Milluzzo Artista dell’umana sensibilità 

Una personale di Sebastiano Milluzzo non può certo passare inosservata, specie per chi ha avuto modo di vederne altre, in Sicilia e altrove. L’occasione ce l’ha offerta Arte Club ’88 di Marsala, aprendo i suoi locali ad un artista tra i più validi del nostro tempo. 

In un periodo in cui il provvisorio e il dilettantismo invadono il mercato, mortificando l’arte e relegandola in confini sempre più ristretti, fa veramente bene all’anima e al corpo trovarsi dinanzi ad opere di Milluzzo, un artista che pur avendo preferito radicarsi ancor più nella sua terra di Sicilia, è rimasto sempre attento ai movimenti e alle correnti artistiche sviluppatisi in Italia e fuori, facendoli oggetto di ricerca e di acquisizione tutte proprie, pervenendo così a risultati sorprendenti ed originali. 

Figura di artista poliedrica, sia che plasmi la materia o abbozzi un disegno, sia che crei una scenografia o lavori la ceramica, ti accorgi che viene trasportato dal fuoco creativo avvincente e seducente al tempo stesso. E l’arte si fa vita, movimento e anche staticità pensosa e riflessiva come chi, proiettato in un progresso zeppo di interrogativi, si fermi un momento a considerare se stesso e gli altri. 

L’arte di Milluzzo ha proprio il dono di trasportarci e farsi seguire anche là dove i tentativi sembrano senza sbocco, perché c’è in essa sempre qualcosa che ci colpisce e. a volte, disorienta. Vuol dire che non ci troviamo dinanzi al solito imbrattatele che niente ha da dire, bensì ad un uomo prima che ad un maestro che utilizza il mestiere per elevare culturalmente il suo simile e riscattare certi valori che sono in lui, messi nel dimenticatoio e mortificati. Guarda un po’ le immagini o gli arlecchini, su cui ama il Nostro ritornare – basta considerare la sua produzione sin dai primi lavori per rendertene conto – per notare questo aspetto che ritengo fondamentale: traspare in essi un senso di innocenza che sembra smarrita, disorientata. È il timore di perderla che li lascia assorti e meditativi. 

I colori concorrono a partecipare questi sentimenti. Ora sono chiaroscuri, ora accesi quasi a trasmettere il fuoco che anima l’arte del siciliano Milluzzo. Una sicilianità questa, che non è un chiudersi entro i parametri ben definiti dell’Isola (Migneco, Giambecchina, per citarne alcuni), ma il rispecchiarsi della solarità mediterranea (Fiori, Paesaggio, Albero e case, la più recente Composizione), del colore represso e cristallizzato della sua terra lavica che viene irradiato a più ampi orizzonti. Volto di donna, coi capelli sciolti al vento, nei colori accesi quasi di un rosso-porpora, negli occhi così espressivi che fermano, vuoi o no, l’ammiratore, è la Penelope che richiama l’eroe, il quale, fermo nel suo sentire mediterraneo, pur attaccato alla donna, che è poi il carattere espansivo, aperto, sensitivo, caldo degli uomini di questo lembo di terra, coglie il richiamo che viene da lontano e lo asseconda. 

La ricerca di Milluzzo è come quella dell’ape: ha succhiato i fiori più belli per dare in dono la sua arte personalissima. Cézanne, Picasso, Modigliani, gli espressionisti, tutti gli suggeriscono qualcosa e tutti hanno qualcosa da dirgli per affinare ancora di più le sue tecniche e raggiungere una espressività che non è solo slancio verso la perfezione, ma bisogno insito di nuove conquiste. Quel richiamo di Ulisse che viene da lontano, insomma, e che lo spinge lontano. 

