Cenni sulla poesia di Laura Ficco

         Le pochissime liriche, che qui si prendono in esame mediante una lettura attenta e coerente, sono tutte inedite. Per cui si richiamerà l’attenzione del lettore su una manciatina di versi, ripresi solo da due liriche. Troppo poche per scandagliare il complesso e articolato mondo poetico di Laura Ficco. Ma, anche l’attenzione un po’ più approfondita su una sola lirica richiederebbe una trattazione molto più lunga ed esaustiva. Mentre chiedo venia ai lettori per il poco, che riesco a offrire, ringrazio la poetessa per la fiducia accordata alla mia persona per quel poco, che riesco a esprimere. Colgo, quindi, l’occasione sia per complimentarmi con la poetessa per l’originalità e per la profondità dei temi affrontati con particolare sensibilità, sia per il privilegio di avere sotto gli occhi liriche che nessuno fino a questo momento ha avuto occasione di leggere, gustarne la bellezza, arricchirsi del messaggio, che, sempre vivo e attuale, veicola con purezza di immagini e sinteticità sintagmatiche. È, ancora, un’occasione unica sia per il lettore raffinato e intenditore di poesia, sia per quanti si accingono a leggere per la prima volta un aspetto della poliedrica sfaccettatura offerta dalla produzione poetica della poetessa sarda, che riflette nella produzione lirica l’assiduo ripiegamento, a volte doloroso, sulla complessa e travagliata vicenda del vivere.    

         Non è compito facile anche per un critico e un lettore attento tracciare anche per sommi capi le tematiche affrontate dalla poetessa, Laura Ficco. È arduo, se non impossibile, sfiorare i segreti moti dell’anima, che, di volta in volta, si concretizzano in versi scarni, taglienti come rasoi. Ogni verso è una picconata, che lascia tracce profonde anche nel lettore frettoloso e distratto. Penetrare nella genesi e nel travaglio interiore, che costituiscono la base e i moventi invisibili e inavvertibili dell’afflato lirico prima e successivamente scritto; scandagliare i reconditi avvii di un percorso poetico e lirico di rara suggestione, che coinvolgono e, nel medesimo tempo, travolgono il lettore nella meditazione sui temi più suggestivi della Poesia, non è agevole per le diverse implicanze culturali, sociali, filosofiche. 

      Leggere una lirica diversa, che non sgorga da romantiche illusioni o da triti argomenti riciclati o cicalati nei crocicchi, è prima di tutto un piacere spirituale, perché si incontrano spazi puri, cieli incontaminati, sentimenti, che denunciano un animo sensibile agli stimoli della più amara, e vera, riflessione sull’uomo, visto sotto angolature diverse. Nella poesia, essenziale e priva di orpelli retorici, di fronzoli inutili, di lungaggini senza senso, si avverte sincero e commosso l’animo lirico, che vive e crea sprazzi di autentica poesia, racchiusi in pochi versi, destinati a destare vive emozioni nell’animo del lettore e a lasciarvi segni indelebili. 

        La poetessa, però, non si ferma qui: la sua attenzione si sosta su più registri e cambia sensibilmente piano di lettura: dalla continua, e necessaria, presenza dell’uomo, passa con deciso movimento dell’animo alla natura, nella quale l’uomo vive e della quale è parte essenziale per il ruolo, che riveste, perché fornito di ragione e, in modo particolare, di libero arbitrio. Immersa nella riflessione sulla complessa, e inspiegabile, realtà dell’Uomo, colto nel suo ambiente naturale e vitale, la poetessa cerca in tutti i modi di scandagliarne con sensibilità prettamente femminile i segreti moti dell’animo. Ma, davanti all’insondabile mistero dell’esistenza, avverte la limitatezza e l’impossibilità di giungere alle cause prime dell’agire, dettate dall’egoismo e dalla cattiveria, e si chiede con lucida consapevolezza il perché di atteggiamenti e azioni non sempre consoni alla legge naturale, che vive nell’animo di ogni uomo: non danneggiare il prossimo, vivere nell’onestà, attribuire a ciascuno il proprio merito. Avverte in tutta la sua potenza la presenza della legge naturale, ma non riesce a trovare la ragione sui motivi, che spingono l’uomo a violare consapevolmente quanto è in lui impresso dalla natura, della quale è parte non secondaria. 

        La poetessa nell’assidua meditazione sull’Uomo, sulle cause prime delle sue azioni, della sua presenza e in modo particolare del ruolo, che ha nella società, non sempre riesce a trovare la spiegazione logica e si angoscia mediante versi molto vicini alla disperazione. Consapevole, a livello personale e universale, del limite imposto a ogni essere dalla natura, esprime questo stato con violenta protesta, per richiamare il proprio simile alla rettitudine, all’ordine stabilito dalla natura, alla presa di coscienza di essere parte della società, alla responsabilità del proprio ruolo: la poetessa, infatti, individua e descrive l’ordine, la regolarità, nonché la tendenza a interpretare i fenomeni più o meno complessi, presenti nell’ambito della vita sociale. 

     A queste osservazioni si aggiunge la vibrante denuncia determinata delle continue violazioni perpetrate a danno della legge positiva sotto varie forme. L’uomo sia per egoismo, sia per ignoranza sovente infrange in maniera eclatante la serie di norme, che la società civile si impone, perché siano rispettati i diritti di ogni essere partecipe d’una  determinata società. La poetessa, che vive e sperimenta tutte le dimensioni e le tensioni della società nella quale vive, non esita a denunciare con chiarezza e con decisione le deviazioni e le contraddizioni. È, questo, il motivo, per il quale lirica, intitolata Forme deformi, nella prima strofa non esita a riflettere e ad invitare a una seria meditazione:

L’essenziale imbrigliato alla ragione,

dalle forme disadorne ed imperfette della mente

cercano l’ordine logico

contrastato dalla ribellione

ad una droga maldestra ed umbratile

che attanaglia membra, cuore, psiche,

per poi lasciarla inerme

su terreno umido e melmoso 

con incubi sanguinolenti.

       L’acuta e, nello stesso tempo, amara considerazione della poetessa sembra che sfoci in un velato e latente pessimismo, che attanaglia l’animo, quando si vede invischiato nella ricerca di cause, che non sempre consentono alla ragione di cogliere l’intrinseca logica delle apparenti discordanze, riscontrate nelle più banali azioni dell’uomo. L’agire del quale, il più delle volte, non è dettato da particolari esigenze, né legato a un ordine logico, che ne determini tanto il motivo, quanto la conseguenzialità. È faticoso e spesso impossibile rintracciare anche pallidamente un nesso logico, che leghi in modo corretto e coerente l’atto della mente con l’azione compiuta sovente in maniera irriflessa. Questo modo di agire, anche se trova una giustificazione nella complessa logica della psiche, sfugge all’analisi razionale e getta nello scompiglio l’ordine e la logica stessa, che la mente razionale si aspetterebbe. Leggendo questo brano molto intenso e pregno di allusioni non troppo velate alle impossibilità e ai limiti della mente umana, sembra scorgere l’accorata, e vera, riflessione, che Dante in Purg. III, 37-39 mette in bocca a Virgilio:

State contenti, umana gente, al quia;

ché, se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria.

  Esemplare la presa di coscienza della poetessa, la quale, davanti all’impossibilità di cercare la spiegazione logica e razionale degli accadimenti umani, adopera una metafora di rara efficacia evocativa:

per poi lasciarla inerme

su terreno umido e melmoso 

con incubi sanguinolenti.

     Nel prosieguo dell’amara considerazione, si riporta la seconda pericope, che costituisce anche la seconda la seconda parte della lirica. In questa strofa Laura Ficco, a ragione, aggiunge ancora un’amara considerazione, logica conseguenza di quanto in precedenza espresso: 

Confusione d’identità

un velo oscuro mi veste,

è ermetico non riesco ad uscire,

a liberarmi.

Rimpiango le valli coperte di neve 

ed il vento che soffiava libertà sul volto

mentre l’anima volteggiava lucida e sazia di senno.

Mi devo svegliare ed uscire dal tunnel,

la vita mia attende.  

     L’intelletto razionale nella ricerca affannosa di conoscere le cause di ogni azione, nonché gli effetti conseguenti alle scelte effettuate, si trova impaniata in grovigli irrazionali, logici solo in apparenza, perché l’animo nella logica razionalità non sempre ha ben chiari e delineati i presupposti, sui quali riporre le argomentazioni necessarie per trarre logiche e valide conseguenze, applicabili sempre e dovunque. Ma, quando l’animo, cosciente dei propri limiti, si rende pienamente conto che il proprio essere è circoscritto entro confini difficilmente superabili, trova la piena realizzazione nell’integrazione totale nella natura. La poesia, come per incanto, acquista luminosità, sonorità, armonia. La poetessa schiude allo sguardo del lettore un mondo incontaminato, ammantato dal magico candore della neve. La vita riprende il suo ritmo, ravvivato dal leggero soffio del vento, che  suscita nell’animo le sensazioni più vive ed esaltanti. La poetessa con pochi tocchi, mediante un’accurata scelta lessematica e un’idonea disposizione sintagmatica, conduce all’improvviso il lettore nella dimensione panica e lo invita a respirare a pieni polmoni il bello, che la natura circostante gli pone sotto gli occhi. 

     Ma, quando attanagliato dalla logica conseguenzialità dei gesti ritorna alla logica stringente, avverte la limitatezza, si trova ancora su terreno umido e melmoso / con incubi sanguinolenti. Sgorga allora spontaneo e sincero il desiderio di uscire dal tunnel e di vivere la vita che l’attende. È, questo, un possente incitamento a guardare fiduciosi al futuro e vedere, accanto al male, il bene che si profila all’orizzonte. La lirica si chiude con il riscatto e la ferma fiducia a sperare che alla fine del tunnel ci sia sempre la luce, fonte di riscatto e di realizzazione.

       La poesia, che a volte sfiora l’ermetismo, diviene più intensa ed evocativa  quando si abbandona alla fantasia e richiama alla mente immagini e concetti adusi tanto al lettore, quanto al critico, che non deve penetrare nei reconditi penetrali della psiche, delusa e amareggiata, frustrata nei desideri e sopraffatta da incombenti necessità. Anche se qua e là emerge la presenza del dolore, la poesia diviene più limpida, più facilmente fruibile, come la lirica, intitolata Il silenzio dei filari.

