E. Bonventre, Leone assiro, ed. Tracce, Pescara, 1993, pagg. 36

Rileggere le poesie di E. Bonventre alla luce del quadro interpretativo offerto da P. Valery per guardare la complessità – l’imprevedibilità essenziale -, questa è l’intuizione che mi è rimasta dopo la lettura. 

I titoli delle poesie fanno da cornice certa e referenza culturale classica inequivocabile per seguire lo stile del verso che, tra il modello epigrammatico e quello aforismatico, snoda il dis-corso delle emergenze poetiche. La figurazione e 

riconfigurazione possibile e continua dell’immaginario-reale, che vitalizza le poesie, si esistenzia però nell’incertezza dei paradossi autoriflessivi – (<< ••• / La Storia non consiste! / Ciò che pensa il grande Fratello / è sempre più Storia della Storia di prima») – o prende voce nella seduzione errante con cui, personificati metaforicamente gli elementi e fattane trasgressione semantica, il poeta, vago ed evocativo, sogna di una zeriba che raccoglie la voce del vento della “libertà Mandela” o di una chimera: «Un’altalena il mare / unico amico il mare / perché ti ricordo?». 

Intreccio di classico e di contemporaneo, la poesia di Bonventre è certamente traccia e testimonianza di come il linguaggio poetico, accanto agli altri linguaggi della società tecnologica, conservi intatta la propria vitalità e una propria ricerca ineliminabile per dire la pluralità delle cose. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pag. 48.




Domenico Cara, Bajlcàl, Milano, Editrice grafiche abidue, p. 1324

 Non posso evitare di dire che ho letto Bajlcàl, l’ultimo libro di poesie di Domenico Cara, che fra l’altro è una penna che non scrive solo poesia e di poesia, in compagnia delle indicazioni di percorso che lo stesso autore ha dato con una sua nota a fine testo e di quelle dell’introduzione di Mario Lunetta, che, a sua volta, cita, la figura del “poetaforista” di Stefano Lanuzza. 

Bajlcàl è una raccolta di poesie che si suddivide in quattro parti: Arpa omofona, Charme assoluto (monoloquio sull’altrove), Flotiglia dell’orsa e Camera delle similitudini. 

Non azzardo nessuna cucitura tra questi quattro sottoinsiemi e l’insieme della raccolta. 

Dico solo che parole-luoghi come “interrogazioni, tempo, ironia, metafisica, logos, contingenza, caduta, altrove, lineamenti di realtà, aliquota del quotidiano, piazza, trascendenza, il punto dell’effimero, caso, caos, aleatorio, ecc. , erano quelle/i che mi prendevano con più insistenza e che più di ogni altra rete di connessione si ponevano come centro di gravitazione orbitale nel tentativo di un mio rapporto più ravvicinato col detto e il non detto della poesia di Cara. 

Non saprei spiegare perfettamente perché, ma sicuramente cercavo un filo, una trama, delle tracce, dei frammenti, anche aforismatici, a me familiari e da utilizzare come tali per “colloquiare”, si fa per dire, con il testo del poeta nel suo flusso di “accumulo barocco”, interrotto dalla necessaria discontinuità della scrittura e della scrittura poetica in particolare che si concretizza nella polimorfia del verso. 

Mi sono venuti in aiuto due versi di Maurice Blanchot – “Parlava, andando di parola in parola / per consumare la sua presenza” – che Cara ha utilizzato a fronte come segno d’incipit per la poesia Le trascendenze, l’attesa, l’oblio (p. 101). 

Domenico Cara, infatti, consumando le presenze sotterranee del «lago> , di Bajakàl nella consistenza della scrittura che si erode nella coesistenza oscillante tra profondità e limpidezza di pensiero e di sintassi, pone la sua poesia in un rapporto permanente di interrogazione col tempo. Un tempo che sosta divenendo in un ininterrotto seguirsi, senza principio e senza fine, di presenza e di assenza, dove la consumazione è una cancellazione senza la conservazione della memoria: il gioco dell’acqua del mare, ma anche del «lago>, quando il vento innesca il moto delle onde. 

