Luigi Russo sosteneva che per conoscere un autore bisogna studiarne a fondo tutte le opere e non soltanto quelle esteticamente più valide o considerate emergenti. Il libro esprime l’animo e il pensiero dell’autore in un dato momento storico e psicologico, e, poiché intenzioni e reazioni sono sempre mutevoli, le singole opere non costituiscono alla fine che le facce di un prisma. L’unità, ovvero la personalità, l’universo e il messaggio dell’autore, va dunque ricercata nel “prisma”. È, cioè, l’insieme che definisce e identifica l’artista: se vogliamo davvero comprendere, ad esempio, il Manzoni, dobbiamo conoscere anche la Storia della colonna infame, il Discorso sul romanzo storico, e via dicendo.
Romano Cammarata ha pubblicato a tutt’oggi due opere narrative e una raccolta di versi, che confesso di conoscere per estratti. Tuttavia ritengo già possibile individuare nelle sue pagine le coordinate di certe costanti interiori, un mondo.
Si dirà: ma che cosa apparenta un diario come Dal buio della notte, che fu l’opera felicissima dell’esordio, con il romanzo Violenza, oh cara, che è del 1986? Apparentemente nulla. Il primo era la nuda e struggente cronaca d’un calvario ai margini della morte, il secondo è la fiction di una vita tranquilla che a un certo punto s’inceppa per dipanarsi poi, nuovamente, verso la normalità e il lieto fine. Eppure, il rapporto c’è: solo che nel primo libro traspare in filigrana e per antitesi (così come, per fare un esempio altissimo, nel pessimismo leopardiano è sotteso tutto l’incanto e l’ardore della giovinezza negata al destino); nel secondo l’identificazione interiore viene esplicitamente alla luce, perché l’autore agisce nella dimensione consueta dell’esistenza. Un’esistenza ovviamente avvertita, non più come un’eco remota, nella chiusa visione di chi dispera, ma come naturale sensazione di essere e di sentire, di poter formulare progetti, e magari soffrire, ma nella speranza. In questo senso, Violenza, oh cara può considerarsi, dunque, come ripresa e sviluppo d’una dinamica interiore dissepolta: una resurrezione in cui l’uomo, uscito dal pelago alla riva, apprezza il dono della vita, difende la propria dignità, solidarizza e cerca di ricostruirsi un destino. Del resto, non mancano altri punti di contatto tra i due romanzi. La comprensione e la pietà che affratellano l’autore ai malati dell’ospedale e che potevano apparire indotte dalla circostanza di trovarsi tutti nell’inferno del cancro, rivivono come essenze proprie dell’animo di Cammarata anche nel secondo libro.
L’assurdo kafkiano che in Dal buio della notte piombava come un fulmine su una giovane esistenza, sradicandola senza ragione plausibile, torna in Violenza, oh cara sotto forma di una incredibile imputazione penale che infrange la continuità di una vita. Il resistere, con le armi del bisturi e della disperazione, alla violenza della malattia si fa rivolta della dignità contro la violenza del sistema giudiziario nell’opera più recente. Persino certe “ironie” si ripetono: dal tu degli infermieri all’epoca della malattia al tu dei secondini di adesso; dal pigiama dell’infermo alla casacca del detenuto; dall’isolamento dell’ospedale alla segregazione del carcere; dall’annientamento “biologico” dell’uomo a quello fisico e morale della prigionia.
L’avvio del romanzo è perfetto, con quell’amarezza mitigata dal buon senso degli anni e quella discrezione che sarà d’ora in poi quasi il contrassegno dell’opera. L’inizio ricorda un po’ il film di De Sica “Umberto D. “: resistenza sbiadita del pensionato, la ripetitività dei giorni e dei gesti, la compagnia affettuosa di una cagnetta. Poi l’assurdo. Agostino Bertoni viene arrestato per una colpa non sua, inquisito, costretto in prigione. E qui l’autore introduce una sorta di “pirandellismo”, quello, per intenderci, del “Gioco delle parti”, ma non altrettanto freddo, sofisticato e astrattamente loico: il pirandellismo invece di chi soffre ingiustamente e oppone le proprie resistenze e ragioni. L’imputato decide di non difendersi: «Devi essere tu, giudice, a dimostrare la mia “innocenza”, visto che sei stato tu ad addossarmi una colpa».