        In questa poesia, densa e pregnante, si avverte un certo disagio del vivere a contatto con realtà non sempre piacevoli, che lacerano l’animo e procurano ferite, che non sempre il tempo riesce a rimarginare. La coscienza del dolore e, in modo particolare, l’impossibilità di uscire dal groviglio dei diversi malesseri, che avvincono lo spirito in una spirale senza fine, rendono i versi amari e, nel medesimo tempo, gradito companatico per affrontare i disagi, cui l’uomo durante la vita va necessariamente incontro. La vis vitalis tuttavia, sempre presente, soprattutto nelle occasioni più tetre, rende meno amaro il cammino, meno difficoltosa la via per affrontare il percorso reale tracciato dalla sorte. La poetessa con immagini vive, plastiche, suggestive, suscita nel lettore la coscienza della propria esistenza e lo invita a sollevare la testa, per affrontare quello che Eugenio Montale definiva male di vivere, perché accomuna tutti gli uomini nello stesso destino di sofferenza e di malessere. La poetessa, consapevole che questo destino grava su ogni uomo, è cosciente di non poterlo debellare, ma solo alleggerire mediante il progressivo distacco dalla realtà, sempre, e comunque, fonte di dolore. Come Montale, anche Laura Ficco prende le mosse da immagini quotidiane, dimesse, per porre all’attenzione del lettore il male, cui ogni giorno va necessariamente incontro. È opportuno, a questo punto, soffermare l’attenzione sui versi della prima strofa, per assimilare nella disposizione delle immagini il messaggio veicolato con lessemi oculatamente scelti e disposti in versi:

Filari di linfa

aggrappati a filo spinato

fobie in occhi di cenere,

lacrime arse

annaspano sulla soglia

del dolore.

Un rimpianto,

scava in anni luce

ricordi di delizie.

Smorfia su mute labbra

silenzio assordante

che trapana le meningi,

il tacere chiude la porta

alla vergogna.

Sale la febbre nella

solitudine dell’anima.

    Come già accennato la poetessa si china cosciente sulla vita d’ogni giorno e con parole vibranti di commozione partecipa al percorso che attende ogni uomo, dalla nascita alla morte. Gli uomini nel loro cammino quotidiano, mediante un ardita metafora, sono definiti filari di linfa / aggrappati a filo  spinato. L’immagine desta nella mente del fruitore la visione di una lunga teoria di uomini, che, a somiglianza delle viti, sono attaccati a un filo, perché non striscino per terra. A differenza delle viti, gli uomini fin dalla nascita sono attaccati al filo spinato dell’esistenza. Sono chiamati in causa qualche verso più avanti nel significativo e pregnante sintagma annaspano sulla soglia / del dolore. Nella strofa, divisa in tre periodi di diversa estensione, la poetessa condensa ed esamina con mente lucida e compartecipe gli ingredienti sottesi al male cosparso nella vita di ogni giorno. 

      La lettura di questa manciata di versi sembra collegare inconsciamente il lettore a quanto si legge nel libro della Genesi, dove, dopo il peccato, Dio dice ad Adamo che la terra gli produrrà triboli e spine. Nella lirica, però, emerge anche qualche sprazzo di gioia, che allevia per qualche istante le amarezze della vita. Ma il ricordo rinnova il dolore e lo rende più cocente, penetrante, lancinante se, mediante un efficace ossimoro, il silenzio assordante trapana le meningi. 

    Al ricordo delle gioie passate l’anima precipita nel baratro della disperazione e, per non rendere gli altri consapevoli dei propri travagli interiori, tace e chiude la porta / alla vergogna. 

     Si rileva, in questa strofa, la mancanza della fede, la carenza della speranza, la chiusura alla comunicazione e alla compartecipazione del proprio malessere. Si vive lo stato d’isolamento e l’uomo, chiuso in se stesso, non si rivela più l’essere sociale, che vive e condivide con il prossimo tanto le gioie quanto, e soprattutto, il dolore. Si può dire che Laura Ficco coglie e denuncia la brutta realtà dell’uomo attuale, il quale, nascosto nel suo guscio vive nella solitudine più tetra, perché si chiude sempre più nell’isolamento, dal quale stenta a uscire. Non a caso la poetessa chiude la densa strofa con un marcato segno di pessimismo: sale la febbre nella / solitudine dell’anima, che prosegue anche nella strofa successiva, chiusa dall’amara constatazione dell’abbandono anche da parte del Verbo, cioè da Dio: il Verbo mi ha abbandonato? In questo verso si avverte il grido lacerante e della solitudine e dell’abbandono. La poetessa, chiusa in se stessa a meditare sulle sofferenze della vita, non alza lo sguardo verso la luminosità del cielo e sulla luce, che pura e cristallina un’anima così sensibile potrebbe cogliere in tutto il suo splendore. È assente dalla limitatissima produzione lirica il tema della Provvidenza, la presenza del divino nel mondo, troppo materializzato e pervaso da egoismo e violenza. 

                                                          Orazio Antonio Bologna

da “Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 18-22




Teresa Ordinas Montojo, Avelino Hernández (Desde Soria al mar), León 2021.Una vita in due

         Il libro è una biografia, scritta da Teresa, vedova del grande scrittore e poeta Avelino Hernández, in cui, pur con i problemi e i continui ostacoli da superare attraverso i ricordi, ricostruisce la vita di coppia dedicata alla letteratura e all’arte. Costituito da 15 capitoli, da un epilogo, un’appendice che riporta pensieri e annotazioni dello stesso Avelino, è corredato dalla sua abbastanza ricca bibliografia.

      Un libro ben partecipato, come se fosse stato scritto in compresenza con l’uomo e lo scrittore. Scrive Teresa nella “Premessa”: «Decididamente, voy, a estar con él mientras escribo estas paginas. O mejor dicho: es él el que acaba de sentarse a mi lado…» (p. 12). E, in effetti, sarebbe stato difficile per lei scrivere senza il suo coinvolgimento, avendo avuto gli stessi interessi ed essendo stati insieme per tanti decenni.

           Il primo capitolo si snoda come se tutto contribuisse a vivere serenamente in mezzo alla natura incontaminata di Selva, un paesino dell’interno di Palma di Maiorca, lasciate nel 1996 le rumorose città cosmopolite di Madrid, Barcellona e altre ancora, per scrivere, leggere e darsi agli hobby che, per Avelino, erano la vita, come era solito dire. «Scrivere è come respirare, amare, mangiare, conversare, leggere […], lo scrivere è come un qualcosa di contingente e piacevole; in funzione del giorno, in funzione del momento» (p. 201).

        Questo capitolo è anche l’inizio della fine, perché, quando meno lo si aspetta, il male si può insinuare nella vita di ciascuno e creare squilibri e negatività da non augurare a nessuno. Ad Avelino, nel bel mezzo della sua creatività e del successo, nel 2001 fu diagnosticato un cancro. Ma non fu lo spauracchio a far cessare di vivere anzitempo lo scrittore; egli continuò come se nulla fosse e da persona sana, pur nella consapevolezza del male che si portava dentro. L’Autrice, compartecipe, descrive quei momenti che fecero reagire la coppia. Adottando il motto: «Un giorno migliore dell’altro», essa passò la notizia ai parenti e agli amici più cari e poi si ritirò nella casa di El Tremedal, presso Ávola, dove trascorse un lungo periodo, per poi fare ritorno a Palma. «Non so – scrive Teresa – come fummo capaci di mantenere una esistenza così piena», nonostante l’essere consapevoli dell’irreversibilità del male che portò Avelino alla morte il 22 luglio del 2003.

           La fine di ogni capitolo è chiusa da un commento o un particolare ricordo di amici e scrittori che vollero rendere omaggio con uno scritto all’amico, come quello di Gustavo Catalán, che lo ricorda come militante (pronto alla difesa dei diritti e dei diseredati), e scrittore, avendolo avuto da medico oncologo amico e paziente.

         Il primo capitolo, a parte la “Premessa”, fa da introduzione a tutto il contesto della vita in due, fatta di incontri, viaggi, studio, confronti, a contatto con la natura o con amici aventi gli stessi interessi e con i quali la coppia affrontava argomenti politici e letterari, organizzava feste che spesso finivano con letture di prose e poesie di Avelino e degli autori presenti: una vita fatta di collaborazione reciproca. Avelino spesso esponeva e sentiva il parere di Teresa; lei, a sua volta, fotografa oltre che scrittrice, gli mostrava le prime delle foto scattate nei luoghi visitati e ne ascoltava i pareri. Scrive a p. 18: «Non ci pensava due volte a censurare un’immagine che non le piaceva; però, quando voleva farmi un elogio, argomentava piacevolmente (era così quasi sempre)».

          I capitoli a seguire sono molto interessanti, perché fanno rivivere gli anni oscuri della dittatura e delle rivolte antifranchiste con la fattiva partecipazione di Avelino e Teresa, l’uno, organizzatore ed esponente di primo piano della ORT (Organizzazione Rivoluzionaria dei Lavoratori), l’altra, staffetta e propagandista. L’autrice non manca a questo punto di ricordare l’incontro, tramite suo fratello, con Avelino che era stato “confinato”.

        «Così si presentò, davanti la porta di casa, questo compagno di mio fratello che era stato detenuto a Cartagena. Alto, magro, né tanto meno elegante; ma di una cordialità che ispirò confidenza fin dal primo momento[…]. Narrava storie senza fermarsi. E allora la sua cultura, la sua attitudine, il suo impegno, la sua maniera di pensare acquisivano uno straordinario magnetismo. Era quanto osservavo nel suo espressivo modo di guardare, nelle sue mani vigorose e nel suo sincero sorriso» (p. 29).

        Chi vuole approfondire la personalità e l’opera di questo scrittore, legga Avelino Hernández (Desde Soria al mar). Avelino era e rimane un vulcano in attività. La sua opera, ricca di accadimenti, invita alla riflessione dinanzi alla scorrere della vita, ad amare il prossimo e ad osservare con molta dedizione la natura, la bellezza che è in essa, e ciò che ci dà. Senza andare lontano, basta leggere il bellissimo Una casa en la orilla de un río per farsene un’idea. Il racconto, pieno di luce e di colore, avvince il lettore che, più che leggere, ascolta una voce amica ed è portato a gustare il bello che è in noi.

