Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 

Nato a Eisenstadt (Burgenland) nel 1939, Walter Grillenberger si è affinato nell’Istituto superiore d’insegnamento di Vienna Strebendorf, in particolare – per qiuanto riguarda le discipline artistiche – alla scuola del Kuhn. Dal 1970 insegna educazione artistica, a Salisburgo, nelle scuole superiori. 

La sua partecipazione a mostre inizia nel 1965, Jugendring di Innsbruck. Le sue mostre personali, invece, cominciano nel 1974 a Oberwart; e si svolgono a Salisburgo, St. Johann, Hallein, nella sua città natale. Adesso la sua esposizione personale «Prospettive astratte», promossa dal ministero federale austriaco per l’Istruzione, a Roma nell’Istituto austriaco di cultura (che, da anni, svolge un’attività variegata e intensissima). 

I dipinti ad olio di Walter Grillenberger – come ricorda Michael Stadler, in catalogo – «mostrano una forte influenza del cubismo, la cui caratteristica è» la «trasformazione delle forme visive in geometriche e piane. Come i cubisti egli tratta il motivo illustrativo con logica analitica e realizza i suoi quadri a mente fredda. Partendo da uno schizzo, cerca di mettere in risalto» quanto punge il suo interesse «tralasciando tutto il resto». 

«Le forme realistiche vengono radicalmente semplificate. Le case» – «cubi colorati» – «mantengono però la loro realtà, come anche le figure che nelle loro forme arrotondale contrastano efficacemente con gli elementi a spigoli vivi». 

Si direbbe che gli oli di Grillenberger si presentano come intarsi tonali, pentagrammati coloristicamente e nella stessa sinuosità delle linee (forma e colore sono tutt’uno, e i rari chiaroscuri pongono in evidenza questo aspetto) al punto che gli spigoli – «vivi» se considerati isolatamente – forniscono anch’essi, nell’insieme del quadro, una musicale partecipazione all’andamento sinuoso dei diversissimi brani del puzzle. 

Case, animali, elementi decorativi, figure umane, si fondono a instaurare un paesaggio le cui profondità prospettiche si contrappuntano alla piana geometricità delle scomposizioni (e ricomposizioni). Ne risulta una scena mossa, vivace, in cui i colori chiari si lasciano assorbire da quelli scuri; e le connotazioni più stabili – essenzialmente statuarie – contribuiscono, per implicita metafora, a movimentare l’andamento della composizione. 

A ben guardare, ogni quadro è una giustapposizione di forme fisse le quali – nella sintesi racchiusa dai limiti della tela – riescono a darsi un timbro da opera in via di svolgimento; un trascorrere ininterrotto, asciutto ma fluente, sommesso però deciso. 

Questa astratta combinazione di cubismi possiede, dunque, un’attualità che travalica le possibili utilizzazioni illustrative. E indica un processo d’identificazione per cui costantemente il paesaggio – anche quello con figure – diviene foresta. Noi camminiamo velocemente nella foresta, ed è come se gli alberi si muovessero: passando davanti alla nostra sosta. 

Sarebbe un fenomeno analogo a quello di chi, dal treno, guarda fuggire i pali del telegrafo. Non lo è, in quanto tutto assurge alla dimensione della foresta: di tempo sospeso in luce soffusa. La civilizzazione non sarà o non si è avuta ancora; all’autore importa l’umana essenza, nella sua esplicazione meditativa che non è mai ferma: anzi, è sempre in un viaggio che non sappiamo se e quando potremo avere compiuto. 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 41-42.




Tentativi di poesia e di comunicazioni

Secondo consuete valutazioni, la possibilità di comunicare sembra atto in sé che attende di manifestarsi: divenendo – fuori di sé – un fatto capace di suscitare conseguenze. Bisogna aggiungere che essa dipenderebbe da una disponibilità, connaturata all’oggetto. Ragionevolmente chiamiamo oggetto (nel plurale adatto alla nostra modestia) quello che di solito viene indicato come luogo da cui partirebbe la comunicazione, soggetto che comunemente si ritiene possa riceverne.

Infatti, quella disponibilità – nell’oggetto – è una finzione logica: non un elemento dinamico della comunicazione ma un antecedente della possibilità di comunicare, stabilmente insito, oggettivamente fisso, che fornisce segni decifrabili. Questa riflessione proviene dall’evento stesso del comunicare: non succede che passivamente si riceva comunicazione, ma che attivamente se ne prenda (è caratteristica dell’oggetto assumere ruoli passivi, l’attivarsi è proprio del soggetto). Nel terreno si rinvengono pietre sepolte, all’interno della persona la sua indole, così il soggetto trova nell’oggetto un’apparente disponibilità a comunicare.

Se nessuna disponibilità è passiva, quella intesa alla comunicazione non è trattenuta nell’oggetto; è semplicemente la disponibilità, del soggetto, a Tentativi di poesia e di comunicazione di Antonino Cremona riconoscere l’oggetto. La possibilità di comunicare è determinata, dunque, dalla capacità di lettura da parte del soggetto. A questo punto, la possibilità di comunicazione – atto in sé, il quale attende di manifestarsi (fuori di sé) come fatto capace di suscitare effetti – dipende da una disponibilità connaturata non all’oggetto ma al soggetto: è disponibilità a capire, con la conseguenza (ecco dunque: fuori di sé) di migliorare la conoscenza ed eventualmente il gusto (questi gli effetti). 

Nei rapporti fra persone, durante lo scambio delle notizie, ogni persona è – di volta in volta – soggetto e oggetto del comunicare; meglio: della comunicabilità. Tramite del possibile tentativo di comunicazione può essere una sostanza o una forma, non esistenti in natura ma create da persone: una sostanza grezza, perché priva di forma; una forma che ha sostanza materiale o concettuale, oppure materiale e concettuale insieme. Va, comunque, precisato che la comunicazione non è mai completa: per oscurità dell’elemento da riconoscere, per difetto della disponibilità a intendere, o per entrambi i motivi. Sicché la comunicazione non esiste come assoluto (peraltro, non vi è 1’assoluto); ma solamente esiste la comunicabilità, e in modo relativo. A questo riguardo bisogna puntualizzare che la forma è conseguenza della ricerca di espressione, però quasi mai tale ricerca permette di giungere alla forma che si voleva ottenere. Cosa si possa intendere per espressione cercheremo di proporre in seguito.

