Vengo dal sud, quel mito che abita ere
trapassate e si dissolve nella zona
degli uccelli
nel pendio scorticato dagli artigli
del grifone,
quella strada in salita merlata turrita
vaga di essenze esotiche, di cedri,
sulfuree pietraie
e scende nel mare della mattanza
dove leggiadro veleggia un catamarano
corindone,
e le donne (stordite dal profumo
di tuberose?) si aprono al piacere
forse senza sensi di colpa, degustando
sorbetti
al gelsomino, senza coturni ai piedi.
Corpi che sono labbra spalancate.
Per amare
e mentire, sognare e tradire.
Voci della boucherie, necropoli
macchiata
di fantasmi che il mattino accende
di lucerne
e si perdono nel crocevia che spezza
la speranza, negli ancestrali mal (umori)
tellurici,
nelle confidenze custodite della prima
età e diventano marzapane e malvasìa.
Vengo dal sud, quella sciarada
che traveste
di verità ventri di madreperla, dove
per le coccinelle i pipistrelli sono
angeli
e lo spaventapasseri attira i corvi senza
spaurirli nemmeno.
Quel percorso triangolare dei gufi dove
la gente
viene a deporre lame di coltelli,
a perdere
la testa (almeno una volta)
per somigliare
a se stessi e sceglie la libertà che
non conosce
e crede che le stazioni dei metrò
sono catacombe e l’oceano una latomìa
abissale
che inghiotte il sole, dove la maschera
rugosa
della morte ha il volto di una P-38
carica
di polvere di eroina, dove hai paura
di assopirti
e di svegliarti, mani nelle mani,
nella morte
che passa e ripassa sul corpo disteso
portando
via, poco per volta, la luce dagli occhi.
Un’amàca tramata,
dove allungarsi per addormentare
il dolore
attraversando i secoli, paesi, oscurità
silvestri
cariche di porfido, sfrascando steccati
fra i passi della storia e vetrine ex voto.
Vengo dal sud, la schiena contro
la solitudine,
i colori mescolati ai sapori,
la fronte contro le illusioni (orecchie
di cane che spazzano le pietre),
le pietre
pagine scritte e cancellate con rametti
di mentastro,
l’amante contro il fascino fatale,
l’azzardo e il rimorso bleu cobalto,
i ricordi contro il computer,
vivere come i segreti, sottoterra,
i santi contro l’assenza della vita,
la fedeltà l’enigma, dove le brillanze
di percorsi
labirintici sono nascondigli, cartilagini
di favi d’api e fuga, rifugio del tempo
a venire,
dove il sole ha nostalgia dell’ ombra
e il querceto bagnato tinnisce allibito.
M’aggrappo alla terra che si muove
senza legami
con la terraferma, un ponte verso
lo zenit.
Resto al sud, progetti di futuro: andare
a fragole,
arrivare alla vecchiaia con la faccia
rivolta
all’infanzia, senza memoria, non senza
immaginazione. Incontrarsi vicino
al piccolo
castello di Eloisa, alla Ciambrina,
la minuscola
medina segreta e misteriosa intarsiata
di ciottoli spuntati che schiudono
le porte
all’ utopia evocata dagli artisti,
dove nelle notti di luna, negli intarsi
absidali venati di madore adamantino,
fa capolino
l’anima nuda, l’aurora della vita
e si potrà vedere l’aria e l’erba crescere
e, nel vento che gonfia la camicia
ed accarezza il petto, le ancore levare.
I sogni, nervosi tentacoli barbicati
di gemme ascellari, sono sempre
più importanti di chi li ha generati.
Pino Giacopeli
Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 45-46.
Lascia un commento