Un viaggio nel labirinto dell’anima

«Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» 

(Gv. VIII – 32) 

Un famoso filosofo cinese affermava: «Vi è una sola verità sulla terra: che qui non vi è verità». Pur comprendendo la plausibilità di tale tesi e pur essendo consci delle innegabili limitazioni della nostra mente, mezzo della «conoscenza», nonché delle numerose difficoltà che si presentano sul cammino del ricercatore, nessuno di noi può accettare di esimersi dal ricercare il «vero», che rappresenta la meta ultima della nostra esistenza intesa come esperienza conoscitiva. 

Nell’allegoria della Genesi, l’uomo e la donna si nutrono del frutto della conoscenza del bene e del male (o albero della scienza), che è stato loro proibito da Dio in quanto portatore di morte. E’ operando una scelta precisa che essi si dividono la famigerata «mela»; si tratta di un’unità simbolica che viene spezzata, e che li condurrà in un mondo sperimentabile esclusivamente attraverso l’esperienza nella duplicità degli opposti. Essi stessi, rappresentanti di questa dualità, nei loro opposti aspetti di «maschile» e «femminile» destinati a riunirsi, si inseriscono in un ciclo non più esclusivamente spirituale, rappresentato dalla «caduta nella materia», il cosiddetto «ciclo delle necessità», nel quale, entrambe le esperienze, sia quella del vissuto interiore che quella più esteriore di sopravvivenza nel mondo fisico, divengono la meta e il mezzo di conoscenza necessari ad attuare quella scelta costante tra «bene» e «male», ricerca di equilibrio tra gli opposti, e più avanti, superando l’impasse, lenta liberazione dai legami terreni. Ciò può essere rappresentato simbolicamente dal moto circolare discendente ed ascendente, dalla caduta al ritorno a Dio, dal cielo alla terra, dalla terra al cielo. 

L’aspetto fenomenico duale, sul quale ci soffermeremo più volte, è una costante legge della natura e del conoscibile, poiché appartiene ad ogni fenomeno indagabile dalla nostra mente. Come al giorno si oppone la notte, alla materia lo spirito, al bene il male, alla morte la vita, al sonno la veglia, così ogni fenomeno conoscibile presenta in natura il suo opposto complementare che lo rende intero. 

Il nostro stesso cervello simbolizza anche dal punto di vista anatomico l’aspetto duale: esso si divide in due lobi inscindibili, preposti, sembra, a due funzioni diverse ma entrambe essenziali, rappresentate in termini generici dall”«intuito» e dalla «logica». L’alternarsi paritetico delle due parti conduce ad un buon equilibrio dell’essere umano, mentre la preponderanza schiacciante di uno dei due aspetti è in grado di «squilibrarci», di renderci, cioè, sempre in termini molto generici, troppo «aridi» o troppo «astratti», ma è in ogni caso uno stato di cose che non può condurre alla «conoscenza» dello spettro di verità da noi raggiungibili, poiché rende incompleto e parziale il nostro «conoscere». 

Oggi possiamo affermare che la nostra «evoluzione» si stia servendo quasi esclusivamente del parziale mezzo di indagine della «logica», strumento razionale con il quale si è affidato alla scienza (termine che, propriamente o no, significa conoscenza) il compito di porre l’accento sullo studio dei fenomeni fisici, visibili, sperimentabili e ripetibili in laboratorio. 

Questo tipo di «conoscenza» alla quale sempre più esclusivamente ci affidiamo, ha avuto il pregio illusorio di offrirci una relativa sicurezza: difatti la legge sull’evoluzione darwiniana, posta a monte della «genesi scientifica», ha dato al nostro conoscere un doppio colpo di coda: da una parte la quasi certezza di non essere che animali evoluti, dall’altra, lo sfruttamento di tale possibilità evolutiva, la nascita di una volontà diretta alla dimostrazione del contrario attraverso l’affermazione della «ragione» che ci separa dal regno strettamente animale. 