 

Questi appunti “banali” servono ad avvicinarci all’argomento “Poesia e comunicazione” in cui il Centro di cultura siciliana ‘G. Pitrè’ (Palermo, 28 e 29 novembre 1985) poneva alcuni interrogativi circa lo “spazio” che la poesia possa ancora trovare nell’”ampliarsi attuale dei sensi e dei mezzi del comunicare”; coltiva dubbi sul concetto di comunicazione poetica (“solo facilità discorsiva”?); infine – “poiché la poesia dei Siciliani è in genere sorvegliata dal senso della comunicazione” – è possibile “enucleare una linea isolana?”.

 

 

Certo; nessuno sa, né mai ha potuto apprendere, cos’è poesia. Avviene che se ne avverta l’odore, ed è lecito affermare che poesia sempre si è avuta in tutte le altitudini e latitudini. In ogni ipotesi la voce, lo scritto, la trasmissione elettronica e telematica, possono divenire supporto dei suoi trasferimenti.

 

Noi siamo di quelli che non s’incantano dinanzi alle meraviglie tecnologiche e scientifiche, anzi si avvedono delle devastazioni che ad esse si devono attribuire; abbiamo pure segnalato la scienza e la tecnologia – serve della politica di potere – come involuzione della civiltà, regresso della vita: a nulla giova che si possa estendere le nozioni se nel concreto questo impedisce di approfondire la conoscenza già acquisita, persino rende disumano il mondo.

 

Si dirà che ogni cosa ha un’origine e una fine, dunque anche la poesia potrà avere la sua fine magari telematica. I discorsi, però, sulla morte dell’arte – o della filosofia – non ci sollecitano: perché tutto è relativo, niente è mai definito, l’anno Mille è stato preannunziato invano tante volte contro la mente. Badiamo, invece, all’origine della poesia: ch’è il canto. La scrittura è trascrizione del canto; il fatto che quasi mai, da secoli, la poesia venga cantata non sopprime la necessità di musica in cui la poesia si forma; anche la spezzatura del verso è un segno musicale.

Che la scrittura a mano, o a stampa, possa essere sostituita con altra è solo un fatto meccanico: riguarda il supporto scrittorio, non l’atto ideativo – né il fatto ideativo – della poesia. La tendenza (alquanto barbina e suicida) a sostituire la macchina alla persona potrà forse indurre a trovare poesie – o tentativi di poesia – delle macchine, non certo da mettere insieme alle poesie (o tentativi di poesia) delle persone. Ragionare con una macchina potrà essere un passatempo, istruttivo e delizioso, mai un ragionamento fra persone: anche se vi siano macchine raziocinanti meglio che persone.

 

Pure ci è utile il secondo quesito. La poesia e ciascun’arte non sono mai state lievi da fare, né da intendere. La qualità dell’arte ha spessore in rispondenza alla capacità espressiva dell’artista. L’immediata percezione non trasforma i connotati del cartello pubblicitario, anzi li distingue; la trascinante emotività di un eloquio – pure se composto in fraseggi con ritmi e immagini, luci e coloriture – si ferma alla soglia della poesia, perché non sfiora la metafora. La ricerca di espressione non si raggela nel coniugare immagini: perviene all’esposizione delle metafore.

La poesia autentica si fa dura all’ascolto; ha bisogno di più letture, penetrazione graduale nei suoi strati. Per quanto ci riguarda, non siamo peggio eretici del nostro solito se escludiamo che qualsiasi testo – solo perché composto in versi – possa avere significatodi poesia.

 

In ultimo, i siciliani. Se quella dei nostri autori fosse “sorvegliata dal senso della comunicazione” e non (appunto) dal senso della poesia, siamo propensi a ritenere che sarebbe davvero infima. L’intento comunicativo impone un semplificare che non è limpidezza, ma fa parte dei sistemi divulgativi; invece, l’intento (meglio: l’esigenza) della poesia costringe, a un approfondimento della ricerca di esprimersi.

La comunicazione esterna, peraltro, è un evento occasionale ed estraneo: la ricerca dell’espressione, infatti, è il tentativo del poeta di comunicare con la propria scrittura. Come gli altri tentativi, neppure questo spesso riesce.

 Non si prenda questa posizione come un adeguamento alla cosiddetta scrittura automatica: non si accorderebbe con l’avversione al telematicismo e con l’adesione, invece, ai difetti umani. Né si pensi a un riflusso di ermetismo (scuola inventata da alcuni critici, rifugio – come tutte le scuole – di autori bisognosi di farsi proteggere); s’è possibile, ci si consenta di tentare qualcosa di svincolato dalle mode.

 

Dati i precedenti dei vari ‘ismi’ in Sicilia, andremmo guardinghi nel segnare una linea continua nella poesia dei siciliani. E potremmo anche temere pericoli di delimitazioni, d’incasellature  Quest’isola non ha mai avuto una cultura isolata, tanto più se la ‘cultura’ va intesa in termini antropologici. Essa  non è mai stata solo un crocevia del Mediterraneo; oggi, contro ogni apparenza, è terraferma nei flutti del mare.

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 34-36.




 Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel» 

di Antonino Cremona 

Vi è stato un tempo in cui le tazze avevano due manici, affinché si potesse bere agevolmente. Epitteto, però, diceva che non solo le tazze ma – generalmente – ogni cosa ha due manici; molto tempo dopo, gli entusiasti del premiatismo si sono accorti del rovescio della medaglia: un secondo manico, di forma diversa. In definitiva, Epitteto ci informava che vi è più di un modo per prendere le cose: prima da un manico, poi dall’altro, e ciascuna volta l’oggetto risulta diverso. A certo punto, le tazze hanno perso un manico: per effetto di un assolutismo unidirezionale. Sicché è rimasto un solo modo per prendere le cose. Infine, l’invenzione del bicchiere ha eliminato anche l’ultimo manico: non vi è più modo di prendere le cose. Rimane, però, l’avvertenza di Epitteto: alle idee, agli argomenti, alle persone, alle cose, ci si può accostare in modi diversi; intanto, possiedono diversi modi di manifestarsi. Un autore può essere preso – come si dice – per quello che è, o nel contesto del suo tempo. Ancora: può essere colto negli elementi che ci tramanda, o per la marea dei suoi discepoli. 

