Un premio Scala per la narrativa, un premio Calliope per la poesia, ambiti riconoscimenti per la pittura e la fotografia, una intensa collaborazione a riviste e periodici, fanno di Romano Cammarata un protagonista del mondo artistico e culturale italiano.
Un fatto per molti aspetti eccezionale, se si pensa che Romano Cammarata è anche un alto ed efficiente Dirigente dello Stato, il supremo moderatore, presso il Ministero della P.I., della Direz. Gen.le classica, scientifica e magistrale: un settore particolarmente rilevante della cultura e della scuola del nostro Paese.
Il rapporto fra illetterato, l’artista, il pubblicista, da una parte, e il ruolo estremamente impegnativo del Dirigente, dall’altra, lungi dal far registrare, come pur si potrebbe essere indotti ad opinare, iati e dicotomie, è invece perfetto, incredibilmente armonico e come tale produttivo di risultati non comuni che rappresentano – ed è questo l’aspetto che più vorrei sottolineare – un fatto nuovo nella storia della P. I. che è oggetto di particolare interesse dentro e fuori le mura della nostra “Minerva”. I due momenti, meglio le due dimensioni dell’uomo, fanno registrare esemplari connotati della stessa spiccata personalità che si illuminano e si integrano a vicenda.
Ma non basta: l’avvertito bisogno di evadere dal chiuso del Ministero di Viale Trastevere, per raggiungere le varie regioni d’Italia, allo scopo di potere ascoltare, in maniera non mediata, la voce degli operatori della scuola, dei presidi, dei docenti, degli stessi studenti talvolta, per sentire il polso, per percepire le pulsioni di una istituzione (che spesso solo la dedizione e la passione dei suoi protagonisti salva dalle secche), l’esigenza di volersi rendere conto de visu di Situazioni spesso diversificate, questo bisogno di scendere in campo per conversare con animo sincero, scevro da pregiudizi e da stereotipati “tòpoi”, la piena disponibilità a recepire istanze da parte della scuola militante e a intrecciare con essa, anche in sede epistolare, scambi di vedute, fanno di R. Cammarata un Dirigente di tipo nuovo, una specie di magistratus novus atque mirificus, proprio perché singularis. Un ruolo certamente non facile, soprattutto in un momento di incertezze, di stasi, di lunghe e snervanti attese che contrassegna il mondo della scuola, a dispetto della conclamata volontà politica di riforme radicali o parziali, ma un modo di assolvere responsabilmente ad una funzione quant’altro mai complessa e delicata, spinto dalla forza impellente di un imperativo categorico, volto ad esorcizzare l’immagine di una Amministrazione centrale ferma, bloccata, passiva, mummificata, quasi, da un immobilismo di cui non è certamente responsabile e che essa vive con fastidio, con legittima insofferenza, sentendosi il tenninale di tensioni e di scontenti, che salgono dal mondo vivo della società e della scuola.
E quel che sorprende in questi contatti con R. Cammarata è l’atteggiamento di ascolto rispettoso, paziente, inteso ad offrire la sua proposta che, si badi, non è mai impositiva, ma di dialogo: testimonianza di questo suo modo di essere, la recente lettera ai presidi e ai docenti interessati sull’insegnamento delle discipline classiche.
Io debbo confessare che, nella mia ormai lunga milizia di ispettore centrale, non ricordo Direttori Generali che, in occasione di Convegni culturali o di Seminari di aggiornamento, abbiano partecipato con più vivo interesse di lui, vivendo le varie problematiche anche con una costante presenza fisica per tutto l’arco dei lavori, tirando alla fine le fila di lunghi e spesso divaricanti dibattiti, con competenza, con estremo equilibrio, con indiscussa sagacia.
Questa figura di Direttore Generale, per così dire “itinerante” e per molti aspetti davvero “inedita”, risponde, oltre che ad un’ottica moderna del ruolo direttivo, ad un intimo bisogno dello spirito, portato non ad esaurirsi in comode crociere attorno al proprio ufficio o attorno alla propria scrivania, ma a dialogare, a conversare, a cogliere l’ansia dell’inter1ocutore ed insieme a dar voce al proprio “io”, sensibilissimo ai richiami del mondo circostante. Questo modo di vivere la sua alta funzione non è perciò un fatto formale, esteriore, finalizzato a certo esibizionismo di gusto scenico: è una viva, profonda esigenza del suo spirito che, se non realizzata, lo farebbe sentire, se non un frustrato, certamente un dimidiatus!
E la stessa esigenza è alla base della sua attività di narratore e di poeta. Senza entrare in questo specifico campo, io vorrei soltanto sottolineare come il narrare, il poetare, rispondano ad una precisa tipologia umana, portata alla ricerca di uno strumento particolare per esprimere meglio, in maniera più compiuta, immediata ed incisiva, inquietudini, speranze e – perché no – un gran bisogno di certezze, in un’ottica che, nella sua sostanziale laicità, converge naturaliter verso le vette di un Cristianesimo avvertito non come qualcosa di estrinseco, di rituale, di moralistico, ma come una realtà di liberazione, di alleanze, di comprensione, di comunione, di amicizia!
Narrare, perciò, e poetare per dare voce al proprio “io’, per dare un senso, un colore alla vita: e la partecipazione è alta ed intensa, coinvolgente tutta l’esistenza, come quella che è intesa a riscoprire l’interiorità, non come fuga, bensì come luogo in cui contemplare e collegare insieme le due dimensioni di cui è intessuta la nostra vicenda storica: l’uomo e il mondo.
