La poesia e la fine del secolo (*) 

Questo XX secolo è alla fine. ma con la sua fine non verrà certamente quella della poesia. Direi piuttosto che il peso della poesia e il suo indice di gradimento. oggi, sono più elevati che in altri periodi. Non alludo soltanto alle pubblicazioni, ai convegni che ad essa si dedicano. Penso anche alle citazioni. ai riferimenti che si trovano nei libri di filosofia, di scienza ed arte in genere. Persino i politici ufficiali, durante le interviste e i convegni, amano fregiare i loro discorsi con riferimenti testuali e poetici. 

Tutto questo, naturalmente, per dire, in breve, quanto vitale sia la poesia e la pressione dei suoi sensi e significati, mentre un secolo carico di rivolgimenti planetari e interplanetari ci sta lasciando. La sua scomparsa però non lascia il vuoto e il nulla bensì un carico progettuale che investe di enormi responsabilità tutti e in specie i poeti. Quegli uomini cioè che, comunque, disse Mahmud Derwish, scrivendo poesia nell’era dell’atomica, sono soggetti rivoluzionari. Faccio mio questo concetto e dico che ciò è valido ancora nell’epoca del postatomo, nel tempo cioè delle guerre stellari al laser o nel tempo, il nostro, della distruzione irresponsabile dell’ordine degli ecosistemi. 

Ma non è di questo che desidero parlare, bensì delle nuove frontiere e delle nuove possibilità che questo secolo morente ha aperto alla poesia, e che, secondo me, sono quelle della quasi fusione (fatte salve le differenze) dell’immaginario-reale della poesia con quello della scienza e delle sue esplorazioni, quello dell’interscambio dei loro linguaggi e delle loro logiche teoretiche, una soglia dove si verifica une vento unico: il reale si fa immaginario e l’immaginario si fa reale. 

Un mondo questo, per dirla con Edgar Morin, dove il pensiero autentico si mantiene alla «temperatura» della propria ebollizione e distruzione, e l’incertezza attraversa la «vera conoscenza». Un mondo cioè che vive in una ricerca e in una interrogazione che sono permanentemente fare e crisi: taglio e decisione, specie se il terreno di indagine è quello della complessità in cui viviamo e che in fondo siamo, come un tessuto intrecciato di tanti fili e colori. 

Paradossalmente il futuro della poesia, in questa fine secolo, è stato preparato anche dalla scienza attraverso quelli che possono già essere chiamati i viaggi negli spazi interplanetari e nell’infinito, la cui paradossale dimensione di eterno e temporale è stata sempre cantata dai poeti come una tensione e una ferita ora dolorosa ora felice. Dico paradossalmente perché la scienza, che si è sempre contrapposta al sapere e alle esplorazioni dei poeti e del loro vissuto, oggi, invece, porta concretamente l’occhio, il vedere e l’estetico delle sensazioni dell’uomo in quelle regioni dell’infinito spazio-temporale che era stata la dimora privilegiata dei sogni del poeta. Questo immaginario, con tutta la forza delle sue vibrazioni vitali, ora viene processualizzato e quasi attualizzato senza nulla perdere, però, del suo fascino nascosto e lunare. 

La morte dei secoli, come abbiamo imparato dalle metamorfosi delle cose e della storia, coincide sempre con la nascita e la vita di altre dimensioni e di universi altri. La fine di un secolo è perciò solo una tappa nel transito di kronos e di quella infinita modalità della natura, il cui delirio creativo è stato già cantato da un poeta come Lucrezio. 

La scienza, come il potere delle sue ricerche teoriche e delle sue realizzazioni ai limiti della fantascienza, non solo infinitizza la poesia perpetuandola come creatrice e compagna di viaggio, ma ne chiede, ove gli strumenti euristici le difettano, i mezzi linguistici e logici. Niels Bohr, uno degli scienziati forti di questo secolo nella ricerca della «consistenza» delle particelle elementari e delle virtualità del mondo subatomico, ebbe a dire che quando l’analisi scende a questi livelli, dove cioè non c’è più il vedere e il rappresentare, lo scienziato deve usare il linguaggio del poeta. Gli strumenti euristici cioè della retorica poetica, come le «congetture», le metafore e le analogia, per esempio, se vuole far vedere l’invisibile, dire l’indicibile, finitizzare e determinare l’infinito. 

Cosa di più bello e meraviglioso, nel futuro secolo, di questo connubio felice della scienza con la poesia? I prodotti della loro praxis si somigliano così tanto che possiamo affermare senza scandalo che gli universi del sapere scientifico sono altrettanto derealizzati e fantastici di quelli creati dai poeti che possono quasi interscambiarsi. 

E cosa dire della logica, delle logiche o di quelle loro parti e funzioni come le contraddizioni, i paradossi, le ambiguità, ecc., che ieri erano appannaggio del solo poeta e oggi sono elementi integranti della struttura della scienza contemporanea? 

Proviamo a pensare solo per un po’ (facendo qualche semplice esempio) alle contraddizioni del principio di complementarità dello scienziato atomico quando deve parlare del suo campo di onde e corpuscoli. di continuo e di discreto o discontinuo, al principio di indeterminazione di Heisenberg per determinare posizione e velocità di un elettrone; pensiamo per un po’ al vuoto quantico, alla nuova geometria dei frattali. agli «effetti farfalla. o sensibilità alle condizioni iniziali di certi fenomeni non prevedibili delle scienze del caos, alle loro combinazioni di turbolenza e coerenza, alla chiusura e apertura, dipendenza e indipendenza dei sistemi autopoietici, al tentativo di imprigionare gli eventi stocastici, aleatori e contingenti, e poi chiediamoci se questa non è la logica del paradosso e dell’ossimoro – l’acuta follia – del poeta. L’acuta follia del poeta che cerca di afferrare. di comprendere la contingenza dell’attimo nella sua complessa concretezza: il luogo-tempo-energia dove l’essere e il non essere, la vita e la morte. il gioco delle metamorfosi è una sfida perenne ai confini e l’attimo non è più l’atomo del tempo ma appunto il cum-iangere – la contingenza – di tutte le dimensioni del reale, compreso l’immaginario della poesia. Poesia che dalla fine di questo secolo riceve la linfa di nuove forntiere e nuovi termini linguistici per esprimersi anche in una nuova sintassi. 

