Tore Mazzeo,  poeta dialettale trapanese 

Nel novero dei poeti dialettali trapanesi s’innesta Tore Mazzeo, poeta che non fa scalpore, consapevole che la poesia, se è vera, non ha bisogno di altro se non di tempo e di ascolto: l’uno, scavando, lava ed elimina ciò che poesia non è, l’altro l’imprime perché giovi e sia di gradimento a quanti le s’ avvicinano. La poesia di questo autore è un piacere sentirla, perché senza alcuna forzatura parla a chi con un minimo di sensibilità le si dà, facendosi condurre per i sentieri umani, che le sono propri. (Ne diamo una breve mostra qui in calce). 

Tore Mazzeo ha compiuto studi tecnici ed è un commercialista in riposo, eppure è buon conoscitore delle nostre lettere e si è interessato di Giuseppe Marco Calvino, di Bernardo Bonaiuto e di altri autori siciliani a noi più vicini. A parte le opere di narrativa, ha esordito giovanissimo nella poesia, di cui ha curato due edizioni, perché l’autore, attento e suscettibile alle pur minime variazioni di tono, di stile e di una lingua ancestrale ricca di fascino, quale è la parlata di Trapani, trascritta nel rispetto della sua fonetica. Ne risulta che Poesie trapanesi Baddhraronzuli… è opera di una vita, perché continuamente aggiornata nel sentire e negli umori che col passare del tempo cambiano, così come le cose della quotidianità e i luoghi che videro il poeta fanciullo. 

L’ originalità di questa poesia è tutta qui, ed ha fatto bene a patrocinarla l’Associazione per la Tutela delle Tradizioni popolari del Trapanese, presieduta da Salvatore Valenti. Essa è un bagaglio di vita e di cultura dei nostri padri sottratto all’oblio, con l’auspicio che sia letto e conosciuto dai giovani, perché niente passi inosservato, consapevoli che non si può comprendere la grande storia senza conoscere la minuscola, quotidiana, eppure ricca di sapienza e umana. 

L’opera, divisa in sei capituli (Amuri, Acquareddhri, Duluri, Gastrunumia, Travagghiu, Scherzu e Irunia), riprende uomini e cose nella loro quotidianità, senza cadere nella banalità, e li fissa, anche con lievi tocchi e linguaggio di tutti i giorni, in quadri di vita vivaci e familiari. Si legga Didascalia r’un cinema mutu o ‘U cori è picciottu. In entrambi i componimenti è l’amore al centro del discorso; nel primo colto come scoperta nell’età bambina, a cui s’accede a piccoli passi, a mo’ di rito, l’ altro come sentimento semprevivo e palpitante, che, al pari della poesia, non risente dell’ età ed è capace di far compiere la qualunque, pur di esserne fedeli servi tori. 

Nel secondo capitolo il poeta si fa pittore di pennellate leggere, ricche di colori della propria terra, come in Tramuntu (U russu cari / Pitta lu mari / L’acqua lu lava. Rresta ‘na vava / Lèggia di rosa / Chi s’arriposa / Tra cielu e mari. // Poi ‘nfunnu cari.) o in Virginali, ove il mare e il cielo di Trapani creano un’atmosfera di sogno che fa accettare, pur con le sue amarezze, la vita e la fa amare. 

In Duluri predominano la sofferenza e il dolore propri della condizione umana (Turmentu), o quello provocato dalle ingiustizie e dalle guerre che martoriano e distruggono. Così è in Tri jorna dopu, dove il poeta riferisce dei bombardamenti americani a Trapani con la distruzione di interi quartieri, come quello di San Pietro. Ma il componimento che più tocca la sensibilità del lettore è dato dalle tre quarti ne che riprendono una povera mendicante (Puvireddhra), seduta sui gradini di una chiesa, costretta a stendere la mano per fame. Il poeta ne disegna la figura con un bimbo in braccia ravvolta in uno scialle, da cui fuoriesce solo un volto macilento che guarda a terra e una mano tremolante. (L’occhi calati ‘nterra sta figura / Viri sulu ‘i scarpi ri li genti / Mentri o’ so pettu stringi ‘na creatura / Chi di sucari mancu si la senti). Sembra vederla questa poveretta e muove ancora a pietà, perché la piaga della miseria è più che mai aperta. 

Sono oggetto di poesia anche i piatti tipici del trapanese (Gastrunumia), quasi che il poeta li voglia preservare dal logorio del tempo e dalla modernità, che tutto avvolge e cancella, e in Travagghiu, i lavori tradizionali messi in crisi dall’avvento delle macchine. Il calzolaio, lo stagnino, il vignaiuolo, il tonnaroto, il pittore decoratore, sono disegnati nell’ atteggiamento usuale, contornati spesso da una fine ironia che evidenzia il disagio di chi ha difficoltà a riconoscersi col mutare dei tempi e delle mode, come è per ‘u scarparu, costretto a ridimensionare bottega e lavoro, riparando scarpe, lui che le scarpe faceva con tanta maestria, e non accetta lo stato in cui è caduto, preferisce abbandonare tutto, dopo aver fatto per sé un paio di scarpe (Mi li mittiti quannu vaju via: l’Un cci fu nuddhu chi mi fici ‘i scarpi), perché in vita nessuno poté fargliele. 

Nell’ultimo capitolo (Scherzu e irunia), tra il bonario e il faceto, il poeta mette in caricatura con straordinaria capacità persone e ambienti della sua terra, come è in A sciuta p u passiu, in cui fa rivivere la passeggiata di due fidanzati, accompagnati a vista dalla mamma di lei, pronta a richiamarli, se si fossero dati a effusioni non consentite, anche se poi provava gusto a vederli innamorati, tanto che alla fine li invita al bacio. Era una consuetudine e guai a non rispettarla, se si voleva finire sulla bocca di tutti. E c’è anche l’arrivista (Panza parata), pieno di boria e ignorante, un tipo che non attiene solo alla Sicilia, ma troviamo ovunque, eppure urta la suscettibilità degli onesti che si vedono spesso scalzati da uno così tronfio e arrogante. 

Anche qui non manca il riferimento alla tradizione, e mi riferisco alle ricette che Mazzeo ripropone, quasi a voler preservare la buona sana cucina dei padri. C’è qui l’attaccamento alla sua terra, e forte è in lui il richiamo della memoria che lo proietta nel passato, presentando come vive persone e cose che ormai non sono più. Sarebbe tempo della nostalgia, che qua e là riaffiora, se il poeta non fosse consapevole dell’ineluttabilità di ciò che appartiene agli umani. 

Poesie trapanesi (Baddhraronzuli) è un’ opera, interessante per l’uso del dialetto, sempre fluido, puntuale e genuino, come è il parlare del popolo, ed efficace, pronto a tradurre lo stato d’animo dell’autore che lancia questi innocui baddhraronzuli (il termine sta a significare i pallini di diversa dimensione, costituiti di un misto d’alghe e sabbia, lasciati dalle onde sul bagnasciuga per dire che bisogna essere operosi, a contatto con gli altri, propensi allo scherzo, ma con garbo, per non urtare la suscettibilità altrui, immergendoci in un mondo ormai lontano, eppure ricco di richiami e di nobile sentire. 

Salvo Marotta

da “Spiragli”, 2009, Profili 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 47-49.

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