Secondo Diel, l’intelletto umano trova il suo scopo specifico nell’adattamento alle necessità strettamente vitali dell’individuo, serve cioè alla sopravvivenza. Ma senza andare troppo lontano, potremmo allora affermare che se il frutto dell’intelletto dirige esclusivamente verso lo scopo della sopravvivenza fisica, dovremmo riconoscere anche agli animali tale tipo di «intelletto». 

Ma l’animale, a differenza dell’uomo, uccide veramente per sopravvivere, non si lascia condizionare dall’odio. L’animale non prova sensi di colpa, è giustificato dalla sua stessa natura quando uccide per fame. Si dovrebbe allora spostare il tiro dal termine «intelletto» a quello di «istinto», ed individuare la linea di demarcazione che separa gli uomini dagli animali nella cosiddetta «coscienza». Una coscienza, o consapevolezza di tipo morale, che conduce sempre all’eterna scelta tra bene e male, e con la quale l’essere umano è in grado di tenere salde le redini dell’istinto, di vincere, cioè, la sua natura animale combattendola e soggiogandola con la sua natura «positiva» o «morale». 

È luogo comune affermare che la nostra società «civile» sia una giungla nella quale si continua a lottare per la sopravvivenza, nella quale omicidio, odio e violenza non sono sconosciuti nemici, ma compagni di viaggio. Ma c’è un altro vero «genocidio» commesso ai danni dell’umanità, e non esclusivamente quello perpetrato con le armi. Esso si propaga anche con mezzi più sottili, con l’abuso di mezzi intellettivi al servizio della propria natura «negativa» a danno degli anelli più «deboli» della catena per inciso, contro i «giusti». 

Nella giungla umana il nostro successo, la nostra autoaffermazione, vengono fatti dipendere dal soccombere altrui; il nostro ego (o il nostro egoismo) è il piccolo limitato mondo dal quale non sappiamo uscire per andare verso l’universo del prossimo, e per la cui conquista siamo spesso disposti a tutto. Se è vero che la lotta umana si svolge ad un gradino «superiore» a quello degli animali, siamo davvero ben poca cosa rispetto ad essi, poiché il nostro errore è sempre intenzionale, volontario, privo d’amore, non più affidabile esclusivamente alla natura istintiva, non più giustificato dall’animalità umana. 

Sempre per esprimerci in termini simbolici, è la «Bestia» dell’Apocalisse che sorge in noi dal grande mare (dell’inconscio). È il Leviatano, l’antico serpente condannato a strisciare, che bisogna guardarsi dal risvegliare, perché non sollevi la testa: il latore delle forze negative dentro chi non accoglie in sé la forza dell’amore. Le sue sette teste, con su scritti «nomi di bestemmia» potrebbero rappresentare i sette peccati capitali, le forze negative sempre latenti nell’anima umana. 

La «Bibbia di Gerusalemme» definisce la Bestia apocalittica come «un mostro del caos primitivo… che incarna la resistenza contro Dio delle potenze del male». Nella cosmogonia babilonese esiste in merito questa descrizione: «Tiamat, il Mare, dopo aver contribuito a dare la vita agli dei, era stata vinta e sottomessa da uno di loro. L’immaginazione popolare o poetica riprendendo questa immagine attribuiva a Jahvè questa vittoria anteriore all’ordinamento del Caos o lo vedeva sempre mantenere in soggezione il Mare e i Mostri che lo popolano»1. 

L’evoluzione del negativo non ricerca Dio come Entità superiore, ma desidera emularLo; nasconde in sé l’insidia del desiderio di sconfiggerLo, superarLo, svalutarLo, spiegando razionalmente i Suoi «piani segreti»: il mistero della vita, la sconfitta della morte. Ma se è vero che Dio è Amore, nessuno di questi «imitatori» potrà penetrarne il segreto, poiché l’Amore è partecipazione della natura divina, è immedesimazione, «incarnazione», è unione che non può non essere raggiunta assemblando dei pezzi casualmente o razionalmente nemmeno per milioni di anni. 