Antonino Contiliano

* Relazione tenuta al Symposium per il 29° Incontro internazionale di poeti a Struga il 24 agosto ’90.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 6-8

 




 L’io in-composto di Angela Scandaliato 

Algoritmi del Cuore, Palermo, ed. Il Vertice, 1987. 

Più che una coscienza inquieta, la poesia di Algoritmi del Cuore di Angela Scandaliato, con premessa di Gaspare Giudici e una post-fazione di Pino Amatiello, ci dà lo spessore di una coscienza «in-composta»,lacerata dal vuoto del fondamento delle «certezze consolanti» dove, profugo della ragione, l’io della poetessa cerca o si trova nei luoghi del labirinto, della memoria e del mito come un ritrovarsi retro, quasi un ritorno all’antico ma per interrogarlo. 

L’hybris si consuma attraverso una serie terminologica d’attacco pressante e senza indulgenza: brandelli (termine ricorrente anche nella prima raccolta della Scandaliato, Intermittenze mediterranee: quasi preannuncio), rifiuti, rottami, straniero, spettri, ecc., e una costruzione del verso libero dall’interpunzione e segnato dalla parola emblematica: Eros, Caos, Cosmos, Medusa, Grazia, Gioco, Sisifo, ecc., quasi a concretizzare, esistenziare, nel grafema e nella grammatica sintattica e semantica, questa situazione di angosciata interrogazione. Una interrogazione che erra nell’ambivalenza semantica della crisi: crisi come perdita di identità e crisi come scelta di un nuovo iter. 

La parola singola, che, nella composizione, si pone come verso d’attrazione particolare, e il mito, in Angela Scandaliato, spesso assumono uno statuto figurale, simbolico, che si fa carico, con tutta l’incidenza dell’allusività polisemica, di filtrare prismaticamente la realtà del presente, non escluso un pizzico d’ironia nei suoi esiti politico-culturali ed etici: «Le tue pause hanno il sapore/dell’acqua gasata tante bollicine/frizzanti sull’aridità che la zanzara/aggredisce ronzando sul biscotto/del vin santo spezzando eleatici sguardi d’esistenze intermittenti/E la morte di Dio e quella di Nietzsche/e l’ultimo canto di Saffo è il/nostro canto quotidiano» (ivi, p. 60). 

«Il tragico sommato/del tempo» di Angela Scandaliato, i cui addendi sono anche il linguaggio della nostra epoca tecnologica, se ha un procedimento «risolutivo», un algoritmo, è quello del cuore, di questo navigare nel mare (dove centro e periferia si dilatano infinitamentre come un labirinto che si slarga e cresce su se stesso) che ha il proprio «calcolo» – una posizione precisa, netta e chiara – nei confronti di quell’«ordine» e di quella verità intollerante per cui Garcia Lorca morde «canti del sale». 

Pascal, forse con Algoritmi del Cuore non divide più l’ésprit della ragione e l’ésprit del cuore. La loro con-fusione è in cammino? 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 43-44.




 L’etica dell’evento e della contingenza 

Elisabetta Donini, La nube e il limite. Torino, Rosenberg & Sellier ed., 1990, 

“Evocata da una donna. la sostanza invisibile della nube di Cernobyl si materializza nel concreto del vissuto quotidiano. svuotando di senso ogni poesia ed incantesimo. Nelle riflessioni di un uomo. le tracce metaforiche dei cieli della conoscenza segnalano come attorno a ciascun soggetto si condensino dei nuclei di sapere che in tanto sono significativi, in quanto sono limitati.” (ivi. p. 7). 

Certo è che se la nube è quella di Cernobyl o di Seveso o Bhopal o di S. Hussein, lo scud – nuvola leggera spostata dal vento (i missili iracheni che avrebbero dovuto portare le testate chimiche della “madre di tutte le battaglie” nella guerra del Golfo) -, contro cui venivano usati i patriot americani insieme alle “bombe intelligenti”, allora è piuttosto possibile che l’immaginario della nube si perda nel disincanto e nella paura, dal momento che la tecnica ne ha fatto un veicolo di morte, di malattia del corpo umano e di entropia della qualità della vita. 

Tuttavia, pur con letture diverse, la prima di Cristiana Wolf (“evocata da una donna”), e la seconda di William Thompson (“nelle riflessioni di un uomo”), la nube, nel testo della Donini costituisce. a nostro parere. metafora di saperi e pratiche diversi. 

Essa, infatti, con la sua capacità autorganizzativa in forme sempre differenziate e sostanzialmente imprevedibili, segna una cultura della relatività, dell’evento e della contingenza. Del resto la sua storia come simbolo, sia nella storia del pensiero occidentale che orientale, è tracciata come perenne metamorfosi o fonte creatrice di forme-mondi sempre diversi e in perenne movimento senza “legge” e azione comunque intesa a rimuovere il “limite” delle cose. 

Per il cinese taoista c’è un ordine intrinseco e spontaneo della natura – wu wuei (non-azione, appunto o azione spontanea) -, per cui i suoi processi sono continui e regolari anche al di fuori (anzi) di una legge e di una azione dettate esternamente da Dio o dall’uomo. Diversamente invece accade nella cultura occidentale del passaggio dell’universo finito a quello infinito (ivi, A. Koyré). 

