.
Elemosinare la vita ed ottenerla
non è prodigio. Miracolo
è
salvare la speranza7.
Questa speranza, miracolo salvavita, è uno dei motivi che, insieme con il dolore, è presente in tutta la produzione poetica del Nostro. In “Homo”, oltre alla sofferenza e alla solitudine («Ferito dalle catene / tra tto il costato / … / e aspetta l’amore»), c’è la speranza nell’amore che tutto fa dimenticare. L’uomo d’oggi che sopporta il male esistenziale aspetta una parola, un gesto, perché possa aprirsi al sorriso e attutire il dolore nel nome dell’umana fratellanza e della solidarietà.
In “Solitudine Pasquale” c’è una cosciente accettazione del dolore, senza lamenti, senza invocazioni di aiuto.
Non ho una madonna che pianga né un calvario
dove tutti possano vedere
il mio dolore.
…Nudo,
solo
ma vero 8 ritorno alla terra in silenzio .
Nel dolore e nella solitudine l’uomo, «oscuro martire di in niti calvari», vede consumare piano piano l’esistenza: la vita va a nire e dà spazio alla morte. Eppure, al dolore sono collegati la vita e la morte. Nella brevissima liri- ca “Nagasaki”, egli, in bilico tra la vita e la morte, non si rende conto di anda- re incontro ad un’immane catastrofe, qualora continui a sganciare bombe nell’indifferenza, quasi a non dare peso all’in nità di morti e alle conseguenze delle irradiazioni, segni dif cilmente cancellabili e portatori, essi stessi, di morte. Continuare a giocare con l’ato- mica, l’essere tra la vita e la morte, signi ca incoscienza, non valutare un pericolo così devastante e annullatore («L’angelo di pietra / di Nagasaki / ha pianto. / Nessuno l’ha visto»). Il poeta, che è un veggente, con un pizzico di ironia, ma con bonomia, sembra qua- si tirare le orecchie a quanti auspicano il ritorno al nucleare, per aprire ad un tema attuale che tiene in allarme, ora più discusso, specie dopo l’avvenuto terremoto/maremoto del Giappone che ha sensibilizzato fortemente l’opinione pubblica mondiale.
Trainito sente il contrasto vita/morte, lo fa suo e lo sviluppa nella maniera più consona ed originale. Si leggano le liriche “Ai miei sogni” («Quando / mi si fermerà il cuore / nessuno / ruberà nuvole / ai miei sogni»), “Correranno cavalli” o, ancora, “In orbita”, tanto per citarne alcune, in cui, di là dell’evento che segna una cesura con il mondo, l’uomo s’immagina talmente libero dai condizionamenti, sicuro di poter vedere le cose nella loro luce più vera e bella, in un candido stupore infantile, come nella lirica “L’idealista”:
Morì bambino
da vecchio seguendo
tra ciuf di nuvole un sogno9.
Questa di Trainito è la presa di coscienza dell’ultima tappa, a cui siamo destinati, motivo portante di Lontani approdi, ma egli è sempre per la vita che prorompe da ogni dove («Agavi sulla mia strada / e profumo di zagara. / Fatemi vedere Dio», – grida -), e si manifesta attraverso le grandi piccole cose che la inghirlandano, per cui, an- che se si snoda tra un caleidoscopico vortice di spine e profumi, rifugge il dolore per aprirsi alla conoscenza e al mistero («Voglio annegare / in una ca- scata di luce / per conoscere Dio»10), per veri care il miracolo, di cui è dono, a costo di pagarla cara, come è in «Meduse», dove il gioco tra la vita e la morte è palesemente scoperto, e vale la pena farlo.
Sul lembo della spiaggia bagnata dal mare
a tempo di culla,
le lievi meduse
sospinte dall’onde, anemoni d’acqua
– fra sassi –
si sono dischiuse .
Le meduse sono metafora della vita; «anemoni d’acqua», pur sapendo di morire, s’aprono alla bellezza, così come l’uomo alla vita. Pochi versi, eppure carichi di signi cato, profondi. Di qui il bisogno del poeta di darsi all’amore e agli affetti, spesso recuperati nel ricordo (“A mio padre”), oppure semplici presenze e numi tutelari, come in “Torno all’antica casa”:
Come ulivi cresciuti
nello stesso pozzo di terra
11
– coi rami e le radici
confuse in sostegno d’amore – m’attendono il padre e la madre12.
L’amore liare, il senso dell’unità della famiglia, sono ben compendiati nella similitudine degli ulivi che allude alla solida resistenza al tempo, oltre che alla pace, mentre l’immagine dei rami e delle radici costituisce un tutt’uno «in sostegno d’amore», l’amore verso i propri cari e la terra che lo lega a sé.
Il poeta coglie in sintesi ampie tema- tiche o problemi, di cui tanto ci sareb- be da dire, perché, da buon quali ca- tore (secondo la lologia sperimentale di Davide Nardoni, poeta è chi quali – ca), anche indirettamente, non rinuncia all’impegno, fatto di denuncia per il degrado ambientale e il disagio socia- le. Si legga “Gela 1960”, dove il poeta grida la sua amarezza per lo scempio della città («L’immensa nube del pe- trolio / ha sciolto già / no all’orizzon- te / il rosso del tramonto. / Mi hanno ucciso la patria»), o “Spiagge del sud” in cui, nel persistere dell’amarezza, scrive: «sono rimasto solo»:
Hanno ucciso
le lepri che fuggivano