Questa illusione di potere e di sapere, che fu già prerogativa degli angeli ribelli ed arma che condusse alla disubbidienza dell’uomo fu causata dall’uso sconsiderato dell’albero della scienza che conduce alla morte. «Ma …erano condannati a “cadere e perdere i loro poteri” non appena le due metà della dualità si furono separate. Il frutto dell’Albero della Conoscenza dà la morte senza il frutto dell’Albero della Vita. L’uomo deve conoscere se stesso prima di poter sperare di conoscere l’ultima genesi anche di esseri e poteri meno sviluppati, nella loro intima natura, dei propri. Così avvenne per la religione e la scienza: unite in uno erano infallibili, perché l’intuizione spirituale era pronta a supplire i limiti dei sensi fisici. Una volta separate, la scienza esatta rifiuta l’aiuto della voce interiore, mentre la religione diviene una semplice teologia dogmatica: e ognuna è solo un cadavere senza anima»2. 

Questa illusione misconosce Dio come volontà intelligente ed organizzatrice della vita, Lo nega indirettamente, sostituendoLo con il «caso» (anagramma di caos) e le sue combinazioni. In sostanza essa è estremo orgoglio di disconoscimento dei propri limiti umani, totale mancanza di umiltà. D’altra parte, un Dio costretto nella materia, ricercato con il microscopio, chiuso in una provetta, sarebbe una ben misera cosa rispetto all’uomo che lo osserva. Ma la somma delle esperienze attuali ci porta ad affermare che lo scienziato-antagonista non cerca Dio, cerca le prove del suo essere Dio. 

Questa illusione, questa univocità di direzione finalizzata a questo scopo, oltre ad aver ridotto il pianeta ad un immenso letamaio avvelenato dai residui chimici e dalle nubi atomiche, ci ha posti al centro dell’universo per dimostrarci oggi sconfitti dalle nostre stesse opere. 

Questo folle «illuminismo oscuro», con un lavorio costante durato in fondo pochi anni rispetto all’esistenza dell’uomo sulla terra, ha soffocato la nostra spiritualità, già poco sorretta dalla freddezza dell’interpretazione ufficiale dei dogmi religiosi: non ha interrogato affatto l’«intuizione» (e a me sembra neppure la ragione) per prevedere quali sarebbero state le conseguenze dell’operare umano. Quella intuizione o spiritualità che anche i popoli antichi, considerati ingiustamente «incivili», non tralasciavano mai di considerare. 

Si è affermato che le religioni nacquero proprio da uno stato di soggezione che l’uomo antico provava verso i fenomeni inspiegabili della natura. E che nel tentativo pavido di placarli, li divinizzò sottomettendosi ad essi con un’adorazione che tentava, come poteva, di dominarli. Ma il famoso, e più attuale, asserto di Campanella, che insegna come la natura si possa dominare solo servendola, possiede molta di questa antica saggezza e resta teorema pur sempre valido. 

L’uomo, con tutta la sua «scienza» non è e non sarà mai in grado di dominare la natura. Egli non si è voluto abbassare al livello di «guardiano» affidatogli da Dio, come compito e poi come punizione («E tu, perché hai dato ascolto alla donna (natura istintiva) coltiverai la terra con gran fatica, raccogliendo coi frutti spine e triboli, con il sudore della tua fronte»). 

Oggi, la nostra «disubbidienza» recidiva, la ricerca di supremazia ad oltranza su una natura che sta divenendo sempre più ostile, ha abbrutito la nostra moralità, ha compromesso i rapporti con la propria coscienza, con il prossimo, con il pianeta, con Dio stesso. I frutti coltivati dall’uomo con gran sudore sono i risultati nefasti della scienza. «L’albero si riconosce dai propri frutti» afferma Gesù in una parabola, rispondendo al dilemma umano sull’individuazione e il riconoscimento della differenza tra bene e male. 

Noi, quali frutti abbiamo prodotto? E dove, presumibilmente conducono le nostre opere? E ancora, Dio•, dove l’abbiamo nascosto? 