Seguendo Joseh Needham (ivi, p. 213), oltre che le origini del pensiero filosofico greco e la configurazione moderna dello sviluppo della scienza, la Donini, infatti, fa vedere, in maniera suggestiva ma anche argomentativamente serrata e congetturalmente fondata, come il concetto di legge e di azione abbiano caratterizzato il mondo occidentale e lo abbiano anche connotato tragicamente con i tratti della violenza, del dominio gerarchico e di potenza. Un dominio e una violenza rivolti sia contro la natura, che gli uomini e le donne, dei maschi contro le femmine e la natura, specie, allorquando nell’età moderna, passando da una concezione organicistica della realtà a quella del determismo meccanicista del sapere aude dell’uomo Jaber, si è affermato il mito dell’uomo -dio (o “dell’uomo maschio bianco borghese, come l’ha chiamato la stessa autrice) con tutte le implicanze di ordine etico e politico che ciò ha determinato sia sul piano dei rapporti tra le persone che tra gli stati. 

L’uomo-maschio-borghese occidentale ha trasferito l’idea di legge e quella di azione creatrice, produttrice e riproduttrice, dall’ordine sociale a quello cosmico come norma e atto imposti dall’esterno: Dio-Padre o uomo (o rovesciando i termini) ha voluto modellare il mondo umano a immagine e somiglianza delle leggi e dell’ordine presupposti nella/della natura. Le leggi svelate dalla ricerca scientifica sono manipolabili con i ritrovati della tecnica in maniera oggettiva, impersonale e con procedure universalmente valide. Nell’uno e nell’altro caso si è sempre fatto appello ad una necessità indiscutibile e inappellabile. Essa è stata quella della cultura della verità assoluta. Assoluta, necessaria e universale perché sottratta alla concretezza della contingenza e dell’evento e ridotta agli schemi astratti della simulazione logica del laboratorio, fino ad arrivare alla dematerializzazione e derealizzazione della guerra del Golfo, battezzata “tempesta nel deserto” dal piano americano di aggressione al nemico iracheno. Qui gli obiettivi militari e civili sono diventati schermo per wargames: simulazione informatica e scacchiera da “guerre stellari”. Le cose e le persone sono diventate impersonali inquadrature di punti e coordinate spazio-temporali sullo schermo dei computers calcolanti la quantità e la qualità della distruzione e della morte. 

Una scienza, una cultura al servizio del potere e del dominio a tutti i costi, capace di rimuovere qualsiasi “limite”. Un sapere e una pratica dell’aggressione gratuita e folle, senza rispetto per le interdipendenze e la coordinazione sistemica che vige nel multiuniverso. 

Dalla cultura violenta della gerarchia e del dominio della verità assoluta, il libro della Donini pone l’emergenza di una cultura al “femminismo”: la cultura della relazione, della correlazione, delle interdipendenze legate alla coscienza del “limite”, che, come dice la sapienza cinese del Tao, non sempre va forzato. Il limite così si connota come una dimensione trasversale che: 1) nella conoscenza impone una relazione di interdipendenza dinamica soggetto/oggetto, soggetti/soggetti, soggetti/mondi, 2) in etica attenziona la responsabilità dell’interconnessione tra l’affermazione di sé, il riconoscimento dell’altro e della natura, 3) nei rapporti tra le persone e il mondo sottolinea la reciproca compatibilità delle parti del sistema, anziché il dominio di una sulle altre. 

Il testo è una denuncia continua e serrata della logica del dominio sia della scienza e della potenza che del modello capitalistico e neocapitalistico, aggressivo e manipolatorio, che alla scienza si rivolge per trovare giustificazioni al proprio modo d’essere. Dalla stessa l’uomo-maschio ha tirato fuori una concezione e una visione della verità che, sessualmente penetrando la materia e la donna, le subordina alla generazione passiva di sempre nuove creature. Persino la “fissione” del nucleo di uranio penetrato dal neutrone ripercorre questa strada: dalla divisione dell’atomo, come dalla divisione cellulare in biologia, si genera, viene alla luce, nasce il “Little boy” (ragazzino) e il “Fat man” (uomo grasso): le prime bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. 

Non dissimili dalla logica del dominio è quella del “dono”: anche questo è un venire dall’esterno, specie se ci si rifà alla tematica della bioetica che guarda alla vita come a un dono, che, appunto per la sua origine, è un qualcosa che viene dal di fuori del proprio corpo, sebbene se ne vorrebbe salvaguardare l’integrità dagli interventi della riproduzione artificiale e dell’ingegneria genetica. Sulla questione del “mettere e venire al mondo”, poi, utilizzando certe riflessioni decostruzioniste del tipo di J. Derrida, l’autrice svela la pretesa innocenza e neutralità di termini come “procreare, generare, riprodurre”, che si riferiscono alla natalità. Procreare rinvia a un agire per conto di Dio. Generare rinvia al genus, alla stirpe, alla proprietà, alla trasmissione del patrimonio ereditario. Riprodurre rinvia a un modello meccanico di ripetizione di copie.

Queste sarebbero identiche a strutture date e statiche. Il modello è quello della “trascendenza”, di una separatezza della verità che, con protagonismo maschilista aggressivo e illimitato, crede di trasformare le cose con evidenza e certezza evolutiva incontrovertibile. 