“. . . la parole indicibile” così dice e non dice, e le “. . .cicali invisibili” consumando la loro invisibilità nella corporeità del canto cancellano il loro suono nei segni che vengono tradotti in scrittura, in un “ritorno” che Nietzsche chiama “eterno”. 

La citazione è un altro “luogo” dove Cara e Blanchot mi hanno portato, ma non chiedetemene una ragione logocentrica. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 82-83.




D. Cara, Ornamenti per sella, Bologna, Ed. del drago di seta, 1994, pagg. 58.

Il cavaliere che monta la “sella” del cavallo della scrittura e ne orna con lo stile la superficie non euclidea o a curvatura costante negativa – spazio, appunto, a “sella”-, come dicono gli artisti delle geometrie non classiche, è Esco. Esco sa che i sentieri di questo spazio sono quelli che si declinano con la consistenza delle dune del deserto o delle scie delle onde del mare. Si può dire che Esco, in questa nuova esperienza scritturale di Cara, sia la stessa scrittura che giocando sul piano non lineare degli assi logolinguistici del viaggio de-lirante del pensiero in cammino (.Adesso la fissità si è spostata e, quindi, c’è per tutti noi una possibilità di parlare…-, .A quanto pare, qualcuno ride di noi stamattina, taglia a metà le ragioni irreali come un uovo sodo e bianchissimo… -, aggruma e colora, quasi per nascosta aspirazione e vocazione conoscitiva, “casuali” significati e sensi congetturali e/o, a volte, aforismatici, argomentativi, inaspettate emergenze e “brezze casuali”: .Un modo diverso di pensare alla felicità è di sognare una foglia vagante•. 

Questo modo di viaggiare su uno “spazio a sella e in tempo miscelato”, dove la linearità del discorso cede il posto alla parola dei nodi, non fa perdere, tuttavia, la pregnanza e l’efficacia della scrittura e dei messaggi-non messaggi. I nodi infatti sono legati dalla concreta contingenza della rete discontinua-continua della vista, dell’ascolto, del gusto, dell’immaginario polifonico e dell’improbabile probabile di cui possono dire, deposto il terrore dell’aut aut, solo gli universi delle logiche che sposano la pienezza del tempo come miscela. Nei luoghi dove la leggerezza o l’esattezza della scrittura devono curvare i “bordi” della soglia attraversamento non dicibile – e decidere il passaggio del “referente” al livello del tra-dotto, il piano della pagina porta anche le tracce dello zoccolo dell’ironia (Il suo orgasmo era un’estasi nazionale…•. Non è un caso che Cara, ad apertura del testo, si presenta in compagnia di Majakovski, Ionesco e altri cavalieri della penna. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 62-63.




D. Cara, La conservazione dell’oggetto poetico, Ed. Laboratorio. Milano, 1993. pagg. 367

Dopo Traversata dell’azzardo, quasi un repertorio della poesia degli anni Ottanta e un rapporto sulle illusioni irrazionali. pubblicato per i tipi della Forum/Quinta Generazione, Domenico Cara dà alle stampe La conservazione dell’oggetto poetico. 

L’opera non vuole essere un’antologia bensì un repertorio di stili e referenze modali dal momento che non esiste più la Poesia ma “versioni di poesia”. 

Con l’attenzione alla lingua usata dagli autori inclusi. Cara divide il suo lavoro in quattro sezioni: l – i nodi dell’epoca: selva continua, nutrimento, allegoria, 2 – l’origine dei fili. indispensabilità della proporzione. 3 – dai lacerti dell’emozione, altra esistenza. 4 – Tornare dal fondo, consegnarsi all·assente. 

