Piazza del Limbo (pref. di A Gatto), Nuova Guaraldi Editrice, Firenze, pagg. 141, s.i.p.
Di solito, quando si ha da fare con un pittore che scrive anche poesie, viene spontaneo riferirsi ai temi caratterizzanti le sue tele per meglio definirlo e conoscerlo. Non così avviene per la poesia del pittore Paolo Frosecchi (fiorentino di nascita – è del 24 – e milanese di adozione) che, se è una riconferma delle sue doti di artista, è nel contempo un viaggio interiore proteso alla ricerca di una identità più marcata.
Giustamente Alfonso Gatto ha parlato di diario; e un diario proprio costituiscono queste poesie, se consideriamo che al centro di ognuna di esse c’è il poeta con i suoi ricordi, le nostalgie, i sentimenti che lo attaccano alla vita.
La breve lirica Lunga strada, spoglia di ogni compiacimento verbale, ci dà l’esempio di questo voler scrutare dentro, e spiegarsi l’umana esistenza e ciò che essa ci riserba lungo il suo cammino.
«Gli alberi neri» proiettano il poeta nell’età dell’infanzia, quando bastava un nonnulla per incuterci tanta paura e farci tremare. Un senso di nostalgia traspare da questi versi, ma Frosecchi non lo fa pesare, perché sa che a niente vale, se non a peggiorare le cose. L’ingenuità, la fede di una volta non ci sono più, e la realtà è ben altra cosa ora che «sono spezzati i rami». E dietro a questa realtà veramente pungente, la morte, l’inesorabile morte, che tutto tocca e non perdona. Ciò che rimane non è altro che il ricordo, nostalgico – abbiamo detto -, ma pieno di grande umanità. Come ne I lucarini, là dove la lucarina col suo «cuore piccino» piange il compagno morto: «Ritorna bambina / quand’era soltanto / una voce / un trillo / un trillo di trilli. / Si lascia morire / e non posso toccarla / chiuso come sono / da queste sbarre». Una bella lirica, questa, che gradatamente acquista il tono giusto per sciogliersi poi negli ultimi versi con la stessa cadenza iniziale.
A volte il poeta è tutto preso da un fare polemico e sarcastico insieme, che non vuole essere affatto atteggiamento derisorio, ma nasce dalla consapevolezza di chi, non potendo sfuggire dinanzi ad una realtà come la morte, accetta, perché diversamente non può. Si legga, ad esempio, Storia, dove la collocazione degli stessi aggettivi («stupide pecore», «processione lenta», «bigio asfatto», «moccioso muso») ci dice l’indifferenza e il distacco propri di chi è abituato a considerare la vita come se non gli appartenesse.
Altrove, però – vedi la lirica lo – lo scontento, che è poi dovuto ad un morboso sotteso attaccamento al mondo e alla vita che lo circonda, viene anche indirettamente evidenziato.
Ma più che ogni altro motivo torna caro al poeta quello dell’amore, che occupa un posto di rilievo. Ancora, la figura femminile viene a stagliarsi meglio nel ricordo. E qui sta la bellezza di questi componimenti, perché nel ricordo tutto s’ingentilisce, anche se poi l’amara realtà si rivela diversa.
In Richiamo c’è l’immagine di una donna restia, indifferente, appunto, al richiamo d’amore.
Essa viene colta negli occhi che guardano nel buio e nell’atteggiamento di chi non dà alcuna importanza a tutto ciò che prima aveva costituito la sua gioia («Come in una danza / esci dalla tua pelle / contaminata d’amore / ti vesti di soli capelli / quei capelli neri / che passan tra le dita / quasi d’acqua»). Il poeta non trascura i «capelli neri», morbidi e leggeri come l’acqua che passa tra le dita, ma a niente vale il suo interesse, perché oramai la donna è sorda ad ogni richiamo.
Ancora in Autunno riaffiora il ricordo di lei dai «grandi occhi / neri e neri e neri / di lucenti cristalli» che niente dicono ora al poeta, paragonati come sono alla foglia che si stacca morta.
