La leggenda di Tristano e Isotta in Inghilterra 

di Giacomo Giacomazzi 

La leggenda di Tristano e Isotta è stata definita «il grande mito europeo dell’adulterio»1: Tristano, il più nobile cavaliere del re Marco (di cui è anche nipote) conquista la mano della principessa d’Irlanda Isotta, per darla in sposa allo zio. Durante il viaggio in mare tra l’Irlanda e l’Inghilterra, i due protagonisti bevono per errore un filtro magico con il potere di far innamorare perdutamente, preparato dalla madre d’Isotta per la prima notte di nozze tra gli sposi. Tra i due, dunque, inizia una turbolenta relazione adultera, condotta tra mille periperzie (inganni, separazioni, ricongiungimenti, combattimenti). Inesorabilmente, i due amanti si potranno ricongiungere solo nella morte, che li coglierà entrambi a breve distanza l’uno dall’altra2. 

Come per tutti i miti che si rispettino, le sue origini si perdono nei meandri del tempo e dello spazio. Ciò nonostante, più di cent’anni di studi filologici e letterari (coadiuvati dal supporto non indifferente di quelli archeologici) ne hanno significativamente individuato la chiara provenienza dalla Cornovaglia celtica3. 

La leggenda tristaniana, dunque, ha la sua origine proprio nelle isole britanniche; e originariamente si presenta indipendente e parallela a quella arturiana tramandata da Geoffrey of Monmouth e da Wace; e che successivamente la assorbirà al suo interno, in quella che, alla fine del XII secolo, viene definita da . Jean Bodel Matire de Bretagne. 

È ancora nelle isole britanniche che sembra ‘iniziare’ la storia prettamente letteraria di Tristano e Isotta. Infatti, l’ adattamento degli originali elementi ‘primitivi’ della leggenda celtica al più raffinato clima culturale dell’ allora nascente letteratura cortese si verifica alla corte di Enrico II Plantageneto, attraverso la contaminazione con elementi provenienti dalla cultura classica (in particolar modo Ovidio). 

Due sono gli autori operanti in seno alla corte plantageneta che, narrando in anglonormanno, rivestono un ruolo determinante in questa evoluzione della tradizione tristaniana: Marie de France e Thomas d’ Angleterre. 

«Marie de France» è la firma di una poetessa di cui si ignora qualunque notizia biografica, posta su tre opere: i Lais, dodici componimenti probabilmente scritti nel 1165; una raccolta di Fables esopiche, composta verso il 1180; l’Espurgatoire de Saint Patrice, che risale all’incirca al 11894. 

Nel Lai du Chevrefoil, la poetessa narra l’episodio di uno dei tanti incontri segreti tra Tristano e Isotta. Pur nella sua brevità (si tratta di 118 versi ottosil1abici), questo poemetto si presenta ricco di elementi estremamente interessanti, grazie ai quali Marie riesce volontariamente a creare un perfetto trait d’union fra tradizione orale celto-bretone e letteratura cortese. 

È già la definizione del componimento come lai che costituisce un chiaro rimando alla tradizione orale insulare: si tratta, infatti, di un termine che orginariamente designava un componimento musicale, cantato o semplicemente suonato da arpisti irlandesi e cantastorie bretoni. E, infatti, Marie stessa dichiara esplicitamente di averlo «più volte ascoltato» (plusurs le m ‘unt cunté e dit)5; ma, subito dopo, aggiunge un ‘elemento letterario’, dichiarando di averlo anche trovato «messo per iscritto» (E jeo l’ai trové en escrit)6. Anche la tipologia episodica e allusiva della narrazione rimanda in sé alla recitazione giullaresca; e presuppone – in virtù dell’essenzialità e condensazione degli elementi narrati – che il pubblico conosca perfettamente la storia nel suo insieme. Un altro elemento che esplicitamente manifesta l’intenzione autorale di creare la continuità tra i due sistemi culturali è contenuto nell’ epilogo, quando Marie riporta il titolo del lai sia in inglese (Gotele/) che in francese (Chevrefoil), attribuendone la creazione allo stesso Tristano7. 

