Ester e San Calò 

di Antonino Cremona* 

Una premessa, su quel molto che oggi importa di Giuseppe Pitré. Non solo l’iniziatore degli studi folkloristici in Italia, ed il maestro cui gli esperti di questa e di affini materie usano costante riferimento. Non solo ebbe la capacità – intellettuale e fisica – di creare il corpus delle tradizioni popolari siciliane. 

La sua vita (fra l’iniziale propensione letteraria e l’arte medica e la diversa attivitàdi studi folklorici) intrama l’ansia di lavorare nell’ombra, per non perdere i clienti – cioè i mezzi di vita e le fonti economiche della ricerca folklorica – sovrapponendo l’identitàdel medico a quella dello studioso. Ancora oggi, chi ha un secondo mestiere è costretto a nascondere quanto possibile (per uguale necessità l’occupazione primaria: per non essere preso per filosofo, uguale a pazzo. E la serrata insistenza, nel proporre all’ambiente scientifico accademico ufficiale la piena dignità del folklore quale studio appartenente alla storiografia. 

L’assidua formulazione del Pitrè in tale senso, è anzi un insegnamento fondamentale. Se non gli altri, che pure ebbe, a lui va il merito di avere costantemente considerato la storia come sintesi ultima e immanente di ogni attività umana. Certo, era un pioniere; oggi maggiormente esposto a critiche profonde, e a correzioni talvolta sostanziali, per effetto del progresso filologico. Proprio dal lungo elenco di annotazioni, contestazioni (e rilievi) che Giuseppe Bonomo gli mosse [“Giuseppe Pitrè e la poesia popolare siciliana”, fra gli altri nel volume Pitrè e Salomone Marino contenente gli atti del convegno per il 50° anniversario della morte dei due studiosi, ed ivi anche Alberto Mario Cirese con il saggio su “Giuseppe Pitrè tra storia locale e antropologia”] in sede di ripensamento nella prospettiva storica – non senza l’ineliminabile devozione – emerge notevolmente la sua personalità tanti soccorsi correttivi gli si apportano, perché immenso è il suo contributo alla formazione della scienza folklorica. 

Non ultima (in questa travagliante attività la mostra etnografica siciliana, quando ritenne di lavorare in pubblico, per l’esposizione nazionale che si svolse a Palermo nel 1891-92; il catalogo – nell’edizione anastatica – reca un’amorosissima e stimolante introduzione di Antonino Uccello, poeta siciliano più che di ogni altro studioso rivisse ansie e vicissitudini di cui Giuseppe Pitrè dovette intessere la propria opera. L’avere potuto impiantare una tale mostra era, per quei tempi, affermazione massima della presenza dell’etnografia nei confronti della letteratura e della scienza ufficiale: quantunque oggi si sia, giustamente, disancorati da imbalsamazioni museologiche (ma solo nelle idee, non sempre negli allestimenti). 

Però sollecitazioni in questo senso, per quanto indirette, provengono dallo stesso Pitrè; come è chiaro da un libro di piacevole lettura che Bonomo ha composto insieme a lui, a distanza di decenni, Che cos’è il folklore: metodologicamente organizzato in introduzione, prelezione – è il testo del Pitrè, inaugurandosi il corso di demopsicologia nell’universitàdi Palermo (il primo, in Italia) -, commento, note all’introduzione e al commento; insieme, un aggiornamento bibliografico. Un libro ancora oggi utile alla meditazione sulle origini del folklore, e sui compiti attuali degli studi folklorici. Che non sono soltanto quelli del raccogliere, ma – più che mai adesso – dello spiegare. In proposito, Bonomo (il quale, anche stavolta, padroneggia con agile garbo la vasta materia) tiene insoluto un problema che non si può sciogliere, forse, nel giro di pochi anni: il continuo impoverimento dei canti popolari, già evidente a Benedetto Croce e già lamentato dal Pitrè infine il disuso. 