Chi ha avuto modo di ammirare alcuni quadri di Frosecchi pittore, avrà potuto notare che le donne mancano di affiatamento, e tra esse sono scostanti, quasi a voler proporre ognuna la sua bellezza. Nella lirica Le amiche, Violetta e Mammola, «bianche come ricotta / preparata su un piatto / si tenevano il mignolo / graziosamente allacciato», vanno arroganti nella loro candida grazia, desiderose solo di essere ammirate e amate. La realtà è che nella poesia Paolo Frosecchi ritrova il luogo idoneo a potere colloquiare con sé e con gli altri. E lo fa col tono discorsivo proprio della nostra migliore tradizione poetica, col risultato di una poesia scevra di ogni avanguardismo di moda, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori.
A volte il poeta usa un linguaggio spregiudicato – l’ha fatto bene notare per primo Alfonso Gatto, citando Natale -, ed è pure vero che se ne serve per trovare il tono giusto della sua ispirazione, riscontrabile, ad esempio, ne «l’amore dell’amore / che mi cresce e m’incanta». Poche parole bastano al Frosecchi per dire tutto il suo affetto di figlio e l’importanza che una madre ha nella vita di un uomo. Ma questi atteggiamenti ora spregiudicati ora di abbandono possono bene ascriversi ad una tendenza propria della lirica moderna, e non solo italiana. Sicché il poeta, quasi senza avvedersene, risente di tutto questo, e non può fare diversamente, in quanto è come un tributo che ciascuno di noi paga al proprio tempo.
Frosecchi cade verso un modo di fare poesia sotto certi aspetti ermetica (Notte, Mendicante d’amore, Un urlo, per citarne alcune tra le più palesi), tentazione di non pochi poeti di questa seconda metà di secolo. A dire il vero, sono componimenti strutturalmente ben concepiti, e anche le immagini calzanti, ma non hanno quel calore e quella partecipazione a cui siamo abituati. Di questo il poeta se ne rende subito conto, e fa bene in tempo a cambiare strada e a ricalcare le orme della sua poesia più autentica. Si leggano, ad esempio, La magnolia e la ringhiera, o la già citata lo o, ancora, I segni, che sono tra le ultime liriche di questo libro Piazza del Limbo, dove colori e immagini bene appropriati ci restituiscono la giusta misura.
La nostalgia, nella lirica Alle sette di sera, s’impossessa del poeta proprio sul far della sera, quando chiuso nella sua solitudine è assalito dal ricordo ancora troppo vivo per non far soffrire tanto l’uomo. Notate l’atmosfera, che è veramente propizia al pianto: una notte d’inverno e il ricordo di una primavera ben puntualizzata, il grigiore della morte e l’esuberanza della vita.
C’è nella poesia di Paolo Frosecchi un non so che di classico e romantico insieme. La compostezza formale, la coloritura delle immagini,la partecipazione stessa del poeta in quelli che sono i suoi fantasmi creativi fanno di questa poesia il punto di partenza e di arrivo di una sensibilità moderna che affonda le sue radici in un solido retroterra culturale. Sicché, aprendo questo libro, il lettore si sente subito portato a leggerlo d’un fiato, perché alla memoria del passato il poeta affianca la sua spiccata sensilità di moderno, aperto ai problemi e ai richiami del mondo. La lirica L’esecuzione, che a prima lettura potrebbe apparire troppo prosastica («Mille e mille i cacciatori / sono partiti / coi fucili puntati / caricati a palla, / dietro la muta dei cani…»), è carica di tanta umanità, e il tono dimesso trova la sua piena giustificazione nello scontento proprio di chi vede la natura e il mondo andare giorno dopo giorno a rotoli. Scontento che, come in Primavera, viene subito meno all’approssimarsi della stagione primaverile, quando tutto ciò che sa di nuovo sembra esplodere .in una danza impazzita».
Sono questi alti e bassi dell’animo sensibilissimo del poeta a dare credibilità a questo suo viaggio interiore, segno non dubbio di validità poetica e umana, destinato a riproporsi in una luce più chiara e con risultati migliori.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 62-65.
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