Ma è, forse, il tema centrale dell’unione indissolubile tra il noce e il caprifoglio, simboleggiante quella tra gli amanti, a rievocare dei precisi elementi provenienti da entrambi gli universi culturali, sintetizzandone la sovrapposizione e suggellandone la continuità. 

Se da un lato, infatti, questo tema richiama la tradizione classica della poesia d’amore latina – in particolare, le Metamorfosi di Ovidio -, dall’altro presuppone un chiaro legame con il ruolo magico ed evocativo delle piante nella cultura celto-bretone. Inoltre, sempre su un ramo di noce (cui era riconosciuta soprattutto la virtù di donare l’ispirazione poetica), Tristano incide il messaggio cifrato che solo Isotta riesce a comprendere e che, molto probabilmente, è scritto in caratteri ogamici (corrispondente celtico del runico germanico), facilmente comprensibili da una principessa irlandese8. 

Come per Marie de France, anche di Thomas d’Angleterre ignoriamo praticamente tutto. Di lui rimane solo il nome, citato due volte all’interno del suo Roman de Tristran, e da Gottfried von Strassburg che nel prologo della propria versione delle leggenda tristaniana nomina «Thòmas von Britanje» come suo modello. L’opera stessa è stata tramandata in stato frammentario e lacunoso da sei manoscritti, che ne contengono parti differenti. Si pensi che dei 13.000 versi ipotizzati da Felix Lecoy, se ne sono conservati solo 32989. 

Se il Lai du Chevrefoil si presenta come una ‘sintesi perfetta’ fra la tradizione orale celto-bretone e l’allora recente narrativa cortese in lingua d’oil, il roman di Thomas d’Angleterre presenta dei caratteri molto più spiccatamente letterari, fortemente legati alla componente più dotta della cultura del XII secolo. 

È già la natura romanzesca della narrazione thomasiana a rivelare come egli ‘propenda’ (molto più della contemporanea Marie) verso la cultura continentale. Se è vero, infatti, che il termine roman come tipo di componimento narrativo, è indicativo del processo di ‘volgarizzazione’ della cultura dotta di origine latina, allo stesso tempo, però, ne rivela anche l’ideale continuità10. 

E pur tuttavia, rimangono delle evidenti tracce dell’origine celto-bretone della leggenda. Tra quelle più palesi si hanno: l’esplicito riferimento alla tradizione oralell; il riferimento a un certo conteur bretone Breri come al migliore conoscitore della matire de Bretagne12; la composizione ed esecuzione di un lai da parte di Isottal3; l’indipendenza della leggenda tristaniana da quella arturianal4. 

Il mondo tristaniano di Thomas, comunque, è pienamente cortese, ben lontano dagli eroi della tradizione celtobretone. Non a caso, infatti, proprio la sua versione è indicata come capostipite del filone ‘cortese’ della tradizione, in contrapposizione a quello ‘comune’ dai caratteri più ‘primitivi’ls. 

Lo stile narrativo thomasiano si presenta, inoltre, estremamente distante dallo spirito originale della leggenda. Esso manifesta, infatti, un chiaro intento didattico-moraleggiante, molto vicino al modello argomentativo della filosofia scolastical6. Questo aspetto non appare affatto casuale, dato che, attraverso un’ attenta lettura del testo, sembra possibile riscontrare dei rimandi ad alcune delle più importanti e dibattute questioni filosofiche dell’ epoca. Queste tematiche filosofiche si legherebbero all’intenso dibattito sull’ amore e sul libero arbitrio che percorre tutto il XII secolo. Un ruolo predominante sarebbe ricoperto, innanzitutto, dalla riflessione filosofica di Pietro Abelardo, a partire dalla posizione che egli assume nella famosa querelle des universaux, e che avrebbe ispirato il progetto didattico-culturale del cosiddetto ‘Circolo di Canterbury’, i cui ‘aspetti teorici e programmatici’ risulterebbero evidenti nel Metalogicon di John of Salisbury17. 

Anche se chiaramente derivato dal Roman de Tristran di Thomas, l’anonimo Sir Tristrem in middle english della prima metà del XIV secolo si discosta molto dallo spirito del proprio modello. 