Ma queste sono soltanto delle apparenze. Infatti, nessun autore può mai essere «quello che è» (la sua opera non può venire considerata come se il resto del mondo non esistesse). Ogni autore consiste, invece, nella sua storia; ch’è composta di due parti: la prima, sino al momento in cui produce; la seconda – in perenne formazione – inizia nel momento in cui ha smesso di produrre. A volte, l’assegnazione di un premio Nobel (o la semplice pubblicazione dell’opera omnia) vale un decesso. Non è stato il caso di Montale, né di Quasimodo. 

La prima parte della storia di un autore è la sua opera che si va formando, e pure vi appartengono gli effetti della sua opera ancora in via di composizione; la seconda parte della sua storia sono gli effetti dell’ opera ormai conclusa, anzi interrotta da un qualche evento. Ma vi è da sospettare che l’opera è di quell’autore in quanto è di sua scrittura: egli e il suo ambiente si esprimono attraverso quella scrittura. Pure vi è da considerare che nessun autore ha bottega, non si sceglie i propri adepti, non li conosce nemmeno; lavora per suo conto (non è un artista – pittore, o scultore, architetto – di tipo rinascimentale), non si occupa di discepoli. Se ve ne sono, stanno fuori dall’officina; si trovano fra i suoi lettori. 

Dalle nostre parti, non abbiamo autori di letteratura che possano essere conosciuti attraverso i loro adepti. Si vuole dire che l’opera di Salvatore Quasimodo non può essere valutata guardandone i seguaci ed epigoni: il fatto che vi siano quasimodiani segnala la forza di suggestione che l’autore è capace di imprime re, ma non può attribuire a lui alcuna responsabilità (appunto, non ha bottega) circa gli esiti dei suoi ospiti. I quali, come avviene al seguito di ogni fortuna letteraria, hanno frainteso il senso della sua scrittura. Equivocano le derivazioni decadentistiche – certamente quelle che provengono dal più fine decadentismo degli europei – scarabocchiando paesaggi in forma di bozzetto; sicché il civismo meridionalistico di Quasimodo viene tradotto in un disgustoso lamento sulle proprie sorti, e su quelle di un Sud inesistente; l’emigrazione si presenta, in questo modo, ancora più esecrabile. 

Le dimensioni dell’opera di Quasimodo si accrescono, e si arricchiscono, quanto più essa si inoltra nella seconda parte della sua storia. Sicché diviene pressante che vengano condotte alcune indagini: rintracciare le influenze quasimodee su altri traduttori e poeti; così pure i legami di Quasimodo con i suoi contemporanei e i suoi antecedenti. 

I suoi contemporanei non sono autori delle altre latitudini. Sono, innanzitutto, la gente (non necessariamente la sola gente di cultura) con cui egli è vissuto nei vari luoghi della sua vita; e sono i libri delle sue letture. I suoi contemporanei, dunque, si risolvono nelle riflessioni: dovute a persone che vivevano con lui (direttamente, oppure attraverso quanto egli era disposto a ricevere dalle loro attività artistiche). Una critica attenta a componenti di questo tipo darebbe risultati amari al criticismo astratto: troverebbe, peraltro, notevoli – e quasi sconosciute – personalità accanto e intorno a Quasimodo e lui accanto e attorno a costoro. Per conseguenza, si ridurrebbe l’immagine del poeta in una luce di solitudine all’interno della triade ermetica. 

Certo, un poeta è sempre un passero solitario; ma in senso diverso da quello per cui possa divenire un migratore . sperduto. Chi è privo di passione per la solitudine – un amore appassionato, quasi esclusivo – non riesce a scrivere, mai: la vocazione del poeta è la vocazione alle proprie riflessioni solitarie, pubbliche e private. 

La solitudine di Quasimodo è tutta un fervore di relazioni, di scambi, di interessi, con quelli che possono essere ritenuti i suoi contemporanei, ma anche i suoi antecedenti, di tante epoche, con i quali ha tenuto contatti da contemporaneo. 

Stranamente, il concetto di ermetismo non è una sintesi a posteriori. È – invece – un ritrovato di critici, in linea parallela allo sviluppo dell’attività di alcuni poeti e saggisti. È una sorta di programma, come quello che Adriano Tilgher stese a un certo punto del lavoro teatrale di Luigi Pirandello. Sappiamo tutti che i programmi in materia d’arte sono tentativi ogni volta falliti. L’arte se ne va sempre per il suo verso, sfuggendo alle regole. Va a finire che, rispetto alla gabbia messa su da Tilgher, Pirandello ha poi sbagliato; e che, allo scopo di rinserrarsi in quella gabbia, Pirandello cerchi di non sbagliare: con alcune conseguenze rispetto a se stesso. Va, pure, a finire che l’ermetismo rimane un’ipotesi; un movimento poetico nel quale (paradossalmente) tutto è fermo, e non vi sta dentro nemmeno un autore: ovvero alcuni letterati, che la poesia ha lasciato in desolazione (così nel romanticismo, nel classicismo, negli ismi). 

Ne viene fuori che la triade si allarga. Interrogati, uno ad uno, i componenti della triade negano di farne parte (non solo di appartenere alla triade, ma allo stesso ermetismo), e oggettivamente non vi appartengono. Ognuno si è messo nella propria solitudine: lavora all’intemo della propria poetica. La triade si allarga perché – indicata con persone di varie generazioni, circostanza che metodologicamente non sembra idonea, e l’ermetismo non essendo esistito, almeno come denominatore comune – bisogna che altri poeti di pari dignità (qui non si dice di analoghe dimensioni della scrittura, se non per pochissimi, fra i quali Umberto Saba) siano riconosciuti attivi nel primo sessantennio del ventesimo secolo in lingua italiana. D’accordo, la vita operativa di ciascuno dei tre è andata generalmente oltre quel tempo, e le date stanno bene solo al calendario. Né conviene fidarsi delle dichiarazioni di poetica, quantunque ogni scrittore avverta il dovere di farle conoscere. 

Del resto, ciascun autore conosce se stesso in breve misura. E ogni proposito viene puntualmente smentito dal risultato dell’arte; tant’è che si generano (ad esempio) le poesie a cannocchiale: l’una appresso all’altra, nella rincorsa ad esprimere quella determinata sensazione che, invece, sempre più a fondo si rintana. In verità, ogni autore è altro da sé; ciascuna opera è diversa da come l’autore riesce a vederla. Perché quello che resta, che vale, è solo quanto ognuno venga a trarne. Io non ne so nulla (saggiamente rispondeva Eugenio Montale): sono soltanto l’autore. Nei fatti, non sappiamo se si stava nel giusto durante il lunghissimo tempo in cui il poema di Dante è apparso privo di interesse; né se Petrarca s’indovinava quando riteneva di avere consegnato ai versi latini il meglio della sua espressione, o se gli attuali studi rivalutati vi conducano)e prose di pensiero del Leopardi allo stesso livello dei suoi Canti. Solamente sappiamo quanto, oggi, ci capita di avvalorarci dell’opera di ognuno. 