Il modello “femminista” che la Donini gli contrappone, invece, è quello dell’immanenza, della co-evoluzione contestuale e plurale. Questo ha la mobilità e la consapevolezza della parzialità dei punti di vista, la contingenza e la provvisorietà degli eventi-fenomeni inter-agenti all’interno dei sistemi chiusi e aperti. U~ modello che’, cogliendo un pensiero di Lidia Menapace, si pone all’interno di un’etica della contingenza e dell’evento: “La parola ‘evento’ mi sembra carica della possibilità di comporre o almeno confrontare attivo e passivo, decisione e attesa, opzione e risposta. E in questo senso mi sembra una categoria di un pensiero politico che non oscilli più di continuo tra programmazione ed emergenza, tipico di chi non è in grado di realizzare davvero la portata solo eventuale delle proprie previsioni, né gli strumenti della flessibilità necessaria per capirne le logiche, le interruzioni, gli svolgimenti. Analogamente credo che sia importante costruire un’etica dell’evento, che ti consenta di prendere la decisione quando la devi prendere, con il senso del suo limite e rnormabilità” (ivi, p. 238). 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 49-52.




 Intervista ad Elio Giunta 

(a cura di A. Contiliano) 

Nella recente pubblicazione .Dai margini inquieti. il poeta palermitano Elio Giunta raccoglie in antologia i componimenti più significativi della sua trentennale produzione poetica. 

Antonino Contiliano lo ha intervistato per Spiragli, ponendo domande che, al tempo stesso, mettono in risalto la figura del poeta d’oggi e la condizione della poesia. 

Anzitutto, il titolo ..Dai margini inquietill allude, forse, al tema dell’emarginazione, che è costante nella tua poesia? 

L’emarginazione nella mia poesia è elemento che certo si ripropone frequente, ma più che un tema, cioé una nozione denunciata, è, direi, una condizione di fondo, sofferta ma necessaria, vista più come scelta che come effetto di coazione. In un mondo di eccessiva partecipazione, meglio a dirsi. di eccessiva compromissione della cultura coi persuasori occulti di massa e meno occulti degli apparati e delle cricche, l’emarginazione richiama al vero ruolo del poeta, che è quello dell’intellettuale inquieto, seminatore d’inquietudini, punti di riferimento del possibile, spesso del’opposto. Qui il senso del titolo. 

Come è nata l’idea di quest’antologia? 

È venuta all’editore, come proposta di richiamo alla poesia in un mondo in cui sembra che il suo spazio si faccia sempre più esiguo. I miei testi non saranno tutti buoni, comunque hanno segnato il passo dei tempi, hanno talvolta contratto il rischio della parola comune e molti la gente può leggerli ancora e farli propri, sentire in che misura li anima una dimensione umana. Così li hanno visti presso questa Casa editrice, decisa, come credo, a realizzare un’operazione culturale con una proposta letteraria praticabile. 

Allora, se la poesia oggi ha visto ridurre al minimo il suo spazio, di chi è la colpa? Per quelli meccanismi la poesia è in crisi? 

Premesso che il posto della poesia è stato sempre quello della crisi, con qualche eccezione nei tempi andati. dico che oggi la colpa è anzitutto dei produttori di poesia quali grossi editori e critici accreditati, che mandano in giro operazioni poetiche dirette a nessuno, votate all’autocompiacimento. Gli editori sono serviti assai male dai loro consulenti e responsabili di collane, che gestiscono tutto entro la sfera di pochi amici e di calcolati scambi, tra parolai sofisticati con la testa piena di teorie letterarie per lo più incomprensibili; i critici, in particolare, oggi, dopo le neo-avanguardie, sono in cerca di un’idea della letteratura e quindi della poesia che non trovano o non vogliono trovare. privi come sono di coerenza. Il resto lo fa l’inconscia ma devastante idolatria del tecnologismo detto produttivo. Dunque non andiamo cercando perché la gente non legge e non compra la poesia. 

E tu, come vivi da poeta questo tempo? 

Dici piuttosto da intellettuale: la poesia non è campo d’astrazione o d’artificio, è modo di espressione con cui ci si rivolge agli altri partendo da una coscienza critica del presente. Quindi in poesia si sintetizza ma si incide e, magari, si canta. 

Vorrei vivere questo tempo nella speranza, invece lo vivo da un banco di 

sofferenza e di provocazione. Già, provocazione. Ad esempio, cercheremo sempre di opporci alla mentalità di un pese come il nostro, dove è possibile affidare quasi le ultime sorti ed anche le sorti dei mezzi di diffusione della cultura ad un venditore di gassose e minerali, magari rivestito per l’occasione della tonaca 

del buon pastore. 

Gli intellettuali ancora esistono; e i poeti pure.




Il non della poesia di J .J. Padron * 

Un non attraversa tutta l’inter-rog(o)-azione poetica di Justo Jorge Padron de I Cerchi dell’inferno. È il non del «sono» che non si possiede più come amore, religio, luce, ma come fumo, ombra e buio. Il suo discorrere si scioglie tramite l’impiego di una parola-concetto che si raffigura e si oltre-figura nell’icastica ipotiposi di quasi tutto il bestiario che la tradizione poetica ci ha trasmesso e dello scenario visionario che la logica «architettonica» della poesia è capace di mettere in opera. 

È il non della negazione-dissoluzione che emerge prepotente e si fa pres-ente nella potenza del suo negativo con la stessa forza con cui il negativo stesso era stato respinto e ricacciato nel profondo della subcoscienza. Lo richiedeva la costruzione della coscienza, lo spazio di una «identità luminosa», perché l’uomo stesso potesse sfuggire alla vertigine nichilistica dell’abisso del suo non-essere. Qui, infatti, tutto sarebbe stato intollerabile e terrificante equivalenza. 

Simboli e allegorie sono gli strumenti espressivi e comunicativi logico-emotivi di un referente – dell’un di un uomo culturalmente determinato – che, nel durante dell’inter-rog(o)azione o azione-durante-l’interrogazione poetica di Padron, ha lasciato l’un della sua natura storico-temporale e problematica-mente in-determinato per farsi reificata astrazione onto-logica, sintetizzarsi e ipostatizzarsi erlebnis universale e metafisica. 

