Per dare colore al tempo 

 Ho conosciuto stasera il vuoto che invade le cose, il gesto che fruga i profili dell’ombra, ed insegue un nome smarrito nella memoria. 

Per questi versi ho conosciuto gli arpeggi delle dita che salgono lungo il fumo della nebbia e lo modellano in fianchi e volti, subito prossimi a disfarsi sotto la pur lieve carezza. 

Per questi versi mi sono fermato inquieto sul punto dove il tempo si rovescia e si insegue, sulla soglia esangue che divide il giorno dal giorno e lo ripete, nell’ora ferma in cui 


pendolo triste 
ancora si muove 
il vuoto trapezio. 


E il suo andare, ondeggiando per sempre, scolorisce ogni volta una speranza. 
Ho cercato – lo dico – nella trama dei versi il suono che vibra forte e canta a note piene i sensi e l’amore e richiede l’applauso. 
Ho trovato l’accordo sommesso che parla da amico, 


Parole povere 
sparse da mano distratta 
che dopo il largo gesto 
cade inerte sul fianco. 


E a poco a poco ho sentito il ritrarsi dentro l’anima, il deserto dei colloqui smorzati. Ho ritrovato le attese interrotte, gli slanci fermati dall’indifferenza, gli abbracci senza risposta. 


Dalla finestra che si apre 
tendo le mani…  

Ma la folla ignara occupa le strade e le ingolfa, s’interseca ad ogni incrocio, riprende ottusa la sua corsa. 
Qui non c’è chi racconti le sillabe che insinuano nella mente un trepido invito all’amore, non c’è chi ascolti la voce che misura la solitudine, povera eredità dell’uomo: 


niente 
è rimasto tra le mie braccia. 


E sull’anima la vita è passata senza un segno, come l’onda 


che non serba ricordi 
che scivola sul viscido scoglio. 


Questo canto ha saggiato le parole che legano gli uomini e le ha trovate senza suono. In esse ha scoperto l’arida struttura che si interpone tra il cuore e la voce e crea la regola che dà precaria consistenza ai rapporti tra gli uomini, li spartisce nei ruoli, li consuma nei riti: ma questi si sciolgono al tramonto, per lasciare ciascuno provvisorio com’era, con il peso del vuoto sopra il petto.  

E’ così: nessun altro gesto che è iscritto nel giorno dura quanto il tocco leggero che sfiora la fronte segnandola con il suo calore, né si prolunga, se non si strugge nelle 


notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai 
canti lenti degli uomini che nell’abbraccio del 
buio perdevano la potenza, preda dei soli 
sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a 
rincorrere sogni. 

Questo canto ha la musica scabra del lamento sull’uomo dilapidato, seme gettato a mani prodighe in cento solchi e senza frutti, sull’uomo stordito ai crocicchi, dove la luce opulenta cancella le memorie. 
Erano giorni veri, cresciuti dove gli alberi mantengono le foglie anche d’inverno, quelli che insegnarono 


a respirare la vita goccia a goccia 
l’amore a spartire con l’odio 
che è amore di sensi oppressi. 


Qui torna la mente, appena la sera si disfa. È vero 

I ricordi 
come uccelli migratori 
tornano sempre all’origine. 


Anch’io ho smarrito oltre il mare la strada che porta alla patria, dove l’inverno ha la forza del vento di bora che fa lucide le file di scogli che ritagliano l’orizzonte. È anch’essa 


isola 
circondata d’ignoto. 

 

Assediata dal tempo mostra di lontano solo la punta bianca del campanile 
Questa musica ha il suono lento di un canto di luoghi lontani, che si inerpica per l’anima e la scuote senza occasione. 
Dice le sere sulla panca a fianco il focolare e i vecchi che sapevano i proverbi, 
e il vino caldo, dolce come i pomi vizzi, ancora rossi presso il balcone. 
Dice il caldo grande della valle 

dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero 
delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi 
scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, 
i calcificati sacrari della fatica umana, nella 
dura scoperta di una terra avara. 

E ancora, se ti fermi un istante, lì, presso il muro a secco, dove ora si ammucchia la rovina, sorridendo – non a te, non a me – ad altro sguardo, muove il capo la fanciulla e sulle spalle le scendono i capelli. 

Ho approdato anch’io alla tua isola, Romano. Ho sentito anch’io la tristezza dolce dei 

suoni che sono lamenti 
lamenti che sono canti 


che accompagnano i carri che vanno in fila argentata per la strada 


fiancheggiata dai pioppi 
– dita 
che contano ottuse 
i giorni – 
e si perdono, svanendo, 
lungo il pendio del monte 
entro le case antiche. 

In questa isola qualcuno ha già tolto la chitarra appesa al chiodo e le strappa empirie di suoni. A lui la vita non ha bruciato il coraggio di sperare, egli ha ancora il domani nel cuore perché sa dare una carezza per solo amore. 

Sono i ragazzi che fanno vive le scuole dei paesi, e intrecciano voli nelle piazze con i motorini e le borse dipinte, sulla schiena. 
Ora anch’essi 

percorrono sentieri imprevedibili, che sono quelli 
del gelsomino, deifichi d’india e dei fiori lilla dei 
capperi, che tutti portano alle case antiche, 
lungo i -pendii dei monti. 

Flavio Quarantotto

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 53-57

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