L’Umanesimo siciliano 

Nella vita sociale e nella cultura siciliana il passaggio dal Regno al Viceregno non fu senza ripercussioni negative. Innanzitutto fu negativo il fatto che era venuta meno la Corte, da sempre centro di irradiazione culturale: e se già nel primo Quattrocento l’Umanesimo peninsulare poteva dirsi affermato, non così fu nell’Isola, perché esso ricevette decisivo impulso solo con la salita al trono di Napoli di Alfonso V nel 1442. 

Le vicissitudini politiche e le difficoltà economico-sociali dovute alle guerre e alle varie calamità, il sorgere di nuove professioni, avevano attutito l’interesse verso gli antichi, ma non l’avevano spento del tutto. Se sotto la dominazione araba la Sicilia aveva favorito lo scambio tra culture diverse e aveva fatto parlare di un suo protoumanesimo fin dal tempo dei Normanni, e se il fervido studio, la ricerca e la conoscenza dei classici, le traduzioni dal greco in latino, o dall’arabo in latino, furono continuati dagli Svevi, ora, ravvivati dal mecenatismo di Alfonso il Magnanimo, lo studio e l’amore per i classici si tradussero come in un modello di vita a cui guardare, la molla da cui sarebbe partita la spinta della conoscenza dei moderni. 

Negli uomini più geniali gli studi umanistici non costituirono un mondo a sé, non furono solo imitazione, ma un momento di riflessione, di pensosità, come quella che traspare dai volti di Antonello da Messina, che sembra voler penetrare la problematicità della vita. 

Ma il fatto che la Sicilia era priva della Corte e la cultura monopolio delle città (Messina prima di tutte, e poi Palermo, Catania e le altre minori) fece sì che gli interessi venissero convogliati nel versante giuridico-scientifico, cioè, verso studi che avessero una maggiore attinenza con la vita pratica, in modo da soddisfare le esigenze dei signori e delle nuove classi sociali emergenti, quelle dei borghesi e dei professionisti. 

L’università di Catania, istituita da Alfonso nel 1444 fu elargitrice di sapere scientifico e giuridico, ma non di quello umanistico. I letterati, per approfondire i loro studi e divulgare le loro opere, furono costretti ad andare fuori dalla Sicilia. Poi, magari, alcuni ritornavano, come Caio Caloria Ponzio o Giovanni Marrasio, ma molti andavano per non tornare più. Questo costituì un motivo di impoverimento della cultura siciliana che vedeva rimpicciolita la schiera dei suoi letterati, ma fu anche un modo per tenersi collegata all’Italia e all’Europa, come dimostrano i carteggi tra letterati siciliani e uomini di cultura del Continente. 

Le città siciliane, economicamente e socialmente più avanzate detenevano – dicevamo – il monopolio della cultura e se ne servivano a tutto vantaggio dei loro interessi. Essendo molto vivo il campanilismo tra esse, si voleva offrire un’immagine di sé il più possibile evoluta e aperta a tutte le istanze. Questo fece si che esse agevolassero gli studenti, dando ai più promettenti borse di studio per consentire loro la frequenza delle università in altre città italiane. Questi investimenti nella cultura si traducevano nella possibilità di avere nel giro di pochi anni uomini preparati e abili anche nell’amministrare le loro città, come fu per Antonio Cassarino o per Giovanni Naso da Corleone, i quali ricoprirono la carica di segretari comunali a Palermo. 

I letterati siciliani che operarono in Sicilia dovettero sostanzialmente fare i conti con la realtà cittadina. Per fare un nome, citiamo Giovanni Marrasio di Noto, nei cui scritti (quelli degli ultimi anni) è evidente il lavorio esistenziale della società siciliana. Non così fu per gli altri che, pur mantenendo sempre i contatti con la Sicilia, rimasero fuori. Sicché il loro classicismo è impregnato di una visione elegiaca della vita verso cui furono proiettati. Antonio Beccadelli il Panormita o Giovanni Aurispa, furono instancabili propagatori di studi classici.; ad Aurispa dobbiamo la conoscenza di gran parte degli autori greci per averne portati i codici da Costantinopoli. 