Questi dell’ultima triade (in ordine d’ingresso: Ungaretti, Montale, Quasimodo) sono comunque riconoscibili maestri di quanti si siano successivamente dedicati alla scrittura delle parole (esclusi, dunque, quelli che scrivono suoni in forma di parole e i telematici) perché diedero segno di come la poesia dovesse scriversi senza maiuscole. Intanto senza le maiuscole dei crepuscolari, iniziarono ad avvicinare la poesia ai suoi lettori, allontanandola dalla letteratura; non solo dalla retorica, dal patriottardismo, dal nazionalismo, dalla magniloquenza. Sognarono e fecero poesia pura: lirica quanto più viene ad essere, insieme, civile; attratta quanto più ci persuade. E quanto il suo oggetto si localizza tanto riesce universale. 

Le dichiarazioni di Quasimodo rispecchiano (ed è un’eccezione) la sua poetica. Nel Discorso sulla poesia Quasimodo si appassiona contro i filosofi (che gli appaiono «i nemici naturali dei poeti»: bisogna dire a torto, se non s’intende che sta discorrendo di quelli che presumono di avere definitivamente sistemato il mondo), però siede nell’essenza del proprio lavoro quando ribadisce che la letteratura «si riflette» mentre la poesia «si fa». Ed è vero: stiano i letterati nei loro paludamenti, con mitrie e aureole; decantino, invece, i poeti le voci del tempo, uniscano spazi, ritrovino l’uomo e i suoi miti, la natura femminile e maschile della terra, operando in precisa umiltà, ma nella consapevolezza di offrirsi come trasgressori di forme e di contenuti, come irregolari nei sistemi precostituiti, dunque vittime possibili. 

E, ancora, Quasimodo s’incentra nel colmo dei propri significati quando separa le questioni grevi della morale dalla libertà della poesia: nella quale nulla può avere un senso immorale, o morale, ma unicamente poetico (concetto, da tempo, acquisito a proposito delle arti figurative ma tuttora non del tutto penetrato nelle valutazioni della parola scritta). E in quanto è trasgressione, la poesia è libertà; in quanto è creazione, è verità; «non insegnano, i poeti, che a vivere»: forse è questo il valore sociale della poesia (la socialità su cui il poeta insiste e alla quale assegna valore etico). 

In noi si scolpisce questo passaggio del Discorso sulla poesia (apparso nel 1956, come appendice a Il falso e vero verde), che individua responsabilità senza limiti: «Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.» Questo si tentava di indicare: un autore ci appartiene, quale che sia la sua epoca, per la misura di libertà e di verità che per suo tramite riusciamo a riconoscere nel nostro tempo. 

Negli «autoritratti critici» (raccolti da Ferdinando Camon nel 1965 nel volume Il mestiere di poeta) Quasimodo teneva a fare evidente questo concetto: «La ricerca di un linguaggio è la ragione principale della poesia.» E avvertiva: non si confonda il linguaggio con la filologia; si distingua la creazione del linguaggio poetico dall’ elaborazione filologica. In tutti e tre i periodi della sua lirica (l’iniziale collegamento stilnovistico, poi quello coevo alla rivisitazione dei classici, infine il periodo della più assoluta laicizzazione) Quasimodo non smise la ricerca (da poeta autentico, non poteva considerarla esaurita) anzi fece costante l’approfondimento dell’espressione nella qualita della parola, una quantità metrica ricca delle proprie risonanze, in contrasto con la qualità dannunziana. Quantità anteriore, in Quasimodo, allo stesso famoso suo accenno «al palo del telegrafo», cioè a un oggetto considerato impoetico. Sta nella sua musica quantitativa la capacità di elevare il canto da situazioni e cose impoetiche; la stessa capacità di rivelare originaria e inalienabile l’intonazione della sua voce. Ciò è in una tale efficienza che fu Quasimodo a dare ai classici, traducendoli, il proprio linguaggio. Lui stesso sapeva «non di una chiarezza ricevuta, ma di una chiarezza data» (intervista a Camon). Questo argomento suggerisce la particolarità del lindore della sua scrittura, che riconduce nell’area del canto pure se intrisa – o forse proprio per questo – delle materialità e delle crisi della sua epoca. Bisogna, riconoscere che il suo dettato diviene canto, perché si fa: crea e si crea, così come, in origine, la poesia era musica per la cetra. 

Un’ultima cosa, a chiudere questa premessa a un discorso su Quasimodo. Può dispiacere ad alcuni, che preferiscono gli itinerari consueti (nazionali o di influenza europea); può essere gradita, invece, a quanti vedono la cosiddetta lingua italiana come filiazione di parlate siciliane – pure se (ragionevolmente) non considerano quella che comunemente si chiama letteratura siciliana come una letteratura nazionale, di una nazione Sicilia che in ambito di cultura non vi è mai stata perché sempre si è fatta sintesi e insieme lievito della vita mediterranea – però è utile tentare un’indagine a proposito di quanto derivi (e sia affine) a Quasimodo e quanto alla sua parola, immagine, metafora, si ricolleghi – nel senso della poesia – dentro l’area, sua, mediterranea (quest’altro mondo assai spesso dimenticato, anche da noi stessi che lo respiriamo). 

Antonino Cremona 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 3-6.




Occhi aperti

Questo posso dirti: l’azzurro
martin pescatore, torrente Vitanza
un mitra che brucia alto nell’aria,
una macchina in fuga; mezzogiorno
suonava nei polsi contratti,
nel cuore delle pietre, nei margini
vibranti della strada; mezzogiorno
si sfaceva nella polvere
che ti annera gli occhi
non dico parole
ma fatti. Il grido d’uccello
la ruota che sbanda, il suo segno
lungo indeciso a centro di strada
l’albero che si fermò rattrappito
senza più vento
che importa dirti
se faceva politica – ora ch’è morto –
come si fermò sul margine
della discesa cadendo
come i suoi occhi rotondi erano aperti:
se difendeva un’idea e la mafia l’ha ucciso.
Accanto al suo volto
lo scarpone del carabiniere;
dimentica ch’era mezzogiorno segnato
da un azzurro martin pescatore
che il mare s’era fatto secco lontano
quando fu sparato, il rapporto
dice soltanto il suo nome e ch’è morto.