hanno fermato
le sirene
che venivano a notte
sottola luna tremula
in mille voci di conchiglia… ed io
sono rimasto solo13.
Non resta che constatare la triste miseria in cui il Sud è stato ridotto da una miope classe politica che permet- te ogni abuso. Il poeta rimane solo e inascoltato; nessuno fa niente per salvare il salvabile. Cosa gli resta, allora, se non ripiegarsi su se stesso e darsi al ricordo?
Chi non conobbe
Gela contadina

mai ne conoscerà
l’anima oscura
nascosta dentro un ciuffo di cotone, …14
L’uomo, ormai spaesato, non trova gli agganci nella realtà e con il ricor- do si ricrea la Gela d’una volta, fatta di miseria, seppure sopportata con dignità, ma vera.
Le immagini sono appena abbozzate, ma la luce che le irradia, anche se al tramonto, è luminosa, tale da farle rimbalzare e presentarle nella loro essenza, velate da una dignitosa nostalgia, non rimpianto, perché il poeta sa che a niente vale, e la vita, nonostante tutto, continua.
La nostalgia, il dolore del ritorno alla vita e alle cose d’un tempo, alla natura a misura d’uomo, lontana dalla plastica e da ogni forma d’inquinamento («fatta di sole, mare, / e di tuguri»), questa sì, è sentita e riproposta con accenti di liale attaccamento, perché è la terra dei padri. E la parola, ancora una volta, caduta purificata sul foglio, riesce a far trasalire e trascina, accompagnati da un sottofondo di chopiniana musicalità, reso bene dal verso breve che caratterizza la lirica trainitiana.
Non credo che nel panorama della poesia contemporanea ci siano poeti che, come il Nostro, sappiano coglie- re con tanta abilità gli stati d’animo, le trepidazioni proprie d’un sentimento, qualsiasi esso sia, tali da coinvolgere e lasciare indelebile traccia. Il lettore è portato a calarsi nel suo intimo e solo in quella sfera è spinto a riconsiderare la sua umanità, il suo io proteso verso gli altri e la vita, la sua limitatezza e l’aspirazione all’in nito. Per tutto ciò, il fondo ri essivo di questa poesia non
Saggi 12
ha riscontri, e non ha senso richiamarsi a questo o quel poeta. Senza dubbio, possono esserci luoghi comuni, ed è normale che ci siano, anche se i veri poeti non li presentano mai allo stesso modo, e ciò fa parte dell’originalità che in Trainito sta nell’attenzione che rivolge a tutto ciò che attiene all’esistenza e al modo di esprimerla, fatta di essenzialità, di equilibrio, di senti- mento, e di adeguato uso delle gure retoriche (la similitudine, l’anafora, l’analogia, l’anastrofe, ecc.) che mol- to danno ad una poesia siffatta, tutta rivolta all’economia della parola ed a raggiungere il massimo effetto. Va detto pure che questa poesia non va confusa con il frammentismo, né, altresì, con l’astrattismo, perché essa parla un linguaggio aperto alla sensibilità del lettore, assuefatto e coinvolto in un’avventura dello spirito.
Ritornando ai temi di questa poesia, dal motivo degli affetti familiari a quello dell’attaccamento alla terra d’origine, dall’amore a quello della natura, il passo è breve. È stato già fatto notare, ma piccole sfumature li presentano nella loro luce diversificata che si riflette sull’uomo. La natura ora è deturpata, come in “Gela 1960” o “Spiagge del sud”, ora è umanizzata dal lavoro dell’uomo (“Rose”), e appare solare e bella, incontaminata, come in “Villa Massimiano”, in cui « ori di cactus / aprono isole di sole / e sui cocci di pomice / la lucertola fugge / verso il verde», e desiderata (“Floppy”, «Fatemi fare / – senza inginocchiarmi – / quattro passi, / su una terra reale /…», per il semplice bisogno di vivere, magari per un po’, in diretto contatto con la natura reale, di là di ogni travisamento informatico. Il poeta preferisce rifugiarsi in essa e sentirne i palpiti,
anche le negatività che possono esserci. Sono parte integrante della vita con tutta la consapevolezza della sofferenza a cui va incontro.
L’amore è il sentimento forte che fa sprofondare il poeta in un piacevole baratro:
Affondo in te
per amarti
e gli occhi tuoi socchiusi s’aggrappano al buio
per soffrire.
Un baratro
mi si apre nel petto
e sprofondo15
.
Sono i versi di “Per amarti”. Si noti l’analogia, “un baratro”, che dà un senso di smisuratezza a quest’amore, e l’immagine della donna nella sua dolce sofferenza. Nel giro di otto brevi versi, Gaetano Trainito esprime tutta la gioia di vivere, che è anche un eterno morire, per continuare e tramandare l’umana esistenza. Così è in “Luce degli occhi” o in “Soffrire d’amore”, dove, al solo sentore di rimanere solo, dichiara la sua tristezza.
Il più delle volte, però, la donna vive nel ricordo, e l’amore allora non è che intima sofferenza (“Spaventapasseri”, “Incontro”), se si considera che con lei è passato il tempo più bello, ormai, come in «Ore», considerato «… lago d’amore / coperto di nebbia», mentre «le ore / tessute in silenzio / si strappa- no / sotto le mani»16. Di qui l’abbando- narsi nel ricordo, ma la donna è ormai lontana ed allora il poeta è portato a ripiegarsi su se stesso e a illudersi. Si leggano i versi di “Le cose che ama- vo”, o de “Le donne vestite di nero”, in cui, insieme con le donne, egli grida: «ed io sono rimasto bambino17», mentre, quasi in proiezione, si pro la l’immagine della Sicilia cara a Trainito, che ricorda per comunanza di sentire il greco siracusano Teocrito.
O dolce canto nenia
lamento d’amore sospirato
sul metallico fruscio del pizzicato scacciator di pensieri18.
È la lirica “L’aratro”, dove il ricor- do va a ripescare uomini e cose che rivivono in una luce diafana e vera. La poesia si fa canto aperto e musica ammaliante.
Stelle di gesso e Lontani approdi sono le ultime sillogi, in ordine di tempo, che, pur tenendo fede alla poetica che ha caratterizzato finora la poesia del Nostro, presentano qualche novità dovuta ad una particolare disposizione dell’animo che privilegia il vissuto come ricordo in un più insistente piegarsi su di sé, dando più spazio alla nativa propensione alla riflessione. Il poeta rivolge il suo sguardo bona- rio verso le cose della vita che insieme con essa sfumano e dicono addio, senza che questo comporti rinuncia, perché rimane ancorato alla realtà e la vive, nonostante l’inesorabile volgere del tempo e l’enigma del futuro. C’è in queste liriche un più manifesto bisogno di scrutare l’umana esistenza, di voler comprendere il noumeno, il tendere meta sico che è in noi, vivo e pressante, anche se spesso non è oggetto di dovuta attenzione.
Stelle di gesso
sulla lavagna cancellate
con lo straccio. Suona la campana. La lezione è nita19.
La lirica è Stelle di gesso, che dà il
titolo al libro citato. A volercela spiegare, diciamo che la vita, fatta di illusioni, sogni, aspettative, è, per il poeta, nita, ed ora entra nella fase in cui vol- ge al tramonto, nella vecchiezza, dove tutto è visto con distacco e come se le cose non gli appartenessero più. Il poeta è più contemplativo, tende maggiormente alla poesia occasionale (“Cappelle votive”, “Sicilia”) e al ricordo. La donna è ancora presente, ma la sua ormai è una presenza/assenza, come in “Marsala”, “A Cinzia” o in “Foschie”:
Ci siamo persi
in questo cielo grigio tra l’umide foschie …
Addio fantasma, ombra
del recente passato. Eppure
– no a ieri –
io t’ho amato20.
Il verso andante e sicuro richiama da vicino un certo modo di versi ca- re di Cardarelli, ma è una condizione propria della lirica moderna. A ciò è di aiuto l’aggettivazione, che in Trainito è scarna, per la verità, e che qui («sul stanco e lento», «Vago il pensiero / povero e svogliato») concorre parec- chio a ricreare un’atmosfera di sereno abbandono, una calma che altre volte non si addirebbe. Il poeta è portato a rivivere nella donna la bellezza, la stitica bellezza che nel ricordo gli è di conforto.
Rosa (“Rosa”, “A Rosa”) è una dol- ce creatura odorosa di alghe che, come Beate, gli dà sollievo e linfa.
Io
te cerco

