Maria Viviana 

miniracconto di Caio Porfirio Carneiro 

Una fibbia ai capelli un po’ spettinati e un po’ brizzolati, veste d’un azzurro sbiadito, zoppicando da un piede, andava per gli stretti vialetti del cimitero cercando, con gli occhi socchiusi di miope, di leggere le lapidi delle tombe, erette a cappelle o infossate nel terreno. Si disorientava. Si vedeva perduta tra le croci, andava e riandava, cercando di leggere. 

Vide l’uomo che passava spingendo la carriola carica di mattoni. 

«Sa per caso dove sta Maria Viviana?» 
«Maria come?» 
« Viviana.» 
«Non sa il numero di sezione?» 
«Di che?» 
«La sezione.» 
«No.» 
«Vada in amministrazione. Là danno informazioni.» 
«Dov’è?» 
«Proprio all’ entrata.» 

Quasi si perdette per scovare il piccolo ufficio. Un uomo calvo esaminava il libro aperto sul bancone, annotava, non sentì bene quel che lei diceva. 

«Cosa cerca, buona donna?» 
«La croce di Maria Viviana.» 
«Maria come?» 
«Viviana.» 
«Qual è il nome completo?» 
«Non lo so.» 
«E non sa la sezione o il numero del viale e se ha lapide?» 
«Ha che cosa?» 
«Lapide. Il nome segnato, data di nascita e morte, queste cose … » 
«Non so … » 
«Così diventa difficile. Come ha detto che è il nome completo?» 
«È Maria Viviana.» 
«Nome carino. Ma deve avere un cognome. Non sa più niente di lei, data di morte?» 

Quella uscì disorientata, senza sapere come trovare Maria Viviana in quel mare di tombe e croci. 
L’uomo calvo si mosse e la chiamò «Torni qui. Vediamo un po’ …» 
Andò crescendo in lei una pena infinita per Maria Viviana in quel mare di croci. Risolse di andarsene in fretta, col suo zoppicare. 
L’uomo calvo la chiamò: «Ehi … venga qui. Ho trovato il nome. So dov’è … » 
Lei non gli fece caso. Attraversò il grande portone di fretta, zoppicando rasente 
all’alto muro del cimitero, come rifugiandosi in esso, una immensa angoscia nel cuore. 
Alla svolta, scomparve, dentro la veste azzurra sbiadita, con la fibbia che teneva i capelli un po’ spettinati, coi fili argentati. 

trad. di Renzo Mazzone

Caio Porfirio Carneiro

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 33.




Per Aluysio Mendonça Sampaio 

di Caio Porfirio Carneiro 

La sera dell’11 aprile scorso, la nostra amica scrittrice Maria de Lourdes Alba ci ha dato da Sào Paulo per fax la triste notizia della fine di Aluysio Mendonça Sampaio, direttore della rivista «Literatura Brasileira». 

Alla sua memoria dedichiamo questo breve profilo, allestito per noi da Caio Porfirio Carneiro, segretario dell’Unione Brasiliana Scrittori pualista, esprimendo insieme il nostro cordoglio alla signora Esther Cremaschi, che con Aluysio condivise la vita familiare e il lavoro giornalistico. E salutiamo l’amico scomparso con i suoi stessi versi, qui posti in epigrafe: un significativo haical sul senso della vita, pubblicato nella penultima pagina di «Spiragli» /2007. 

Naviga la mia nave solitudini 
nel mare senza fine 
verso orizzonti che non hanno approdi. 

A.M.S. 

L’11 aprile abbiamo perduto Aluysio Mendonça Sampaio, uno dei nomi eminenti del Sergipe, dove era nato; della Bahia, dove studiò e si laureò in giurisprudenza; di Sao Paulo, dove lavorò e mise su famiglia; del Brasile intero, per l’orma che ora lascia nel campo delle lettere, del diritto, della cultura in generale, e pure delle arti figurative. 

La mia amicizia con Aluysio veniva dagli inizi degli anni ’60, quando lui cominciò a frequentare l’U.B.E., coprendovi cariche direttive e lavorando con impegno. 

Fu uomo semplice, di-cultura vasta e convincente, dal campo giuridico al filosofico, dal sociologico allo storico, all’artistico-letterario. Fermo nelle sue idee e nei principi, pur senza fame proselitismo, aperto com’era a qualunque discussione, non assumeva arie dottorali. Amava pure gli scambi di battute allegre e le girandole aneddotiche, ma senza spirito bohémien, disciplinato com’era nei suoi doveri e nelle espressioni di vita. 

