G. Salucci, Bibbia, Vangelo, Corano, Roma, E.I.L.E.S., pagg. 112.

Nota comune e dominante di questi tre libri sacri è l’amore che, quando non è stato ben compreso, ha provocato anche odio e guerre tra gli uomini. Come mai da tanto amore è potuto scaturire tanto odio? Salucci fa notare che, oltre all’amore, sono presenti in essi spunti che possono portare ad una interpretazione opposta della vita e dello stesso concetto di Dio. 

L’Autore, evidentemente, vuole fare opera di conciliazione tra quanti amano Dio e vogliono la pace. Per questo ha concepito questo libro, che è come introduzione ad un lavoro ben più ampio, in tre volumi, indirizzato proprio a chi ha veramente a cuore le sorti della nostra travagliata umanità.

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 61.




G. Giannone, La polvere del tempo, Firenze, L’autore Libri, 1997, pagg. 68.

Come viene scritto nella prefazione, diversi sono i temi di fondo di questa silloge di poesie di G. Giannone. Predominanti sono l’amore, racchiuso in versi in cui i sensi vengono dominati, non spenti, e la commossa partecipazione agli “eventi” che caratterizzano il nostro tempo. 

Ma più toccanti sono quei componimenti in cui il poeta palesa la nostalgia della terra natia e il ricordo diventa più vivo e pressante, con le voci, le persone e i luoghi cari e familiari che gli affollano la mente e lo fanno soffrire, come in “Quando le sere d’inverno” o, ancora, in “Sibiliana”, dove meglio è reso .questo sentimento. Nell’uno e nell’altro componimento c’è, comunque, una sofferenza sofferta che domina qua e là su tutto il libro. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 44-45.




G. Pelligra Maltese, Itinerari, Palermo,«Ottagono letterario».

Un libro-testimonianza non solo delle capacità artistico-letterarie e culturali di G. Pelligra Maltese (Ispica 1931 – Palermo 1985), ma della stima e dell’amicizia che gli amici soci del sodalizio «Ottagono letterario» gli tributano a quattro anni dallascomparsa.

Sono scritti vari, occasionali, editi o no, che trovano piena giustificazione nel titolo Itinerari (poesie, archeologia, critica d’arte), quasi a sottolineare la versatilità del loro autore.

L’amore per la sua Ispica lo porta a scavare nelle origini di quest’isola meravigliosa e sia in poesia che in prosa («Ho nel cuore / ulivi / al sole / e biondo grano / e l’africo mare») la canta con affetto di figlio.

Nella sezione Itinerari artistici vengono inserite alcune presentazioni o recensioni di artisti noti o poco noti. In ogni caso, l’Autore è spinto sempre dal fascino del bello, dando importanza anche ai piccoli particolari, pur di scrutare il pittore preso in considerazione ed entrare nel vivo della sua arte. Fantuzzi, Guaschino, Quaglia; per citarne alcuni. A proposito di Guaschino, il critico coglie nel segno l’arte di questo pittore quando dice che «non potrebbe essere un sintetista o un simbolista: egli ama leggere il libro in cui sono scritti i tormenti e le sofferenze del vero senza mai curarsi delle fattezze in senso classico… Guaschino crea un’arte squisitamente personale e tutta vera: arte di pittore e di poeta che riempie di umana e profonda angoscia».

Il libro è arricchito di fotografie e di opere degli artisti recensiti.

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 73-74.




G. Garcia Marquez, Il generale nel suo labirinto (trad. di A. Morino), Milano, Mondadori, 1989, pagg. 287. 

Simon Bolivar, il leggendario Liberador dei Paesi latino-americani, rivive nei suoi giorni terreni in questo stupendo libro di G. Garcia Marquez, Il generale nel suo labirinto. 

Se lo scopo era quello di darci un ritratto umano di Bolivar, Marquez è riuscito brillantemente nel suo intento. 

