Sciascia e il cinema

Un amore ricambiato di Antonino Cangemi Il ventennale della scomparsa di Sciascia, caduto nel novembre dello scorso anno, non è passato inosservato. Lo scrittore di Racalmuto, di cui ancora oggi si sente la mancanza, è stato ricordato e celebrato, come era doveroso, in tutta la Penisola. Pochi, però, si sono soffermati sul particolare legame di Sciascia con il cinema1. Si tenterà di farlo con questo scritto che vuole offrire lo spunto per uno studio più approfondito.

È noto che Sciascia amava tanto il cinema. Una passione nata quando era ragazzo e frequentava con assiduità, assieme agli amici, la sala cinematografica del suo paese, che non doveva essere molto diversa da quella, colorata dalla fantasia di Tornatore, del “Nuovo cinema Paradiso”. Tant’è che Sciascia non solo esaltò il capolavoro di Tornatore ma, vedendolo (in una sala riservata dove si poteva fumare), si commosse. Quelle scene che mettevano in risalto, a volte in modo anche goliardico, l’infatuazione popolare per il grande schermo e per i suoi divi lo ricondussero, come Sciascia stesso ammise, agli anni dell’adolescenza e giovanili2.

Che il piccolo Nanà (così lo chiamavano familiarmente gli amici sebbene quel vezzeggiativo non lo entusiasmasse, ritenendolo “da ballerina”) dovesse diventare uno scrittore lo si poteva presagire: a scuola, i suoi temi rivelavano una scrittura rapida ed elegante. Più difficile era pronosticare, per un uomo nato in uno sperduto paese della Sicilia lontano dai centri della cultura che conta, il successo che lo avrebbe baciato. E d’altra parte, il giovane Sciascia è insegnante elementare prima, impiegato in un consorzio agrario dopo. Ma occorreva davvero un veggente per prevedere che il cinema si sarebbe alimentato dei suoi romanzi, traendone tanti film di successo. Tanto più ove si consideri che gli esordi letterari di Sciascia non lasciavano intravedere alcun rapporto con la settima arte. Le favole della dittatura (1950) è una raccolta di brevi prose allegoriche di ispirazione “rondista”, La Sicilia, il suo cuore (1952) una silloge di poesie, genere poi non più coltivato.

I film tratti dalle opere di Sciascia

Se già Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958) svelano alla letteratura un narratore dallo stile asciutto ed essenziale che si misura, con originalità ed estro, con temi civili, è il Giorno della civetta il romanzo che lo acclama al grande pubblico. Nel 1968 il romanzo di Sciascia viene tradotto in film da Damiano Damiani. La pellicola, intitolata come il romanzo, riscuote grandi consensi: magistrali le interpretazioni di Franco Nero, l’intransigente tenente Bellodi venuto dal Nord, di Claudia Cardinale, la sensuale e coraggiosa Rosa (entrambi premiati col David di Donatello), di Lee J. Coob, il capomafia che classifica l’umanità in “uomini”, “mezz’uomini”, “ominicchi”, “pigliainculo”, “quaquaraquà”.

Ancora oggi “Il giorno della civetta” è il film più noto tra quelli tratti da opere di Sciascia. Ma non è stato il primo. Nel 1967, infatti, con la regia di Elio Petri, venne realizzato “A ciascuno il suo”, ispirato all’omonimo romanzo di Sciascia edito due anni prima. Il film, che ha in Gianmaria Volontè l’interprete principale nel ruolo di un intellettuale che indaga su un misterioso delitto, fa incetta di premi alla ventesima edizione del Festival di Cannes. Non tutta la critica, tuttavia, lo encomia. Nel Dizionario Meringhetti3 si legge: «Forse il miglior film di uno dei più lucidi cineasti d’impegno sociale del tempo», non così è per Moravia4 che lo accoglie tiepidamente, evidenziando come in esso la denuncia appaia meno incisiva rispetto alla migliore tradizione neorealista.