        L’attività di Avelino (è quanto nel cap. X Teresa evidenza, perché lui difficilmente parlava del suo operato) non si limitò alle letture dei classici e dei moderni e alla scrittura, egli portò avanti un progetto interculturale del Ministero della Cultura per sensibilizzare alla lettura scolari ed adulti, un modo come un altro per aiutarli a crescere culturalmente e socialmente; ma fu coinvolto anche in un altro progetto (“L’avventura di scrivere un libro”), diretto a docenti e alunni, cosa che portò avanti sempre con entusiasmo. Credeva nel riscatto sociale della gente e, perciò, si dava anima e corpo per una buona riuscita di questi progetti che alla fine risultavano seguiti e ottenevano buoni risultati. C’era l’esigenza di fare uscire la Spagna dai condizionamenti franchisti che aveva subìto per anni e questo spingeva governo ed intellettuali a ricostruire un tessuto sociale più aperto e padrone di sé.

        Avelino fu un banditore della parola, “la palabra”, sia orale che scritta, che per lui era la vita, un legame profondo, inseparabile, con cui scandagliava l’umana esistenza, come in Los Hijos de Jonás, dove mette in risalto l’uomo, il suo operato e il destino a cui è indissolubilmente legato.

       Teresa, con questo suo libro, si abbandona – lo ricordiamo ancora – ai ricordi che sono una valvola di sfogo e al tempo stesso un legame tra passato e presente che, da un lato, attenua la mancanza, dall’altro, le dà forza e reagisce, sentendo vivi gli affetti più cari.

       Avelino, scrittore e amico (Antonino Contiliano ed io non dimenticheremo mai i giorni belli passati insieme, sia a Palma di Maiorca che a Marsala e in altre parti della Sicilia), rimane nel cuore di quanti lo conobbero e dei lettori, perché i suoi libri non soltanto aprono a nuovi orizzonti, ma iniziano ad un piacevole e fruttuoso colloquio con il loro autore che si rivela un vero amico e maestro.

       Ringrazio l’autrice per avermi dato l’opportunità di ricordare un grande scrittore e poeta, Avelino, che vive ed è ancora con noi.

                                                                                           Salvatore Vecchio

da “Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 66-67.




Carlo Bo e Jean Paul Sartre. Il cattolico sofferente e il comunista dissidente

        Ho avuto la grande fortuna di incontrare nella mia vita due grandi scrittori della cultura mondiale: Carlo Bo alla prestigiosa Università di Urbino e Jean Paul Sartre alla grande Università della Sorbona a Parigi.

      Carlo Bo, nato a Sesti Levante/Genova il 25 gennaio 1911, grande ispanista e francesista, critico letterario e politico italiano, è stato considerato uno dei massimi studiosi del Novecento in Italia; fondò la scuola per interpreti e traduttori nel 1951 e la IULM nel 1968,  con  sede principale a Milano, e per oltre cinquant’anni Magnifico Rettore dell’Università di Urbino cui è stata intitolata l’Università. Compì gli studi superiori presso i gesuiti dell’Istituto Arecco di Genova, dove ebbe come professore di greco Camillo Sbarbaro. Si laureò in  Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Firenze e iniziò subito la carriera universitaria, insegnando Letteratura Francese e Spagnola alla Facoltà di Magistero dell’Università di Urbino. Dal 1959 fu cittadino onorario di Urbino, dal 1972 fu Presidente della giuria del premio Letterario Basilicata e nel 1984 fu nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Collaborò per tanti anni al “Corriere della Sera” e al settimanale “Gente”. Fu insignito dell’Ordine della Minerva dall’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”. Nel 1966 l’Università degli Studi di Verona gli conferì la laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere: Nel 2001 Sestri Levante gli conferì la cittadinanza onoraria, e lo stesso anno, in seguito ad una brutta caduta sulle scale avvenuta nella sua casa di Sestri, venne ricoverato all’ospedale di Genova, dove morì. Fu sepolto nel cimitero di Sestri.                   

        Con Carlo Bo, mio maestro di vita e di formazione, ho sostenuto la tesi di laurea in Lingue e Letterature Straniere proprio all’Università di Urbino su “Jean Paul Saartre et la polémique de l’engagement”. Due grandi scrittori a confronto, Carlo Bo, cattolico sofferente, e Jean Paul Sartre, comunista dissidente; il mio maestro scrisse il monumentale saggio “La letteratura come vita”, pubblicato sulla rivista “Il Frontespizio” nel 1938, ristampato nel volume Otto studi (Vallecchi, Firenze 1939), e il grande filosofo dell’esistenzialismo francese: “Qu’est-ce que la littérature?”, pubblicato in Francia dall’editore Gallimard, tradotto e pubblicato in Italia da Il Saggiatore: Che cos’è la letteratura?Letteratura come vita è di fondamentale importanza per Bo, fa comprendere le motivazioni profonde dell’Ermetismo, contiene i fondamenti teorico-pratico della poesia ermetica, e Bo lo pronunciò come manifesto al Quinto Convegno degli scrittori cattolici di San Miniato.

     Dopo sessant’anni Bo scrisse un grosso articolo sul “Corriere della Sera”: “Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all’opera? La questione è antica per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne  poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell’opera”.

      Bo rifiuta l’idea di una letteratura vista come pratica abitudinaria o come esercizio professionale nel tempo libero, e la definisce come la strada più completa per la conoscenza di noi stessi e per dare vita alla nostra coscienza. La letteratura si identifica con l’io profondo del soggetto, risalendo alle origini centrali dell’uomo. La letteratura esprime la purezza dell’esistenza e l’indiscutibilità di valori, si propone come scopo esclusivo la ricerca della verità e per questo è una missione e non un mestiere. La letteratura recupera i significati profondi e primitivi della vita dell’uomo e, pertanto, non può che escludere ogni rapporto con la politica e con la storia. La letteratura contribuisce alla scoperta di un’identità che si allontana dalla realtà storica della società umana. La letteratura è ricerca  continua di noi stessi ed impegno quotidiano dell’uomo.

         In una lunga intervista il critico letterario Bo definisce Sartre il profeta della nuova letteratura francese, figura  poliedrica di filosofo e letterato, autore teatrale, romanziere e saggista. Dopo la lettura di un brano dell’autobiografia “Les Mots”, del 1964, Carlo Bo ricorda Sartre nelle vesti di direttore della rivista “Les Temps Modernes”, attorno alla quale si erano raccolti i migliori giovani degli anni Cinquanta, e parla della “moda del sartrismo”, che si diffuse in quello stesso periodo. Secondo Carlo Bo, Sartre è stato il primo a mettere in dubbio la necessità e il valore della letteratura, ponendo in essere provocatoriamente atti clamorosi, come il rifiuto del premio Nobel nel 1964.

        La letteratura è la vita stessa, ossia la parte migliore e vera della vita. Letteratura come vita, uno dei testi fondamentali e decisivi della nuova civiltà, la forza rovente della letteratura si misura per Carlo BO dalla sua potenzialità di accogliere la vita, di intervenire sulla realtà in forma di intervento morale, e da Letteratura come vita si diramano le fertili, sistematiche esplorazioni di Bo degli autori francesi, italiani e spagnoli, introducendo in Italia scrittori di alta tensione etica e poetica, come Kafka, Eliot, Maritain, Claudel, Mallarmé, Unamuno, Garcia Lorca, ossia quella letteratura che non si occupa delle vanità, della sola estetica, ma che tende alla formazione umana e presuppone una fedeltà continua alle proprie idee e ai propri ideali. Bo si chiede: «Che cos’è per noi la lettura se non tenere in mano questa parte viva della verità e consumarsi per non saperla restituire, che cos’è se non durare su questo oggetto chiuso e palpitante dell’animo?». La sua capacità di lettura è attentissima a cogliere in ogni testo la misteriosa presenza della poesia.

       Bo è rimasto fra i pochi a conservare integro il senso carico di assoluto delle domande brucianti, che investono, per voce dei poeti, i fatti fondamentali della nostra vita. Il suo interesse andava verso quella cultura cattolica che in Francia aveva espresso Pascal, prima, Maritain, Claudel e Mauriac, dopo; al contrario, la sua attenzione in Italia andava soprattutto su Leopardi, Serra, Don Mazzolari, Giovanni Testori e tanti altri. Bo, interrogato sulla questione morale e sulle ingiustizie sociali, rispose: «Siamo pronti a combattere contro l’ingiustizia e le questioni morali, tutto comincia da noi, il male che vediamo in spaventose forme esteriori ha un’esatta rispondenza nel nostro cuore».

      Jean Paul Sartre nacque a Parigi il 21 giugno del 1905. A solo quindici anni rimase orfano di padre, frequenta gli studi all’École Normale Supérieure, in  quegli anni conosce la sua compagna di vita, la scrittrice Simone de Beauvoir e insegna filosofia in  diverse scuole parigine fino al 1945. 

       Finita la seconda guerra mondiale, si dedica esclusivamente alle sue opere filosofiche e letterarie, tra cui i romanzi La Nausea (1938), I cammini della libertà (1945-1949). Per il teatro scrisse, tra l’altro: «Le Mosche» (1943), A porte chiuse (1944), Le mani sporche (1948), suscitando grosse polemiche e irritazione da parte del Partito Comunista Francese, per questo l’ho definito “comunista dissidente”.

       Nel 1945 fonda la rivista “Les Temps Modernes”, i cui principi fondamentali sono: la filosofia, la letteratura e la politica. Nel 1968 prende una forte posizione contro la politica francese in Algeria, schierandosi a favore dell’insurrezione studentesca. Nel 1964 rifiuta il Premio Nobel per la letteratura, suscitando tante polemiche e irritazioni intellettuali. Tra le sue fondamentali opere troviamo: L’Essere e il Nulla (1943), La critica della ragione dialettica (1960). Dopo una lunga malattia muore di edema polmonare a Parigi il 15 aprile 1980, ai suoi funerali partecipano oltre cinquantamila persone.

      Jean Paul Sartre, romanziere, drammaturgo, filosofo e critico letterario, è stato tra i pensatori più significativi del Novecento, rappresentante dell’esistenzialismo. Nel 1939 fu chiamato alle armi e fu fatto prigioniero dai tedeschi. Venne liberato nel 1941 e, tornato a Parigi, partecipò  alla Resistenza. Molto critico verso il gaullismo come anche verso lo stalinismo, si avvicinò alle posizioni della sinistra marxista, attirando sia le critiche dei comunisti sia quelle degli anticomunisti, arrivando ad una clamorosa rottura con Albert Camus. Prese posizione in difesa dell’Indocina, fu contro la repressione sovietica in Ungheria, a sostegno della libertà algerina e contro i crimini di guerra statunitensi nel Vietnam insieme a Bertrand Russel, fondando l’organizzazione per i diritti umani denominata “Tribunale Russel-Sartre”, e contro l’invasione della Cecoslovacchia.