L’altra metà della mela, quella non dominata dal «caso», ma dalla volontà unita all’amore, libera meta del libero arbitrio, l’Intuizione, gemella della ragione, madre dell’arte, delle invenzioni, del sogno, è da troppo tempo racchiusa nel blocco di ghiaccio della materia; atrofizzata e schiacciata dalla Logica, non può essere trascurata oltremodo. Essa ci lancia disperati messaggi attraverso i sogni, ma spesso usa anche sensazioni, premonizioni o comunque esperienze che ci informino della sua esistenza, che ci facciano intuire l’«insostenibile leggerezza dell’essere» citata da Kundera. 

• N.B. – In un lavoro come questo, il ricorso a Dio è molto frequente. È bene precisare che usando il termine «Dio», l’autrice non si riferisce al Dio specifico di qualche religione. Questo testo, pur con tutte le difficoltà legate all’oggettivazione, non vuole condurre a soluzioni specifiche né a indirizzi forzati. Esso si limita a riportare quanto di comune ci sia nelle scelte religiose, filosofiche, morali o psicologiche dei diversi popoli, partendo anche da quelli antichi fino a ripercorrere le tappe dell’evoluzione interiore dell’uomo. Il termine usato va quindi inteso in senso generico molto ampio poiché ‘siamo tutti figli di un unico Creatore’ afferma più avanti. Esso sottintende dunque I diversi significati di Creatore, Padre, Energia Primaria, Ordinatore del Caos, Causa Prima, Forza Positiva, Volontà Organizzatrice, ecc., così che anche I Suoi attributi, come ad es. Intelligenza, Bontà, Verità, Eternità, vengano sostantivati. Il termine comprende tutto questo e molto di più, seppure ridotto al minimo per facilitare la scorrevolezza del testo e rivolgersi ad ogni uomo, di qualsiasi razza sia e a qualsiasi religione appartenga. Esso è espressione di unione, desidera allontanarsi dai termini di separazione, e dalle lotte che per questo sono state perpetrate nascondendosi dietro la propria bandiera religiosa, uccidendo spesso, c per assurdo, proprio «nel nome di Dio». 

Si tratta di fenomeni confinati genericamente sotto la assurda dicitura di «Paranormale». D’altra parte la casistica di tali fenomeni è vasta e innegabile e fortunatamente si sta uscendo dall’oscurantismo razionale, o anche dalla paura, che impediva a molti di esternare le proprie esperienze in tal senso. Ufficialmente, il dileggio o l’allusione all’ala della pazzia, erano la punizione per chi osava parlarne. Ma in verità, ognuno di noi almeno una volta nella vita ha avuto a che fare con tali manifestazioni, poiché esse sono retaggio umano. Si tratta di fenomeni che non sappiamo spiegare, perché sfuggono alla stretta razionalità, e sembrano piuttosto far parte del mondo dei sentimenti; e come tali sono difficilmente riproducibili «a comando». Ma se la scienza rappresentasse un vero desiderio di conoscenza dovrebbe occuparsi anche di questo, senza paraocchi, senza paure, senza preconcetti. Occorre, è vero, una grande apertura mentale per conciliare gli opposti, per mettere in campo i risultati scientifici accanto a quelli spirituali. Ma io credo che il giusto atteggiamento di chi desidera veramente «conoscere» non sia quello di infilare la testa sotto la sabbia. Dovremmo accettare l’idea che anche questo accade e accade non lontano, ma dentro di noi, perciò anche questo diviene normale (e non para-normale), sebbene i nostri mezzi limitati non siano ancora riusciti a spiegarci i «perché», i «come», e i «quando». 

Questo esercizio mentale conduce all’umiltà, al riconoscimento di qualcosa che ci sovrasta e che è in grado, se glielo permettiamo, di penetrare fin dentro le nostre fibre. C’è qualcosa di sconosciuto, da tempo in attesa di essere risvegliato per trasformarci in esseri completi, per condurci ad un’evoluzione vera e positiva. 