Questa pretesa, che mette l’inquisitore di fronte alle proprie responsabilità, non è una “trovata”. Agostino si attacca alla “forma” in nome della coerenza e della dignità offesa. E non collabora: perché la vita dev’essere in ogni istante autentica, vissuta nella verità, sottratta al sopruso e ad ogni tipo di compromesso. Questa consapevolezza spinge Agostino verso il giovane compagno di prigionia, Carlo, sbandata e insicura vittima dei tempi, e lo restituisce alla società e a se stesso, attraverso un’amicizia densa di comprensione. La violenza – egli dice – è nella natura, il mondo è perfido, ma l’uomo è un essere razionale e deve vivere, non soccombere agli istinti distruttivi. Anche la giustizia deve rientrare nell’alveo. Accanto, infatti, alla violenza inconsapevole esercitata dai genitori, a quella degli insegnanti, a quella della natura e del “destino”, c’è la violenza delle istituzioni e di quanti, come giudici, credendosi nel giusto, ligi al proprio dovere, cedono alla “sonnolenza della deformazione professionale e morale”, generando violenza. Invece, perché sia degna di se stessa e dei propri compiti, la Giustizia deve rispettare e comprendere, non soltanto inquisire.
Violenza, oh cara diviene così un messaggio di liberazione, un invito a valorizzare i diritti civili e naturali dell’uomo al di fuori degli schemi imposti dall’alto e vissuti ipocritamente o in maniera distorta; una parabola della vita come intesa fra gli uomini, rapporto generazionale e fiducia. A quest’etica si ispirano le vicende narrate da Cammarata. È stato detto al riguardo che nel libro tutto è un po’ troppo facile, che psicologie e fatti, ambienti e conclusioni non sono come nella vita, ma come li vuole l’autore. Ciò è vero, ma solo se il romanzo si legge come una narrazione realistica. Violenza, oh cara è invece “apparentemente” reale, in effetti ha la corrività di un sogno, un sogno che proviene dall’intimo ed è proiezione e auspicio di una esistenza migliore, più soddisfacente. Quei detenuti tutt’altro che duri sono tali, non soltanto perché Cammarata – come già Don Lisander, se ci si consente il rinvio – non sa creare personaggi malvagi, ma perché i malvagi non rientrano nel messaggio o miraggio che il suo inconscio propone. Allo stesso modo, quel credere nella facoltà persuasiva delle parole o di certi atteggiamenti, o nell’eventualità che un giudice si tormenti davvero, pirandellianamente, intorno a un problema di coscienza, ovvero che una donna bella ed onesta e per di più giovane, desiderata con frenesia adolescenziale, corra fra le braccia di un uomo alle soglie della senilità e consenta beata di vivere con lui per tutti gli anni avvenire, sono quello che !’inconscio individuale e collettivo magari si attende, ma senza sperarci. Opera dunque di poesia, questo Violenza, oh cara, ma romantica e lievitata da un ottimismo di fondo che è una forza, come la fede, per chi ce l’ha.
Prima di concludere, vorrei aggiungere una nota a proposito del rapporto Agostino-Sofia. Ma occorre qui un’acuta osservazione fatta da D. H. Lawrence nel primo capitolo dei suoi “Classici Americani”. L’artista, dice Lawrence, è un gran bugiardo, ma la sua arte vi dirà sempre la verità. Egli, di solito, decide di orientarsi verso una morale e di farne un racconto che, regolarmente, però, finisce per orientarsi verso tutt’altra morale: « Un po’ come Dostoiewskij, che si atteggia a Gesù e si rivela un piccolo mostro». In Violenza, oh cara, a dispetto della morale e di tutta l’etica di fondo, spunta un germoglio assolutamente inatteso: la sensualità dell’autore.
Agostino, che già prima ha indugiato sul .ricordo delle sue consuetudini erotiche con Carmela, desidera Sofia. 11 che sarebbe normale, se sottinteso, considerata la sua buona fede nel voler fare del bene alla donna e alla sua bambina, accogliendole in casa. Ma Agostino desidera avidamente Sofia, e la descrizione delle attese, occhiate, fantasie, come dell’affinarsi delle sue arti che spiano e tendono agguati per far cadere la donna (la quale sintomaticamente cederà d’impulso proprio), occupa un capitolo a sé, rivelando la voluttuosa attenzione dell’autore all’argomento, l’erompere d’una consumata frenesia sensuale.
In ogni caso non è Sofia il personaggio emblematico del libro, ma Carmela, la donna delle pulizie, « mezza campagnola e mezza cittadina “. Carmela è una creatura viva e una delle più vere di Cammarata. Essa si dà ad Agostino con una dedizione così spontanea da non sfiorare i margini del peccato; vive affettuosa nella penombra e veglia, amante e madre come la grande terra che accoglie nel suo amplesso il seme e il riposo degli uomini. Anche lei, naturalmente, ha i suoi problemi, ma è d’un candore che semplifica tutto con assennatezza; conosce i limiti della propria condizione e sa uscire di scena quando gli eventi prendono una certa piega. Un po’ Diodata e forse un po’ Molly Bloom, è l’anima speculare del libro, il senso di una poetica liberale che ha il coraggio, in tempi così sofisticati, di essere anche semplice.
Ugo Morale
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 69-72.
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