L’amore per gli antichi fu molto vivo in Sicilia. La mentalità dell’uomo nuovo era già aperta ad altre strade ed era sentita la necessità di adeguarvisi. Dovunque sorsero scuole che ebbero maestri insigni e scolari altrettanto validi da succedere ai loro maestri nell’insegnamento o a portare fuori dell’Isola la loro dottrina. Alcuni ebbero onori e riconoscimenti tali da divenire confidenti di re (il Panormita nella corte di Alfonso e di Ferdinando a Napoli, o Aurispa, che fu segretario dell’imperatore Giovanni Paleologo di Costantinopoli, e lo stesso Pietro Ransano); altri tennero le cattedre dei maggiori atenei del tempo (Filippo Barberis, che ebbe interessi un po’ in tutte le discipline umanistiche, Antonio Cassarino e Giovanni Naso); altri ancora portarono l’Umanesimo in Europa. È il caso di Lucio Marineo e di Lucio Flaminio, che andarono ad insegnare a Salamanca, di Pietro Ransano, che fu ambasciatore in Francia e in Ungheria, dove rimase diversi anni, di Cataldo Parisio Siculo, che insegnò in Portogallo, di Giovanni Antonio Provina, che andò fino in Irlanda e tanti ancora. 

Abbiamo voluto ricordare alcuni nomi per dare un’idea della vivacità culturale del Quattrocento siciliano, che non sarebbe potuto essere tale, se in Sicilia non ci fossero state quelle premesse indispensabili a favorire gli studi. E, in verità, Messina e Palermo furono due poli di indiscussa cultura; l’una perché fu aperta ai commerci e per essi fu luogo di incontri e di scambi editoriali, l’altra perché non solo era la sede vicereale e, quindi, centro di attrattiva politica e di rigurgito di idee, anche perché ebbe vivo quel senso di primato che le derivava dalla memoria della gloria passata, per cui cercò di adeguarsi alle nuove realtà, chiamando a sé uomini di provata cultura, come Giovanni Naso, fatto venire dallo studio di Napoli con la promessa di un lauto stipendio. 

Non meno contavano nel panorama culturale siciliano gli altri centri minori, che vantavano nomi di tutto rispetto: da Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che vide in opera Tommaso Ciaula, a Marsala, che fu sede prestigiosa di studi umanistici (Schifaldo, Capozio e, più tardi, Colocasio). Da Trapani a Mazara del Vallo, da Agrigento ad Alcamo, un po’ dovunque, si studiò greco e latino, si emularono gli antichi e si scrisse nella loro lingua, trascurando la propria, che nel secolo precedente aveva raggiunto nella prosa una dignità letteraria invidiabile. 

Il volgare siciliano venne così accantonato, a tutto vantaggio del toscano emergente; esso fu usato sia in prosa che in poesia per soddisfare solo l’esigenza della cultura di interesse popolare, specialmente quella religiosa, ma non fu più curato come nel passato e perse a poco a poco in dignità. Anche perché l’influsso del toscano, con l’introduzione della stampa, cominciò ad essere più insistente, e gli uomini del tempo non si resero consapevolmente conto di quanto stesse avvenendo a scapito della loro lingua. 

Tirando le conclusioni, in Sicilia nel Quattrocento ci furono un’attività culturale e una ripresa degli studi che la fecero uscire dall’ambiente angusto regionale e le aprirono la prospettiva di maggiori contatti con la terraferma che, se da un lato le costò la perdita del primato in campo linguistico, dall’altro le consenti un maggiore utilizzo delle proprie energie intellettuali che in termini culturali si tradusse nel dare un’immagine diversa di sé e nel sapersi imporre con uomini preparati in ogni campo dello scibile, i quali occuparono in Italia e in Europa cattedre e cariche prestigiosissime. 

Ne risulta così un quadro variegato, ricco di stimoli, contrariamente a quanto si possa pensare di una Sicilia relegata entro angusti limiti culturali e chiusa dai suoi mari. Era il vento della nuova età che anche in quest’estremo lembo dell’Occidente, crocevia di incontri e di scontri con l’Oriente, portava la brezza di un rinnovamento radicale che investiva tutti e tutto nel segno di una fiducia incondizionata nell’uomo e nelle sue scoperte che di lì a poco dovevano rivoluzionare per sempre il vecchio mondo. 

*** 

Da alcuni nomi che già abbiamo menzionato risulta chiaro che la Sicilia partecipò con una presenza abbastanza massiccia all’Umanesimo italiano ed europeo, contribuendo in larga misura alla diffusione e alla conoscenza della cultura classica. 

Operando in Italia e in Europa, gli Umanisti siciliani, facendo propri i temi ricorrenti, scrissero le loro opere in latino, indirizzandole alle persone colte. Quelli che, invece, restarono in patria, dovettero adeguarsi alla realtà siciliana, dove operavano anche sporadiche figure di mecenati, come Guglielmo Raimondo e Giovanni Tommaso, conti di Adernò. 