Nessuno nella ricerca artistica è un isolato, e tanto meno Milluzzo. E questo a dissentire quanti lo considerano tale. L’arte, la vera arte, quando è tale, che è anche vera poesia, non isola alcuno. Che Milluzzo abbia preferito rimanere tra la sua gente abbarbicata alle falde dell’Etna, non vuol dire niente, come niente vuol dire l’essersi allontanato dai fragori passeggeri e momentanei, a cui ricorre la gente qualunque per godere uno sprazzo di notorietà. La vera arte rifugge la notorietà spicciola per acquisire quella vera nel tempo e col tempo. L’essersi tenuto sempre aggiornato dei risvolti artistici più avanzati, vuol dire che non si è fatta sfuggire occasione alcuna per confrontarsi con altre esperienze e non si è chiuso in un ambiente che, diversamente, per quanto bello possa essere, a lungo andare, risulterebbe asfittico e improduttivo. Milluzzo ha scelto l’Isola per salvaguardare la sua arte. E non vi trovi altro regionalismo, se non il mondo o – se vuoi – le regioni del mondo, che cambiano nel loro aspetto paesaggistico, ma per il cuore rimangono tutte uguali. 

L’arte di Sebastiano Milluzzo nobilita prima di ogni cosa il sentire dell’uomo. L’espressività non è ricerca di un motivo come timbro della sua pittura, dei suoi disegni, della sua scultura; essa è. spontanea, così come spontaneo è ogni sussulto dell’animo. È qui che riesce bene Milluzzo, qui riesce grande la sua arte. Poi ci sono i colori. la cadenza delle linee, l’armonia propria di quest’arte. La Cucitrice, più che cucire. pensa; pensa con la grazia di una donna che nel lavoro affronta anche i suoi crucci e le sue ansie, siano essi di innamorata o di madre amorosa. Osserva poi le linee, i loro allungamenti. l’armonia che è nei colori. La lezione di Modigliani esce più ingentilita, quasi aerea, come la mano leggera che si posa sullo strumento del suo lavoro. 

Noi non ci stancheremo mai di ammirare Marisa: è la dolcezza personificata, la Beatrice che eleva il corpo e l’anima per attaccarli ancor di più a questa terra, alla nostra esistenza e farcela amare. Qui Milluzzo raggiunge le sfere più alte della poesia. Il bianco acquista grazia dal candore del volto, fermando così sulla tela una luce che inebria e distende. 

E questa luce emerge anche nella scultura. Si osservi un ritratto in rame o un nudo in bronzo. ad esempio. La materia, levigata e plasmata come cera, docilmente ubbidisce alle mani dell’artista che esprime la sua sensibilità di uomo e di poeta. Quei volti così pensosi, presi come sono dal travaglio esistenziale, parlano direttamente al cuore, e le linee magistralmente tirate, che sembrano abbozzate alla meglio, esprimono una drammaticità sofferta grazie alla tavolozza di Milluzzo, un artista che mirabilmente scandaglia gli angoli più reconditi dell’umana sensibilità. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 44-46.




Michele Digrandi, pittore della memoria

Se volessimo racchiudere, nel giro di poche parole, la pittura del ragusano Michele Digrandi, diremmo che la sua è una pittura della memoria, nel senso che, a parte le varie aperture insite nelle sue tele, presenta il mondo isolano di una volta, pur con il rischio di vederlo da qui a poco tempo ancor più modificato e reso irriconoscibile. 

La ricerca pittorica del Digrandi è tesa, di proposito, su questo doppio binario: da una parte, il paesaggio millenario, calcificato e quasi ancestrale, di quella zona orientale della Sicilia che gli ha dato i natali, dall’altra, una sua possibile salvaguardia, che non può essere data se non dalla denuncia di un degrado che non è solo ambientale, ma umano e sociale al tempo stesso. E se è vero che alla base di ogni intento artistico c’è un movente emozionale che spinge l’autore a riversare quanto ha dentro, è pure vero che Digrandi, sotto una ben celata bonomia, esprime la rabbia di chi, pur volendo, è messo nelle condizioni di non poter fare nulla e di subire lo scempio che viene perpetrato ai danni dell’ambiente, nel nome di un progresso inumano e ripugnante. 