Una astrazione così ipostatizzata che riduce l’in-determinatezza événementielle 

dell’un alla determinatezza immutabile del metafisico lo (l’uomo), assorbendo la molteplicità degli uomini nella unità di una identità eterna e morta, in un assoluto che è «desolazione», «…totale assenza della vita». 

Io «Sono l’uomo!/Io sono tutti gli uomini», dice, infatti, epigrammaticamente, ad apertura della propria opera, il poeta e, successivamente, «…SONO L’UOMO! /Io sono tutti gli uomini», «L’immagine futura della terra/è lo specchio di questo inferno». L’operazione di astrazione è portata avanti con un insistente e rilevante processo di metaforizzazione e di straniamento al fine di focalizzare massivamente la tematica e di con-centrare, catturare l’attenzione del lettore sull’ethos e il logos che lo percorrono in maniera, direi, disambiguata, dove il codice a volte rimane inalterato e i rapporti logici del giudizio sono affidati al connettivo logico del non trasgressivo: «e l’acqua non tornò più ad essere acqua». 

Questo è un processo che Padron segue con un impiego piuttosto martellante delle armi della retorica poetica – personificazioni, esclamazioni, inversioni, anafore, diafore, metonimie, la similitudine e l’analogia del come metaforizzante – e con l’uso di una punteggiatura che spesso fa coincidere l’unità semantica del verso con quella metrica del verso chiuso (sebbene non trascuri l’uso del moderno enjambement) in un procedere sintattico dove coesistono legami ipotattici e paratattici. 

Non è ignota al nostro poeta neanche la capacità di rivitalizzare, in un contesto consono e abilmente costruito, la vecchia metafora del re Mida (che trasformava in oro, per punizione, tutto quello che toccava): «Come Mida del fumo, tutto sto tramutando/in tenebre. Non esistono né il mare né le pianure,/né uccelli, né risa e neppure lacrime. /… /… Ormai sono un fumo nero/come la storia che si dimentica, un fumo nero/come le palpebre serrate delle pietre». Poco spazio, a volte, sembra venga lasciato a quelle che oggi vorrebbero e potrebbero essere le esigenze di una semantica estetica dell’opera aperta alla U. Eco o di una estetica della «ricezione» alla Jauss, se la poesia di Padron non avesse quella aseità polisemica che è caratteristica peculiare della poesia moderna. 

La cattura dell’attenzione, per una sicura comunicazione informativa dell’ethos, appare dominante, e tutto il lavoro della systasis poetica, con la sua pittogrammatica inquietudine boschiana, appare volto a sottolineare senza equivoci il mutato rapporto percettivo dell’autore con l’uomo e il mondo. Questo nuovo rapporto percettivo però non si esaurisce solamente in una dilatata sensibilità estetica, perché, contemporaneamente, viene coinvolto il mutamento dei comportamenti e dell’apparato ideologico nel senso più lato. 

Non si possono non notare infatti gli effetti di radicalizzazione logico-estetica- 

ideologica di certi giudizi copulativi e congiuntivi che (oltre il bit informativo della binaria logica classica) fanno risaltare il «climax» dei sostantivi, dell’aggettivazione e delle forme verbali, con evidente intenzionalità di nuove referenzialità informativo-culturali proprie della logica intensionale, che è anche in-tensionalità poetica e tensione del poeta stesso. Una tensione che consente al poeta di innescare, nel contesto di tutta l’opera e all’interno di ciascun testo, un simultaneo processo di vitale ambiguità semantica (per gli assurdi e le polisemie che lo pongono nell’essere della scrittura) insieme a quell’altro del disambiguamento di cui si parlava prima, sì che ne risulta una vivace dialettica che dinamizza tutto il discorrere poetico dell’opera. 

Per connotare la sensibilità e la tematica di Padron sono stati esclusi Dante e Sartre e sono stati chiamati in causa Goya e Bosch: forse è il «nada nada» del «fantasma» di Goya che traduce meglio il terrore e lo stupore del vuoto e del nulla che Padron scopre «vivo» nell’immanenza dell’essenza antropologica dell’atomo-individuo che non la voracità sartriana dell’altro o l’inferno della teologia cristiana di Dante. Forse il diabolico immaginario e surreale barocco di un Bosch meglio si presta per visualizzare le luci-fere smagliature di una écriture poetica che dia-bolizza il tessuto di una presunta epoca d’oro dispiegata della luce e della ragione, quale avrebbe voluto essere quella moderna della scienza o quella trasparente del «villaggio» totale di McLuhan, se non ci fosse l’ipoteca del «1984» di Orwell. 

La scrittura poetica di Padron, infatti, sottolineando lo spessore della disgregazione e del vuoto che occupano gli interstizi dello spazio-tempo conquistato dall’uomo, ce ne rende in gigantografie l’oscuro e le incertezze violenti – «il mondo è il terrore, e l’incertezza» – con scene sempre più spettacolari. I rumori di fondo e di primo piano non debbono attutire la vigilanza della coscienza e nascondere quel non del «sono» che è contemporaneamente una domanda di vita e di morte, di costruzione e di distruzione, di luce e scuro da quell’essere-possibilità materiale e infinitamente aperto che è «fondamento» dell’esser-ci. 