Lo scrittore ci narra l’ultimo viaggio di Bolivar, abbandonato il potere, e seguito da un gruppo di fidati, da Santa Fé de Bogotà a Santa Marta, nel Venezuela, dove morirà, sfibrato dagli acciacchi e dalle malattie, nella villa di San Pedro Alejandrino il 17 dicembre del 1830. 

Un viaggio breve (era iniziato 1’8 maggio dello stesso anno), un labirinto senza alcuna possibilità di scampo, nel quale il protagonista, uscito dall’alone mitico che lo aveva sempre circondato, quasi per un miracolo della penna di Marquez, ci si presenta umanamente umano, con i suoi ardori, le sue debolezze, i suoi amori, le sue nostalgie. 

Un romanzo avvincente, sul filo della storia, piacevole, vuoi per la capacità creativa che per i luoghi in cui si svolge l’azione e, soprattutto, per l’immagine nuova del leggendario Bolivar, lontano dai rumori del palazzo e spesso solo con se stesso, in balia dei ricordi che lo agitano e non lo lasciano in pace. 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pag. 73.




G. Falciani, Dove finisce l’arcobaleno, Firenze, Ediz. Polistampa, 1996, pagg. 68.

In “Questo flusso prezioso” c’è, in sintesi, il filo conduttore della silloge Dove finisce l’arcobaleno di Gianna Falciani. 

Il ricordo, che caratterizza tutta la prima parte e, quindi, il passato, emergono rischiarati dalla luce della saggezza propria di chi, conoscendo la vita, la ama e, amandola, vorrebbe che, perlomeno, si apprezzasse come un dono accetto e gradito. 

I vecchi album di famiglia, le foto ingiallite, i ricordi, che anch’essi sanno di un tempo che fu, sono rivissuti in questa prospettiva e sotto questo segno trovano la loro giusta dimensione nell’aprire un varco di congiunzione tra il passato e il presente, senza alcun rammarico, senza rancore. 

Solo così, se al suo apparire apre alla speranza, “finendo,” l’arcobaleno può indicare la via nell’armonia e nella pace o, in una parola, nell’accettazione di sé e di tutto ciò che ci circonda. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 45.




 FRANCESCO OLIVIERO, Acqua e coscienza

Vita in movimento: materia e spirito 

Acqua e coscienza è un libro che suscita curiosità, perché è insolito nella tematica o, meglio, nell’abbinamento che fa tra l’acqua, come elemento fondamentale per la vita del mondo, e la coscienza, che è il sentire dell’uomo, la caratteristica che lo fa essere quello che è. Sembra non abbiano niente in comune, eppure un accostamento si può fare, e c’è, in teoria, anche se spesso siamo noi a condizionarlo e a non tenerne conto. Se l’acqua è vita e la coscienza è l’essere individuale in divenire, non c’è dubbio che entrambe sono energie che operano in direzione del Bene; quando, invece, tra loro non c’è corrispondenza vuoi dire che si è smarrita la giusta direzione, e siamo all’opposto, coincidente con il male, fisico o spirituale. È, questa, una motivazione che sicuramente ha spinto Francesco Oliviero alla stesura di questo libro che, come con i lavori precedenti (Benattia e Messaggio di una vita), tende a ridare fiducia all’uomo, allontanandolo dalla paura della malattia, e aprirlo alla vita autentica, a cui dovremmo aspirare. Se, poi, vogliamo trovare ancora altre motivazioni all’assunto che il libro sviluppa, basti citare l’inizio della creazione o il pensiero degli uomini antichissimi. I versetti della Genesi, relativi al primo giorno della creazione: «Sia fatta la luce, e lo spirito di Dio aleggiava nell’acqua » fanno riferimento alla luce e all’acqua, 

entrambe fonti di vita. La luce non è soltanto in Dio, ma in ciascuno di noi che vi ve nel bene, così l’acqua è pregna di Dio, iniziatore e datore della vita, e noi partecipiamo di questa pienezza. Ma bisogna avere l’animo sgombro di ogni miseria, e puro, per poterne godere. Il Poverello d’Assisi, con occhi bambini, è riuscito a coglierla in tutta la sua magnificenza, e con umiltà la cantò nella sua preghiera che è un inno alla vita, oltre che uno dei primissimi della letteratura volgare. 