Pittura della memoria, dunque! Se il pericolo è nella quotidianità che tende a distruggere ogni cosa. ecco il pittore che, novello Noè, salva ciò che può, cogliendo, con i colori che sono suoi, la natura nello stato primordiale, ai più recondito, ma vero, della sua terra, per fissarla nel tempo e nella memoria degli uomini. E allora le pietre, che di questa natura sono parte integrante, occupano un posto di rilievo, le coltivazioni tendenti al biondooro, i carrubi con il loro verde vivo e la loro ombra ristoratrice. il mare e il cielo risplendono e esplodono di luce e sono la manifesta effusione di quella solarità mediterranea tanto presente e insistente nelle opere del nostro pittore. 

Ma le pietre – si osservi bene Veduta, a cui ci riferivamo sopra – non sono un elemento ornativo. Esse testimoniano lo scorrere dei secoli e la lunga, dura fatica degli uomini, e ci riportano, a parte l’apertura al mare, alla vocazione puramente agricola della Sicilia (nel tempo disboccata e spietrata per guadagnare spazio alle coltivazioni), e ora tradita, nel nome di una falsa industrializzazione che palesa i suoi lati negativi e più deleteri: un consumismo sfrenato che non perdona a nessuno, nemmeno all’ambiente, come in Triste realtà, contaminato da rifiuti e da residui nocivi. 

Il realismo così concepito non è una mera trascrizione del vissuto quotidiano, così come gli ampi paesaggi non distendono solo gli occhi e la mente: esso è presa di cos~ienza, partecipazione attenta, di uomo e di cittadino, a quelli che sono i problemi che travagliano la società odierna e attentano alla sua sopravvivenza. La trota, che vediamo guizzare fuori dall’acqua, in un dipinto del 1987 che ha per titolo Fuga 2, simboleggia proprio questo. Essa, come d’altronde ogni essere vivente, è spinta dallo slancio della disperazione, non volendo sottostare e morire nella morsa dei tentacoli di una piovra che stringe e soffoca il mondo. 

Il simbolismo, qui più che mai, è pregno di un messaggio niente affatto retorico, o comune, bensì portatore di una denuncia che dice tutto lo scontento di chi passivamente non accetta la depravazione in cui l’uomo è andato via via cadendo e, al tempo stesso, è rivelatore di un ottimismo che, seppure latente, spinge a ben sperare. Segno, questo, che l’uomo ha ancora una forte capacità di rivalsa che gli permette di guardare il mondo e di coglierlo nei suoi aspetti più genuini e buoni. Così, in Tentazione, se c’è il serpente che s’incunea tra gli incastri delle pietre, a secco diligentemente sopramesse, c’è pure un mare aperto, e la vita che dirompe, in un colore azzurro chiaro che, di per sé, rasserena e distende: e, anche se un globo, all’orizzonte, è in una non ben definita posizione, tutto lascia presupporre che sia proteso verso l’alto. 

Come può ben notarsi, Digrandi dà grande importanza agli esseri inanimati e non, e fa in modo che essi parlino attraverso il simbolo che rappresentano. L’uomo, a prima vista, sembrerebbe l’escluso di questa pittura, mentre, invece, essa si sviluppa e trova la sua ragion d’essere nell’esistenza umana, resa tanto problematica e travagliata da non riconoscetvisi. Eppure, basta che ci si guardi attorno per affermare ancora una volta che la vita va vissuta nella sua interezza, con occhi bambini o, se vogliamo, con quelli degli animaletti o degli insetti che popolano la natura, per gustarla e amarla. Si veda, a esempio, Inno alla vita, dove rettili, insetti, uccelli, “cantano” effettivamente nella pienezza di un giorno luminoso la vita, mentre un pulcino sta sgusciando e un carrubo secolare, con un fusto nerboruto, affonda le sue radici in un terreno pietroso. 