Ora questa tragica strutturale consapevolezza non costituisce, a parer nostro, solo il pre-testo dell’inter-rog(o)-azione poetica o dell’azione-durante- l’interrogazione di Padron, essa è anche il luogo della resistenza che, secondo noi, per analogia, rapporta in termini nuovi il poeta spagnolo alla generazione d’oro del ’27. Artur Lundkvist, infatti, nel prologo, dice che Padron «ha coronato le ambizioni della giovane generazione dei poeti spagnoli, un prolungamento modificato dell’epoca d’oro lirica della generazione anteriore alla guerra civile». La resistenza di questo «Mida del fumo» è quella della lotta all’«appestato» o a quel «nemico» che è l’uomo stesso come nemico di se stesso. Una lotta contro quella forza distruttiva che Padron, servendosi della poesia e del suo lirico «impegno», porta avanti con decisione, come ieri hanno fatto i poeti del ’27 nei confronti delle dissoluzioni portate avanti dalle forze del fascismo franchista ed europeo e contro la peculiare disgregazione del soggetto e dell’oggetto, della/e verità della nuova epoca di massa, un’epoca che demonizza il novum e sacralizza la ripetizione. 

Per quanto oggi sembra andare avanti la dimensione «favolistica» e deresponsabilizzata della fictio e dell’artificio di un universo fatto a immagine e somiglianza dell’immagine permanentemente metamorfosizzata, dove è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile, individuare cause e responsabilità, Padron tuttavia riesce a farlo: vede «faccia a faccia» il nemico, lo prende e lo condanna nel suo stesso «inferno». 

Non diversamente dai poeti del ’27, l’«impegno» di Padron, per esercizio poetico, si connota e snoda poeticamente e, secondo noi, liricamente raggiunge punte di elevata resa in due componimenti (che riteniamo fra i più belli della raccolta): «Il sogno del ritorno all’infanzia» e «La donna della terra», del quale riportiamo qualche frammento: 

Il suo corpo era il profumo 

che inebriava l’ombra e la notte. 

Il suo collo era di marmo tiepido e ondoso fuoco, 

un arco nel silenzio totale della bellezza. 

Ma tropicali erano i suoi seni 

Due frutti che incendiavano il mattino 

con l’aroma della loro polpa aperta 

sparpagliata al sole. 

Con il lamento e il vento del lauro 

la cintola rotante. 

Bucchero del fiore. 

Il riposo arancio. Mezzogiorno. 

Antonino Contiliano 

*Questo saggio di A. Contiliano, che pubblichiamo in anteprima, costituirà l’introduzione di Los Cìrculos del Infierno di J.J. Padron, tradotto in italiano da F. Chinaglia, e sarà pubblicato a cura della Libera Università di Trapani. 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 23-26.




I. Principe, Papaveri di serra, Firenze, “Atahualpa”, Quaderni di Collettivo R, 1994, pagg. 144.

Scegli tu quella che vuoi:/la poesia è il mio vuoto, /e ama ciò che non è amatole dice ciò che non è dettole vibra con noi. Per sempre.. È un invito alla complicità del lettore perché insieme all’autore corra e percorra gli stessi itinerari del poeta, le stesse zone d’ombra e di luce che velano e s-velano, allontanano e dis-allontanano le verità forti e deboli, dolci e amare personali e storiche. 

Il taglio che incide sullo scenario poetico eventi, fatti, riflessioni, è quello di un attento e leggero cursore ironico, per cui il taglio è ferita, dolore, amarezza ma anche sospeso intreccio di permanenti interrogazioni e/o richiami politici: .Dal tuo punto di vista/il sole non tramonta mai:/e dal nostro?/… / Attento Compagno,fè la luna che c’inganna.•; «I sensi vietati sono in realtà/l’unica cosa libera/che abbiamo.; .Prendi il tuo numero/ e aspetta:/.. ./I1 tuo turno/ sarà allora/libertà concessa; / strettamente vigilata•. 

Il poeta Principe è alla sua prima esperienza ma i filati e tessuti versi dei suoi testi conoscono bene l’uso degli utensili poetici: .Perché dire chi sei/se sono certo che sei? . 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag.63.




 I versi della “ferita” 

La luce: il paradigma della nostra cultura. Il punto di riferimento di filosofi, scienziati, letterati, artisti, poeti e creatori di miti. 

Prometeo: la personificazione di quel paradigma e del mito che lo raffigura come il conoscere che si identifica con il vedere e il pre-vedere Pro- meteis -, l’eroe che rapì il segreto agli dei. 

Prometeo, l’esploratore e il creatore che della luce scopre l’uso del fuoco come fucina e del raggio la funzione di «laser incisore». Il fuoco fa dell’uomo un faber, un poieta e un artigiano. Il raggio-laser ne fa una mano per “ferire” la notte del tempo, aprirne il contenitore e farsi pre-veggente di tutte le possibilità che la realtà virtuale nelle sue interazioni può fare emergere. 

Il raggio di luce rapito agli dei, però, in-cidendo si ri-flette, torna indietro e ferisce Prometeo destinandolo al dolore di una ferita, cui la storia ha dato versioni diverse. 

Qui prendiamo una delle quattro versioni che circolano sulla leggenda. Prometeo viene condannato dagli dei. Sulla roccia del Caucaso, un’aquila gli becca continuamente il fegato perché la sua ferita-apertura non si rimargini e il suo dolore sia permanente. Il dolore fu tanto che egli si schiacciò così profondamente contro la roccia da diventare tutt’uno con essa. 

Memoria della colpa e del castigo? Memoria della “ferita” come processo ininterrotto e infinito intrattenimento presso la fonte delle emergenze del novum? Necessità di farsi tutt’uno con le concrezioni del tempo e impossibilità di sfuggire all’ambiguità e all’ambivalenza della “ferita” come raggio incidente eri-flettente? 