Quest’ opera è stata tramandata da un unico manoscritto, il Codice Auchinleck, conservato alla National Library of Scotland. Questo codice è di notevole importanza per lo studio della letteratura inglese medievale, poiché costituisce una delle più vaste e antiche antologie di opere scritte in middle english; di cui otto in copia unica (tra cui proprio il Sir Tristrem). Quando nel 1804 Walter Scott ne fece l’editio princeps, prestando fede alla prima strofa del poema ne attribuì la paternità a Thomas the Rhymer of Erceldoun, leggendario vate del XIII secolo, giungendo financo a identificarlo proprio con il Thomas von Britanje citato da Gottfried von Strassburgl8. 

Il Sir Tristrem presenta delle caratteristiche che ne hanno sempre fatto un’opera molto controversaI9 : · è, infatti, estremamente allusiva ed ellittica; i nessi logici narrativi non sono esplicitati, come se chi scrive dia per scontato che il proprio pubblico conosca fin nei minimi dettagli il racconto. 

Il metro utilizzato, inoltre, è estremamente complesso: si tratta di strofe di undici versi, divise in una fronte di otto versi a rima alternata (ABABABAB), seguita da una coda di tre versi collegati alla fronte dallo schema rimico (cBC). Ogni verso presenta solo tre sillabe accentate, tranne il primo della coda che ne contiene uno. Data la complessità della stanza, la sintassi risulta spesso stravolta, vengono utilizzate parole strane e poco adatte, si fa ricorso spesso all’uso di zeppe. 

Tutte queste caratteristiche, in realtà, risultano essere tipiche della poesia anglosassone. Dal punto di vista stilistico, ad esempio, è riscontrabile un chiaro rinvio al BeowulfO. Ma ancora più significativo è, certamente, il fatto che la stanza del Sir Tristrem si configura come una forma ridotta della cosiddetta bob and wheel stanza, la strofa del Sir Gawain and the Green Night, considerato il capolavoro della letteratura arturiana in middle english del XIV secolo21. 

Oltre alla tradizione diretta, nell’Inghilterra medievale sono numerose anche le attestazioni «indirette», che testimoniano la popolarità e diffusione della leggenda tristaniana. Geoffrey Chaucher, per esempio, vi allude nella ballata ironica To Rosemounde, in The Parliament oj Fowls, in The Legend oj Good Women e in The House oj Fame. 

Inoltre è possibile trovare un po’ ovunque in Inghilterra vetrate, arazzi, sculture, miniature, piastrelle decorate, risalenti al Medioevo che rappresentano le scene più famose della leggenda. 