Estraneo a tali studi, non potrò certo risolvere il quesito. Probabilmente, i canti sono stati via via elisi dall’espandersi delle comunicazioni. In origine erano creati da anonimi, quasi in conversazione – quelli dei berberi tuareg ancora oggi – o in gare di rime; altri, di origine colta, venivano trasformati dal popolo che trovava in essi qualcosa di congeniale. Ma il ‘canto popolare’ è uno sfogo popolare. Quando si comunicano nuovi mezzi di sfogo (per esempio le organizzazioni sindacali, e questo non può valere astio ai sindacati), cominciano a perdere la propria funzione. Un caso è quello dei canti di protesta che, in certo senso, abbiamo visto riaffiorare – nel 1967, durante la marcia primaverile per la valle del Belice – con la musica di Tedo Madonia e le parole di Ignazio Buttitta: “La Sicilia cammina”. 

L’industria musicale (con i teatri, i dischi, la radio, ecc.) introduce, infatti, gusti e suggestioni nuovi. Il canto rinasce – miracolosamente, con il miracolo della poesia – quando si perde tutto (era in questa situazione la valle del Belice, già prima del terremoto, come tutti sappiamo) e il popolo si ritrova solo, in confidenza soltanto con se stesso. È il caso della guerra partigiana, dei lunghi giorni e delle notti insonni in montagna, e il fenomeno si ripete: creazioni spontanee, spontanee modificazioni di opere colte; in Italia, in Francia, dovunque vi sia lotta armata. 

A proposito dei canti popolari – nel folklore di oggi – si dovrà spiegarci, dunque, le ragioni e i modi del deperire e del riaffiorare delle composizioni: oltre che raccogliere le recenti e le nuove, popolareggianti, non del tutto popolari. Ma il folklore, diceva Pitrè si occupa anche della moda. E i canti popolareggianti, come le storpie e le buone canzonette che dai transistors e dai televisori si riversano nelle città e nelle campagne, anche per questa via rientrano nell’amplissimo cerchio di attivitàdella ricerca folklorica. 

Ho rammentato questi argomenti per aiutarmi a chiarire come il folklore sia diverso dalle tradizioni popolari: esse sono una sorta di cronaca (ancora, dunque, non è storia); ma, intanto, subiscano uguali azioni erosive. Più profonde nelle tradizioni popolari, in quanto storia; meglio: folklore, vorrei dire, storicizzatosi. 

Possiamo prendere due esempi. Quello delle ‘permanenze’ ebraiche in Girgenti, e quello – in qualche modo connesso – della festa di san Calogero. 

In Sicilia, per secoli, sin dall’occupazione romana della Palestina vi furono colonie di profughi; nella mite Girgenti gli ebrei convivevani pacificamente con gli arabi, con i cristiani. 

Cominciarono ad andare sottoposti alle restrizioni politiche e fiscali, applicate con vessatorio raziocinio dai dominanti, quantunque in Girgenti il quartiere ebraico (estesissimo) non fosse ancora un vero e proprio ghetto; nel quale, anzi medici famosi e savi mercanti lavoravano a favore della comunità locale sino al punto di mantenere una “università” – mediterranea – non discriminatoria. 

Poiché si trattava di casta non completamente chiusa, qualcosa dell’animo ebraico si trasmetteva agli altri abitanti. Come è naturale, dopo la cacciata (definitiva, e abbastanza crudele) degli ebrei dalla Sicilia, nella città di Girgenti rimase fama dei sapienti e dei grandi rabbini; persino il culto di Ester, non santa ma Ester moglie di re Assuero e nipote di Mordecai. 

Ancora oggi, qualcuno di noi dà il nome di Ester alle proprie figlie. Non è solo un gesto di fraterna egualità verso il popolo ebraico, quando non offende gli altri palestinesi; è pure, un modo spontaneo di restare nella tradizione. Dopo più di quattro secoli dalla scomparsa del quartiere giudeo, la chiesa di santa Marta e quella di san Francesco d’Assisi – sino agli infelici restauri postbellici – erano affrescate con la storia di Ester (che culmina con il purim, unica ricorrenza festosa delle popolazioni ebraiche). 