Chi come me, a parte la pagina scritta, a tutti accessibile, ha il privilegio di una continua frequentazione dell’Uomo, avverte che l’opera di Romano Cammarata, narratore e poeta, è lievitata, da quello stesso leit-motiv che pervade le più belle pagine delle “Meditazioni” di un Marco Aurelio, nelle quali tutto ruota intorno ad un aetemum intemum che è il motore di una continua rigenerazione, di un vero e proprio rinascere, che l’Imperatore-filosofo esprime con un verbo greco di particolare efficacia “ava~l(òvat” (VII, 2).
Un colloquio, dunque, quello del nostro Autore, con se stesso, vissuto come mezzo per la ricerca di una perfezione più alta, un colloquio che, lungi dall’essere, come dicevo isolamento dal mondo, si appalesa come lo strumento in virtù del quale l’uomo-cittadino collauda la virtus e, una volta fortificato, intende, senza iattanza, adoperarla per l’umanità, in un generoso ed operante ottimismo: una connotazione precisa della sua Weltanschauung che non mi pare lo collochi, come pure da qualcuno è stato detto, nella scia del suo illustre conterraneo: Luigi Pirandello.
A me sembra che l’analogia col grande agrigentino può essere data solo dal fatto che entrambi, figli di una terra che fu teatro fra i più interessanti della grande civiltà mediterranea, e centro di commercio spirituale fra i popoli, hanno saputo fare, talvolta, di certa “sicilianità” una chiave di interpretazione dell’universo umano.
Un viaggio, come dunque si vede, nel gran mare dell’essere quello del nostro Cammarata, il quale, nonostante il buio della notte, nonostante gli imperversanti marosi e lo sferzare dei venti di tramontana, non smarrisce la bussola, riuscendo sempre ad ancorare la sua navicella a quei lidi, prima intravisti e poi fermamente tenuti, che sono i fascinosi approdi illuminati dalla superiore luce del giusto, dell’onesto, della libertà, dell’umana dignità.
Di qui la presenza di un’etica civile e sociale profonda, saldamente radicata nell’uomo e nello scrittore: ed io mi chiedo, in proposito, se il dramma di un Agostino Bertoni, il protagonista di “Violenza oh cara” non sia un grido in faccia a certa società di oggi, – fonte spesso di violenza occulta o palese – proprio nel segno della libertà e della dignità dell’uomo e del cittadino, in nome di quella solidarietà, pronta ad essere da più parti sbandierata, ma altrettanto farisaicamente disattesa e tradita!
Di qui il bisogno di rifondare, da parte del nostro Autore, la sua fiducia nell’uomo, di qui il suo patto con l’esistenza, proprio a dispetto di quella violenza che, più di quanto non appaia, costituisce quasi sempre il tessuto connettivo della storia e contro la quale è possibile lottare con successo se ognuno di noi sa portare alla ribalta del vivere quotidiano con costanza, con coerenza, senza tentennamenti, le innate e latenti capacità reattive: una lezione, perciò, in sostanza, un vero e proprio messaggio a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni.
Ora se questo è il senso della pagina di Romano Cammarata, si comprende benissimo come il colloquio con se stesso, su cui ho ritenuto di dover mettere l’accento, scaturisca dalla convinzione che solo nell’interno, in interiore homine, per usare l’espressione di Agostino, è la sorgente più vera e più pura, che può riprendere e zampillare purché l’uomo la cerchi e la scavi. E come diceva il vecchio filosofo Epitteto, solo che tu lo voglia, troverai sempre un’ora di calma per farlo! E non è fuor di luogo richiamare in proposito anche una pagina delle ”Tusculane”, in cui Cicerone afferma che la massima forza morale è data dal colloquio che si svolge nell’interno del nostro cuore. Proprio da questo continuo ascolto vien fuori quel larghissimo senso dell’umano, fatto di misura e di signorile compostezza, che contrassegna Romano Cammarata come uomo e come dirigente: è il frutto, molto raro nella nostra convulsa e spesso alienante società, di una humanitas saggiamente dosata fra “‘3″toç ‘tCOPl1’tlKOç” e “pioç 1tpUK’ttKOç” e che lo autorizza, riecheggiando Menandro, a ripetere col poeta latino: Homo sum, nihil humani a me alienum puto.
Amante della riservatezza e della modestia, cultore dell’amicizia, espressione di una cultura per nulla aduggiata da conformismo o inquinata da estremismi ideologici, Romano Cammarata, quale Direttore Generale dell’istruz. classica scientifica e magistrale è un sicuro punto di riferimento per equilibrio e senso di responsabilità, sempre pronto a convogliare, sulla giusta rotta, ottiche non sempre ortodosse, come quando, ad esempio, invita a riflettere su certe strumentalizzazioni o pretestuose discussioni (valga per tutti la presunta antinomia fra le due culture), non esitando ad evidenziare i rischi di un sapere scientifico troppo spesso presentato come alternativo a quello umanistico.
Ma qui si è voluto dare solo un limitato specimen di quella prudentia, nella più pregnante accezione latina, di cui l’uomo è depositario ed insieme generoso dispensatore.
Giovanni Vanella
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 59-62.
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