Giacomo Giacomazzi

NOTE 

I «TI existe un grand mythe européen de l’adultère: le Roman de Tristan et Yseut», D. de Rougemont, L’amour et l’Occident, Paris, 1972′, p. 18. 
2 Riassumere esaustivamente e brevemente l’intera storia risulta essere piuttosto problematico, anche in virtù delle numerose varianti della leggenda che sono state tramandate. Per un approfondimento, cfr. A. Punzi, Tristano. Storia di un mito, Roma, 2005. 
3. Gli studi sull’ argomento sono piuttosto numerosi; per una sintesi abbastanza esaustiva, si vedano: J. Chocheyras, Tristan et Yseut: genese d’un mythe littéraire, Paris, 1996; F. Benozzo, Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda, in Francofonia, 33, 1997, pp. 105-130. 
4 Per informazioni più dettagliate su Marie, cfr. C. Rossi, «Marie ki en sun tens pas ne s’oblie». Marie de France: la Storia oltre l’enigma, Roma, 2007. 
5. Marie de France, Lai du Chevrefoil, in Ch. Marchello-Nizia (a cura di), Tristran et Yseut. Les premières versions européennes, Paris, 1995, pp. 213-216: p. 213, v. 5. 
6 Ibid., v. 6: Ci si è chiesti se Marie non alluda al ‘famigerato’ poema archetipo che Jospeh Bédier ha tentato di ricostruire con metodo lachmanniano (cfr. 1. Bédier, Le Roman de Tristran par Thomas: poème du XII siècle, Paris, 1902-1905). 
7 «Pur les paroles remember, I Tristram, ki bien saveir harper, I En aveit fet un nuvel lai. / Asez brefment le numerai: / Gotelef l’apelent Engleis, / Chevrefoille nument Franceis»: Marie de France, op. cit., pp. 215-216, vv. 111-116. 
8. Su questo aspetto della narrazione di Marie de France, cfr. M. Cagnon, «Chievrefueil» and the Ogamic Tradition, in Romania, XCI, 1970, pp. 238-255; M. Demaules, Notice au Lai du Chèvrefeuille, in Ch. Marchello-Ni?-ia, op. cit., pp. 1287-1298. 
9. Per notizie più dettagliate, cfr. I. Short, Notice au Fragment inédit de Carlisle, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1208-1214; Ch. Marchello-Nizia, Notice au Tristan et Yseut par Thomas, in ID., op. cit., pp. 1218-1247. 
10. Allo stesso modo in cui, scegliendo la forma del lai, Marie dimostra invece di volersi collegare idealmente con la tradizione orale celtobretone. 
11. Anche Thomas, cosÌ come Marie, riferisce sia di narrazioni orali di tipo giullaresco, sia di versioni scritte della leggenda tristaniana: «Di’ en ai de plusur gent / asez sai que chescun en dit / e ço que il unt mis en escrit.»: Thomas, Roman de Tristran, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 123-212: p. 184, vv. 2270-2272. 
12 Si tratta forse del «famosus ille Bledhericus» citato da Giraud de Barri (Giraldus Cambrensis) nella Topographia Hibemiae, scritta nel 1194. Oppure potrebbe essere anche quel Bléheri, citato da Wauchier de Denain nella continuazione dell’incompleto Conte du Graal di Chrétien de Troyes, che avrebbe narrato la storia di Tristano e Isotta alla corte di Poitiers (cfr. P. Gallais, Bleheri, la cour de Poitiers et la diffusion des récits arthuriens sur le continent, in Actes du Vile Congrès National de la Société Française de Littérature comparée [Poitiers, 27-29 mai 1965J, Paris, 1967, pp. 47-79). 
13. Si tratta del Lai du Guiron, famoso componimento sul tema del «cuore mangiato», non conservatosi, ma più volte citato nel corso del Medioevo; cfr. Thomas, op. dt., pp. 150-151, vv. 987-1000. 
14 Thomas cita Artù esclusivamente in relazione al suo duello con un gigante, il cui nipote viene a sua volta affrontato e battuto da Tristano, in un episodio che egli stesso dichiara del tutto gratuito nell’economia della narrazione: <<<4 la matire n’ afirt mie, I nequedent boen est quel vos die» (ibid., p. 149, vv. 935-936). 
15. L’origine di questa distinzione all’interno della tradizione tristaniana in «versione comune » e «versione cortese» è dovuta a Joseph Bédier. Quando si allude alla versione comune, ci si riferisce a quelle opere che risulterebbero fedeli alla struttura e al senso del presunto archetipo: Béroul, Eilhart von Oberg, la Folie de Berne. Quando si parla, invece, della versione cortese, si intende il roman di Thomas e le opere ad esso ispirate: Gottfried von Strassburg, la Tristamssaga norrena, la Folie d’Oxjord, il Sir Tristrem. 
16 Cfr. V. Bertolucci Pizzorusso, La retorica nel «Tristano» di Thomas, in Studi Mediolatini e Volgari, 6-7, 1959, pp. 26-61. 
17 Questo aspetto del roman di Thomas costituisce il punto di partenza del mio progetto di ricerca attualmente in corso nell’ambito del dottorato di ricerca in Letterature moderne e Studi filologico-linguistici presso l’Università degli Studi di Palermo. 
18 Per maggiori informazioni a riguardo, cfr. C. Fennell (a cura di), Sir Tristrem, Milano-Trento, 2000; A. Crépin, Notice au Sire Tristrem, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1541-1554. 
19. Già Robert Mannyng of Brune, nella Story oj lnglande (1338), citava il Sir Tristrem come esempio di narrazione storpiata e incomprensibile agli ascoltatori, a causa della pretestuosa arte di «menestrelli vanagloriosi»; cfr. C. Fennell, op. cit., pp. 51-52. 
20 Cfr. C. Fennell, op. cit., p. 42. ” Per un’analisi della bob and wheel stanza e un confronto con quella del Sir Tristrem, cfr. A. Crépin, op. cit., pp. 1545-1548. G. G.

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 16-20.

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