     Il manifesto letterario di Sartre lo scopriamo nel 1947 quando pubblicò Qu’est-ce que la littérature, apparso per la prima volta sulla rivista “Les Temps Modernes”. La letteratura è lo spazio in cui scrittore e lettore dialogano, per mostrare quel tipo di letteratura impegnata nel suo tempo e contemporaneamente rispondere ai quesiti che Sartre pone proprio alla prima pagina del testo: «E poiché i critici mi condannano in nome della letteratura senza dire mai che cosa intendano per letteratura. La risposta migliore sarà di esaminare l’arte di scrivere senza pregiudizi. Che cos’è scrivere? Perché si scrive? Per chi scrivere? In realtà sembra che nessuno se lo sia chiesto».

       La prima di queste domande riguarda soprattutto l’atto dello scrivere, ossia quella forma d’arte che si differenzia dalle altre proprio tramite l’uso delle parole. Risulta chiaro il malessere vissuto da Sartre a causa delle critiche ricevute in tutta la sua vita. Ogni scrittore deve fare i conti non solo con i suoi lettori, ma anche con chi ha fatto della critica la sua professione; Sartre è ben consapevole di tutto ciò, non riserva parole generose ai propri avversari: «Mi è parso che i miei avversari mancassero di lena al momento di mettersi all’opera e che con i loro articoli si limitassero a trarre un lungo sospiro scandalizzato, tirato avanti per due o tre colonne. Mi sarebbe piaciuto sapere in nome di che cosa, di quale concetto di letteratura mi si condannava: ma quelli non lo dicevano, non lo sapevano nemmeno». Per la critica avversa a Sartre, tutto ciò che non rientra all’interno di una sfera di valori già costituiti crea in qualche modo scandalo. L’autore autentico e impegnato deve fare scandalo, ossia deve usare parole forti e urgenti. Il compito dello scrittore  è quello di parlare al lettore e scuotere la  sua coscienza.

      La lettura è, dunque, un esercizio di generosità e lo scrittore pretende dal proprio lettore un’applicazione della libertà, ossia pretende il dono di tutto il suo essere, delle sue passioni ed emozioni, dei suoi pregiudizi e della scala di valori. Scrivere e leggere sono due aspetti di uno stesso fatto di Storia, e la libertà alla quale lo scrittore invita il lettore, è una libertà che si conquista all’interno di una situazione storica. In questa attenta analisi compiuta da Sartre sul ruolo della scrittura, dello scrittore e di chi legge, risulta necessario indagare sulla tipologia di rapporto che si instaura tra scrittore e lettore. Tutto ciò appare talmente chiaro dalla lettura di Qu’est ce-que la littérature? Il concetto di littérature engagée si impose così sulla scena sia politica che letteraria, dopo essere stato formulato da Sartre nella presentazione di “Les Temps Modernes” nel 1945.                                        

                                                                                    Giovanni Ferrari

“Spiragli”, Nuova Serie – Anno IV 2023 NN. 1-2, pagg. 45-50.

 




La Sicilia non ha bisogno del ponte

       Si ricomincia, come se fosse una telenovela, a parlare del ponte sullo Stretto di Messina. Una pazzia. Salvini, contrario da tempo, si è convertito (o è stato convertito?) alla sua realizzazione, dimenticando lui e i fautori (progettisti e finanziatori) che la zona dello Stretto è stata sempre terra ballerina che ha prodotto nel tempo disastrosi terremoti.

         È un discorso, questo del ponte, che dovrebbe far riflettere e dare una mossa all’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente per il bene della collettività, ed invece, incuranti dei danni che arrecano, questi signori pensano a se stessi, eludendo i bisogni elementari che altro non sono che sacrosanti diritti. 

        A che serve un ponte se nell’Isola i servizi sono per buona parte inesistenti o fuori uso, e mancano le infrastrutture necessarie per garantire un vivere sociale umano? Le autostrade sono un pericolo costante, la Palermo-Messina è impercorribile, la Catania-Ragusa spesso si trasforma in strada della morte. I collegamenti interni sono alla deriva, senza alcuna manutenzione, per non parlare delle ferrovie, in parte fuori uso, con i disagi che ricadono specialmente sui pendolari.

        Mentre tanti rimanevano indifferenti, come se la cosa non interessasse, già Nello Sàito, una voce ferma nel panorama dell’intellettualità siciliana, tempo fa si era schierato contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come spada di Dàmocle sulla testa di tutti e senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse. Se il popolo è “sovrano” perché devono essere i pochi privilegiati a decidere? Dov’è la Costituzione? Come se tutto fosse rose e fiori, non tenendo conto della gente che vive nella propria casa e con il suo lavoro, e delle conseguenze ambientali, in un punto geografico così particolare, si decide senza tenere conto di niente e di nessuno. Il popolo è fatisciente. 

         Mi chiedo: «Che fine ha fatto Beppe Grillo con la traversata dello stretto (10 ottobre 2012) per dimostrare anche l’inutilità di questo ponte? Ha forse agito, da par suo, per una manciata di voti di calabresi e siciliani? Dov’è ora, ha perso gesti e parola, dopo che Scilla e Cariddi lo fecero traversare?».

      La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue potenzialità, non di un ponte; ha bisogno di investimenti, per dare lavoro ai giovani e non farli fuoruscire, e di risorse per incentivare il lavoro dei campi e l’agricoltura; per non parlare del turismo, ricca com’è di beni culturali e ambientali. Come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono e nella loro terra restare. Essa è già un ponte, così com’è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente. 

     

     Basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che le è propria! 

                                                                            Salvatore Vecchio




Calogero Messina, storico della Sicilia e dei Siciliani. (Dizionario storico dei comuni della Sicilia, L’Orma, Palermo 2022-2023)

       Calogero Messina, pubblicando il Dizionario storico dei comuni della Sicilia, ha coronato il sogno di tutta una vita. Non era da crederci, e nemmeno lui ci credeva, eppure quel sogno, durato quasi cinquant’anni, è diventato realtà. Edito da L’Orma tra il 2022-2023, è un’opera monumentale (7 grossi volumi) che mancava da secoli, se consideriamo che il Lexicon topographicum Siculum di Vito Maria Amico, in 3 voll., fu pubblicato nel 1757/1760 e soltanto successivamente tradotto in italiano da Gioacchino Di Marzo nel 1855/1859. Tanti, per la verità, hanno nel tempo tentato l’impresa, ma non ci sono riusciti, fermandosi dopo qualche anno agli inizi di un lavoro che risultava abbastanza impegnativo e molto faticoso. Messina vi è riuscito, dando alla collettività un supporto indispensabile per la conoscenza della Sicilia e dei Siciliani con la loro storia (un quadro storico che non ha niente da spartire con le solite storie della Sicilia), gli usi, i costumi e il vario parlare, secondo le aree linguistiche più o meno influenzate dalle tante dominazioni che si sono succedute nell’Isola.
Apre il Dizionario l’ “Introduzione” dell’Autore che, dopo una breve premessa, scrive:

        «Quest’opera non si raccomanda a chi predilige le statistiche, le tabelle, i grafici; essa vuole essere soprattutto una storia e un documento del costume in Sicilia, osservato nella sua diversità nei comuni dell’isola: l’ho ricercato nel contatto diretto con la gente e attraverso la lettura delle consuetudini, degli episodi, dei gesti, dei modi di dire, dei proverbi, delle feste, della poesia popolare. Ho cercato di capire le idee e le attitudini, i comportamenti, gli umori degli uomini di questa Sicilia, così diversa nelle sue parti; di cogliere nella storia di un paese qualcosa di particolare, di proprio della sua vita. Sono stato sempre convinto che per intendere l’anima ed esprimere l’immagine di una società può valere più una nota di costume che un elenco delle successioni dei signori, il semplice gesto di un uomo comune più dell’enfasi di un notabile».       

      L’Autore non si tradisce! Così come in tutte le sue opere storiche o letterarie, il punto di partenza, il fine che si propone è quello di ricercare e conoscere l’uomo, perché lui, con tutto ciò che gli appartiene e lo caratterizza, è il soggetto della storia e la storia nel senso pieno del termine. La critica che rivolge a tanti storici di professione non è campata in aria, e dice bene Calogero Messina quando asserisce che a niente valgono le statistiche o i fatti di guerra, se non si cercano e mettono in evidenza tutti i contesti che ne sono alla base; la storia non risulta tale e non riscuote interesse, come se si fosse fatta da sé, senza alcun supporto da parte dell’uomo che invece ne è l’artefice. Ma il Nostro non asserisce soltanto; ne dà prova anche nella trattazione dell’ultima sua pubblicazione, Sicilia 1492-1799. Un campionario delle crudeltà umane (2022) e in modo specifico affronta l’argomento nel “Discorso sulla storia” che chiude l’opera, in cui ribadisce che lo storico «non deve perdere di vista l’uomo e deve guardare alle cose che lo riguardano nella loro interezza, a quello che c’è dentro, e parlare degli uomini agli uomini» (Sicilia 1492-1799, cit., p. 570).