Antonino Cremona

(Il gelsomino, Parma, Intelisano, 1968)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 54.




 L’espressione e l’abitante 

La riscrittura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ad opera di Stefano Rodotà [L’Espresso, 1989, n. 4, supplemento “I diritti del Duemila”], si colloca nel massimo interesse fra le innumerevoli iniziative che celebrano il bicentenario. 

Duecento anni d’involuzione politica – e di regresso dentro la tecnologia – sono troppi, per non lasciare profonde rughe nel sorriso della Rivoluzione Francese. 

Bonapartismo, rinfocolamenti monarchici, disuguaglianze borghesi, fascismo, superomismo più o meno tragico (e più o meno consapevole), devianze dagli scopi della dichiarazione d’indipendenza americana ponendo una dottrina di tipo imperialistico, travisamenti della Rivoluzione d’Ottobre alla ricerca di quanti possano diventare “più uguali” degli altri, sembrerebbero avere svanito i sogni di Marianne in ogni direzione. 

Tuttavia, per fare un solo esempio, la carta costituzionale della Repubblica italiana direttamente ha linfa dalla Dichiarazione del 1789: a volte, usando parole di senso uguale a quello francese. 

Si capisce. Anche i decenni trascorsi dalla Costituzione italiana sono troppi; dunque sorgono esigenze nuove, da più acute riflessioni, mentre alcune regole sembrano decadere. 

Rodotà avvisa, ragionevolmente, che il “depotenziamento dei diritti” può anche essere determinato dalla proliferazione; sicché appare consigliabile incentivare concreti istituti di libertà, piuttosto che darsi alla proclamazione di altri diritti. 

Forse, il concetto può essere precisato in questo modo: nessuna dichiarazione di libertà assume reale valore se non viene messa in pratica; invece che estendere l’area dei diritti, a ciascuno dei quali peraltro corrisponde un dovere, bisogna approfondire la nozione dei diritti già dichiarati. 

Questo andare alle radici è, comunque, un buon metodo. Assai spesso, le devianze insorgono perché si è smarrito il senso delle origini. 

E quello che vale per la Dichiarazione [1789] ugualmente ha valore riguardo alla carta costituzionale, poiché essa si forma come una sorta di regolamento dei principi primari. 

Innanzitutto, guardiamo le nuove proposte di Rodotà: diritto “ad un patrimonio genetico non manipolato”; divieto di “ogni raccolta di informazioni che possa essere usata a fini” discriminanti: conoscenza delle “fonti di finanziamento di tutti i mezzi d’informazione”; lavoro “minimo garantito”: diritto “al riposo e alla sicurezza sociale”; partecipazione di tutti “alle decisioni che riguardano la pace e la guerra, la sopravvivenza di specie, ambienti e culture, la conservazione dei beni che costituiscono il patrimonio comune dell’umanità”. Ancora: possibilità che tutti agiscano “per l’attuazione del diritto all’ambiente e il pieno godimento dei beni collettivi”; diritto “di asilo nel caso di persecuzione”; diritto di tutti ad agire in giudizio per la tutela “degli interessi di rilevanza collettiva”: obbligo di pronunzia giudiziaria “in tempi ragionevoli”, e di motivazione degli atti che limitano la libertà personale: assenza di presunzioni, circa la responsabilità penale e la cosiddetta pericolosità: diritto di ognuno a “controllare l’uso delle risorse pubbliche”: pubblicità delle posizioni contributive; obbligo della “solidarietà politica, economica e sociale”: non sono ammesse “la pena di morte e la pena dell’ergastolo”. 

A chiusura, e in limpido ricalco della Dichiarazione 1789, “Tutti hanno diritto di cercare la felicità”. In buona sostanza, la riscrittura dà conto del vivo dibattito svolto negli ultimi anni. Ma l’attenzione si appunta sull’art. 11. 

Garantire “ogni forma di espressione artistica” sembra limitativo. Facciamo esempio dal caso dei Versetti satanici (o Versi satanici, come qualcuno traduce), sperabilmente ormai decaduto: pure se il Comitato internazionale per la difesa di Salman Rushdie, c/o Box 19 London SEI ILX, sembra tuttora – in modo anglosassone – battere cassa. 

Gli integralisti islamici hanno decretato che quel libro non appartiene a nessuno genere d’arte; hanno pure stabilito ch’è soltanto un testo blasfemo, sicché l’autore va senz’altro ucciso. Sicuramente ognuno (compresi gli integralisti di ciascuna religione) è legittimato ad avere, e trasmettere, opinioni sui lavori d’arte: questo campo – e così le considerazioni di carattere storico, o filosofico – non è una riserva di caccia, giacché non vi è motivo per precluderlo. 

A parte la faccenda occorsa a Flaubert con Madame Bovary (e a tanti altri, in momenti cruciali nello sviluppo della narrativa), mettiamo i Versetti vengano giudicati da un tribunale che non sentenzia uccisioni; ma che si permette decidere se quel libro appartenga all’arte; e, non ritenendolo di genere artistico, emetta condanna dell’autore sia pure al pagamento di un penny. Rushdie, ogni altro, rimarrebbe in balìa del giudizio incompetente – e inconferente – ma per legge valido. 

Se ognuno è legittimato ad avere proprie opinioni sull’arte, non si può consentire che possano averne i giudici quando scrivono sentenze: le opinioni trasfuse in un atto esecutivo prevalgono – senza alcuna ragione – sul pensiero di altri, magari più esperti e di migliore finezza nel valutare le cose artistiche. Ed è già inammissibile che prevalgano sull’opinione dell’autore; comunque non si può ammettere che vengano sancite in sentenza, pure se l’autore non abbia opinione alcuna del proprio lavoro. 

Bisogna, dunque, dire ch’è garantita – semplicemente – ogni forma di espressione: nessuno potrà mai negare che un’espressione esista, qualunque possa esserne il senso. 

In qualche parte bisognerebbe, poi, inserire il diritto dell’abitante: cioè il divieto di discriminazione in riferimento alla nazionalità; di modo che chiunque si trovi ad abitare in altro Stato possa usare le leggi che regolano la vita dei cittadini, anche se non ha la cittadinanza di quello Stato: in quanto persona (essere umano). 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 11-13.