Un altro dei più inquietanti “gialli” di Sciascia diventerà un film di Elio Petri, “Todo modo”, nel 1976, nove anni dopo di “A ciascuno il suo”. Ancora una volta è Gianmaria Volontè a vestire i panni del personaggio centrale, “il Presidente” che, nel volto e nella mimica, ricorda tanto Aldo Moro. In un albergo-eremo si radunano notabili democristiani col pretesto degli esercizi spirituali. Durante il soggiorno, tra alterchi e litigi, vengono misteriosamente uccisi gli esponenti più di punta del partito. Alla fine si scopre che l’assassino è Don Gaetano (Marcello Mastroianni), i cui delitti hanno lo scopo di liberare l’Italia dal potere democristiano, e che poi, a sua volta, si suicida.

Tornatore, intervistato sui suoi legami con Sciascia, ha spiegato che, secondo lo scrittore siciliano, il rapporto tra opera letteraria e film era vivificato dall’infedeltà. Un buon film può trarre spunto da un romanzo, ma perché viva di vita propria non deve riprodurlo pigramente, per quanto ne rifletta gli intenti e lo spirito, e ciò in virtù del fatto che cinema e opera letteraria utilizzano linguaggi differenti. Petri, ha ricordato Tornatore, era stato folgorato dall’immagine del rosario nel cortile dell’albergo Zafer, che si ritrova nel romanzo di Sciascia, dal quale però il film si allontanava, risolvendosi in un processo al Palazzo, quale l’aveva immaginato Pasolini.

Nello stesso anno (1976) un altro grande regista, Francesco Rosi, mette in scena un romanzo di Sciascia, Il contesto. Il film, “Cadaveri eccellenti”, stavolta più fedele al testo, è anch’esso un apologo del potere e fa riferimento alla strategia della tensione. Farà discutere molto la battuta, pronunciata nel finale da Florestano Vancini, «la verità non è sempre rivoluzionaria». La pellicola si discosta dalla tipologia del film-inchiesta tanto cara a Rosi e, sospesa com’è tra realtà e fantasia nei suoi richiami grotteschi, pare ispirarsi piuttosto al cinema di Buñuel.

Sciascia continuerà a ispirare il cinema anche quando, conclusasi la stagione dei film “politici”, i suoi romanzi, in cui i motivi civili assumono un ruolo nevralgico, sembrerebbero non adattarsi ai nuovi schemi narrativi che nel mondo della celluloide si vanno affermando. E così anche due tra gli ultimi romanzi di Sciascia hanno la loro trascrizione cinematografica.

Nel 1991 Gianni Amelio realizza “Porte aperte” dall’omonimo romanzo di Sciascia. Film introspettivo questo, come d’altronde l’opera di Sciascia, che si incentra sui conflitti di coscienza di un “piccolo giudice” chiamato, negli anni del fascismo, ad applicare la pena di morte. Il tema della giustizia, si ricorderà, è quello che assilla, più di ogni altro, gli ultimi anni dello scrittore siciliano.

Nel 1991 Emidio Greco firma “Una storia semplice”, l’ultimo romanzo di Sciascia, un “poliziesco” dove la parola mafia non compare. Sciascia confesserà, nell’onestà intellettuale che lo contraddistinse, che il fenomeno mafioso, come delineava in quegli anni, assumeva connotazioni tali da non comprenderne più la portata: era doveroso perciò non parlare di qualcosa di cui non aveva piena cognizione.

Sempre Emidio Greco, nel 2002, si confronterà con uno dei più riusciti e celebrati romanzi-apologhi di Sciascia, Il consiglio di Egitto, dove si intrecciano mirabilmente ricostruzioni storiche e motivi allegorici.

Fin qui i film tratti da romanzi di Sciascia. Ma, seppure di minor rilievo, si segnalano le produzioni cinematografiche che sono state ispirate da racconti dello scrittore di Racalmuto. Nel 1970 esce “Un caso di coscienza” di Giovanni Grimaldi dall’omonimo racconto, che verrà poi pubblicato nella raccolta Il mare color del vino (1973): una commedia ambientata in un paesino siciliano di infedeltà coniugali con l’interpretazione di Lando Buzzanca.

Nel 1976 “Una vita venduta” di Aldo Florio dal racconto “L’antimonio”, una storia che ha come sfondo la guerra civile spagnola.