Michele Digrandi dipinge una natura luminosa, non segnata dallo scandire monotono del tempo, che sembra essersi fermato per sempre, dove il reale sconfina nell’irreale, per riproporsi e fissarsi nella mente con la sua originaria semplicità. Piante comuni della terra isolana (il carrubo predomina anche nei suoi disegni) e fiori traboccanti di colori e di odori e, ancora, api, farfalle e ogni altra manifestazione di vita che, pure nella distensione della luce, dicono il loro risveglio e la loro laboriosità. 

Questi paesaggi così solari, descritti con una precisione fotografica, e ricchi di particolari, hanno in sé una patina di surreale, come se si trattasse di un mondo chissà quale, frutto veramente di un preciso momento che segna il passaggio dalla realtà al sogno, perché di sogno si tratta, piacevole come in Inno alla vita, o rilassante nella sua solarità, come in Veduta, o, ancora, che scuote e lascia pensosi (Fuga 2 ). L’evasione dalla realtà, per Digrandi, altro non è che aderenza piena. totale, alla vera realtà, quella che il più delle volte sfugge all’osservatore, indifferente o distratto, che così non riesce a cogliere l’essenza vera della vita. 

Questo surrealismo, che è un atteggiamento più o meno presente nella maggior parte delle tele del pittore Digrandi, non è una forzatura, e nemmeno un partito preso (anche nei dipinti più manifestamente impegnati, come in Fuga 2); è qualcosa di insito, dovuto certamente alla sua frequentazione dei maggiori artisti e movimenti avanguardistici della nostra epoca. ma, comunque, connaturato al suo modo di intendere l’arte e la vita. Ciò effettivamente fa pensare ad un legame artistico-spirituale con i surrealisti maggiori. Non a caso, ci viene di ricordare René Magritte, a proposito della minuziosità compositiva. Come in Magritte. c’è in Digrandi (“Genesi n. 3“) una predisposizione naturale a cogliere nel suo insieme ogni tassello, ogni elemento che, a prima vista. potrebbe apparire insignificante e che, invece, costituisce e ci restituisce il tutto. 

Una minuziosità, quella di Michele Digrandi, che fa pensare alla laboriosità meticolosa dell’ape, tante volte oggetto dei suoi quadri, e che parla con il linguaggio semplice di tutti i giorni. Provate a osservare l’incastro delle pietre posate l’una accanto all’altra, degno lavoro di un abile pietrista, oppure il fusto di un carrubo, pieno di rughe nerborute che dicono la sua voglia di vivere o, ancora, la trota. o la piovra con i suoi tentacoli e le ventose: sono di una precisione impressionante! 

Abbiamo parlato di solarità mediterranea in uno spazio atemporale, e questo perché la poesia supera i limiti del tempo e s’impone e dirompe con la forza che le è propria. La poesia dei colori, nella pittura di Digrandi, esercita un fascino che non è facile dimenticare; essa è purificata dall’atmosfera di sogno. a cui ci siamo riferiti. e ha in sé la bellezza e la freschezza di un idillio. A tutto questo egli giunge grazie a una consumata perizia che gli permette di utilizzare le tecniche più diverse, dalle pitture acriliche ai pastelli, o ai semplici disegni. per esternare quell'”io” profondo che è alla base della sua ricerca artistica e umana. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 41-44.




Mélanges de Littérature française, belge et comparée, textes rassemblés et présentés par Diana Martinez-Raposo et Rosalia VelIa, Castelvetrano (Tp), Mazzotta, 2004.

Interessante e ricco di contributi letterari è questo volume antologico curato da D. Martinez-Raposo e R. Vella. Interessante perché offre un ampio ventaglio di interventi che abbraccia il Settecento e l’Ottocento, relativamente alla letteratura francese, belga e comparata; ricco perché degli autori studiati presenta molti aspetti nuovi o poco noti. 