La filosofia antica dà forza a queste affermazioni con Talete (VII sec. a.C.), che non solo riteneva l’acqua il principio primo, ma che fosse in essa una potenza divina che impregnasse di sé ogni cosa, per cui tutto è vita, forza dirompente, anima che nutre ogni cosa (panpsichismo) ed è «pieno di dèi». L’acqua, elemento portante del mondo fisico, è così correlata a Dio, che è coscienza universale, e all’uomo, coscienza individuale. L’acqua e la coscienza rappresentano vita in movimento, dinamismo che coinvolge il corpo e lo spirito, l’anima, questo vento vitale che tutto avvolge e tutto orienta. Corpo e spirito operano all’unisono, sempre che si voglia. La libertà, contrastata nella vita d’ogni giorno, è la conditio sine qua non di questa simbiosi che esalta l’uomo, lo innalza al cospetto di Dio e lo rende partecipe di Dio stesso. 

Acqua e coscienza è un libro interessante, che offre tanti spunti alla riflessione, ma è soprattutto un libro attuale e valido, il cui contenuto è stato sempre oggetto di dibattito culturale. Infatti, più che mai, dal secolo scorso ad oggi, la scienza, la letteratura, la filosofia, hanno messo al centro dei loro interessi la condizione umana, perché il loro obiettivo è ridare all’uomo la dignità e il rispetto che gli sono propri. 

Oliviero, dal punto di vista medico-scientifico, si muove su questa direzione, puntando sul paziente-uomo che abbisogna di supporti che lo facciano muovere e interagire con la realtà di ogni giorno per riscoprire le potenzialità che sono in lui ed essere felice. E non occorre gran che per esserlo! Già Democrito, l’atomista greco del VI sec. a. C., asseriva che «non è la ricchezza a farci felici, bensì l’anima, che è la dimora della nostra sorte» (fr. 171, Diels-Kranz). 

È un discorso che affascina e che invita alla riflessione, cosa che non c’è al giorno di oggi, nell’epoca della globalizzazione che tutto mercifica; perciò non è facile portare avanti un discorso di tal genere; è difficile persino essere se stessi, si agisce come automi, non si è capaci di decidere, e spesso sono gli altri a farlo per noi. È questa la finalità degli umani? Il libro di Francesco Oliviero, partendo da questi presupposti, vuole spianarci la strada per una vita più autentica, veramente e pienamente vissuta, nel segno dell’amore di sé e degli altri, della libertà da ogni forma di condizionamento, che, se non è manifesta, per lo meno relega e impedisce di essere quelli che dovremmo e finisce col far dimenticare di essere. Ne erano convinti gli esistenzialisti, lo era Heidegger, e lo è Oliviero. Tutti asseriscono che l’uomo ha dimenticato di essere, e se vuole vivere 

da “Spiragli”, 2009, Schede 

nel senso pieno del termine, deve recuperare il suo essere, e tutti indicano una strada. Per questo, ad inizio della «Introduzione » il Nostro scrive: «Questo libro è stato scritto per arrivare alla coscienza delle persone e dare un contributo al senso della vita, facendo riferimento all’elemento più abbondante nel pianeta e in noi stessi, l’acqua, la grande madre, che è generatrice di vita e della nostra origine, sostiene il nostro presente ed è la chiave per comprendere il nostro futuro.» 

Da medico specialista qual è, ci si aspetterebbe che parlasse di espedienti medici per risolvere i problemi legati alla salute, non di quelli che sono in noi in quanto uomini. Ma lui, smettendo il camice medico, parla da uomo ad uomo, elimina la distanza che separa il medico dal paziente, gli si mette dinanzi e innesca un dialogo salutare, se non per il corpo per la stessa anima che, nonostante la sofferenza di cui risente in stato di malattia, si ritrova e trova la forza di continuare a pulsare e infondere vita. 