Gli Umanisti del primo Quattrocento, regnante Alfonso il Magnanimo (1416-1458), si sentirono principalmente attratti dal clima culturale italiano, e molti di essi che avevano studiato nelle università del Continente spesso preferirono rimanervi ad occupare le cattedre più importanti o, ritornando in Sicilia, mantenere sempre i contatti con gli amici che avevano lasciato, come era stato per Tommaso Caloria che, appunto, mantenne un 

rapporto epistolare con l’amico Petrarca, e come fu per Marrasio e altri che rientrarono in patria. Ci fu un cambiamento di tendenza quando, nel secondo Quattrocento, la Spagna cominciò a farsi più presente. Allora furono molti quelli che abbandonarono la Sicilia o le cattedre universitarie italiane per andare in Spagna o in altri Paesi europei. 

Alla corte di Alfonso il Magnanimo giunse, dopo aver girato mezza Italia per studio e per bisogno innato di conoscere uomini e luoghi, Antonio Beccadelli, detto il Panormita (chiamato anche Bologna per l’origine bolognese della sua famiglia, nato a Palermo nel 1394), che, figura irrequieta e intraprendente di uomo e di letterato, andò alla ricerca di codici antichi, incurante delle spese, e li studiò con l’amore proprio dei suoi tempi. 

Non ancora ventenne, si trasferi a Bologna e poi a Firenze, dove conobbe e divenne amico di Giovanni Aurispa, che lo inseri nell’ambiente letterario e lo raccomandò al pontefice Martino V, che nel 1419 si trovava in quella città. Di lì passò a Padova, a Pavia, a Roma, insegnando latino e greco e continuando gli studi giuridici, e a Siena, dove scrisse i componimenti che fanno parte dell’Hennaphroditus, pubblicato nel 1425. 

Ben presto divenne amico del duca Filippo Maria Visconti che nel 1429 lo volle insegnante nello Studio di Pavia. Un soggiorno, questo, che risultò proficuo, perché qui portò a termine il commento a otto commedie di Plauto e buona parte delle Epistolae gallicae, che rispecchiano la vita spensierata del loro autore, scritte in un latino semplice e piacevole, tra le gioie e i divertimenti. Lo stesso stato d’animo lo ritroviamo nelle Epistolae campanae, scritte a Napoli, quando già era segretario di re Alfonso. Nel 1432 fu a Parma e qui ricevette la corona d’alloro dall’imperatore Sigismondo. 

Stancatosi dell’insegnamento, abbandonò Pavia e finì per mettersi al servizio di Alfonso. Ma potè trovare la tranquillità economica e spirituale quando questi si impadronì di Napoli. Da allora il Panormita fu onorato e ammirato per la sua intensa attività culturale in seno al “Portico Antoniano”, da lui fondato e che dopo la sua morte, avvenuta nel 1471, prese il nome di “Accademia Pontaniana”, dal nome del suo successore, Giovanni Pontano. 

Al periodo napoletano, oltre alle epistole menzionate, risale l’opera, scritta nel 1455, De dictis et factis Alphonsi regis, che è un omaggio al suo potente benefattore e che raccoglie aneddoti e sentenze che mettono in risalto la disponibilità e la bontà d’animo del re. Tutto in un latino elegante e agile, ma non ha più niente della poesia gioiosa e piena di vita dell’Hennaphroditus e delle Epistolae. La tranquillità economica gli fece perdere lo slancio interiore, ricco di arguzia e propenso all’amore, proprio di uno che aveva saputo modernamente conciliare la piacevole innamorata poesia di Catullo e gli strali infuocati di Marziale. 

Palermitani e amici di Antonio Beccadelli, anch’essi rappresentanti di spicco dell’Umanesimo non soltanto meridionale e siciliano, furono Ransano (1428-1492) e Gravina (1453-1528). Pietro Ransano, fine letterato, storico e teologo, fu vescovo di Lucera, dove morì, e appartenne all’ordine domenicano. Nel 1488, e fino al 1490, fu inviato da Ferdinando come ambasciatore in Ungherìa presso la corte di Mattia Corvino. A questo periodo si riferisce l’Epitome rerum hungaricarum. 

Pietro Gravina, socio dell’ “Accademia Pontaniana” e vicino per personalità e interessi al Panormita, fu filosofo, abile oratore e poeta. Gli piacque vivere gaiamente, lontano dalle contese e dalle malignità, curando, piuttosto, molto le amicizie, tra cui quelle di letterati e poeti, come Pontano e Sannazaro, e non disdegnando di rivolgere le sue lodi ora a questo ora a quel protettore per garantirsi sempre, senza preoccupazioni di sorta, una vita agiata da gaudente. Per questo fu stimato e amato dal suo mecenate, Giovan Francesco di Capua, conte di Palena, che prima di morire lo nominò erede dei suoi beni e gli pubblicò le poesie. 