L’antologia, che raccoglie scritti di studiosi italiani e stranieri, nella sua poliedricità mette in risalto la figura e l’opera di J. P. de Nola, professore emerito dell’Università di Palermo, studioso di letteratura francese e comparata, autore di innumerevoli pubblicazioni in Italia e all’estero, stimato conoscitore di Bourget e di Chenedollé e di tanti altri che, grazie a lui, abbiamo imparato a conoscere. Gli scritti sono tutti meritori, e faremmo un torto se ne citassimo alcuni. Il lettore saprà valutare e apprezzare l’opera che è sicuramente di stimolo allo studio e alla ricerca. Noi ci auguriamo che il volume abbia tanta fortuna e, soprattutto, che Jean-Paul de Nola continui nella sua opera di divulgatore culturale e di studioso appassionato che abbiamo sempre ammirato. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 45.




Mario Scamardo – Sara Riolo, Il Favoliere. Cucù e le sue storie, Ila Palma, Palermo, 2004. 

Oggi che la televisione invade le case senza lasciare alcuno spazio al dialogo e alla conversazione, sembra un fiore fuori tempo un libro come questo: Il Favoliere. Cucù e le sue storie di M. Scamardo e Sara Riolo, con disegni di G. Salvia. Per questo si accoglie con piacere e va diffuso e fatto conoscere. 

Sono favole calate per lo più nella realtà e nell’ambiente montano palermitano, ma non mancano quelle ambientate in altre zone del mondo. Quello che è importante è che i personaggi sono cosmopoliti, nel senso che da buoni cittadini del mondo, dicono dell’uomo e fanno di tutto per avvicinarlo al senso umano della 

vita, facendolo riflettere su fatti e situazioni che succedono dovunque. Si legga la prima, tanto per citarne una, «Cucù e il giardino dei sentimenti», o «Il castagneto 

degli gnomi», sono favole che recuperano il rispetto per gli altri, il giusto peso che va dato agli uomini e alle cose che spesso non comportano grandi impegni e sacrifici, eppure basta poco per fare felici gli altri e vivere in armonia con il prossimo. Che è quello che ci vuole perché predomini la pace e il bene. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 46-47.

 




 Mariangela Sauto,Nel tempo e oltre,, Eranova-Bancheri, Delia (Cl), 1999. 

In bella veste tipografica, arricchita di illustrazioni di Luisa Vacirca che si calano nel contenuto, questa silloge di poesia Nel tempo e oltre offre una panoramica d’insieme del percorso umano ed artistico di Mariangela Sauto. Se il tempo scandisce la nostra vita, noi dobbiamo darle un significato attraverso la sensibilità, ma anche e soprattutto la razionalità, e riempirla di contenuti, perché possiamo andare «oltre» ed esserne degni. 

La poesia di Sauto qualifica l’uomo, lo nobilita e lo rende degno di librarsi in una sfera di superiore bellezza. Per questo è una poesia che va letta e ascoltata, facendo proprie persino le pause e i silenzi per apprezzarla ora nella sua propensione al discorso, ora nel breve giro di pochi versi, comunque sempre pronta a cogliere la vita nel suo farsi nel tempo («Identità di vedute», «Singolare silenzio», «Plurale agorà», «L’arte in parte», «Amor sacro e profano», «Rivelazione») e nella conoscenza, come sottolineano, a ragione, i richiami filosofici («Physis», «Psyché», «Polis», «Logos», «Philos», Gnosis») posti all’inizio di ognuno dei sei «tempi» di cui il libro si compone. 

Un saggio di Lina Riccobene introduce e accompagna all’interno di ogni «tempo», rendendola a tutti fruibile, questa poesia. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 46.