 Giustizia, Decentramento, Servizio 

Lo Stato risulta dall’organizzazione finalizzata a regolare i rapporti, nella natura e con le persone giuridiche. I principi dello Stato, cioè del vivere sociale, sono fissati nella costituzione. Essa si applica attraverso le leggi; che si eseguono tramite i regolamenti. Il diritto è l’insieme di tutte le norme. 

Se ad alcune di esse si vuole dare unitariamente un senso, le si raggruppa in codici. In ogni caso, il senso primario risiede nell’intenzione recata dalla carta costituzionale. Stato di diritto è quello che abbia regole certe (inequivocabili, tali da non potere restare ignote, di assicurata eseguibilità). 

Nel linguaggio corrente, ch’è obbligatorio osservare vengono denominati – con locuzione sintetizzante – legge. Si vedeva nelle aule di giustizia (in qualcuna si vede ancora) la scritta La legge è uguale per tutti; per vari motivi – compresa la brevità, favorita dalle persistenti diseguaglianze – quella scritta è spesso raggrumata nella sue parole d’inizio: La legge. 

Come spiega Bourdeau, (nelle società democratiche) “La legge è la ragione umana resa manifesta dalla volontà generale, nella quale essa s’incarna, ed espressa dai rappresentanti del popoloK (Arch. phil. et soc. jur.,1939,12 ss.). Questa definizione d’impianto illuministico, comunque la si giri, indica l’elemento essenziale: la legge sia ragionevole; e il modo dell’espressione in legge: traduzione della volontà collettiva. L’irrogazione è prerogativa dei giudici. Affinché sia loro garantita la necessaria indipendenza, i giudici sono costituiti in un organismo autonoma: la magistratura. Chi giudica è magistrato, in quanto istituzionalmente sottoposto a una maggiore responsabilità – quella del giudicare – rispetto agli altri cittadini. 

Ancora più assillante la funzione degli avvocati, ai quali non è concesso di sostenere qualsiasi tesi (mistificare i fatti , o fraintendere il diritto) ma è dato almeno l’obbligo di vagliare le circostanze, imprimervi le norme del diritto, trovare i nessi giuridici, condurre il tutto dal cittadino al giudice; poi, dal giudice al cittadino. 

Montesquieu avverte che “le leggi non devono implicare sottigliezze: sono fatte per gente di mediocre intelletto” (Esprit. des lois, XXXIX, 16); le leggi, dunque, siano comprensibili da tutti. L’uguaglianza reclama la chiarezza. 

Fuori dall’uguaglianza vi è l’arbitrio. Il contrario di esso, il diritto, è invece la trama su cui pullula il vivere civile: che tende a un sempre più ampio sviluppo della libertà, nell’uguaglianza, per dare inveramento – realizzazione meglio compiuta – alle persone e alla collettività stessa. 

A un più esteso grado di civilizzazione corrisponde un adeguato decrescere del potere, il quale sgorga dal principio di autorità; questa si esplica in ciascuna delle sue fom1e: istituzionale (governo,ecc.), oppure di fatto (potentati economici). 

La funzione del principio di autorità si accresce mutandone l’impulso in dovere di rendere servizio. In questo modo, si raggiunge un concetto di fondata democrazia -e di verità costituzionale – con l’effetto, anche, di annullare le qualità negative (perché impositive) del potere: rinsaldando quelle di consenso, che derivano appunto dall’esecuzione del servizio. 

Fra le caratteristiche meglio preziose della democrazia – nell’attuale storia postrivoluzionaria- è il presupposto secondo cui nelle leggi, tutto è già scritto. Ne segue che l’interpretazione si evolve tenendosi in aderenza ai tempi. Se interpretare non basti, le leggi (e la stessa costituzione) vengono modificate riscrivendo le frasi che non siano ancora in evidente sintonia con lo sviluppo, nell’epoca ch’esse devono reggere. 

Dal 1865, in Italia, per migliore chiarezza -e nell’intento di eversione del potere per adeguarlo alle aspettative allora presenti – l’organizzazione della giustizia è stata suddivisa non solo riconoscendo il naturale divario della giurisdizione civile da quella penale; ma sezionando quella civile in giustizia ordinaria (giurisdizione civile ‘propriamente detta’), amministrativa, di contabilità pubblica, tributaria. 

L’esigenza di fondo aveva creato una baruffa – per così dire – fra gli angeli: in quanto aveva indotto a separare i ‘diritti soggettivi perfetti’ ch’erano decaduti al cospetto della pubblica amministrazione, fulgente nei poteri del principio d’autorità, da quegli altri che rimanevano (tuttora rimangono) ben fermi perché non vengono a contatto con quei poteri. 

Lateralmente, vi era anche l’esigenza delle specializzazioni. Dunque, da una costola della giustizia amministrativa è stata presa la corte dei conti; tirando un’altra costola, si è formata la giustizia tributaria. 

Tutto questo sarebbe quasi accettabile se le giurisdizioni stessero vicine agli utenti (invece sono variamente accentrate), e se tutte dessero uguale accoglienza. Al contrario, quanto alla procedura, la gran madre giustizia civile ha le proprie regole; la figlia – amministrativa – un po’ ne prende da mamma e altre ne ha per conto suo; le nipoti (o cugine della figlia, non si è capito bene il rapporto abbiatico) ancora di più affievoliscono gli effetti dell’origine. 

Resta, intanto, ineludibile che la giustizia – e il diritto – deve offrire certezza: non sfugga, non si travesta, s’è pietra non si trasformi in acqua; ognuno, dunque, sia in grado di prenderla. 

La certezza del diritto consiste nella stabilità delle decisioni (per quanto possibile, le sentenze non si contraddicano) e nella limpidezza dello stile, ma innanzitutto nelle regole del procedimento: tali da mantenere i contendenti su un piano di parità. Le norme di procedura sono la vera sostanza del diritto chiesto in giudizio; questa proposizione non ha nulla d’iperbolico: infatti, senza il modo (di procedere) il diritto reclamato resterebbe una vescica inerte. 

Ma non vi è soltanto di unificare le procedure. Nel trascorrere del tempo, gli ‘interessi legittimi’ più o meno ‘occasionalmente protetti’) hanno riacquistato la forza – dalla quale erano decaduti – di diritti soggettivi: man mano che il potere ha perso essenza (distaccandosi dall’origine divina, poi regia, del principio d’autorità), e si è messa in procinto di farsi rendimento di servizio. 