Pietro Gravina scrisse libri di Frammenti, Selve, Elegie, Epigrammi (pubblicati nell’opera Carmina), un Carme epico per Consalvo di Cordova, Epistolae et orationes, e tutte in un latino scorrevole e facile, con qua e là spunti di vera poesia, mentre nella gran parte dei versi abbonda di loquacità, dandosi più all’estro parolaio che ai veri sentimenti. 

Di Noto, a cui dobbiamo tanti umanisti, fu Giovanni Aurispa (13761459), instancabile ricercatore in Italia e a Costantinopoli di classici greci e grande ellenista. A lui si deve l’aver fatto conoscere all’Occidente la quasi totalità della letteratura greca (Platone, gli storici, l’Antologia Palatina e tantissimi altri autori) rimasta per lunghi secoli inesplorata. Di qui i suoi frequenti viaggi nelle varie città italiane (Firenze, Bologna, Venezia, Ferrara, città dove morì). viaggi, questi, che gli fruttarono il ritrovamento e l’acquisto di centinaia di codici e l’ammirazione di tanti estimatori e letterati, come Bracciolini, Valla, Filelfo, Ambrogio Camaldolese, che se lo contesero, chiamandolo ad insegnare nelle loro università. Il Panormita lo invitò insistentemente a Napoli, per farlo socio del suo sodalizio, offrendogli l’ospitalità e gli onori del re, e 

Ambrogio Camaldolese lo aiutò fmanziariamente ad acquistare molti codici. 

L’insegnamento, il commercio e la cura che ebbe per gli antichi lo distolsero da una produzione propria che si ridusse ad alcune traduzioni dal greco in latino e a pochi componimenti e letture, sempre in latino, che ne evidenziano la forte personalità, la ben ferrata conoscenza linguistica e il raggiunto equilibrio umano e spirituale. 

Sempre Noto diede i natali a tanti umanisti, alcuni dei quali già incontrati, come Riginaldo Montoro, che insegnò a Salamanca, altri, come Giovanni Antonio Provina, letterato e storico, al servizio di re Ferdinando il Cattolico, Antonio Cassarino e Giovanni Marrasio. 

Antonio Cassarino, che fu insegnante a Palermo (era nato nel 1379, e morto a Genova nel 1444, quando, per sfuggire a un tumulto vandalico popolare e porsi in salvo, cadde da una finestra), si trasferì prima a Costantinopoli per perfezionarsi nella lingua, e qui le sue lezioni furono seguite da un folto pubblico e vennero lodate dallo stesso Imperatore; poi, ritornato in Italia, emulo del concittadino Aurispa, passò ad insegnare nelle più importanti città, traducendo i classici, ma scrivendo poco di proprio. Di lui ci rimangono le traduzioni di Plutarco e della Repubblica e della Politica di Platone, con alcune lettere e orazioni. 

Poeta, amico di Leonardo Bruni e di Maffeo Vegio, fu Giovanni Marrasio, nato nei primi anni del ‘400 e morto probabilmente nel 1471, anno della morte del Panormita, che ne apprese la notizia e ne fu addolorato. Del poco che si sa di lui, dalla natia Noto si recò per studio a Siena, dove conobbe Antonio Beccadelli e nel 1425 compose l’Angelinetum, dedicato ad Angelina Piccolomini, divenendo famoso più del dovuto, non tanto per il merito poetico e la sua conoscenza del latino, quanto per il tema amoroso e per la polemica che l’operetta suscitò. Da Siena poi passò a Firenze, a Padova e a Ferrara. Sappiamo anche che verso il 1450 prese gli ordini minori e che poi ritornò in Sicilia, dove il contatto con l’ambiente e la diversa realtà segnano nella sua poesia una svolta che gli fece abbandonare il tono classico d’ispirazione petrarchesca per una più pacata partecipe accettazione della vita. 

Altri Umanisti siciliani furono il corleonese Giovanni Naso, autore oltre che delle Consuetudini della città di Palermo, di un poema in lode di re Giovanni II, in occasione della vittoria su Barcellona che gli offri lo spunto per esaltare Palermo e le sue origini, e di alcuni componimenti di ispirazione beccadelliana, in cui, comunque, evidenzia una buona conoscenza tecnica modellata sull’opera di Virgilio; Giacomo Mirabella, ellenista, autore della traduzione A Nicode, di Isocrate; il domenicano Tommaso Schifaldo (1430?1494?), marsalese, insegnante in diverse città dell’Isola, filologo, poeta e autore di opere storiche; fra Filippo Barberis (1426-1487), anch’egli domenicano, di Siracusa, e, come lo Schifaldo, versatile e proficuo autore di opere filosofiche e di storia sacra e profana (Virorum illustrium cronica). 