Il libro, che parla di acqua, dei suoibenefici, e del metodo usato per vitalizzarla, si fa paladino di una parola buona medico-scientifica che ha l’ intento di mettere in osmosi con il mondo che ci circonda e di riportarci al senso della vita. Esso è pervaso da questa filosofia che non annienta, anzi mette chiunque voglia nelle condizioni di risalire la china con consapevolezza e responsabilità, senza altra via di scampo in un futuro a venire o in un passato che non c’è più, bensì nel presente, perché è nel presente che si vive, che bisogna fare le proprie scelte, che bisogna essere. E si è solo quando consapevolmente si elimina ogni forma sclerotica che impedisce di innalzarci e cogliere la parte buona, divina che è in noi. Ha ragione Agostino, ha ragione Plotino, ma si trovano nel giusto tutti i filosofi che hanno messo al centro della loro ricerca l’uomo, perché è l’uomo col suo slancio interiore che, se non Dio, coglie il senso della vita e se lo spiega. È una filosofia che non ha niente di trascendente, anche se poi vi si arriva, perché poggia tutta sull’uomo e dall ‘uomo dipende nel bene o nel male. 

Ugo Carruba 

da “Spiragli”, 2009, Schede 




F. Provenzano, Il Fascio dei Lavoratori di Ravanusa

Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2001, pagg. 200. 

Il Fascio dei Lavoratori in Sicilia costituisce, pur nella sua breve esistenza (1892-1893), un momento fulgido, irripetibile, della storia isolana e nazionale. I lavoratori siciliani, da sempre abbrutiti e resi schiavi dalle classi agiate, scoprendo l’arma dell ‘ associazionismo, fanno sentire forte la loro presenza e riescono a creare quelle premesse che facevano bene sperare in un riscatto ricco di aspettative. Ma per poco, perché il governo Crispi troncò con la forza delle armi quelle speranze nel 1894, quando pose sotto assedio l’Isola. 

Francesco Provenzano, con questo suo lavoro, che va letto e diffuso ovunque, e soprattutto nelle scuole e tra i giovani, contribuisce a far luce ad una pagina bella della storia del XIX secolo, ripercorrendo, con l’ acume di storico qual è, quel felice momento di Ravanusa (e di tutta la Sicilia), paese agricolo-minerario dell’entroterra agrigentino, con risorse e problemi identici a tante altre realtà isolane, bisognose tutte di un significativo cambio di rotta per uscire dall’arretratezza e migliorare il tenore di vita degli abitanti. 

Il libro consta di tre parti (“Ravanusa nel 1893”, “I Fasci dei Lavoratori in Sicilia”, “Il Fascio dei lavoratori a Ravanusa e gli avvenimenti del 1893”), tutte corredate di altrettante sezioni, con fotografie e documenti che calano nella realtà del momento il lettore e lo coinvolgono. Chiudono il lavoro una ricca rassegna di contributi risalenti agli anni 1987-1994, e un ritratto che lo scrittore e critico letterario Giuseppe Zagarrìo delinea del padre, dott. Vito, che del fascio di Ravanusa fu un accanito promotore e protagonista. 




F. Leni di Spadafora, Storia dei Siciliani (a cura di S. Vecchio), Caltanissetta, TEV, 1991, pagg. 230.

 

Questa di Leni di Spadafora è un’opera di particolare interesse culturale per la Sicilia e quanti ad essa si avvicinano, e la Tecnicografica Editoriale di Caltanissetta ha fatto bene a riproporre, in linda veste tipografica, curata e arricchita di note da S. Vecchio, abbellita da splendide fotografie a colori e in bianco e nero. 

Indubbiamente è un’opera di divulgazione che, però, vuole mettere in risalto il carattere dei Siciliani e l’enorme patrimonio storico culturale di cui sono depositari. 