Infine, per completezza, va ricordato l’interessante documentario di Davide Camarrone e Salvo Cuccia dall’eloquente titolo “Ce ne ricorderemo di questo pianeta. Un sogno di Sciascia in Sicilia”.

 

A questo punto è giusto chiederci perché le opere di Sciascia attrassero tanto il cinema. Due i motivi: uno legato al contenuto delle sue opere, l’altro alla forma espressiva.

La sua produzione letteraria si manifestò, in modo più compiuto, in due filoni, entrambi assai originali: il racconto-saggio che, attraverso la ricostruzione dettagliata e minuziosa, frutto di ricerche assidue, di vicende storiche e personaggi si sublima nell’affabulazione accattivante; il “poliziesco” che si insinua nel contesto del potere, nelle sue molteplici e sinistre rappresentazioni, ivi compreso il fenomeno mafioso. È quest’ultimo genere che attirò, in modo naturale, come una calamita, la fantasia dei cineasti, che si rivelò humus fertilissimo per la finzione filmografica.

La scrittura di Sciascia fu elaborata e semplice, ricercata e immediata. I suoi romanzi catturano anche per la cifra stilistica, studiata e attenta, che conduce a risultati stupefacenti. I fatti sono raccontati con una tecnica che assomiglia a quella cinematografica. Nelle sue pagine vi è una sequenza rapida (non a caso i suoi romanzi sono stati sempre brevi) di immagini, di primi piani, di descrizioni precise e puntuali, di rappresentazioni variegate e multiformi. Nelle opere narrative di Sciascia possono scorgersi quelli che Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individuò come i canoni dell’estetica letteraria: “leggerezza”, “rapidità”, “esattezza”, “visibilità”, “molteplicità”. Detto ciò, risultava facile trascrivere in copioni cinematografici i suoi romanzi.

Per certi aspetti i suoi testi avevano in sé qualcosa che li assimilava alle sceneggiature.

 

Sciascia sceneggiatore

D’altro canto Sciascia si cimentò pure nella sceneggiatura. A parte il film “Un caso di coscienza”, dove collaborò alla sceneggiatura, la sua esperienza più significativa e intensa è legata al film di Florestano Vancini, “Bronte.

Cronaca di un massacro”6. Vancini, nel ricostruire i fatti di Bronte, la rivolta dei contadini nell’agosto del 1860 duramente stroncata dai garibaldini, si rivolse a Sciascia. Ne nacque una proficua collaborazione: chi meglio del romanziere siciliano poteva descrivere il mondo contadino isolano, col suo talento narrativo e l’attitudine alla ricerca documentale? Il film, originariamente prodotto per la RAI, fu all’epoca accolto da polemiche per l’asprezza con cui vennero rappresentati i fatti, e destinato alle sale. La pellicola, che ora viene di tanto in tanto proposta nelle scuole, porta l’impronta della penna di Sciascia: in molti dialoghi si avverte l’anelito alla giustizia e la passione civile che gli furono propri.

 

Il saggio di Sciascia sulla Sicilia nel cinema

Sciascia non scrisse costantemente sul cinema, come accadde a Moravia e Del Buono, che tenevano una rubrica di recensioni, rispettivamente sull’”Espresso” e sull’”Europeo”. Tuttavia ci ha lasciato un lodevole breve saggio, “La Sicilia nel cinema”, raccolto nel volume, edito da Einaudi nel 1970, La corda pazza. Il saggio, risalente ai primi anni Sessanta7, analizza lucidamente il modo come la Sicilia è stata rappresentata nel cinema a partire dagli albori dell’arte dei fratelli Lumière ai giorni in cui venne scritto. Lo studio di Sciascia mette in luce come, complessivamente, sia prevalsa, nella finzione cinematografica, una Sicilia folcloristica, ricca di stereotipi e di luoghi comuni e si sofferma sui film più noti che hanno visto l’Isola come sfondo e motivo ispiratore.

Osserva Sciascia: «Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come “mondo offeso”; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e di verità»8. Di questi temi l’ultimo è stato quello più sfruttato dal cinema, con risultati deludenti. Ma intorno agli altri due temi sono stati girate le pellicole più interessanti, sulle quali Sciascia punta l’attenzione con notazioni intelligenti e spesso non tenere.