Peraltro, in ogni caso, la pubblica amministrazione – anche quella che si articola nel ramo fiscale e negli organi del controllo contabile – è già diretta controparte del privato. Se lo è, la sua condizione processuale dev’essere assolutamente paritaria a quella del cittadino. Questo precetto rimane valido se vengono in contrasto enti pubblici, non anche persone fisiche. 

Vi è, dunque, da unificare gli organi giudicanti. S’è vero che, nella società civile, l’attività giudiziaria è sevizio primario -tanto meglio se, come adesso, la si chiama ‘azienda giustizia’- le sue ‘agenzie’ devono essere quanto più diffuse, tanto più facilmente accessibili. Non si offende nessuno facendo, a proposito della giurisdizione, un esempio di tipo sanitario (non di aziende sanitarie, ché quelle sono iscritte nell’orbita di un tipo di mafia probabilmente a parte rispetto alla mafia consueta) ma un esempio con le farmacie. 

Per prudenza, si è stabilito che si abbia una farmacia per ogni municipio; e, superandosi un certo numero di abitanti, si disponga di una fannacia per ogni detenninata quantità di persone. Si capisce, allora, ch’è giusto – in zone particolannente sofferenti, è del tutto indispensabile assegnare un giudice per ogni dato numero di abitanti. 

In teoria è già previsto; ma in una concezione accentratrice di preture, tribunali, corti, commissioni. Nell’animo costituzionale del decentramento, e nell’indicata necessità di unificare le giurisdizioni, in ogni luogo urbano dovrebbe esservi una pretura (competente per ogni processo civile di primo grado, qualunque ne sia il valore monetario) cui siano addetti giudici istruiti in diritto amministrativo, tributario, ecc. L’appello, rispetto ai pretori civili, resterebbe al tribunale. 

Svanirebbero le ansie campanilistiche. L’espressione ‘giustizia distributiva’ perderebbe ironia. Cercare giustizia non sarebbe – così l’icastico verso di Lorenzo Stecchetti – giocare al lotto. Ma andare dal giudice come recarsi al pronto soccorso, od entrare in farmacia. 

In ciascuna mansione, aumenterebbero i posti di lavoro. L’impatto ambientale sarebbe di estrema gradevolezza: ognuno troverebbe subito il proprio giudice naturale, come la costituzione pretende. Ma non se ne può fare nulla, perché è troppo facile. 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 9-12.




 Ester e San Calò 

di Antonino Cremona* 

Una premessa, su quel molto che oggi importa di Giuseppe Pitré. Non solo l’iniziatore degli studi folkloristici in Italia, ed il maestro cui gli esperti di questa e di affini materie usano costante riferimento. Non solo ebbe la capacità – intellettuale e fisica – di creare il corpus delle tradizioni popolari siciliane. 

La sua vita (fra l’iniziale propensione letteraria e l’arte medica e la diversa attivitàdi studi folklorici) intrama l’ansia di lavorare nell’ombra, per non perdere i clienti – cioè i mezzi di vita e le fonti economiche della ricerca folklorica – sovrapponendo l’identitàdel medico a quella dello studioso. Ancora oggi, chi ha un secondo mestiere è costretto a nascondere quanto possibile (per uguale necessità l’occupazione primaria: per non essere preso per filosofo, uguale a pazzo. E la serrata insistenza, nel proporre all’ambiente scientifico accademico ufficiale la piena dignità del folklore quale studio appartenente alla storiografia. 

L’assidua formulazione del Pitrè in tale senso, è anzi un insegnamento fondamentale. Se non gli altri, che pure ebbe, a lui va il merito di avere costantemente considerato la storia come sintesi ultima e immanente di ogni attività umana. Certo, era un pioniere; oggi maggiormente esposto a critiche profonde, e a correzioni talvolta sostanziali, per effetto del progresso filologico. Proprio dal lungo elenco di annotazioni, contestazioni (e rilievi) che Giuseppe Bonomo gli mosse [“Giuseppe Pitrè e la poesia popolare siciliana”, fra gli altri nel volume Pitrè e Salomone Marino contenente gli atti del convegno per il 50° anniversario della morte dei due studiosi, ed ivi anche Alberto Mario Cirese con il saggio su “Giuseppe Pitrè tra storia locale e antropologia”] in sede di ripensamento nella prospettiva storica – non senza l’ineliminabile devozione – emerge notevolmente la sua personalità tanti soccorsi correttivi gli si apportano, perché immenso è il suo contributo alla formazione della scienza folklorica. 

Non ultima (in questa travagliante attività la mostra etnografica siciliana, quando ritenne di lavorare in pubblico, per l’esposizione nazionale che si svolse a Palermo nel 1891-92; il catalogo – nell’edizione anastatica – reca un’amorosissima e stimolante introduzione di Antonino Uccello, poeta siciliano più che di ogni altro studioso rivisse ansie e vicissitudini di cui Giuseppe Pitrè dovette intessere la propria opera. L’avere potuto impiantare una tale mostra era, per quei tempi, affermazione massima della presenza dell’etnografia nei confronti della letteratura e della scienza ufficiale: quantunque oggi si sia, giustamente, disancorati da imbalsamazioni museologiche (ma solo nelle idee, non sempre negli allestimenti). 

Però sollecitazioni in questo senso, per quanto indirette, provengono dallo stesso Pitrè; come è chiaro da un libro di piacevole lettura che Bonomo ha composto insieme a lui, a distanza di decenni, Che cos’è il folklore: metodologicamente organizzato in introduzione, prelezione – è il testo del Pitrè, inaugurandosi il corso di demopsicologia nell’universitàdi Palermo (il primo, in Italia) -, commento, note all’introduzione e al commento; insieme, un aggiornamento bibliografico. Un libro ancora oggi utile alla meditazione sulle origini del folklore, e sui compiti attuali degli studi folklorici. Che non sono soltanto quelli del raccogliere, ma – più che mai adesso – dello spiegare. In proposito, Bonomo (il quale, anche stavolta, padroneggia con agile garbo la vasta materia) tiene insoluto un problema che non si può sciogliere, forse, nel giro di pochi anni: il continuo impoverimento dei canti popolari, già evidente a Benedetto Croce e già lamentato dal Pitrè infine il disuso. 