La letteratura sulle prime due domeniche di luglio, in Girgenti, è scarsa. Ma da essa, non più tanto dai ricordi, si può cogliere la ricchezza della festa di san Calogero: differente da quella che si celebra nell’Agrigento odierna. 

La chiesa del santo fu costruita fuori le mura, nel 1200. Dell’antica architettura resta una finestra occidentale, oblunga a sesto acuto; e rimane la statua del santo che, secondo Agatocle Politi, è arte gotica del XV secolo. La chiesa fu ingrandita e rifatta nel 1574 dal vescovo Giovanni Orosco de Leyva de Covarruvias, poi dal vicario capitolare Giacomo Sanfilippo; tuttora conserverebbe un’aria raccolta da chiesetta di campagna, se immancabili restauri non ne avessero rivestito l’esterno con marmi da bar. Le bolle di quei prelati sono i primi documenti sul culto reso a san Calogero. Fu costituita, allora, una confraternita di soli popolani: saio bianco, cordone nero a cinta, cappuccio nero; ai nobili era vietato farne parte. La borghesia non esisteva. 

Secondo la tradizione popolare, il santo è nero perché viene da Costantinopoli; o, genericamente, dall’Africa: riassumendo nell’Africa l’Asia Minore. Ha barba bianca e il bastone, per veneranda età È un eremita: porta l’abito dei monaci basiliani, e gli sta accanto una cerva. È dotto: reca un libro. Medico: lo si vede dalla cassetta delle erbe; taumaturgo, anche in vita. Il nome – greco, letteralmente ‘bel vecchio’ – significa padre venerando, eremita. Il suo culto è antecedente a quello ecclesiastico, più volte contrastato anche in epoca a noi vicina. 

Il santo è adorato pure a Naro, a Canicattì porto Empedocle, a Sciacca, Salemi, Corleone, Palermo, Termini Imerese, San Filippo di Fragalà o come ora si chiama, Agnone in Sicilia (altro nome disperso), Lipari, Racalmuto; ma si tratta di diversi santi, onorati sotto lo stesso nome. 

E, chi sa come, San Calogero è una collina di vigne in provincia di Cuneo: a Govone; richiesto di notizie meglio precise, il sindaco spiega il 29 novembre 1976: «dopo aver provveduto ad effettuare apposite informazioni presso Parroco, insegnanti, ecc. che nel territorio di questo Comune esiste un pilone intestato a “San Calogero”. / La località ove è situato detto pilone viene denominata San Calogero. / Il pilone si trova fuori dal centro abitato in aperta campagna ed a distanza di circa 1500 metri esiste un cascinale che viene denominato “Cascina di San Calogero”. / Il piccolo pilone risale a data remota. / Il Parroco ha riferito, per averlo sentito dire, che il Santo durante la sua vita passò da Govone come pure dimorò nella città di Asti distante da Govone circa Km. 18». Si sa che i nostri berberi erano giunti in Liguria e in Piemonte, non pareva che li avessero seguiti i monaci ortodossi. Ma, ad Albenga, suore clarisse hanno il ‘Monastero di San Calogero’. Questa circostanza rafforza il convincimento che davvero i calogeri affiorino, come una germinazione sostitutiva però analoga, nei luoghi in cui siano stati dei marabut. 

Secondo la tradizione, i calogeri erano sette fratelli che occupavano altrettanti sedi diverse; fratelli di sangue, o di congregazione; e sette, nella Càala, è numero infinito. Le grotte del santo girgentano erano probabilmente situate nell spiazzo antistante la chiesa, nella parete rocciosa ora occupata da un palazzotto; è più probabile che il santuario sia stato costruito proprio dov’era la grotta principale, poiché esso sta sopra un groviglio di vani incavati nella roccia. Questi potevano costituire un eremo arcaico; cui si sovrappose l’eremo medievale, formato con l’edificio a oriente della chiesa da tempo usata come abitazione. 