Il richiamo del mito prometeico e l’associazione con il poeta Romano Cammarata di Per dare colore al tempo, lungi dal restaurare modelli di lettura moderno-illuministici o romantici, ci sopraggiunge dalla lettura delle poesie dell’autore siciliano, che, come poeta, al pari dell’eroe greco, si intramette nel processo del tempo fattosi pagina bianca. Incisa dallo stile o dalla parola del poeta, la pagina del tempo si fa rappresentazione del processo, che è ferita-apertura, e raffigurazione del suo inscindibile carico concrezionale di dolori-eventi. 

I versi che in particolare hanno fatto scattare la molla della associazione sono i seguenti tre di tre testi diversi (versi e testi che per intensità e incisività hanno una loro peculiare seduzione lirica): “pilastri crudeli / piantati nella carne” (pag. 35); “ed io scoglio”” (pag. 83); “I ricordi come sassi” (pag. 92). 

Il dolore, che è una delle costanti più appariscenti del libro, come nella leggenda di Prometeo su riportata, ha schiacciato il nostro poeta sino al punto di farlo diventare tutt’uno con la roccia dello “scoglio” e fino al punto che le “ferite” causategli dai “pilastri crudeli” (analogia con le beccate dell’aquila) anziché tenergli viva la memoria gliene pietrificano i ricordi nella concrezione dei sassi. 

Il dolore, si potrebbe confermare, come dice una metafora d’uso, uccide l’anima delle persone e la rende – puntualizza il poeta – pietrificata spoglia ob-iecta: “anima appesa ad un chiodo / sono un’anima morta” (pag. 25). 

Di straordinaria corposità il primo di questi ultimi versi, il secondo, che si articola nella contraddizione semantica della figura dell’antitesi – «dell’anima morta» -, però, ci ricorda che l’anima di questo poeta non è di pietra né tanto meno morta. 

Come, del resto, potrebbe morire l’anima che è psiche, vento, spirito vitale, vita? 

Altrove lo stesso poeta, infatti, ci dice che quella stessa anima è i suoni di una chitarra o che ha ” sete di luce”, o che “la vita si arrampica / su per la luce / si scalda di sole / Un grido / mi lacera dentro / mentre scendo / scale d’angoscia” (pag. 75). 

Il dolore del poeta, dunque, nella sua ambiguità ha una polifunzionalità vettoriale e una significanza, scandita più dal ritmo del senso che della punteggiatura, che indirizza verso una dimensione che non è solo fisica, psicoanalitica ed esistenziale. Essa è anche ontogenetica. E’ una ferita-apertura che ha una tensione fluente verso l’origine e il tempo, e di questi ha l’oscuro fondo che assorbe e ni-entifica: 

«I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine / … / 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni / … / 
Il tempo rotolando 
beffardo sulla mia vita 
ha dato a me 
nuova dimensione 
Non trovo i margini 
i nomi delle cose 
non trovo i simboli 
miti realtà 
e disperato cerco 
vane coordinate» (pag. 51) 

Il tempo è ciò che attraversa e scandaglia il nostro poeta come suono e luce che si fa parola. Suono in quanto intermittenza di bassa frequenza. Luce in quanto sequenza ondosa di alta frequenza, a volte “grido”. Parola perché stile / o che ferisce e taglia, dall’interno del flusso, il continuum temporale per spezzarlo, appunto, con la de-cisione e coglierlo nel dran (dramma) dell’evento stesso che destina la vita della persona. Il movimento e la successione dei versi, che simulano, rappresentano e raffigurano l’azione, si fanno poesia che narra i momenti della sofferenza del poeta, del poeta che vorrebbe essere processo e al contempo sottrarvisi. Da ciò il dolore. Quella di Romano Cammarata, infatti, è una possibilità impossibile che permane come costante variabile della vita. Il dolore così non diventa una spia della morte che disgrega il corpo e la mente, bensì il grido della vita che cerca nuovi equilibri, che lotta contro l’oblio, la quiete della morte e del ni-ente. 

A questo tipo di percorso, secondo noi, il poeta piega bene, con le variazioni dell’usato, ma rispondenti alla sensibilità del nostro tempo, gli strumenti della inventio, dispositio, elocutio e altri espedienti d’arte, che risultano connessi e articolati sul piano degli assi linguistici. 

Cammarata insiste molto, per esempio, con le anafore, le ripetizioni, la dispositio, intra e inter verso, per mettere in evidenza e in primo piano ciò che più lo preme e lo urge, così da evitare che l’assunto di fondo – la dolorosa ricerca – risulti monotona, ripetizione risaputa senza novità e sfumature d’approfondimento. 

Singolare, nella sua viva ed efficace rivisitazione, il luogo retorico della definizione che determina, affidandola alla coniugazione del verbo essere, l’identità dell’anima con il proprio di una chitarra e dei suoi suoni: 

«Sono l’anima di una chitarra 
i suoi sonori accordi 
sono le mie vesti 
vivo nell’intimo del legno» (pag. 24). 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 19-22.




Gaetano Longo, Diario di un pagano, MCMXCVII Campanotto Editore, Paisan di Prato (UD) 1997, pp. 90.

Presentato con testi divisi in tre ambienti – VISIONI DI VIAGGIO, DIARIO DI UN PAGANO, INTERVALLI MACEDONI -, il poeta triestino, Gaetano Longo, per i tipi di Campanotto, pubblica il suo nuovo libro di poesie Diario di un pagano. 

Come nel precedente libro, Atmosfera di tatuaggio, Longo tematizza il quotidie personale e storico con sapiente leggerezza poetica e tagliente vena ironica per farne oggetto di riflessione critica e offrirlo in pasto all’intelligenza viva e malinconica per una realtà che sempre più spesso offende gli stessi limiti nazionali ed etici del vivere. 