I messaggi in bottiglia provenienti dall’anima o dal grande mare dell’inconscio, se preferite, sono sintomi di naufragio e di malessere spirituale. Sono richieste d’aiuto dell’anima destinate spesso a rimanere inascoltate a causa della nostra crescente aridità. Forse è proprio questa la tanto temuta -apocalisse.: una morte interiore già iniziata, dalla quale, come detto più avanti, la bestia nemica dell’uomo sta emergendo per condannarlo in un terribile autodafè. 

Il nostro mondo interiore, insondata sede delle opposizioni, del bene e del male, del patrimonio spirituale ma anche istintivo dell’uomo, è già di per sé emblema dell’anima racchiusa nella materia. Esso è microcosmo nel macrocosmo, ma attenzione, anche macrocosmo nel microcosmo, poiché il grande contiene il piccolo, ma anche il piccolo contiene il grande. Ciò espresse Ermete Trismegisto nella Tavola di smeraldo posta a base dello studio delle scienze esoteriche: «E come è in basso così è in alto… per rappresentare le meraviglie della Cosa Unica». 

I due mondi si compenetrano e non sono scindibili fino alla morte della forma fisica. Le due fasi del pensiero conoscitivo, la «negativa» e la «positiva», si alternano nel preponderare l’una sull’altra, producendo movimento e non stasi. evoluzione e non status quo. Esse conducono inevitabilmente verso una scelta. Spogliano l’anima degli inutili orpelli e, dirigendosi verso i comportamenti e le scelte più costanti e ripetute di un’anima, conducono l’essere ad una scelta libera e cosciente tra bene e male. 

Questo mondo segreto, Eden abbandonato dall’uomo, sede della nostra vita più vera, ha avuto diverse definizioni nel corso della nostra storia culturale e spirituale, legata alle diverse connotazioni imposte dalle differenti scelte individuali: la psicologia ci ha parlato di inconscio, le religioni e le filosofie di anima. spirito, energia, pneuma, l’esoterismo di corpo astrale, la scienza di cervello; ed il loro frutto. l’astratto pensiero, dovunque abiti in noi, ha così subìto diverse interpretazioni; da essenza divina a energia di origine fisica prodotta dal cervello; da fenomeno biochimico ad incompresa astrazione. Ma poco importano i termini. È importante scoprire ciò che unisce alla base e non ciò che divide. Ciò che ogni scienza, ogni religione. ogni ramo dello scibile umano hanno in comune con le altre teorie, è quanto più si possa avvicinare alla plausibile parte di «verità» a noi concesso comprendere. In ogni tempo, sotto ogni scuola di pensiero, si è riconosciuta all’uomo una parte luminosa e sfuggente, che non può essere costretta nella materia fisica. Almeno non esclusivamente. 

Essa passa nel nostro cielo interiore come una meteora. Si mostra e fugge, ma ci informa della sua esistenza. È la nostra parte più autentica, vera e distintiva del sé individuale che conduce alla porta del Sé universale. Una porta alla quale non tutti sono in grado di accedere. Ma esiste una chiave che ci permetta di aprire quella porta? 

Diana Garland 

1. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1988, vol. II, pag. 23. La nostra dunque è un’evoluzione o un’involuzione? E’ un ritorno a Dio o al Caos iniziale? La strada che abbiamo scelto coscientemente, per percorrere una ipotesi di evoluzione, è principalmente quella scientifica, che abbiamo visto più avanti. Sebbene la scienza non sia di per sé negativa, poiché ha molte ragioni di essere, essa contiene nel suo polo negativo molte insidie. Il pessimo uso che spesso se ne fa, non solo si volge verso la distruzione, ma ci rende diretti antagonisti di Dio. E come non notare che il nome del «distruttore» per antonomasia sia proprio Satana, che significa antagonista? Come ignorare il parallelismo esistente tra il peccato di orgoglio degli angeli e quello di Adamo ed Eva? Come non notare che entrambi furono scacciati dalla presenza di Dio? S. Agostino identificava la stessa umanità nella schiera degli angeli ribelli. Ma per ora, fermiamoci qui. Parleremo di questo in altro momento. 

(2) H. P. Blavatsky, Iside svelata (trad. di M. Monti), Ed. Armenia, Milano, 1984. 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 23-30.

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