Nella circostanziata tesi del sacerdote Salvatore La Rocca, storico eccellente ed ignoto, si tratterebbe di un culto bizantino dedicato a monaci basiliani guaritori. Un culto simile a quello dei marabut, dei santoni arabi – anche quelli, medici dell’anima e del corpo – venerati e amati in vita, e in morte, nei loro paesi tuttora. Non è probabile, ritengo, si sia definita con un solo nome (Calogero, come Marabut) l’attività di quanti si dedicavano a quel tipo di opere: i monaci basiliani guaritori abbiano risposto, dunque, alle aspettative della popolazione abituata ai marabut; e quindi si venera l’idea del monaco, del santone, e non di un particolare eremita. 

Questo fatto, insieme ad altri motivi, fa chiare le ragioni della resistenza – più volte acuminata – della chiesa latina a vedersi imporre, dal popolo, un santo che ha una consistenza spirituale sostanzialmente avversa a quello per cui la stessa chiesa latina ha lottato: qui, addirittura con le armi. Ciò vale, e sono questi gli altri motivi, almeno per i riflessi dell’epoca in cui la chiesa latina si trovava in lotta armata contro quella greca; e per la commistura, panica, di elementi derivati dai riti solari (arcaici ed ellenici) e dalle abitudini arabe che stanno tra l’utilitarismo e il misticismo. 

Rimangono della vecchia festa una tumultuosa processione, ricche offerte di doni; il molteplice rullo dei tamburi: la diana; la variopinta fiaccolata, il lancio dei pani sul santo durante la processione. San Calò è il protettore dell’agricoltura. Il suo mese è quello che va dalla prima domenica di giugno alla prima di luglio: il tempo della mietitura e della trebbia, durante le quali è invocato e pregato; la processione della prima domenica di luglio è ripetuta la seconda domenica, a “l’ottava”. A san Calò si fanno i “viaggi” a piedi scalzi; le offerte in denaro, in candele, forme di pane fine: a riproduzione di qualunque parte del corpo sia stata miracolata; ex voto dipinti su tavola, da qualche tempo fotomontaggi. 

Le preghiere non hanno formule fisse; sono spontanee ed entusiastiche. Il santo è amato dai contadini come un parente stretto, benefico, tenuto in casa. 

Il suono dei tamburi – qualcuno ha pensato riproducesse ritmi della prosodia greca – è un intero concerto dalle caratteristiche arabe, poco variato, che si conduce dal venerdi sino alla definitiva chiusura della festa. La mattina della prima domenica (“San Calò dei forestieri”) inizia con le grida. Si porta il frumento, alla chiesa, con la mula “parata”; tutta la mula è adorna di nappe, sonagli e nastri, riluce di specchietti, e le bisacce sono coperte con gualdrappe di seta dai vivaci colori villerecci. Seguono i carretti, anch’essi parati. 

Finita la messa solenne, i contadini si lanciano sull’altare, e calano giù il santo – che aspetta appoggiato al bastone, libro in mano e la cassetta delle erbe medicinali che gli pende dal polso – quieto nella grande serenità dei suoi occhi e della barba fluente. Resta il fervore contadino, diminuito nell’estensione man mano che la classe contadina si assottigli. 

Quando il simulacro compare nello spiazzo, la folla esplode in acclamazioni; e il santo è baciato, lisciato coi fazzoletti che saranno imposti ai malati, implorato con pianti sinceri e con lamenti. Il male che più guarisce, poiché questo è il momento dei miracoli, è l’ernia dei bimbi. Senza sacerdoti (forse in collegamento col divieto a suo tempo opposto ai nobili di fare parte della confraternita) la processione avanza nella città con numerose fermate, ondeggiando, battendo la bara – nella foga – sui muri delle case, fra strepiti ed evviva, fra gli spari dei mortaretti e la musica, e la diana, sotto la pioggia dei pani e la gara della gente per accaparrarsene. 