Uomo attivo e innovatore, instancabile studioso, era soprattutto un artista, nel senso ampio della parola. Faceva tutto con serietà e determinazione, con un tocco d’arte e con un pizzico di dolore sul piano creativo. Iniziò nella magistratura del lavoro nel 1957, sino alla quiescenza nel 1991, col grado di giudice togato del Tribunale regionale. Autore di alcuni saggi giuridici, fondò e diresse per dieci anni la «Rivista di diritto del lavoro» (Editora Revista dos Tribunais), in campo letterario scrisse poesie, racconti, romanzi e memoriali. Il suo libro Os anonimos meritò il prestigioso premio «Afonso Arinos» dell’ Academia Brasileira de Letras (Rio de Janeiro). La sua scrittura, accurata ed eccellente anche in chiave critica, spicca in alcuni titoli: Senhores e escravos, A escravidiio do indigena no Brasil, in materia storica; Jorge Amado, o romancista, uno degli studi più completi sul grande scrittore nazionale; Noite azul, poesia (che ebbe come editori due poeti: Clovis Moura e Wolney Milhomem). 

Merita anche attenzione la prova di Aluysio nelle arti figurative, suo hobby preferito, cui seppe dare forme in pregevoli quadri e disegni , che sono stati apprezzati in varie esposizioni. 

Andato in quiescenza dal lavoro professionale, fondò la rivista «Literatura Brasileira», in cui cercò di mettere in luce le nuove espressioni della poesia e della narrativa brasiliana, regione per regione, lavoro poco agevole e molto impegnativo che ha permesso alla rivista di imporsi sul piano nazionale. 

A questo impegno ho collaborato con amore, ed è stato un attento lavoro di indagine, rilevamento e mappatura della produzione letteraria, creativa o critica, non esclusa la ricerca di tanti lavori, per così dire, archiviati o riposti nei cassetti senza aver visto la luce. Lavori poi trasformati in due antologie corpose e di rilievo nazionale. 

Come autore e come operatore culturale, Aluysio Mendonça Sampaio fu anche valido traduttore dall’ inglese. Ricordiamo in particolare O Corvo, la sua versione del poema universale The Raven di Edgar Allan Poe, cui l’avevano motivato certe imprecisioni nelle varie traduzioni esistenti. 

Nato ad Aracaju il29 settembre 1926, fu attivo nel lavoro letterario sino alla fine. Il suo ultimo libro, Luomo col sigaro, del 2007, è una scelta di racconti che avevano superato il vaglio di critici letterari come Tristao de Athayde. 

Lascia la moglie Esther Cremaschi e quattro figli e nipoti. 

Un abbraccio, Aluysio. Tu non te ne sei andato. Sei rimasto e rimarrai con noi. 

Porfirio Caio Carneiro

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 53-54.




Maria Viviana

miniracconto di Caio Porfirio Carneiro 

Una fibbia ai capelli un po’ spettinati e un po’ brizzolati, veste d’un azzurro sbiadito, zoppicando da un piede, andava per gli stretti vialetti del cimitero cercando, con gli occhi socchiusi di miope, di leggere le lapidi delle tombe, erette a cappelle o infossate nel terreno. Si disorientava. Si vedeva perduta tra le croci, andava e riandava, cercando di leggere. 

Vide l’uomo che passava spingendo la carriola carica di mattoni. 

«Sa per caso dove sta Maria Viviana?» 

«Maria come?» 

« Viviana.» 

«Non sa il numero di sezione?» 

«Di che?» 

«La sezione.» 

«No.» 

«Vada in amministrazione. Là danno informazioni.» 

«Dov’è?» 

«Proprio all’ entrata.» 

Quasi si perdette per scovare il piccolo ufficio. Un uomo calvo esaminava il libro aperto sul bancone, annotava, non sentì bene quel che lei diceva. 

«Cosa cerca, buona donna?» 

«La croce di Maria Viviana.» 

«Maria come?» 

«Viviana.» 

«Qual è il nome completo?» 

«Non lo so.» 

«E non sa la sezione o il numero del viale e se ha lapide?» 

«Ha che cosa?» 

«Lapide. Il nome segnato, data di nascita e morte, queste cose … » 

«Non so … » 

«Così diventa difficile. Come ha detto che è il nome completo?» 

«È Maria Viviana.» 

«Nome carino. Ma deve avere un cognome. Non sa più niente di lei, data di 

morte?» 

Quella uscì disorientata, senza sapere come trovare Maria Viviana in quel mare di tombe e croci. 

L’uomo calvo si mosse e la chiamò «Torni qui. Vediamo un po’ …» 

Andò crescendo in lei una pena infinita per Maria Viviana in quel mare di croci. Risolse di andarsene in fretta, col suo zoppicare. 

L’uomo calvo la chiamò: «Ehi … venga qui. Ho trovato il nome. So dov’è … » 

Lei non gli fece caso. Attraversò il grande portone di fretta, zoppicando rasente 

all’alto muro del cimitero, come rifugiandosi in esso, una immensa angoscia nel cuore. 