<<Il bisogno di verità spinge il Nostro – scrive S. Vecchio – a servirsi di tutto ciò che può riuscire utile a dare un’immagine obiettiva della Sicilia. Per questo non trascura niente del popolo siciliano: l’arte, la letteratura, la cultura in genere, ogni tipo di documento storico o letterario insomma, che possa contribuire alla riuscita del suo intento… 

L’Autore, pur smussando certi particolari, non perde di vista la continuità storica e dà un quadro completo della Sicilia, servendosi di un linguaggio privo di ogni ridondanza ed ampollosità. E, ancora, come se non bastasse, si legge d’un fiato, perché il Nostro vive e sente il fatto storico in prima persona, partecipando le emozioni, le gioie, il dolore che gli eventi rivissuti a tavolino gli procurano>>. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pag. 57.




F. Incandela, Ailanto, Castelvetrano (Tp), Mazzotta Ed., 1996, pagg. 58.

Se la poesia è offrire e offrirsi,quello che in questo libro sorprende è la sincerità con cui Francesca Incandela espone stati d’animo e sentimenti. E non è poco, se consideriamo l’artificiosità che è in tanta poesia d’oggi. 

Più che il tono discorsivo, che spesso perde e scade nel prosastico, ci piace sottolineare l’accento lirico ben riuscito, la cesellatura del verso di alcune che riteniamo siano le liriche più belle di tutta la silloge. Si vedano “Sud”, “Selena”, “Indefinito”, “Non voglio”, “Terra”, dove evidente è la partecipazione , e pregnanti sono le immagini, sia che si riferiscano alle realtà sociali della sua terra o a situazioni intimo-esistenziali. In ogni caso, c’è la misura del verso e la sensibilità del poeta. 

Tra tutte citiamo “Sud”: « Ho intrecciato / fili di grano / nel paesaggio aspro / della mia Sicilia / solo papaveri rossi nella radura… / sgorghi di sangue / in terra ferita.» Sono pochi versi, in cui F. Incandela riesce bene a dire la sofferenza di chi vede deturpata l’immagine della sua terra che, se non ci fosse la bruttura del sangue sparso, sarebbe color oro del grano e rosso di papaveri. 

Un’altra lirica, anch’essa breve, ma bella e luminosa come la fanciulla che ritrae, è “Eleonora” ( « Hai negli occhi / da cerbiatta / le mani impacciate / coi seni ancor acerbi. / Improvvisi i tuoi rossori / sotto l’azzurro / pastello del cielo »). La poetessa la ferma sulla carta con poche, concise parole, per paura che il tempo possa sfiorarne la bellezza. 

Speriamo che Francesca Incandela possa darci altre prove come queste, ed è il nostro augurio, per continuare sicura e trovare la strada giusta da seguire. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 44.




F. Boesch, Boris L. Pastemak (poeta e uomo incompreso), Roma, Edizioni del Giano, 1991, pag 47.

L’agile volumetto (il saggio è stato premiato a Grosseto “Premio Maremma ’90) traccia, in un quadro d’insieme, la figura e l’opera di Pasternak, mettendone in evidenza il pensiero e la poesia. 

L’Autrice, per affinità di sangue e di sentire (suo padre era russo, è amorevolmente attratta dalla personalità dell’uomo e del poeta. E questo affetto trapela dallo scritto, anche se la stessa Boesèh lo confessa nell’Introduzione. 

Il libretto risulta ben fatto (la formazione, l’incontro con i grandi del tempo, il clima in cui cominciò a lavorare P.), e ben delineata è la poesia. Anzi, ciò che la Boesch vuole evidenziare di più, è l’importanza di Pasternak poeta, aspetto meno conosciuto dall’autore del Dottor Zivago, che lo rivela più che mai vicino ai problemi del suo tempo ed è anticipare dello stesso romanzo. 

U. Carruba

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pag. 83.