Il lancio dei pani è da riconnettere alla raccolta di vettovaglie fatta dal Calogero, cioè dagli eremiti, durante una pestilenza: sicché il pane non veniva porto, ma lanciato. Poi il simulacro giunge all’Addolorata, nell’altra parte della città e vi rimane cinque ore guardato dalle donne e dai ragazzi. Gente prezzolata – e così all’ottava – lo riporterà nel suo eremo, e i portatori della mattina (i “devoti”) faranno da spettatori. Ma il santo rimane fra la sua gente e starà molto tempo, avanti e indietro sulla soglia, prima di tornare in chiesa; avvolto nel suo manto decorato con un gran numero di stelle di Davide, ripetuto simbolo – s’intende – della sapienza: nessun riferimento ai successivi Calòpugliesi, hasidici kalonymos. 

Senza dubbio, i monaci basiliani svolgono un’intensa attività in favore delle popolazioni locali; tanto da essere considerati tuttora, attraverso il Calogero, al di sopra di qualunque altra protezione e di qualsiasi altra entità da venerare. Molto, però dei riti si è perduto. Si facevano salire sulla bara i medici affinché sottoponessero alla pressione dell’ernia i bambini, cui un sacerdote imponeva la stola, sotto gli occhi del santo. A volte i bimbi, monachelli di san Calò, venivano spogliati in pubblico del saio che avevano indossato per devozione. 

Da tempo, e fortunatamente, sono scomparsi i “viaggi” con la lingua per terra (dalla soglia della chiesa sino all’altare) per ringraziamento. Si facevano ex voto d’argento o di cera, oltre quelli dipinti. Due giorni prima della domenica – il venerdi della cera – ragazzi portavano in testa canestri di candele ornati di foglie, preceduti dalla diana e seguiti da gente festosa. 

Per qualche tempo una vecchia barca, pavesata di festoni e di fiaccole, fu trascinata dai buoi avanti la chiesa e lì lasciata bruciare nel tripudio della folla: per simboleggiare un arrivo senza ritorno. La processione iniziava con il portatore della cerva accovacciata; spesso gridava l’annunzio: “Il santo delle grazie, devoti”, “Viva viva Sancalò”. Ma l’arte della diana va deperendo, poiché vi si dedicano gruppi sempre più sparuti (fatto che non sembra diverso da quello che riguarda i suonatori di tamburo di Casteltermini). 

Esiste, dunque, un problema di conservazione; che non può essere risolto, alla maniera romantica ottocentesca, in modo semplicemente iconografico: in una staticità museografica. La soluzione – peraltro non nuova – è quella di una conservazione dinamica, revivificante. Non certo nel senso di fingere, oggi, una tradizione estinta: mediante rappresentazioni da teatro gelido. Nel senso, invece, di uno studio accurato (demopsicologico, sociologico, storiografico) di queste tradizioni perdute. 

Una collezione – in costante arricchimento – di documenti, di pitture e di stampe; l’esegesi e il commento dei testi; l’insegnamento del tamburo e del modellamento delle figure del santo (in terracotta e in cartapesta): nella serie di istituti di specializzazione – anche postuniversitaria, a carattere mediterraneo – che potrebbero essere collocati nelle ville ottocentesche della valle dei templi (forse, meglio, nell’eventuale parco archeologico della valle dei templi). Intanto, alla festa calogerina, Sergio Campailla ha elevato un monumento: Il paradiso terrestre [ed. Rusconi], 1988, romanzo che potrebbe assumere il ruolo attribuito a I promessi sposi nel secolo scorso. 

Antonino Cremona

* Nel giugno 1992 Antonino Cremona ci inviava un plico contenente parecchi inediti, e scriveva: «Forse ho dato fondo agli inediti. Vedano, un po’, Loro. Mi avverta circa quanto non sarà pubblicato». 
Una breve lettera, quasi un saluto di commiato, presagendo la sua scomparsa che sarebbe avvenuta nel 2004. Così noi continuiamo a 
pubblicare quegli scritti, ricordando lo scrittore che fu anche un validissimo poeta e ripromettendoci di leggerlo e dedicargli successivamente qualche nostro scritto. 
Intanto, finora, di lui “Spiragli” ha pubblicato: 

•Giustizia e decentramento 
•L’espressione e l’abitante 
•Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 
•Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel». 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 41-46.

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