Il giudizio su “La terra trema” di Visconti, ad esempio, non è affatto benevolo. Sciascia non condivide, nella trascrizione cinematografica de I Malalavoglia, l’uso del vernacolo. «Perché il vernacolo (non si può nemmeno parlare di dialetto), un vernacolo così stretto e concitato da riuscire, in parte, di difficile comprensione agli stessi siciliani?»9. Verga, secondo Sciascia, elaborando una lingua che non si risolveva nel dialetto ma che da questo aveva tratto elementi essenziali nella formulazione delle frasi e nella sintassi, si era rivelato più “moderno” di Visconti. L’osservazione di Sciascia pone l’accento sullo sperimentalismo linguistico di Verga, non colto da Visconti, che è uno dei punti di forza de I Malavoglia e su cui, a mio parere, la critica letteraria non si è tuttora soffermata sufficientemente.

Riserve sono espresse anche sui due film di Germi “In nome della legge”e “Il cammino della speranza”. Il primo, tratto dal romanzo Piccola pretura di Lo Schiavo, ha il torto di cedere alla descrizione di una mafia redimibile che, riconosciuto il buon operato e l’onestà del pretore, gli offre il proprio appoggio per consegnare alla giustizia l’autore di un delitto. È una visione quella di Germi ottimista e superficiale «lontana dall’effettuale realtà del fenomeno». Germi, inoltre, compie un’operazione null’affatto encomiabile: esporta il West nella Sicilia e nella mafia («il buon pretore al posto dello sceriffo, la plaga del feudo in luogo delle selvagge solitudini dell’ovest»10). Il secondo, “Il cammino della speranza”, racconta l’espatrio clandestino di zolfatari grazie al favore di una guardia di finanza. Anche questo film è ispirato da un buonismo che impedisce un’indagine veritiera sulle realtà isolane. Scrive ancora Sciascia: «Come nel film “In nome della legge” era la mafia che abdicava alla propria legge per pacificarsi con quella dello Stato, nel “Cammino della speranza” è la legge dello Stato che scende a pacificarsi con i diseredati»11, e questo in nome di un ottimismo fuorviante.

Dello stesso regista Sciascia, invece, salva, “Divorzio all’italiana” «in cui la materia passionale è deliziosamente rovesciata sotto i segni dell’eros comico brancatiano» e «la Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana»12.

Note dolenti per Antonioni e Bolognini. Ne “L’avventura” la Sicilia fa solo da sfondo figurativo e l’Isola non è oggetto di disamina; “Il bell’Antonio”, invece, è una trascrizione sciatta del romanzo di Brancati che, giustamente, da Sciascia è considerato un autore profondo e complesso.

Il film che, nel saggio di Sciascia, riscuote un pieno consenso è “Salvatore Giuliano” di Rosi. La visione del film accanto a un gruppo di contadini, in quel tempo non abituali frequentatori dei cinematografi, gli suggeriscono considerazioni sottili e acute. Sciascia nota come in quei contadini le scene anche strazianti destano ilarità. Ciò viene spiegato per il fatto che la mancata dimestichezza col cinema da parte di quei contadini provoca lo stupore che si prova dinanzi alla realtà riprodotta da un mezzo tecnico non conosciuto: “il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte”13. D’altra parte i contadini, pur non riuscendo a ben decifrare il contenuto di un linguaggio, quello cinematografico, che ignoravano, avvertivano che gli uomini e le scene del film non tradivano la realtà, non la deformavano. Da qui la loro partecipazione emotiva alle vicende narrate, il loro immedesimarsi nei personaggi del film, in particolare nella massa dei diseredati. Inoltre il capolavoro di Rosi era da loro apprezzato perché, malgrado il dubbio sulla strage di Portella della Ginestra, il mito di Salvatore Giuliano difensore dei poveri nella pellicola non veniva scalfito. Come? Attraverso un espediente usato dal regista: l’”invisibilità” del brigante; Salvatore Giuliano, infatti, non compare mai nel film, se non da cadavere. Scrive, appunto, Sciascia: «relegandolo nell’invisibilità Rosi ha reso più dura la condanna verso la classe dirigente che lo muoveva; ma al tempo stesso, per il pubblico siciliano, non faceva che confermare un mito»14.