M. AMARI, STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA (2 VOLL.), FIRENZE, LE MONNIER, 2002.

Con una presentazione di G. Giarrizzo e un saggio di M. Moretti, in bella veste editoriale, viene pubblicata una nuova edizione dell’ormai classica Stona dei Musulmani di Sicilia di Micheli Amari (1806-1889), letterato e storico palermitano, tra i più validi arabisti che l’Italia abbia mai avuto. 

Merito di Michele Amari fu quello di avere per primo contribuito a far conoscere un periodo poco visitato dagli storici (la dominazione araba in Sicilia) e di aver suscitato un’ondata di patriottismo che sicuramente ebbe la sua parte nel processo di unificazione italiana. 

Il pregio che caratterizza l’opera è che l’Amari sa bene collocarsi in un piedistallo alto, tale da poter osservare vincitori e vinti con equidistanza e, nel contempo, con umana comprensione. 

Lo stile, molto fruibile, semplice pur nella profondità di pensiero, riesce a coinvolgere il lettore e a calarlo nella realtà siciliana di quell’età carica di eventi e ricca di aspettative. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pag. 60.




L. Zinna, Trittico clandestino, Siracusa-Palermo, Ediprint, 1990, pagg. 64.

Tre racconti fra il reale e il fantastico questi che Lucio Zinna ci offre in Trittico clandestino, di facile lettura. 

Apparentemente a sé stanti, i tre racconti («Tra inverno e primavera», «Dal ”Trinacria” al “Rotoli”, «L’uomo cane») presentano tante affinità, per cui, a lettura avvenuta, il lettore è portato a considerarli come tre risvolti di una stessa tela; la vita o, meglio, la quotidianità della vita che spesso riserva incongruenze e misteri di cui, pur essendo i protagonisti, non sempre veniamo a capo, sicché ce li portiamo dietro come tanti fili d’Arianna che sistematicamente avviluppano e sovrastano l’umana esistenza. 

Quella che particolarmente colpisce è la dolce, diafana figura di Letizia che Zinna poeta in modo magistrale tratteggia nel primo racconto: una soave figura di donna che casualmente compare per immergerci nel sogno e scomparire così come è venuta. 

Trittico clandestino è un esempio di scrittura che convince e dobbiamo essere grati all’Autore per averci offerto alcuni momenti di serena evasione. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 61




 L. Zingales, LA MAFIA NEGLI ANNI ’60 IN SICILIA

Caltanissetta, Terzo Millennio, 2003, pagg. 280. 

Leone Zingales, giornalista e scrittore, con una serie di pubblicazioni analizza e mette a fuoco il problema della mafia. Il mestiere di cronista lo aiuta molto, perché ha spesso notizie di prima mano che gli permettono di formulare ipotesi e, soprattutto, di delineare un quadro chiaro e sempre più ricco di risvolti del fenomeno mafioso in Sicilia. 

In questo suo ultimo libro, La mafia negli anni 60 in Sicilia. Dagli affari nell’edilizia alla prima “guerra” tra clan fino al processo di Catanzaro, edito da Terzo Millennio, molto sensibile ed aperto alle problematiche sociali, Zingales offre una panoramica d’insieme della mafia, quale si venne gradatamente a delineare, dagli ultimi anni ’50, dietro lo stimolo di Cosa Nostra americana. 

Il libro, a parte la premessa e l’introduzione, consta di tre sezioni ed inizia con: Com’era la mafia tra gli anni ’50 e gli anni ’60, in cui, oltre a mettere in evidenza il passaggio dalla vecchia alla nuova mafia, l’A. si sofferma a trattare dei rapporti bene intrecciati tra la mafia siciliana e quella d’oltre Oceano, segno dei mutati interessi e di un rinnovamento in negativo che avrebbe portato ad innumerevoli morti ammazzati e ad una marea di azioni criminose. 