Furono famosi i suoi Opuscula, di varia argomentazione. Con essi ricordiamo l’agrigentino Nicolò Valla e Antonio Flaminio di Mineo, operante, quest’ultimo, a Roma nella seconda metà del secolo, dove tenne una scuola di latino e greco. Di lui ci sono giunte due lettere, mentre di Valla, che soggiornò anche per diverso tempo a Roma, abbiamo alcuni componimenti in prosa e in versi e una grammatica, scritti in latino e un Vocabolarium vulgare cum latino. Il Vocabolarium fu pubblicato a Firenze nel 1500, e fu il primo vocabolario in dialetto siciliano che, però, riproduce in gran parte le voci della parlata di Agrigento. 

Se questi e altri non ricordati furono gli Umanisti siciliani che svolsero la loro opera in Italia e in Sicilia molti furono quelli che portarono l’Umanesimo nella Penisola Iberica e in Europa. Lo stesso fra Filippo Barberis andò fino in Ungheria, alla corte di Mattia Corvino, e nella Spagna di re Giovanni, ma, mentre egli rientrò, altri preferirono rimanere all’estero. E’ il caso di Lucio Marineo, da Vizzini, che dopo aver studiato alla scuola di Giovanni Naso, si recò a Roma, dove divenne amico e frequentò l’Accademia di Giulio Pomponio Leto, e di qui in Spagna, diffondendo con le sue opere (fu autore di carmi in latino e di una grammatica) e il suo insegnamento l’Umanesimo siciliano. 

Suoi colleghi di insegnamento a Salamanca furono Pietro Santeramo, di Messina; Lucio Flaminio, autore di orazioni, epistole e di un commento a Plinio, e Parisio Cataldo Siculo, che andò ad insegnare in Portogallo, giurista e autore di componimenti poetici in latino. 

Vanno particolarmente ricordati per le loro opere il mazarese Angelo 

Callimaco, autore di lettere e di un componimento, De Laudibus Messanae, dove elogia Messina e la Sicilia, ricorrendo al mito e alla storia; e Priamo 

Capozio, di Marsala, che si spinse fino in Germania, insegnando a Dresda e a Lipsia, e fu autore di un poemetto dal titolo Federiceide, composto e pubblicato a Lipsia nel 1488. Una recente edizione si deve al compianto amico Giacomo Sammartano, corredata di traduzione e delle poche notizie biografiche che di lui si conoscono. 

Capozio, rientrato a Palermo probabilmente nel 1511, occupò la carica di avvocato fiscale; questa carica fu causa della sua morte, avvenuta nel 1517, durante la sommossa di Luca Squarcialupo 

La Federiceide fu dedicata al suo grande mecenate, Federico III di Sassonia, discendente di Federico, margravio di Meissen, fondatore della dinastia. Capozio narra le imprese di quest’ultimo, vincitore di Adolfo di Germania che ne ostacolava l’ascesa al trono.

È un componimento encomiastico in esametri latini di bella fattura con spunti paesaggistici e con riferimenti biblico-mitologici che bene conciliano l’elemento pagano a quello cristiano. Il poemetto ha una sua importanza storica rilevante, perché, oltre a costituire un documento dell’Umanesimo siciliano in terra europea, esso s’inquadra in un filone artistico preciso, quello della poesia epica, che tanto posto occupa nella letteratura rinascimentale. L’Umanesimo siciliano non fu, come si può ben notare, limitato alle grandi città dell’Isola; anche le più piccole (Vizzini, Mineo, o le più distanti dai centri di influenza) furono vivide di cultura (è il caso di Mazara, di Marsala, della stessa Alcamo) che non restò entro i confini della Sicilia, ma ebbe un’ampia risonanza in Italia e in tutta l’Europa. 

Salvatore Vecchio 

NOTA BIBLIOGRAFICA 

Per un ulteriore approfondimento, si consultino: 
F. De Stefano, Storia della Sicilia dal sec. XI al sec. XIX, Bari, 1948; 
V. Titone, La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia, Bologna, 1955; 
L. Natoli, La civiltà siciliana del sec. XI, Palermo, 1895; 
S. Sala, La Sicilia e l’Umanesimo, in <<Archivio Storico Siciliano», 1933; 
G. Sammartano, L’Umanesimo in Sicilia, in «Umanisti marsalesi. Tommaso Schifaldo e 
Vincenzo Colocasio», Marsala, 1969.

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg. 5-13.

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