Il saggio si conclude con un rilievo critico sul film di Lattuada “Il mafioso” che rivela uno Sciascia veggente. Nel film si rappresenta una Sicilia in cui tutto è mafia e la mafia si presta a diventare motivo di spettacolo. Sciascia si pone un interrogativo, che diventerà col tempo sempre più attuale: «noi che più volte ci siamo occupati della mafia, in libri ed articoli, siamo stati presi dal dubbio se il continuare a parlarne non finirà col rendere alla mafia quell’utile stesso che prima le rendeva il silenzio»15. Un triste presagio quello di utilizzare la mafia, anche nel cinema, per fini commerciali e, peggio, per scopi strumentali, di cui Sciascia avrà, negli ultimi anni della sua esistenza, lucida e amara consapevolezza.

Antonino Cangemi

Note

1 Su Sciascia e il cinema vedasi Cinema e letteratura- Leonardo Sciascia, Cinemazero, Pordenone 1993, e Leonardo Sciascia, a cura di S. Gesù, Catania, Maimone, 1992.
2 Su Sciascia spettatore si segnala E. Morreale, “Il cinema di Leonardo Sciascia”, in “Segno”, pp. 185-200.
3 P. Merenghetti, Dizionario dei film, Milano, Baldini &Castaldi, 1993.
4 A. Moravia, Cinema italiano, Recensioni e interventi 1944-2000, Milano, Bompiani, 2010. Vi sono raccolti tutti gli scritti dello scrittore romano sul cinema, da quelli giovanili alle recensioni su “L’Europeo” e “L’espresso”.
5 Le Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, Torino, Einaudi, 1988, comprendono le conferenze che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere, se non fosse scomparso prima, nel 1986.
6 Per la sceneggiatura del film “Bronte. Cronaca di un massacro”, vedasi www.culturaitalia.it.
7 Il saggio uscì originariamente in Film 1963, a cura di V. Spinazzola, Milano, Feltrinelli, 1963.
8 L. Sciascia, La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970, p. 243,
9 Ibidem, p. 245.
10 Ibidem, p. 247.
11 Ibidem, p. 248
12 Ibidem, pp. 248 e 249.
13 Ibidem, p. 252.
14 Ibidem, p. 254.
15 Ibidem, p. 254.

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 17-22.




Il sentimento religioso 

di Virgilio Titone 

di Antonino Cangemi 

La lettura dei Diari di Virgilio Titone svela, tra l’altro, il profondo spirito religioso dell’illustre storico di Castelvetrano, che si accompagna, in modo naturale e coerente, all’umanità che ne ha contraddistinto l’intera esistenza. Un’esistenza segnata dalla passione per gli studi umanistici, non solo storici ma anche letterari, che condussero il Titone a pubblicare un’infinità di scritti mai aridi o astratti, ma sempre ricchi di partecipazione emotiva e spesso connotati, nella loro assoluta originalità, da una cifra espressiva polemica genuina e per nulla fine a se stessa. 

La vena di polemista si coglie anche in diverse considerazioni espresse nei suoi Diari1 su temi religiosi. Titone, infatti, ha vissuto la sua religiosità con quel pudore intimistico e quel legame alla tradizione che temeva la Chiesa stesse perdendo. Non solo: Titone, da acuto osservatore della società, coglieva in essa alcuni aspetti che denotavano un affievolimento dello spirito religioso, e di ciò si doleva accoratamente. 

«La chiesa è tradizione» osservava in un suo scritto Panfilo Gentile2, e Titone non solo condivideva ma, per specificare quell’assunto, sottolineava come dovessero conservarsi le ritualità delle cerimonie religiose e, con esse, le preghiere, che in nessun modo potevano essere modificate. «Non si può parlare a Dio solo col cuore o con il sentimento. È necessario che quest’ultimo si esprima con precise parole e, se queste san quelle antiche e venerate delle preghiere delle nostre madri, dei nostri vecchi, di intere generazioni che hanno confidato a Dio le loro angosce e speranze, quel colloquio non solo sarà possibile, ma acquisterà un carattere di sacralità che altrimenti non avrebbe»3. Ciò Titone notava richiamando l’intuizione del suo maestro, Benedetto Croce, per la quale ogni pensiero prende corpo in una forma espressiva. Lo stesso vale per la fede, che si esprime nelle parole delle preghiere. 