                                                       ***

      Buona parte dell’“Introduzione” di questo Dizionario costituisce una storia della storia, perché altro non è che un resoconto dei contributi storiografici municipali della Sicilia pubblicati dal ‘500 in poi fino agli inizi del Duemila (Francesco Maurolico, Ferdinando Paternò, Filippo Paruta, Leandro Alberti, Vincenzo Littara, Rocco Pirri ed altri, fino a Virgilio Titone e allo stesso Messina), dando maggiore risalto all’opera di Tommaso Fazello, De rebus Siculis, in cui non soltanto l’autore narra la storia degli antichi abitatori della Sicilia, non trascurando anche i miti, ma descrive i paesi e ne dà notizie. Ancora prima – è importante per entrare nell’ottica di Calogero Messina – egli si sofferma a delineare il carattere dei Siciliani, suscettibile di variazioni da un paese all’altro e influenzato da quello degli antichi dominatori. Riporta, a proposito, il giudizio espresso diverse volte nelle sue orazioni da Cicerone che, essendo stato in Sicilia, anche da questore, conosceva bene l’animo dei Siciliani, intelligenti, acuti, spiritosi, come scrive nelle Tusculane o nell’orazione per M. Emilio Scauro, sospettosi, prudenti, scaltri, eruditi. Ne risulta che essi non sono un blocco monolitico, facile da potere gestire, ma nella loro apparente tranquillità imprevedibili. E Cicerone li conobbe e comprese bene, perché – come scrive lo storico – i Siciliani non erano della stessa indole dei Romani, «non furono interessati dalla loro passione militare né si entusiasmarono per i successi della politica imperiale; sperimentarono i rigori del loro dominio e non diedero che scarsi contributi alla loro cultura».
    Non così fu per altri popoli dominatori, come per gli Arabi e gli Spagnoli, di cui avevano in comune l’attaccamento alla terra o la compatibilità di carattere, mentre «odiarono invece i piemontesi e gli austriaci, soprattutto per il loro aspetto – l’aspetto influisce molto, ma spesso non se ne parla nelle storie -, la loro severità e il loro fiscalismo; li considerarono degli estranei a tutti gli effetti, per mentalità, tradizioni, per la lingua, ecc.».
      Riprendendo il discorso della storia municipale che introduce l’opera, il Messina esamina i contributi di tanti studiosi che, seppure con qualche manchevolezza, diedero inizio ad una “storia” (quella dei vari comuni), da cui veramente viene fuori il volto della Sicilia che tutti accomuna. Nonostante siano da evidenziare alcuni difetti, spesso dovuti a mero campanilismo, lo storico non critica negativamente, rifacendo l’errore ad altri rinfacciato («Più che i pregi gli storici hanno voluto mostrare i difetti e i limiti della nostra storiografia municipale»); riconosce che, come in ogni impresa, non avendo le idee ben chiare, agli inizi ci sono sempre delle incertezze e chiunque può sbagliare. L’importante è correggere il tiro e migliorare, cosa che è stata fatta negli studi successivi, ma a rilento, se nel xvii e xviii secolo si continuava a fare storia municipale come in passato. A proposito, sono menzionati alcuni autori (Vincenzo Auria, Agostino Inveges, Francesco Baronio Manfredi ed altri), ma a distinguersi tra tutti è Vito Maria Amico e Statella con la sua Catana illustrata, perché – scrive il Messina – «era uno che sapeva cosa significa fare le storie municipali».
       È l’autore del Lexicon topographicum Siculum sopra ricordato, in tre volumi, quanti i Valli in cui era divisa la Sicilia, pubblicati il i a Palermo nel 1757 e il ii e il iii a Catania nel 1759 e il 1760; è stato l’unico tra tanti che portò a termine un’impresa così impegnativa e tuttora molto utile. Il Messina, al pari di Biagio Pace, gli riconosce il merito di non essersi limitato alla singola topografia, ma ha raccolto notizie, testimonianze e documenti vari che danno un quadro della Sicilia e degli abitatori del suo tempo, aprendo così la strada ad altri ulteriori studi.
        Lo storico si sofferma più a lungo su Rosario Gregorio e le sue opere, di fondamentale importanza: Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (1794) e Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, in 6 voll. (1805-1816), in parte postuma, essendo l’autore morto nel 1809. Le pagine che il Messina gli dedica mettono in risalto l’apporto fattivo del Gregorio alle storie municipali, ritenute più costruttive e importanti rispetto alle storie generali, e il valore che hanno in sé le leggi per la conoscenza degli uomini e delle loro consuetudini. Leggiamo:

«Regola fondamentale per l’interpretazione delle consuetudini il Gregorio saggiamente riteneva che si tenesse presente che non tutte le costumanze sussistevano insieme e che erano state introdotte in diverse epoche: ce n’erano anteriori ai tempi normanni, altre in vigore in quel periodo e non più in quello aragonese, altre ch’erano state introdotte sotto i re aragonesi. Andavano dunque studiate con l’ausilio delle storie dei tempi, dei diplomi e degli altri documenti».

       Sulla scia delle Considerazioni di Rosario Gregorio, Messina rifà in sintesi la storia municipale dal Cinquecento al Novecento, dando risalto a quanti si cimentarono a scrivere sui loro paesi e città che intanto erano cresciuti di numero, specie tra il xvii e il xviii secolo. Insieme ad altri è ricordato Gioacchino Di Marzo con la sua traduzione del Lexicon di Amico; il Messina rileva l’apporto positivo, nonostante le manchevolezze («Ma tutto fa pensare a una fretta, propria degli anni giovanili, della quale per altro era cosciente lo stesso autore. Manca la storia civile»), ed è ricordato anche l’attrito fra Gaetano Di Giovanni e Luigi Tirrito su alcuni aspetti della storia municipale. Ne risulta che, mentre Di Giovanni cade in eccessi descrittivi, il Tirrito, attento ricercatore e vero storico, coglie nel vivo la realtà e la riporta in lavori che sono esemplari, come nei fascicoli di Sulla Città e Comarca di Castronovo di Sicilia (1873-1885), raccolti in volume e ristampati dallo stesso autore nel 1983, con un saggio introduttivo del Messina, che gli riconosce la capacità di osservare e riportare tutto ciò che fa parte della vita dell’uomo. E, insieme a questi studiosi, non tralascia i tanti ricercatori (N. Colajanni, V. La Mantia, S. Salomone, G. Di Vita, F. Nicotra, E. Castellana, I. Scaturro ed altri) che tra l’Ottocento e il Novecento diedero impulso alla storia municipale, recuperando quanto era stato trascurato nel passato, convinti che non si poteva fare storia nazionale, se non c’era e non si teneva conto di una storia locale. A proposito di Scaturro, Messina scrive:

«Lo Scaturro non fu né un puro impiegato né un semplice erudito. E perché non semplicemente erudita, la sua storia riesce di piacevole lettura; il suo primo pregio è la chiarezza e chiunque può ad essa accostarsi: l’autore fu del parere che le storie municipali dovessero essere conosciute a tutti i livelli, e da questa consapevolezza dovette essere certamente sollecitata la sua volontà di dare un’informazione essenziale sugli avvenimenti generali della Sicilia e anche dei più lontani eventi ai quali essi sono legati. Denunciò l’indifferenza dei suoi conterranei, l’ignoranza degli amministratori, l’insensibilità di certi preti nei confronti delle opere d’arte».

        Ignazio Scaturro aveva pubblicato in 2 voll. Storia della Città di Sciacca (Napoli 1924-1926), opera ben riuscita e apprezzata, nella cui Prefazione aveva rinfacciato agli storici municipali un diffuso campanilismo che non permetteva loro di vedere oltre e scrivere la realtà nella sua molteplicità. Come fa lui che, per avere un quadro completo, pubblicherà in seguito una poderosa Storia di Sicilia in 2 volumi (Roma 1950).
      Calogero Messina menziona altri studi in cui si cominciava a dare spazio a campi inesplorati, che erano un buon segno per l’avanzamento degli studi. Ricorda i Capibrevi di Gian Luca Barbieri, pubblicazione ultimata da Giuseppe La Mantia, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia di San Martino De Spucches ed altre opere ed autori che contribuirono notevolmente a fare conoscere aspetti poco noti o, addirittura, sconosciuti. Il Nostro non può non apprezzare questi contributi. «Da solo – scrive per il De Spucches – e in tempi in cui non c’erano gli strumenti che tanto agevolano la copiatura, trascrizione e riproduzione dei documenti, poté portare a termine il San Martino il suo lavoro: un esempio da imitare. L’opera ha i suoi difetti, ma più gravi ne avrebbe se fosse stata compilata da diversi autori».
      Lo storico, a questo punto, non può non ricordare Virgilio Titone di Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), un’opera fondamentale per lo studio e la conoscenza della storia della Sicilia. Scrive il Messina che fino a quell’anno non s’era data importanza e addirittura erano in pochi a conoscere i riveli (F. Ferrara, F. Maggiore-Perni), ma nessuno s’era data la briga di mettere mano a tutta una marea di documenti vecchi di secoli. A spingere gli storici è stato proprio Titone, sicuro che soltanto tramite quella consultazione si poteva fare una vera storia della Sicilia, visto che nei riveli c’è di tutto (popolazione, commerci, averi e beni mobili ed immobili, usi e costumi, religiosità). Certo, allora come ora, non tutto ciò dichiarato rispondeva a verità, eppure i riveli sono utili per le varie indicazioni che da essi arrivano fino a noi. A commento Messina scrive:

«Resta la grande utilità dei riveli per le preziose notizie che se ne possono ricavare: sull’analfabetismo, sulla durata media della vita umana, sulla composizione dei gruppi familiari, sui quartieri e sulle chiese dei nostri comuni, sulle attività economiche, sul tipo delle abitazioni, delle colture, del bestiame e della pesca, delle botteghe, sugli utensili e oggetti vari, sui prezzi dei prodotti e degli animali, delle case. delle terre e degli alberi. Titone stimolava ad andare al di là degli schemi tradizionali, a esprimere il libero pensiero, a far parlare i documenti, anche i nudi numeri».

       Convinzione di Virgilio Titone, fatta propria dal Messina, è che dallo studio dei riveli municipali risulta chiara e vera la storia della Sicilia, non ad altro riconducibile, avendo i Siciliani, almeno fino a quegli anni, interessi e rapporti più nell’ambito del proprio comune che dell’isola. Non un popolo nel senso vero del termine, ma diversificato per usi, costumi e per aria linguistica di appartenenza.
          Nel 1972 veniva pubblicato il libro di Messina S. Stefano Quisquina, Studio storico critico e, a proposito, l’autore ricorda l’incontro e la conoscenza con Titone che non soltanto apprezzò il lavoro, ma lo volle con sé nella cattedra di Storia Moderna. Lo studio riscosse da subito il consenso di critici e cattedratici, a cominciare da Nicola Giordano che nello stesso 1972 gli dedicò una recensione nell’«Archivio Storico Siciliano», seguito da Francesco Brancato ed altri ancora.
      S. Stefano Quisquina è per gli storici municipali tuttora un lavoro da emulare per la serietà della ricerca e la minuzia dei particolari, sia storici che di costume, dalle origini al Novecento, successivamente ripresi e pubblicati, come «Lu recitu» di S. Stefano Quisquina (1973) e La Quisquina, dello stesso anno; scritti che rivelano, da una parte, l’attaccamento al paese natio del loro autore e, dall’altra, l’amore con cui dà voce a personaggi o eventi che altrimenti sarebbero rimasti nell’oblio e sconosciuti. C’è da dire che Messina riesce bene a calarsi nell’ambiente del suo paese e nei personaggi che lì vissero e fecero storia (Lorenzo Panepinto, Giordano Ansalone e altri anonimi che lottarono all’insegna dei Fasci siciliani), perché è uno scrittore, oltre che storico e poeta, che conosce bene quelle realtà e le descrive con tanta passione.
        Ritornando agli studi storici municipali degli anni ’70, oltre i lavori di F. Brancato, Messina ricorda quelli di Carmelo Trasselli e di Ignazio Gattuso che tanto fecero per la valorizzazione delle storie locali. Di Gattuso, che aveva conosciuto nell’Archivio di Stato di Palermo e di cui riporta gli scritti (quindici e tutti dedicati al suo paese, Mezzojuso), scrive:

«In questi quindici libri, come quindici capitoli di uno stesso libro, il Gattuso trattò delle origini di Mezzojuso, dei suoi signori, dei fatti risorgimentali, degli aspetti socio-economici, della demografia – utilizzò i riveli – , delle istituzioni civili e religiose – dei contrasti anche fra le due comunità etniche dei greci e dei latini -, della cultura, delle consuetudini, delle tradizioni popolari. Riuscì a fare di Mezzojuso uno dei paesi più conosciuti della Sicilia; la sua opera va annoverata fra i classici della storiografia municipale».

