G. Trainito, Filo spinato, Torino, SEI, 1996, pagg. 166.

Lasciamo parlare i poeti… Sono le loro parole, che arriveranno fino a noi, a lasciarci sorridenti o sbigottiti. Omero, Eschilo, Dante, Manzoni, si scrolleranno sempre di dosso la polvere di tante, inutili parole, quelle che tutti si ingegnano a dire su di loro. 

Quanto tempo sui banchi di scuola ad imparare chiavi di lettura sussiegosamente fornite da pomposi portieri per camere che spesso dimenticammo di aprire (bastava credere per fede). E allora abbasso prefazioni, note e postfazioni; diamo libertà di circolazione a quelle parole che ” …hanno il profumo dell’erba/verde/ dove non passa l’uomo”. 

Al massimo, lasciamoli parlare tra loro, un colloquio a distanza, una filigrana da cui traspaia il loro richiamo e ci aiuti, anti-ulissidi, a cedere al canto delle sirene, e dimenticarci, per un po’. 

Filo spinato, un avviso, Achtung, un flash di orrore. È il rosso dell’olocausto della “fanciulla scarna” di Levi e il massacro di Bronte, della miseria dell’uomo di sempre; il cupo rimbombo, nella reggia vuota di Dario, del lamento dei vecchi persiani che evocano l’lÌtl..uxXeelcra 8 &poupav vacroç (l’isola dai campi insanguinanti) della loro disfatta finale. È il rosso del “tramonto sciolto dall’immensa nube di petrolio” di Gela. È, poi, il rosso delle rose di Gela, il “fiore in trono” di Rilke qui nasce da solchi neri, sarà recisa da “mani tozze/sospese a schiene curve da sempre”. 

Suoni aspri, fonemi di un mondo senza mezze-tinte, dolorosa fatica di vivere e cadere addormentati senza vedere la luna (Ciaula). 

C’è la Sicilia in quelle rose, troppo amata e troppo calpestata. 

E allora, ecco, solo il poeta spiega, per somiglianza o antitesi, e la rosa di Rilke “contraddizione pura/il sonno di nessuno sotto tante/palpebre” è la stessa offerta “con pudica modestia” di Trainito. 

Il gesto silenzioso (il “parlar tacendo”) in cui si compone il travaglio del nascere, il trauma dell’esser recise da mani tozze. 

Le dure dissonanze, le rozze consonanti in lotta fra loro, tacciono nell’improvvisa sospensione del tempo: un attimo di esitazione per un gesto nato da slancio generoso che si trattiene nel suo pudore. 

I colori, la materia (l’argilla nera, la terra, il sangue, la rupe di Prometeo), presenze di un immaginario che si ripiega su se stesso in urla senza voce. 

“Cortili oscuri di un paese abbandonato”, spazi che appartengono solo alla nostra memoria, forse diventati così solo in noi, come cresciuti e invecchiati dentro di noi, con noi. Ma li torna il poeta, il cieco cantore che “brancolando sopra le vecchie tombe” interroga “gli avelli” ponendo le domande di sempre a oracoli senza responsi. 

Cerca un’identità fra le pietre della sua Sicilia, spazzate da venti africani, il poeta, e ci ricorda Pasolini fra le malghe friulane, e nella stessa miseria, che non vuol perdersi nell’omologazione. 

Si è ritrovato solo e senza patria, il poeta, come Pasolini in quella nuda lapide nel piccolo cimitero di Casarsa, accanto alla madre. 

Ma non è forse essere risparmiati dalla retorica il miglior premio per un poeta? Lo chiede con insistenza (“non turbare il mio sonnoIcon nenie inutili.1 Lasciatel che il sibilo delle cicaleI canti sul mio silenzio”). 

Tornare ad essere cicale, come un tempo, quando dimenticammo di vivere storditi dal piacere del canto delle Muse, e la sorridente gentilezza degli antichi ci trasformò in quell’ostinato cantore dell’estate. 

Ecco la poesia del nostro poeta, fatta di luce, colori, vento, mare, silenzio assorto di chi si aggira fra le antiche pietre, e l’ocra si fonde all’azzurro lontano e al fruscio verde vicino. 

Se quei colori si spengono e tacciono i sibili delle cicale e il ronzio fra i cespugli, rimane la memoria “mentre si spengono gli occhi” e il canto del poeta, per noi, che soffriamo e gioiamo, amiamo e odiamo, ma non troviamo le parole per dirlo. 

E ancora, con Rilke, diciamo: (“Il poeta, lui solo, ha unificato il mondo / che in ognuno di noi, in frantumi, è scisso”). 

Paola Di Giuseppe

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 49-50.

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