La preghiera, pertanto, assumeva, nella religiosità di Titone, un’importanza fondamentale. Che Titone si fermasse spesso nelle chiese a pregare è un fatto non solo noto a chi lo ha conosciuto, ma testimoniato da diverse pagine dei suoi Diari. Alcune malinconiche, come era d’altronde la sua indole: «Non vedo più a San Michele quei vecchi che vedevo una volta … Sempre più spesso mi trovo a essere solo a pregare. I vecchi li trovo al bar. Non li condanno e talvolta penso a un giorno in cui tutti abbandoneranno la chiesa e sarò sempre più solo … So che quel giorno non verrà. Ma ci penso, forse per pietà di me stesso. Sarò fermo allora nella fede che fu di mia madre»4. Altre attente al decoro e al rispetto della tradizione nei luoghi di culto, come la lettera del 20-3-1986 al cardinale Pappalardo: «Mi permetto di rivolgerLe una preghiera per la chiesa di San Michele, nell’omonima piazza, di cui sono parrocchiano. Forse sarebbe opportuno far sostituire le maioliche, di per sé pregevoli, del Cuore di Gesù e della Vergine, specialmente quest’ultima. La tradizione iconografica, che va rispettata, non la rappresenta come una languida attricetta americana»5. Altre ancora esortative e di stimolo per chi non crede. Così, per esempio, si rivolgeva all’amico sofferente e ateo, Augusto Guerriero6 : «Qualche volta entri in una chiesa. Guardi coloro che pregano: gente umile, poveri vecchi, povere vecchie, ragazzi e giovinetti che hanno negli occhi la malinconica dolcezza della loro età incerta. Crede che tutti si ingannino, che siano ingannate le migliaia di uomini e donne che nel corso dei secoli e delle generazioni succedutesi l’una dopo l’altra hanno pregato su quelle stesse pietre, in quella stessa chiesa? Non si sono ingannate. Chi prega è sempre nel vero: Dio è nella sua preghiera»7. 

È da notare, peraltro – e in ciò si manifesta la non comune umanità e il vivo senso dell’ amicizia del poliedrico, e spesso incompreso, uomo di cultura -, come Titone, a margine di diverse lettere indirizzate ad Augusto Guerriero, si soffermi sulla fede. L’ amore «suppone non solo la nostra anima, ma le altre anime capaci di amare, vive nel bisogno di destare una vita negli altri: una vita spirituale»8. Oppure: «Penso alle sue notti insonni e prego per lei. Perché Dio c’è e l’anima è immortale»9. È davvero singolare e testimonia una fede molto salda: Titone, nel contesto di missive che trattano di altre cose, tira fuori, divagando, inattesi argomenti per convertire l’amico; perché, ci si rende conto, ciò che più gli sta a cuore è offrire uno spiraglio alla sua anima. 

Titone, si sa, è stato un uomo concreto, nemico degli astrattismi e delle riforme quando queste si profilavano vacue e prive di spessore. Perciò non stupisce come egli rifiutasse taluni nuovi modelli che una chiesa burocratizzata tentava di imporre e rimpiangesse i vecchi parroci. «La figura dei vecchi parroci, fino agli ultimi loro giorni solleciti della parrocchia; di questi padri, amici, consiglieri, spesso umili e sorridenti e sempre ricchi di indulgente esperienza, è sembrata improvvisamente anacronistica. Si vuoi sostituire con i preti-impiegati, che i fedeli vedranno succedersi nel giro di pochi anni e non impareranno a conoscere o amare»10. Così come appare in linea col suo pensiero e col suo stile di vita, operativo e pratico, il rifiuto polemico di quello che lui definisce «egoismo altruistico»: «S. Ignazio di Loyola ha scritto che è più facile amare l’umanità intera che il compagno con cui bisogna dividere la stessa cella. Infatti accade che gli apostoli dell’avvenire spesso si mostrano egoisticamente indifferenti dinanzi alla sofferenza presente. La bontà, la carità, gli affetti veri e profondi si trovano invece in quelli che silenziosamente fanno ogni giorno il loro dovere né mai pensano di guardarsi intorno per cercare gli applausi degli ammiratori»ll. Queste pagine ricordano, per certi aspetti, altre, mirabili, che Titone, anticipando di decenni tesi oggi di dominio comune, scrisse contro l’ideologia. 