        A quegli anni risale anche l’apporto degli storici di «Annales» che fanno il punto sulla ricerca storiografica municipale, autonoma, qualitativa, ma aperta – secondo Paul Leuilliot -, con un vasto raggio d’azione e senza alcun condizionamento da parte della ricerca universitaria che avrebbe voluto «proporre, se non imporre, i suoi metodi». Messina legge e condivide il saggio Défence et illustration de l’Histoire locale del Leuilliot, dando risalto ai punti su cui gli storici locali dovrebbero basare le loro ricerche.
       Senza perdere di vista la ricerca degli storici siciliani, l’autore individua al tempo stesso un avanzamento degli studi con i lavori pubblicati nel 1979 da Giuseppe Gangemi e Rosalia La Franca (Centri storici di Sicilia. […], e nello stesso anno con quello di Maria Giuffrè (Città nuove di Sicilia xv-xix secolo […]), mentre il secondo volume, Per una storia dell’architettura […], fu pubblicato nel 1981 sempre dalla Giuffrè e da Giovanni Cardamone. Per chiudere ricorda Henri Bresc con il suo Un monde méditerranéen. Économie et societé en Sicile 1300-1450 del 1986, in due poderosi volumi, contenenti «un Index rerum, un Index nominum e un Index locorum» che «ne consentono un’agevole consultazione» e altri (A. Casamento, D. De Gregorio, E. Guccione) che con le loro opere «utili ed esemplari» hanno consolidato e aperto a nuovi traguardi la storia municipale della Sicilia. Del Can. Domenico De Gregorio sono da ricordare Cammarata. Notizie sul territorio e la sua storia (1986) e S. Giovanni Gemini. Notizie storico-religiose (1993), storie molto ricche di notizie, così come Cammarata. Cronache dei secoli xix e xx, ritenute frammentarie, con lacune incolmate e incolmabili dall’autore, ma importanti, perché – come scrive Messina in Il mio dialogo con il Can. De Gregorio (2014), p. 120 – «aveva la consapevolezza del significato e dell’utilità del suo lavoro […]. Le lacune incolmate e incolmabili non rappresentano un difetto del ricercatore, ma possono al contrario rivelare il suo scrupolo e la sua saggezza, come nel nostro caso».
      Scrivevamo all’inizio che, più che essere un’introduzione al Dizionario, questa di Messina è una storia della storiografia municipale. Essa, dando un quadro d’insieme della ricerca degli studiosi siciliani, ha aperto, nel silenzio e con i contributi di tutti, la strada alla storia della Sicilia e dei Siciliani i quali soltanto nella diversità costituiscono un unicum intraprendente e vero.

***

       Esposta nelle linee di massima, ma in modo esauriente, la storia della storiografia municipale di Sicilia, Calogero Messina presenta il suo Dizionario nelle sei sezioni contemplate per ciascun comune, grande o piccolo che sia, con la relativa bibliografia, di cui si è servito per la stesura. Un lavoro certosino, di appassionato che niente tralascia, per dare veste unitaria al suo lavoro.
La prima sezione presenta ogni comune, con il nome in italiano e siciliano, nella sua collocazione e descrizione geografiche, riportando la distanza dal capoluogo, i comuni confinanti e le frazioni o contrade di appartenenza. Il nostro autore si è servito delle pubblicazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica, del Touring Club Italiano e di quelle della regione Sicilia. Sono dati, questi, di cui non si può fare a meno e non resta che riportarli nella loro interezza e fedelmente.
La storia è oggetto della seconda sezione, dove viene affermato quanto già esposto, che, cioè, va intesa come esposizione della vita del popolo nel suo insieme, con gli usi, i costumi, le consuetudini che gli sono proprie. Scrive Messina:

«Quello che a me interessa cogliere, in Sicilia come in qualsiasi parte del mondo, nei piccoli come nei grandi centri, è, ed è stato sempre, il costume. Per questo una particolare attenzione è rivolta alle consuetudini e ho voluto riportare tutte quelle che sono riuscito a trovare […]. Le consuetudini, gli statuti delle maestranze debbono essere fra le cose da prendere in considerazione negli studi locali, ci riportano alla vita, ai rapporti sociali degli abitanti dei nostri comuni; svelano il costume, la mentalità di quegli uomini; ci ragguagliano delle attività, delle produzioni, delle necessità delle città; sono anche documenti del linguaggio, dello stile».

        In effetti, prendendo come esempio un comune qualsiasi, notiamo l’attenzione che presta ai particolari. Non è certo la prosopopea degli uomini che detenevano il potere, ma la vita che nel suo insieme svolgevano i paesani o i cittadini che da veri protagonisti agivano e operavano. Eppure non mancheranno tra i signori quanti si distinsero per opere di beneficenza ed altro, come l’assestamento e bonifica del territorio, le opere di beneficenza, d’arte e di difesa. Un esempio lo offre Carlo Tagliavia Aragona, principe di Castelvetrano, che diede un aspetto accattivante al paese, visitato anche da viaggiatori stranieri, tra cui Goethe, che «ammirò la ridente vegetazione della campagna; dormì in una misera osteria, nel cui tetto c’era una fessura, attraverso la quale gli apparve una stella» (p. 551).
        A leggere le varie voci del Dizionario viene da ricordare quanto scrive il Messina, dove afferma che la storia della Sicilia si conosce e si ritiene veramente tale attraverso quella dei suoi comuni, perché proprio questa ci fa entrare nel vivo, facendo conoscere particolari che altrimenti sarebbe impossibile conoscere. Riferisce dei signori, non tenendo conto delle loro gesta, ma quando le loro opere sono rivolte al bene comune. Sempre Carlo Tagliavia Aragona, oltre che principe di Castelvetrano, titolare di tante altre investiture, fece costruire la piazza Bologni di Palermo e il porto, così come migliorò quello di Marsala. Questo Don Carlo e così altri non sono nemmeno menzionati in tante storie della Sicilia, mentre qui e in quelle municipali acquistano un loro spazio ed emergono con la loro personalità e le loro opere. E insieme ad essi acquistano spazio gli uomini che, come le formiche, cooperano e costituiscono un aggregato che li distingue dagli altri e gode di una vita propria, differenziandosi anche nella lingua.

«La storia particolare dei comuni è vera storia: dove c’è l’uomo c’è storia. Le astrazioni, le generalizzazioni non aiutano a cogliere la verità delle cose, non spiegano i fatti, i gesti dell’individuo. La storia di un comune è vera storia, perché ogni comune è diverso dagli altri e in esso, per quanto piccolo e ignorato, c’è l’uomo che opera, l’uomo intero, e agisce in un determinato modo, in rapporto ad una società concreta, non astratta: ciò che per l’appunto è storia».

       Lo storico non tralascia niente. A proposito della lingua, dove può e ritiene necessario riporta documenti nelle lingue classiche e in siciliano. Nella voce Agrigento, per es., troviamo, datato 1304 e in latino, un documento di conferma delle consuetudini cittadine da parte di Federico iii e relative alle successioni in caso di morte; subito dopo inserisce alcuni capitoli in siciliano (28 maggio 1423), relativi al commercio della città, allora fiorente, presentati dagli Agrigentini al viceré Nicola Speciale. A seguire, datati 6 giugno 1426 e approvati dallo stesso viceré, altri capitoli relativi al costume (Supra li portamenti di li donni, Di la osservancia di li festi, Di li obsequii di li defunti, ecc.), dove, a parte la regolamentazione, si apprezza il siciliano del tempo, lo scritto che poi era la parlata di tutti i giorni con qualche aggiustamento dovuto allo scrivano, considerato in quel tempo persona colta e si apprezza anche la volontà del sovrano di imporre il siciliano come lingua scritta.
       Non mancano i riferimenti ai viaggiatori stranieri e, quindi, ai loro diari di viaggio, che non solo riportano e riferiscono dell’arte e delle bellezze di natura della nostra terra, ma sono anche veicolo di conoscenza degli usi e costumi dei nostri antenati. Goethe mangiò e poté gustare ad Agrigento i maccheroni, pasta che gli «è sembrata, per candore e delicatezza gusto, senza rivali». Usanze che si sono perse, di cui veniamo a conoscenza, grazie a questi documenti che sono preziosi per chi deve fare storia degli usi e costumi del passato. A buona ragione il Messina ritorna nei suoi scritti – ricordiamo Sicilia 1492-1798, oltre l’”Introduzione”, su cui ci siamo soffermati – al concetto di storia e insiste nell’affermare che non sono le date o le imprese a farla, ma la vita dell’uomo nel suo insieme.
      Questo Dizionario – come tutti gli altri libri di Messina – è costituito da un grande lavoro di ricerca, non soltanto fatto negli archivi comunali, ma tra libri e giornali che riferiscono e dedicano spazio a momenti di vita ormai lontani, e riportano a nostra conoscenza eventi, usi e costumi che fanno storia. L’autore, ricordando il “Fascio dei Lavoratori” del 1892, accenna al Pirandello de I vecchi e i giovani e, sempre a proposito di Agrigento, riporta un articolo di Gustavo Chiesi, dove il giornalista scrive delle condizioni della città e delle impressioni avute, quando nel 1890 la visitò. Così annota:

«La posizione, piuttosto incomoda della città sulla vetta d’un monte, a quasi 350 metri dal livello del mare, appartata, si può dire, per molti dal rimanente della Sicilia, a cui non l’univano che poche malagevoli strade mulattiere ed una mal sicura via postale, od il mare; considerata dai governi del passato nell’Isola, ed un po’ anche del presente, con occhi di noverca; limitata nell’espansione della sua attività[…], questo stato di cose dovrebbe esser sprone, in chi può e deve, ad incoraggiare, ad aiutare moralmente e materialmente, la nobile, se non la magnifica – come la dissero gli antichi – città, sulla via di quella graduale trasformazione, di quel progresso morale e spirituale, sulla quale, certa ormai due suoi destini e della fibra forte, laboriosa del suo popolo, si è messa, nella fede di non più arretrare» (ib. pp. 263-264).