– con la bianca schiuma – i miei pensieri
come del ni
a parlarti d’amore21.
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Questa lirica non ha niente da in- vidiare a tanta altra. Nel tono e nelle immagini, nella struttura compositiva, il poeta di Gela ssa in versi limpidissimi una bellezza che gli è lontana, eppure è vivida e presente, ricreata dalla poesia e, ad onta del tempo, continuerà ad essere ammirata.
La silloge Lontani approdi, rispetto a quella precedente, è più scarni cata, risente del tempo e delle cose che furono, e il poeta rivive tutto nel ricordo con distacco ma sempre con l’attenzione che gli ha riservato nelle altre rac- colte. È come se soppesasse di più la parola che, denudata da ogni elemento decorativo, esprime l’essenziale, toccando da vicino l’uomo nel cuore e nella mente.
Il poeta osserva e lascia spazio al silenzio: nella consapevolezza non c’è bisogno di parole, più bene co è l’ascolto. Si legga “Solo con Te” («Solo con Te, / Signore, / reciterò la preghiera / senza parole22») che è una preghiera composta, dove non viene meno la ducia, sostenuta dall’attesa. Ma tutte le liriche di questa raccolta danno spazio all’io che, come in una confessione, si apre per dare libera uscita ai ricordi che affollano l’esi- stenza e sono motivo di ri essione che spesso offre spunti gnomici, frutto dell’esperienza e degli anni.
I desideri e le sofferenze dei primi passi riaf orano
nel sopore della vecchiaia in nebulose parvenze23.
Altrove i ricordi, queste “parvenze” che sono le tracce del passato, diventa- no più sfumati, come in “Dissolvenze”, dove il poeta metaforicamente ricorre all’immagine dell’isola «di volti e di parole / sempre più vuota» e mantiene
la calma per quella consapevolezza di cui abbiamo scritto e che in “Senilità” è molto palese.
Un passato
– nero di grafiti –
in un futuro spento. Un lento trascinarsi tra le pietre e le ombre fuori dell’ore24.
È un guardare in faccia la realtà, senza chiudersi in sé e la canta. Nell’approssimarsi del tramonto, a niente vale illudersi, ed è meglio chiamare le cose col proprio nome. La parola è levigata, come i sassi dal tempo (“Gli inutili soli”), e l’effetto è ammirevole, come il ritmo che è gradito all’orecchio e al cuore. Segno della vitalità di questa poesia, che è capace di fare accettare e non si chiude in sé e le canta le umane avversità e di s dare il tempo.

Salvatore Vecchio

1 1 G. Trainito, Le mani degli angeli, Ragusa, Ci. Di. Bi ed., 1994, pag. 59; poi in Filo spinato, Torino, SEI, pag. 141.
2 M. Vigliano, La poesia di Gaetano Trainito, in “Spiragli”, Anno IX, 1-2, 1997, pag. 29.
3 G. Trainito, Stelle di gesso, Padova, Il Poligrafo, 2000, pag. 71.
4 Ivi, pag. 70.
5 G. Manacorda, “Testimonianze critiche”, in Stelle di Gesso, cit., pag. 90.
6 G. Trainito, Filo spinato, cit., pag. 87.
7 Ivi, pag. 131.
8 Ivi, pagg. 63-64.
9 Ivi, pag. 111.
10 Ivi, pagg. 59 e 61.
11 Ivi, pag. 163.
12 Ivi, pag. 5.
13 Ivi, pagg. 3-4 e 21-22.
14 Ivi, pag. 103.
15 Ivi, pag. 17.
16 Ivi, pag. 49.
17 Ivi, pagg. 11 e 73.
18 Ivi, pag, 119.
19 G. Trainito, Stelle di gesso, cit. pag. 19.
20 Ivi, pag. 60.
21 Ivi, pag. 38.
22 G. Trainito, Lontani approdi, Padova, Il Poligrafo, 2003, pag. 48.
23 Ivi, pag. 58.
24 Ivi, pag. 35. 

 

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 7-14.