Ma sbaglieremmo, e di grosso, se considerassimo Titone, anche per gli aspetti legati al suo sentire religioso, un mero nostalgico del bel tempo andato, un paladino della tradizione difesa a ogni costo o un pervicace reazionario. È questo un errore in cui molti sono caduti e continuano a cadere: Titone è stato sì un conservatore, ma a modo suo; ha difeso le tradizioni, ma in quanto espressioni di valori. La sua complessa personalità, piuttosto che in posizioni preconcette, trova il suo punto fondante in un liberalismo aperto e ricco di umanità. 

Ciò vale anche per la sua religiosità. Il cristianesimo evangelico di Titone si manifesta nella pietà per gli umili e per chi vive in condizioni di disagio. Illuminante, in questo senso, è la sua approvazione per le posizioni di una rivista cattolica olandese sugli omosessuali (si badi: siamo nel 1970). La rivista edita in Olanda («L’Olanda è ancora la patria della tolleranza» )12 si interroga: «Che cosa debbono fare i genitori, quando il loro figlio o anche la loro figlia dicono loro di essere omosessuali?» E risponde: «Essi debbono accettarlo e appoggiarlo emozionalmente senza riserve». Titone commenta: «Tutto ciò è certamente più cristiano della condanna sia della Chiesa sia dell’opinione comune e naturalmente suscita un senso di scandalizzato stupore in molti italiani, che, qualunque ne siano le opinioni politiche o religiose, si mostrano ugualmente indignati di tanta umanità o comprensione». Qui sta tutta la carica umana e il radicato cristianesimo di Titone, come pure – è la stessa anima che la ispira – nella pietà che egli provava per i defunti abbandonati. Al sindaco di Palermo segnalava perché intervenisse: «C’è poi un cimitero, quello degli inglesi all’Acqua Santa, dove ogni giorno vanno scomparendo le lapidi e i monumenti tombali di quei poveri morti che nessuno ricorda»13. 

Antonino Cangemi

NOTE 

1 «Diari», a cura di Calogero Messina, Novecento, Palermo, 1996. 
2 Panfilo Gentile, a cui Titone era molto legato, è stato uno scrittore e un giornalista di rara efficacia, assai noto nella seconda metà del ‘900. Il suo saggio Democrazie mafiose (1969), rimane, purtroppo, attuale e sinistramente profetico. In esso Gentile, ispirandosi alle teorie elitarie del Mosca, dimostra come gruppi di potere formati da figure mediocri impongano, in una democrazia non matura, le loro scelte dettate da interessi di lobby e non della collettività. Gentile si interessò anche a temi legati al cristianesimo. 
3 «Diari» (1970-1976), p. 84. 
4 «Diari» (1920-1969), p. 212. 
5 « Diari» (1977-1989), p. 266. 
6 Augusto Guerriero, ovvero «Ricciardetto», suo pseudonimo, è stato uno dei più noti giornalisti italiani, oltre che uno scrittore di non comune cultura. Tenne su «Epoca», dal 1950 al 1981 (anno della sua scomparsa) la fortunata rubrica «Conversazioni con i lettori». 
7 «Diari» (1920-1969), p. 251. 
8 Idem, p. 273 
9 «Diari» (1970-1976), p. 250. 
10 «Diari» (1920-1969), p. 221. 
11 «Diari» (1977-1989), p. 107. 
12 «Diari» (1970-1976), p. 33. 
13 «Diari» (1920-1969), p. 252.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 22-24.