Evidentemente va anche detto che allora in Sicilia e nel Meridione era in atto un cambiamento socio-economico dovuto all’abbandono delle terre, ad opera dei contadini che prima avevano invocato la riforma agraria e la spartizione della terra, ma poi, ottenutala, per mancanza delle nuove infrastrutture e una serie di cose, preferiscono andare a lavorare altrove. Le campagne non renderanno più come prima ed, inoltre, si spopoleranno, spostando l’asse degli interessi nelle città, compreso quello dei malavitosi, che sperimentano anche loro, come già gli amici americani, la possibilità di più facili e lucrosi introiti. 

La seconda sezione è costituita da: La prima guerra di mafia, 1959-1963, ed elenca tutta la serie di omicidi ed attentati, che portarono alla ribalta i “Corleonesi”, disposti a recludere a chiunque il loro spazio vitale, a costo di imporsi ancora con le armi, le intimidazioni e le stragi, le quali seminarono sangue e panico anche tra gente onesta e innocente. 

Nella terza ed ultima sezione (Anni ’60. Scontro tra clan) viene riportato il processo di Catanzaro, con le sentenza e la relativa condanna. A leggere il voluminoso fascicolo ci si fa chiara idea della guerra che si combatté in quegli anni, con nomi di capi e di gregari, retroscena e luoghi dove i responsabili consumarono delitti e stragi. Quello che ne risulta è un quadro abbastanza movimentato, ricco di particolari, e di aiuto alla comprensione del fenomeno mafioso, come risulterà negli anni a venire, con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e le informazioni dei pentiti. 

Leone Zingales propone con questo suo libro una pagina sanguinante della storia siciliana, ma è una pagina vera (collusione mafia-politica, riciclaggio di denaro, contrabbando, estorsioni), che deve far riflettere per migliorare e per ritrovare quel senso di rispetto della persona, garante d’un vivere sociale onesto e rispettoso del diritto. 

U. Carruba




 H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia

Caltanissetta, Terzo Millennio, 2002, pagg. 128. 

«Helli e Dorothy Koenigsberger risultano da queste pagine due visitatori insoliti: non trascurano niente e, in cambio, tutto li interessa. Se tanti preferiscono questo o quell’aspetto, trascurandone altri, essi tengono conto della storia intesa come continuo mutare delle cose e degli uomini, ma anche come fedeltà alle abitudini che il tempo consolida, nonostante avanzi il nuovo con la sua azione demolitrice. 

Se è vero che il siciliano parlato non è più quello della prima metà del secolo scorso, è anche vero che il carattere dei Siciliani non solo rimarrà inalterato, ma ne uscirà arricchito dai nuovi apporti e manterrà le sue caratteristiche che lo distinguono dagli altri popoli: l’ospitalità e l’umanità che gli sono proprie» . 

Ma il libro è tutto da leggere; il quadro che ne viene fuori è quello di una Sicilia insolita, scritta a due mani e vista da occhi disinvolti eppure attenti ed abbastanza obiettivi. 

Ugo Carruba




Giampaolo Pansa, Carte false Milano, B.U.R. 

La gente onesta, che è pure tanta, vive tra le nuvole? 

A leggere questo libro di Pansa, penso sia proprio così, fuori come essa è dal mondo degli imbrogli e dai traffici traffichini. Essa tutto può immaginare che uomini apparentemente integri siano corrotti e intricati in una ragnatela viziosa da cui sembra 

impossibile potere uscire. 

Il giornalismo italiano, con un tono ora ironico, ma sempre pacato, ora pungente, non risparmiando accuse ben precise, viene messo allo scoperto, non perché l’autore vuole denigrarlo, ma perché gli si è rivelato una forte delusione. 

Ne risulta che la libertà dell’informazione è solo apparente, perché essa viene manipolata e gestita dalle forze del potere, palesi o nascoste che siano, per cui il lettore viene stornato dalla verità e disorientato. 

Questo Carte false va letto anche se lascerà disgustati. Se poi non si vuole seguire l’ordine dei capitoli, si legga prima quello degli editori «impuri» e poi quello della «Palude». Gli altri verranno da sé. 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 45-46.