Alla svolta, scomparve, dentro la veste azzurra sbiadita, con la fibbia che teneva i capelli un po’ spettinati, coi fili argentati. 

trad. di Renzo Mazzone




La cena 

Racconto di Caio Porfirio Carneiro 

Guardò dalla finestra. II vento e il paesaggio. E la banderuola segnavento. Un frantume di vetro si specchiava al sole, laggiù. 

Si sedette, sospirò, diede un’ occhiata ai piedi doloranti negli stivaletti impolverati. Per il gran camminare. Gli alberi fronzuti nel cortile sempre gli stessi. Il corridoio si apriva verso l’interno. Dalla sala da pranzo spuntava lo spigolo d’un tavolo. 

Avanzò un poco. Le pareti coperte di ritratti. Sedie imbottite. Si voltò a guardare fuori. Il vento era calato. Camminò lentamente lungo il corridoio, il suono dei passi a ritmare la sua presenza. 

Ora di cena. 

Allora il tavolo largo e lucido apparve in primo piano. 

Lui esaminò i mobili, la cristalliera che aveva tenuto in vetrina servizi pregiati. 

Non fu sorpreso di vederla seduta a capotavola, in ombra. Le si sedette di fronte, il piano del tavolo a separarli. Allungò lo sguardo al pavimento del corridoio, e alla chioma degli alberi in cortile. 

«E siamo qui… Tutto come prima.» 

Lei sorrise. II sorriso di sempre. Lo stesso abito un po’ scolorito. 

«Niente è cambiato.» 

Lei disfece il sorriso. Si allungò sulla sedia. Incrociò le mani, le dita senza anelli erano più sottili, cresciute le unghie. Lo sguardo un po’ spento. 

«Sì, niente o poco è cambiato. 

Un filo d’aria per il corridoio e faceva battere a tratti un’anta della porta. La vernice del tavolo, in un punto scrostata, mostrava screpolature nel legno. A un angolo della stanza pendeva come un velo una tela di ragno. 

«Cose del tempo.» 

Lei tornò a sorridere. Piccole rughe a rigarle il viso. 

«Ma quanti anni … » 

Si alzò e si diresse al cortile. Non andò oltre la cucina: al,te pareti spoglie e fenditure in lungo, focolare spento. II muro di cinta caduto, alberi spogli attorno e appesa qualche foglia. Pezzi di legno e una tenda disfatta nel vivaio. Niente cinguettii d’ uccelli. 

Tornò indietro e si rimise a sedere, dolenti le giunture. 

«Qualche cosa è cambiata, però … » 

Nella vernice del tavolo, buchi precisi scavati dal tarlo. E muri senza intonaco, tegole sconnesse, parte del tetto scoperchiata. 

Lei, di fronte, un’ombra mummificata, veste a strisce di bave e sfilature. 

Fuori dalla stanza, calcinacci nel corridoio intralciavano il passaggio. Quel che restava della porta cigolava e andava a sbattere a ogni soffio di vento. Fuori, erbacce cresciute. E lucertole slittavano nel mezzo. 

Si mosse per andare a dare uno sguardo. Pochi passi e si fermò tra il fogliame secco e ramaglie sparse … 

Una trave pendeva là in alto, sembrava scuotersi a tratti. E c’era una sedia impagliata là in basso, con la spalliera al muro, dove una lucertola saliva e scendeva. 

«Sì, cambiata.» 

Pestò un frammento di vetro: conservava lo stesso identico riflesso di quando era nella cristalliera. 

Si chinò per raccoglierlo. Fu un inchino, come in una riverenza. 

«Però … » 

Mosse i passi tra i mucchi di calcinacci, con la mano appoggiandosi ai resti del muro. Cercò con lo sguardo la banderuola a vento. Poi si guardò la punta delle scarpe impolverate dal lungo andare. E un uccellino si posò lassù, in cima alla trave pendente, roteò gli occhietti ai quattro punti cardinali. 

Spiccò il volo. Scomparve. 

Versione italiana di Salvator d Anna da «Literatura Brasileira» n. 31 , 2003, e n. 6, 1997. 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 40-41.




ACCORDI

Son io che parlo nelle note mute 
di questa sinfonia, 
io che mando segnali al mio futuro 
pizzicando le corde 
della magia. 
Ed ecco il pianto lieve, passeggero: 
muoiono le sue gocce 
come muoiono l’ore 
nel soffio fuggitivo del piacere 
ora, nel disincanto. 
Mi conforta soltanto 
quel che mi segna l’orologio a muro 
nel lento gocciolio che accompagna 
i giorni 
e mi trasforma con le mie paure 
in vani accordi in cui non riconcilio 
me con la mia amarezza, 
in questo giorno, 
ora. 

Caio Porfirio Carneiro 

da «L.B .» n. 39, 2005

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.