L’intertestualità più ampia Trieste, Parigi, Zagreb, Ulisse e Omero, Genesi, Skopje, il lago di Ohrid, l’ubriacane, l’orgasmo, il mago, ecc. – diventano il pre-testo più agile e provocatorio per passare a setaccio se stessi e le ideologie di copertura della falsa coscienza. 

«C’è odore di pace & noial nella notte profonda e rossa I bagnata e sudataI vuota di clacson e parole I … I Dov’è il diavolo e l’acqua santa?» 

«Me ne vado con passo vellutatol in giro per la città scuraI I Con un po’ d’impegno ucciderò la nottel Con qualche trucco arriverò a domaniI e con un po’ di fortuna inventerò l’alba. E gli ortodossi posero monasteri e cattedrali I perché tutti avessero luoghi di riposo e di rifugiai E i musulmani posero le montagne e le moschee I … I E i cattolici posero ancora un dio con chiese/ … I». 

L’uso ironico dell’intertestualità e il senso di una forte malinconia per una realtà che contraddice le promesse che aveva avanzato prima di nascere fanno del racconto poematico di Gaetano Longa un testo poetico che coniuga perfettamente il gioco della poesia e quello del giudizio etico-politico dello spettatore che non è né “il poeta cieco” né l’attore “disinteressato” sebbene coscienza critica ed estraniante. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg.62-63.




 G. Bella, Congiure celesti, Catania, Prova d’Autore, 1991, pagg. 225. 

Presentando i dieci racconti che formano Congiure celesti di Giuseppe Bella, S. Lanuzza dice dell’affinità dell’autore d’esordio con i padri fondatori della letteratura del “realismo magico”: Gogol, Landolfi e Bulgakov. Forse si potrebbe anche dire che gioca l’immaginario kafkiano delle metamorfosi, se è vero che il corpo delle ombre, degli indizi, delle ipotesi. delle intuizioni, delle interpretazioni ‘congetturali’ del de-lirio dei vari personaggi prendono forma e configurazione secondo i termini di una “congiura celeste” che fonde sogno e realtà, enigmi e paradigmi, conscio e inconscio, razionale e irrazionale e attraversa sia i soggetti che la loro soggettività. Questo cum-iurare celeste, quindi strutturalmente e metafisicamente dato, poi, sine nomine e polimorfo, quanto permanentemente soglia, si versa come in un ‘bricco’ -i vari protagonisti-, che così si vedono e si dicono come un ça parle lacaniano. 

G. Bella, insomma, conosce l’arte e il mestiere di scrivere letteratura. In realtà, già fin dal titolo -Congiure celesti-, che categorizza i vari racconti, il sintagma stesso è una spia più che indicativa. Un macrosistema complesso che interagisce con chiusure e aperture permanenti con altri sottosistemi -i vari racconti-, altrettanto complessi ma autonomi, dove l’inventio, la dispositio e l’elocutio di volta in volta tracciano un itinerario seducente quanto logico, ineccepibile e unico ma sempre differenziato sul piano dell’intreccio narrativo e del tempo che miscela attività reale e onirica, eventi e congetture. E se facessimo incontrare i personaggi di Bella e le loro vicende con il poeta-fingitore di Pessoa e il poeta viandante di Machado? 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 62.




E. Schembari, Le macchie sul muro. Pisa, Tacchi ed., 1993, pagg. 111 

“La mia vita? …m’affacciai alla finestra, ho guardato il giardino e già ero grande. Poi ho guardato il pino alto… e già avevo i capelli bianchi. Poi mi sono girata a guardare le case del paese ed ero una vecchia… E mi sono coricata in questo letto, ad attendere la morte. È accaduto tutto quasi nello stesso momento. Cosa ho visto, nella vita? Niente!. .. Si vive per morire… Anch’io, un giorno, non avrei visto più nessuno, non avrei sentito, né detto parole e non mi sarebbe importato di nulla: né della luna, né della verità, né dei fantasmi, né dei bottoni perduti, né dei miei genitori, né delle macchie sul muro e nemmeno della nonna e della sua morte». Sono solo alcune delle pennellate del racconto di Schembari, di un racconto che si snoda con eleganza stilistica e vivacità di immagini, stampate con leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità di implicazioni. 

L’estetica delle Lezioni americane di Italo Calvino sembra che qui trovi pieno e personale campo di sperimentazione; nel racconto di E. Schembari, la realtà, la vita, il tempo è una trama, una rete complessa dove l’immaginario scrive e deforma le cose per diritto di diversità e libertà. 

Il pensiero della morte e del niente che sembrano dominare la narrazione, che si svolge con equilibrio tra passione e distacco narrativo, non hanno niente di cupo e pessimistico; sono soltanto le macchie sul muro. Ieri si sarebbe detto e scritto sui muri e sulla carta: “vogliamo l’immaginazione al potere”. 

I/L protagonista/i – la nonna e il nipote “matti” – del racconto, al di là del puro e semplice intento pedagogico-politico, in fondo, non sono altro che la negazione e il rifiuto di quanti, cose, persone, eventi, si impegnano a voler fare morire e nientificare la tua diversità e la tua libertà d’essere e di vivere. 

Tra i fili della propria rete, il racconto possiede anche colorazioni espressive che hanno recuperato e valorizzato la funzione significativa di diversi stilemi del linguaggio e dell’ambiente siciliano. arricchendo, così, il raccontare stesso di una memoria culturale che non deve essere annullata in tempi di omologazione tecnologica. 

La morte e il niente di Macchie sul muro è il nihilismo dei liberi. di chi non ha nessun possesso da perdere, di chi, come diceva un certo autore di Al di là del bene e del male, sa che i fatti sono stupidi come i vitelli, e di chi, come Schembari, scrive che la morte, forse, è un fiume e/o un sole. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 45-46.