Non è senza ironia che l’autore del rapporto ci presenta La conservazione dell’oggetto poetico: le varie scritture poetiche, infatti, strappate alla solitudine del monologo o di un finto colloquio con un alter ego, vengono verbometaforizzate entro comici appese ai chiodi delle “autopsie… sali nell’acqua…”. D’altronde oggi non c’è indagine e riflessione sulla scrittura che non viva di ironia, se la lingua è diventata campo ermeneutico, orizzonte di realizzazione e derealizzazione che fonda e sfonda allegorie, spaesamenti, nostalgie fondative, assenze nichilistiche o altro. 

In ogni caso, dice l’autore, quella degli anni Novanta è una ‘poesia uscita per sempre dalle sincopatie della maniera e quindi libera di essere collocata nella rianimazione dei suoi equilibri». I poeti, così, raccontandosi nell’età che li attraversa con tutta la tensione di una realtà inquieta e dai bordi indefiniti, si interrogano e danno voce a· dei “versi” che triangolano gli eventi tra l’assurdo, l’immaginario e altri intrecci, facendo della “conservazione dell’oggetto poetico” una poesia come poesie che si collocano nei luoghi delle domande e delle risposte irrinunciabili. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 46-47..




 Boris Vishiski, Gli occhi del pittore

Pasian di Prato (Udine), Campanotto Editore, 1997, pagg. 170. 

“Gli occhi del pittore” è l’ultimo romanzo dello scrittore macedone, Boris Vishiski, che Matilde Contino ha tradotto in lingua italiana dopo Corona di Sabbia dello stesso autore. 

La traduzione ha reso perfettamente l’intreccio dei vari livelli del testo. Ne conserva la fluidità, la freschezza e l’incisività poietica che, tra implicanze di varia natura, articola e struttura il tessuto del romanzo. 

Realtà, fatti, eventi, storia, immaginario e immaginale, sogno, razionale e irrazionale, proiezioni psico-affettive e costruzioni “surreali” … sono miscelati e distesi con effetti d’intesa e costante tensione letteraria. Il perno della costruzione letteraria è, ormai, quello che nell’opera di Boris Vishiski può essere considerato un ideologema: un personaggio che vive la propria condizione socio-umana come una differenza di separata alterità, la cui complessa e sicura identità di singolo e di cittadino libero è permanentemente minacciata di distruzione. 

Per alcuni aspetti, lo sviluppo dell’intreccio sembra richiamare le tematiche dell’alienazione e della perdita d’identità dei personaggi kafkiani. Ai personaggi di Kafka il potere frustrante e deviante del “Castello” si presentava con l’impenetrabilità comunicativa e quasi metafisica. Al personaggio di Vishiski la violenza del potere, forte e ossessiva, continua e inafferrabile metamorfosi in agguato, si presenta con tutta la visibilità e la volontà dichiarata di annichilimento. 

I frammenti della vita di Marco sono la dolorosa allegoria di un ordine che ha distrutto e perso, per volontà di un potere assurdo quanto inaccettabile, a volte oscuro e inspiegabile, il senso delle relazioni umane e politiche plurali. 

Per contrasto, il messaggio dell’opera, ci sembra essere, fortunatamente, un invito alla resistenza e all’attacco vigile. 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 50-51.




Angela Scandaliato-Maria Gerardi, La Giudecca di Sciacca. Gli Ospedali della città, Castelvetrano, Edizioni Mazzotta, 1990.

 Il testo, scritto a due mani, è uno spaccato della storia di Sciacca tra il XIV, XV, XVI e XVII secolo, la cui narrazione pesca nell’humus dei diversi strati sociali e nei rapporti di gerarchie e dominanze, sottomissioni e sfruttamenti, lotte aperte e clandestine, diplomatiche e non per il controllo del potere. 

Il lavoro, corredato da opportune note, rimandi in appendici, riproduzioni di documenti d’epoca già noti o inediti, indicazioni bibliografiche d’obbligo e da una inequivocabile chiave di lettura che si rifà alla storia come “lotta di classe”, affonda il bisturi dello stilo ricostruttivo nelle “zone d’ombra” e nella “microstoria” della Sciacca dei secoli sopra indicati. 