      Se queste sono le considerazioni, non manca di apprezzare la vivacità degli abitanti e il vario cangiare del panorama «sempre nuovo e vario che la città presenta», da dove ammira non solo le bellezze e le antichità, ma si sofferma ad annotare particolari che fa piacere conoscere.
      Tutto torna utile alla conoscenza dell’uomo e di ciò che gli appartiene, ed è quanto a Calogero Messina interessa. Nella voce Santo Stefano Quisquina, suo paese natio, riporta un dialogo molto divertente e significativo dal giornale di Lorenzo Panepinto “La Plebe” del 20 aprile 1903, quando andavano forti le ideologie e aspri erano gli attriti fra le parti avverse. In contrasto con il contadino Peppi Romanu, socialista, è un predicatore, padre Emanuele Lauricella, che insiste nella condanna al socialismo, mentre l’interlocutore lo difende a spada tratta ed auspica tempi migliori per fare piena luce alla verità e alla giustizia. A più di un secolo di distanza ci tornano vivi questi personaggi con le loro idee e le loro speranze di un tempo migliore, sicuramente non quello di oggi, e chissà quando verrà!
       Sempre dalla stessa voce riprendiamo alcuni versi di Lamentu pi la morti di Lorenzu Panepintu di Giuseppe Albano (pp. 694-695), componimento oralmente tramandato e fatto proprio dagli Stefanesi che ricordano il loro concittadino che tanto si era battuto per la sua gente contro le ingiustizie sociali e ogni forma di sopruso.

       Lu sidici di maju a prima sira
lu tempu scuru e luna nun cci nn’era
l’empii scilirati e traditura
nun vosiru addumari li lampera.
      E complici cci su l’affittaiola,
magari genti di cancillaria,
lu diligatu cu lu brigateri
prestu ‘dda sira si jeru a curcari.
      Lu portafogliu cci scrusciva beni
ca foru abbivirati di dinari.
Pi ‘st’omu dottu leggi nnun cci nn’era
e mancu pi la pupulazioni […]
      Panipintu era un prufissuri
ca nni lu munnu nun c’era l’uguali;
di lu munnu miritava tantu onuri
c’a li populi vuliva cunsulari (ib., pp. 694-695).

       Il poeta popolare denuncia gli uccisori e le coperture per cui poterono agire e compiere il misfatto; ma denuncia anche le tristi condizioni della povera gente, abbandonata a se stessa e sfruttata dai forti, indifesa da chi avrebbe dovuto garantire la legalità e fare giustizia. Al tempo stesso ricorda l’opera del Panepinto e i benefici apportati, in termini di lavoro e di resa, tra i contadini di Santo Stefano e dei paesi vicini. Illuminanti, a questo punto, sono i lavori che il Messina ha dedicato all’illustre concittadino (Il caso Panepinto, Palermo 1977; In giro per la Sicilia con «La Plebe» (1902-1905). Un giornale dell’Agrigentino introvabile, Palermo 1985; Lorenzo Panepinto e il Fascio dei Lavoratori di S. Stefano Quisquina, in «Nuove prospettive meridionali», gennaio-dicembre 1993; I vendicatori, Rimini 1995; Il socialista scomunicato dai socialisti ufficiali, in Discorsi e scritti editi e inediti, Palermo 2023), di cui fino al 1977 gli stessi storici conoscevano poco e niente o appena il nome. Con questi suoi scritti il Nostro ha messo in chiaro la vita e l’opera di Panepinto, ormai conosciuto ovunque, ed ha fatto storia con la sua ricerca in archivi e biblioteche varie, calandosi nel personaggio con la disinvoltura propria dello storico. Così ha messo in evidenza l’uomo, il suo modo di essere, la cultura, e con questo, come sottofondo, il modo di vivere degli Stefanesi tra Otto e Novecento, con gli usi, i costumi e la loro parlata che sapeva, e sa ancora, di ancestrale.
        Dalle voci menzionate (Castelvetrano, Agrigento, Santo Stefano Quisquina), così come da tutte le altre che compongono il Dizionario, emerge chiaro che tutto concorre a fare storia. Ciò che il poeta popolare denuncia, potrebbe non rispondere in parte a verità, ma ciò non significa non tenerlo in considerazione. Scrive Messina:

      «Anche le cose false hanno la loro parte nella storia di un popolo e vanno ricordate accanto a quelle che comunemente si considerano vere; se un fatto si ritiene accaduto, va tenuto presente, anche se non è veramente accaduto […]. C’è di più: a volte la tradizione orale, popolare, e anche le opere della letteratura, le poesie e i romanzi compresi, possono essere più veritiere dei documenti degli archivi».

       Ciò si può costatare leggendo anche i versi sopra riportati. Giustizia per Lorenzo Panepinto non fu fatta; i colpevoli se la cavarono per i tanti cavilli giudiziari, quando in
13 paese tutti conoscevano gli esecutori e i mandanti, come il poeta che chiaramente li addita e condanna. Se ne ricava che effettivamente tutto ciò che riguarda la vita di un paese è storia e va preso in considerazione. La Sicilia stava vivendo un momento di grande tensione. Le idee di libertà e giustizia sotto l’egida del “Fascio dei Lavoratori” (1893) vi avevano trovato terreno fertile e grandi erano le aspettative della popolazione che rivendicava migliorie economiche e sociali.
       La terza sezione di ogni singola voce del Dizionario è dedicata alle chiese, ai luoghi di culto e alle opere caritatevoli. Anch’essa è molto interessante, fa conoscere non soltanto i luoghi di culto, ma anche la religiosità che caratterizzava quel dato comune, con i santi patroni e le festività ad essi collegate. Sicché l’opera è ben documentata e ricca di particolari, utile persino al cittadino o paesano che spesso non è a conoscenza dei beni culturali di cui dispone il suo paese o la città.
      Oltre ai monumenti, particolare cura rivolge alle chiese, con le notizie sulla loro fondazione e le eventuali ricostruzioni, ricordando anche i benefattori e i signori che nel tempo si interessarono a mantenerle fruibili, perché attorno ad essi effettivamente si svolgeva la vita di tutto l’abitato, ed erano centri di istruzione, non esistendo una scuola o, se c’era, era frequentata da pochi privilegiati.

       «Molte volte la storia di un paese s’identificò con quella della sua chiesa: dentro e intorno ad essa si svolgeva la vita dei suoi abitanti; era essa il punto di riferimento, la casa di tutti, dei signori e dei loro sudditi, dei ricchi e dei poveri. E osservando i quadri e le statue dei Santi cominciano da piccoli, di qualsiasi condizione, a prendere dimestichezza con l’arte».

Il Dizionario, così com’è strutturato, è interessante anche ai fini turistici. Il visitatore che vuole conoscere l’arte e i monumenti del paese o della città da visitare trova nella voce di quel comune ciò che gli torna utile, e non ha bisogno di guide, perché spesso non sono così ben preparate da soddisfarne l’interesse e la curiosità.
       La quarta sezione riporta i censimenti (dal Cinquecento in poi) e le attività economico-sociali. Per quanto riguarda i censimenti – avverte lo storico – non c’è di fare affidamento, perché non rispondono a verità e sono soltanto indicativi. Eppure – afferma – hanno la loro importanza, perché su di essi «si costruisce una verità e anch’essi hanno una loro storia».
       I numeri che vengono fuori sono puramente indicativi, mentre interessante è conoscere l’attività economica e imprenditoriale che vi si svolge. Ne viene fuori un quadro molto dettagliato e ricco di notizie che non fa che esaltare la produttività e la fertilità della Sicilia, anche se è triste costatare l’abbandono di tante terre, a causa di una politica agricola che non incentiva per niente il lavoro dei campi e le attività collegate. Eppure da quello che viene fuori dall’opera del Messina è che la Sicilia non è seconda a nessun’altra terra, capace di produrre di tutto (anche riso, come avviene a Piazza Armerina (En), o cotone, come nel passato), se fosse messa nelle adeguate condizioni di agevolare i contadini e di valorizzare le varie produzioni. Anche perché – asserisce lo storico -, ma ciò vale per la gran parte della Sicilia, «le risorse principali continuano a venire dall’agricoltura». A Castelvetrano (Tp), per es., si producono cereali, agrumi, vino ed altro, ma particolare incidenza ha la “nocellara del Belice”, nota ovunque per l’olio pregiato e le olive in salamoia; a Vittoria (Sr) la viticoltura e, come in altre parti, la serricoltura; a Pachino (Rg) il ciliegino, apprezzato ovunque.
        La quinta sezione ricorda gli uomini illustri che fanno onore alla terra di provenienza. A questo punto lo storico non manca di dare una tiratina d’orecchi a quanti nelle loro storie hanno elogiato uomini a loro vicini o, addirittura se stessi, senza alcun merito. Ma la Sicilia di uomini grandi ne ha sempre avuti, alcuni operanti nei luoghi natii, tanti altri in Italia o all’estero per necessità, e questo dall’antichità ad oggi. Basti sfogliare il Dizionario e il lettore se ne renderà conto, anche se sono menzionati soltanto coloro che hanno lasciato un’impronta che il tempo non potrà mai cancellare. Per avvalorare ciò, riportando da Agostino Gallo un giudizio discordante su Vincenzo Cutelli, che era stato vescovo di Catania, Messina scrive che i casi così equivoci sono innumerevoli, e perciò ha inserito e «menzionato sobriamente uomini che espressero qualcosa di significativo, che lasciarono un messaggio particolare, opere concrete dettate dall’intelligenza, dal genio, dalla fede».
        Facciamo alcuni esempi, ma a sfogliare una voce qualsiasi dei comuni siciliani il lettore può ben rendersene conto. Nella voce Palma di Montechiaro, oltre il pittore Domenico Provenzani e l’archeologo Giacomo Caputo, è anche menzionato Francesco Emanuele Cangiamila, palermitano, arciprete di Palma, che tanto s’adoperò per il bene spirituale e materiale dei cittadini, istituì opere di beneficenza e fece di tutto per dare assistenza medica gratuita ai bisognosi. «A Palma – annota lo storico – il Cangiamila fece praticare il primo taglio cesareo su una donna morta, salvando il neonato. Ma non fu appagato del suo impegno nel paese e nel 1742 rinunciò all’arcipretura” (., p. 469). A distanza di tempo Palma, riconoscente, gli dedicò una strada e una scuola.
      Palermo e Catania hanno una miriade di personalità illustri, molti dei quali sepolti nel Pantheon siciliano (Chiesa di San Domenico) o nella Cattedrale di Catania. Sono personalità di ogni ordine e grado (letterati, uomini politici, medici, re, come Federico iii, scienziati), che tanto fecero e spesero le loro energie per il bene di tutti.
     Modica, città natale di Salvatore Quasimodo, tra i suoi uomini illustri ebbe nel ‘700 Tommaso Campailla, poeta, filosofo, medico, autore di molti scritti, oltre di un poema, assiduo ricercatore e inventore della cosiddette “botti” (stufe di legno, vere e proprie botti di due metri circa, entro cui si facevano sedere i pazienti e da dove venivano fatti esalare fumi di mercorella), utilizzate per la cura della sifilide, della dismenorrea, delle artriti e delle infiammazioni in genere, che lo resero famoso in tutta Europa, tanto che ricevette la visita di George Berkeley, trovandosi in giro per la Sicilia sul finire del 1717 e fu in rapporto epistolare amichevole con Ludovico A. Muratori che gli offrì una cattedra all’Università di Padova che rifiutò.
     Calogero Messina menziona personaggi, di cui spesso non si conosceva nemmeno il nome, che diedero un grande contributo al miglioramento in senso lato della società siciliana e non soltanto. Basti pensare allo stefanese Lorenzo Panepinto, che tanto fece per strappare dalle grinfie padronali i contadini, ai tanti storici e filosofi che sulla scia del Rousseau affrontarono il problema dell’uguaglianza e della libertà, e ai tanti altri che fecero scuola nel campo delle arti e della scienza.
        La sesta sezione è dedicata alle tradizioni popolari. È l’ultima sezione, perché a chiusura segue la bibliografia (ricca e molto utile per chi vuole cimentarsi in lavori di ricerca).
       Città e comuni in questo Dizionario sembra che facciano bella mostra (e la fanno!) di ciò che hanno o producono, invitano a visitare e conoscere direttamente il loro patrimonio artistico-culturale e prender parte alle feste e alle fiere che ogni anno si ripetono, come da tradizione, molto belle e partecipate. Spesso il visitatore si trova senza saperlo coinvolto in una di queste feste e la gusta, preso dalla novità e dalla tradizione, come capitò a Gustavo Chiesi, già ricordato, che nel suo giornale riporta:

      «La vita e il commercio della città – di circa ventiduemila abitanti – si concentrano in questa via [via Atenea], che nei giorni festivi, quando accorrono per le provviste dalle cittaduzze e dalle borgate circostanti i contadini, coi loro vestiti caratteristici di sargia nera e di velluto, attillati, colle loro mantelline e i loro cappucci, prende un’animazione curiosa, singolare. Se poi, come a chi scrive, accade di capitare a Girgenti nel giorno di qualche speciale festività paesana […], allora vedi la via Atenea pavesata a bandiere marittime di tutti i colori e di tutte le nazioni possibili ed immaginabili e di tutte le segnalazioni portate dal codice telegrafico semaforico internazionale: con festoni di verdura tirati ad arco fra una casa e ed orifiamme d un’altra; cornicellesorreggenti una miriade di lampadine e lampioncini di carta per la luminaria alla veneziana; banderuole e stendardi ed orifiamme di carta da incendiarsi, da strapparsi dalla folla dei monelli , grandi e piccini, dopo il passaggio della processione, per finire degnamente il festino – che così in Sicilia son chiamate codeste cerimonie pseudo-religiose» (ib., p. 264).

        Si nota subito l’attenzione che il giornalista presta a usi e costumi della nostra gente ed è un piacere rivivere quell’atmosfera festosa, sapere che bastava poco per avere svago e vivere momenti di allegra compagnia, senza il frastuono assordante di macchine e motori dei nostri giorni. C’erano privazioni, ma c’era la vita che pullulava e si manifestava in modo genuino e bello. Altra storia, vita paesana, ma storia vera, a differenza di quella che è fatta da uomini spinti per interessi propri e di pochi altri.
       Ma Chiesi dovette assistere alla festa di San Calò, mentre l’altra, importante per i risvolti internazionali che ha, è la “Sagra del mandorlo in fiore”, che cadeva dentro la prima metà di febbraio. A farcela rivivere è lo stesso Calogero Messina scrittore, di cui riportiamo la parte finale, dove esalta l’uomo e, con esso, la storia. Ecco:

   «Il momento più atteso è ancora l’apparizione delle majorettes color fiore di mandorlo; sono del nord, ma stanno benissimo davanti al millenario tempio del sud, nuovi boccioli della bellezza e dell’amore, nella natura che si rinnova. Trionfano sempre ad Agrigento, anche se altri avranno il tempio d’oro. È la giovinezza di fronte all’antico, ma si fondono e parlano insieme; per questo i vecchi vogliono partecipare alla sagra e rievocano i loro anni lontani. Chi non pensa al passare del tempo? È inesorabile, tutto doma. Ma è un conforto per l’uomo sapere che dopo di lui torneranno ancora le primavere, i campi a fiorire, altre creature a vivere col calore del sole, ad amare, a sognare e a fare sognare.
       Anche la sagra finisce, si dirada la folla, partono pure le majorettes e lasciano i templi soli; dalla strada che sale da Porto Empedocle, si rivedono in alto, allineati e illuminati più del solito. Fortunati noi che possiamo vederli, immagini del tempo, dell’uomo, dell’arte, della speranza, della vita» (ib., pp. 277-278).

       Ma tante sono le feste, a cui i Siciliani sono stati sempre legati, e spesso dedicate ai santi patroni, protettori di paesi e città: Santa Rosalia a Palermo, Santa Lucia a Catania, la Processione dei Misteri a Trapani, molto noti, e così via; festini tutti con un’ultrasecolare tradizione, come quello che si celebra l’8 settembre a Palma di Montechiaro (Ag), dedicato a Maria SS. del Rosario, che ha la sua cappelletta nel locale castello chiaramontano, ricca di storia e di leggende, di cui si tramandano tante storielle, come quella di Dragut che nel 1553 non riuscì a portare via la statuetta. Ma la festa non finisce l’8 settembre, perché è ripresa quaranta giorni dopo Pasqua. La Madonna dal castello viene portata in processione al paese, «dove viene incoronata, e ripercorre le sue strade, acclamata dal grido “Viva la bedda Matri d’ ’u casteddu!” Le fanno la scorta i muli sfarzosamente bardati – la retina -. Una settimana prima dell’ascensione viene riportata, sempre in processione solenne, al castello» (ib., pp. 481 – 482).
       Una festa, questa, come le altre di tutti i comuni della Sicilia, dove si rispolverano usi e costumi della tradizione che, nonostante il lavaggio continuo di modernità a cui siamo sottoposti, entusiasmano tuttora e fanno rivivere momenti di vita che, se ormai lontani, non sono da dimenticare.

***

      All’inizio, scrivendo di questo Dizionario storico dei comuni di Sicilia, abbiamo detto che siamo dinanzi ad un’opera monumentale, e tale è per i 7 volumi che lo compongono e, soprattutto, per la ricchezza di contenuti e di particolari che vi sono immagazzinati. Per questo il suo autore ribadisce che le storie municipali non possono essere compilate da sprovveduti, ma da studiosi dotati di un solido bagaglio culturale, tenendo sempre presente l’uomo e il suo operato, qualsiasi sia il ceto di appartenenza, perché è lui – ripetiamo – che fa storia ed è storia.
      Calogero Messina, studioso di letterature classiche e moderne, storico e docente di storia all’università di Palermo, scrittore autentico e raffinato, poeta, ha consultato archivi italiani e stranieri, ha utilizzato documenti, capitoli scritti in latino e in siciliano antico; ha menzionato autori classici e moderni, ha dato se stesso per offrire e mettere a disposizione di tutti un valido e utile strumento di conoscenza e, al tempo stesso, un esempio di come si fa storia municipale, lui che – va ricordato – ne ha dato un saggio negli anni giovanili, quando – ricordiamo ancora – nel 1972 pubblicò S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico, seguito da Lu recitu del 1973 (raccolta di canti campestri recuperati che tuttora vengono recitati dagli Stefanesi nella processione in onore di Santa Rosalia), ed ha continuato nel corso degli anni a darci tangibile prova del suo talento che onora la cultura e la terra delle origini, amata e ricordata in tante sue opere, come nella raccolta Sodalitas (1999), in cui, tra l’altro, c’è il componimento Lu me’ paisi, scritto nel 1978 e riportato nella voce Santo Stefano Quisquina (pp. 707-709), dove in uno dei suoi ritorni, così lo descrive ad un interlocutore immaginario:

Autu lu viri
appiccicatu a la muntagna
cu acchiana di Vivona.
Di supra Muntivernu
‘nfaccia a San Caloriu
ti spunta addummisciutu
‘nti ‘na vaddi Santu Stefanu.
E subbitu a lu Carvariu ti trovi
unni cci su’ du’ strati
e lu pinseri torna a lu passatu.

        Se in un primo momento al poeta sembra già pregustare la gioia di rivedere i luoghi dell’infanzia, dopo un po’ è portato a ricredersi, come se avesse avuto una repulsa, perché del paese di una volta non ha trovato nulla; tutto è cambiato, modificato, passato di bene in peggio, tanto da non riconoscerlo e non ritrovarsi a proprio agio. La modernità ha sicuramente portato dei benefici, ma ha peggiorato i rapporti umani, ha modificato in negativo e l’uomo tiene ad apparire piuttosto che ad essere. Questo produce al poeta tanto sconforto e con amarezza, rivolgendosi al paese che ha conosciuto, chiede:

Paisi miu,
terra di San Giurdanu e di Fra’ Vicenzu,
vallati e munti e cozzi
pridiletti di li Nurmanni
e rifugiu di li Santi,
unni su’ li travagliatura di un tempu
boni e rispittati,
ddi carusi beddi
chi aiutavanu a li patri
[…]
Nun cc’è cchiù ‘na fimmina chi famìa
o chi sapi dari un puntu
né cu la sira cunta un cuntu;
[…]
Scumpareru li gaddetti e l’oglialora,
li turduli, li frecci e li girialora.

       Calogero Messina, da storico e poeta, in Lu me’ paisi dà al lettore un compendio di passato e presente, riporta usi e costumi di una volta, e offre a quanti si accingono a scrivere del loro paese un valido esempio di come si fa con competenza e onestà intellettuale storia municipale.
                                                                             Salvatore Vecchio