Da un confronto con il presente, verrebbe voglia di rispolverare Giabattista Vico con i suoi “corsi e ricorsi” o quanto meno ripensare a certe devianze delle istituzioni come a una costante piuttosto che come a un fatto “congiunturale”. 

Sono gli ebrei e il loro rapporto con il potere politico-economico laico e religioso-cattolico locale, i poveri, le prostitute, i vagabondi e il loro rapporto con le logiche ideologiche forcaiole e torchianti della classe dominante del tempo e i relativi ricambi, il vero soggetto che processa e giudica un’epoca e i suoi cosidetti governanti, più della sapiente ricostruzione delle autrici che a quelli hanno prestato la penna per dare loro voce e possibilità di memoria storica per gli altri. 

I capi d’imputazione: assenza dello Stato, clientelismo, compravendita del potere, compreso quello di far giustizia col “privilegio” – legge privata -, favoreggiamento della prostituzione anche come propaganda di “antitodo” contro la peste, sfruttamenti e peculati nelle istituzioni assistenziali (vedi ospedali), dominio di un’ “etica” improntata al più cieco e abietto clericalismo cattolico, che additava ebrei, poveri, prostitute e vagabondi come causa dei malesseri più diffuse perché “diversi”: gli estranei come male irriducibile al bene e alle “buone norme”. 

Senza misconoscere l’apporto della Gerardi, ci sembra che la mano della Scandaliato, ricca anche di una sua esperienza nella “microstoria” degli eventi della poiesis, sia quella che più abbia dato luce e filo alle “zone d’ombra” della storta di Sciacca del periodo preso in esame, anche perché la sappiamo versata in questi studi, senza nulla togliere, peraltro, ad altri che perseguono obiettivi analoghi. 

Nel segnalare l’evento editoriale consigliamo la lettura dell’opera che, fra gli altri pregi o difetti che altri possano trovarvi, sicuramente non ha accademismi da officiare. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 81-82.




AA.VV., Arrivederci a Sortino. Scritture di Autori Siciliani, Ed. Prova d’Autore, Catania, settembre 1997, pp. 263.

A cura di Sebastiano Terranova, per i “Quaderni di Sicilia nell’Arte e nella Letteratura” , l’Amministrazione del Comune di Sortino, con i patrocinio della Provincia Regionale di Siracusa, in edizione fuori commercio, pubblica un almanacco di autori siciliani in occasione della prima mostra Mercato-Mercato del libro A.S.E. (Associazione Siciliana Editori). 

Gli autori presentati, poeti, narratori, saggisti, scrittori di costume, tradizione, attualità, ecc., sono stati suddivisi in cinque sezioni: “testimonianze e ricerche, esordienti, conferme e riconferme, interviste, sezione sortinese”. 

Il libro, inserito nel contesto della cultura iblea e isolana, come testimonia il Sindaco di Sortino, Orazio Mezzio, è uno spazio meritevole di attenzione perché luogo ed esempio di una Sicilia attenta alla cultura come forza di crescita e di sviluppo civile e democratico. 

Una Sicilia troppo vilipesa e dimenticata non poteva esprimersi con migliore prova di sé e della sua gente propositiva. 

L’Almanacco sortinese delle nuove scritture, inoltre, è significativo e esemplare sia per gli autori presenti sia per la variegata qualità scritturale di cui gli stessi sono portatori. 

Sortino, mediante la raccolta di autori appartenenti a diverse aree dell’Isola, si fa voce rappresentativa di tutta la nuova Sicilia e ne indica lo spirito creativo e la decisa volontà associazionistica tesa a contraddire l’individualismo e il mercantilismo dell’arte e della letteratura. 

Sortino, un esempio da imitare e ripetere in altre realtà isolane! 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 62.