Estraneo a tali studi, non potrò certo risolvere il quesito. Probabilmente, i canti sono stati via via elisi dall’espandersi delle comunicazioni. In origine erano creati da anonimi, quasi in conversazione – quelli dei berberi tuareg ancora oggi – o in gare di rime; altri, di origine colta, venivano trasformati dal popolo che trovava in essi qualcosa di congeniale. Ma il ‘canto popolare’ è uno sfogo popolare. Quando si comunicano nuovi mezzi di sfogo (per esempio le organizzazioni sindacali, e questo non può valere astio ai sindacati), cominciano a perdere la propria funzione. Un caso è quello dei canti di protesta che, in certo senso, abbiamo visto riaffiorare – nel 1967, durante la marcia primaverile per la valle del Belice – con la musica di Tedo Madonia e le parole di Ignazio Buttitta: “La Sicilia cammina”. 

L’industria musicale (con i teatri, i dischi, la radio, ecc.) introduce, infatti, gusti e suggestioni nuovi. Il canto rinasce – miracolosamente, con il miracolo della poesia – quando si perde tutto (era in questa situazione la valle del Belice, già prima del terremoto, come tutti sappiamo) e il popolo si ritrova solo, in confidenza soltanto con se stesso. È il caso della guerra partigiana, dei lunghi giorni e delle notti insonni in montagna, e il fenomeno si ripete: creazioni spontanee, spontanee modificazioni di opere colte; in Italia, in Francia, dovunque vi sia lotta armata. 

A proposito dei canti popolari – nel folklore di oggi – si dovrà spiegarci, dunque, le ragioni e i modi del deperire e del riaffiorare delle composizioni: oltre che raccogliere le recenti e le nuove, popolareggianti, non del tutto popolari. Ma il folklore, diceva Pitrè si occupa anche della moda. E i canti popolareggianti, come le storpie e le buone canzonette che dai transistors e dai televisori si riversano nelle città e nelle campagne, anche per questa via rientrano nell’amplissimo cerchio di attivitàdella ricerca folklorica. 

Ho rammentato questi argomenti per aiutarmi a chiarire come il folklore sia diverso dalle tradizioni popolari: esse sono una sorta di cronaca (ancora, dunque, non è storia); ma, intanto, subiscano uguali azioni erosive. Più profonde nelle tradizioni popolari, in quanto storia; meglio: folklore, vorrei dire, storicizzatosi. 

Possiamo prendere due esempi. Quello delle ‘permanenze’ ebraiche in Girgenti, e quello – in qualche modo connesso – della festa di san Calogero. 

In Sicilia, per secoli, sin dall’occupazione romana della Palestina vi furono colonie di profughi; nella mite Girgenti gli ebrei convivevani pacificamente con gli arabi, con i cristiani. 

Cominciarono ad andare sottoposti alle restrizioni politiche e fiscali, applicate con vessatorio raziocinio dai dominanti, quantunque in Girgenti il quartiere ebraico (estesissimo) non fosse ancora un vero e proprio ghetto; nel quale, anzi medici famosi e savi mercanti lavoravano a favore della comunità locale sino al punto di mantenere una “università” – mediterranea – non discriminatoria. 

Poiché si trattava di casta non completamente chiusa, qualcosa dell’animo ebraico si trasmetteva agli altri abitanti. Come è naturale, dopo la cacciata (definitiva, e abbastanza crudele) degli ebrei dalla Sicilia, nella città di Girgenti rimase fama dei sapienti e dei grandi rabbini; persino il culto di Ester, non santa ma Ester moglie di re Assuero e nipote di Mordecai. 

Ancora oggi, qualcuno di noi dà il nome di Ester alle proprie figlie. Non è solo un gesto di fraterna egualità verso il popolo ebraico, quando non offende gli altri palestinesi; è pure, un modo spontaneo di restare nella tradizione. Dopo più di quattro secoli dalla scomparsa del quartiere giudeo, la chiesa di santa Marta e quella di san Francesco d’Assisi – sino agli infelici restauri postbellici – erano affrescate con la storia di Ester (che culmina con il purim, unica ricorrenza festosa delle popolazioni ebraiche). 

La letteratura sulle prime due domeniche di luglio, in Girgenti, è scarsa. Ma da essa, non più tanto dai ricordi, si può cogliere la ricchezza della festa di san Calogero: differente da quella che si celebra nell’Agrigento odierna. 

La chiesa del santo fu costruita fuori le mura, nel 1200. Dell’antica architettura resta una finestra occidentale, oblunga a sesto acuto; e rimane la statua del santo che, secondo Agatocle Politi, è arte gotica del XV secolo. La chiesa fu ingrandita e rifatta nel 1574 dal vescovo Giovanni Orosco de Leyva de Covarruvias, poi dal vicario capitolare Giacomo Sanfilippo; tuttora conserverebbe un’aria raccolta da chiesetta di campagna, se immancabili restauri non ne avessero rivestito l’esterno con marmi da bar. Le bolle di quei prelati sono i primi documenti sul culto reso a san Calogero. Fu costituita, allora, una confraternita di soli popolani: saio bianco, cordone nero a cinta, cappuccio nero; ai nobili era vietato farne parte. La borghesia non esisteva. 

Secondo la tradizione popolare, il santo è nero perché viene da Costantinopoli; o, genericamente, dall’Africa: riassumendo nell’Africa l’Asia Minore. Ha barba bianca e il bastone, per veneranda età È un eremita: porta l’abito dei monaci basiliani, e gli sta accanto una cerva. È dotto: reca un libro. Medico: lo si vede dalla cassetta delle erbe; taumaturgo, anche in vita. Il nome – greco, letteralmente ‘bel vecchio’ – significa padre venerando, eremita. Il suo culto è antecedente a quello ecclesiastico, più volte contrastato anche in epoca a noi vicina. 

Il santo è adorato pure a Naro, a Canicattì porto Empedocle, a Sciacca, Salemi, Corleone, Palermo, Termini Imerese, San Filippo di Fragalà o come ora si chiama, Agnone in Sicilia (altro nome disperso), Lipari, Racalmuto; ma si tratta di diversi santi, onorati sotto lo stesso nome. 

E, chi sa come, San Calogero è una collina di vigne in provincia di Cuneo: a Govone; richiesto di notizie meglio precise, il sindaco spiega il 29 novembre 1976: «dopo aver provveduto ad effettuare apposite informazioni presso Parroco, insegnanti, ecc. che nel territorio di questo Comune esiste un pilone intestato a “San Calogero”. / La località ove è situato detto pilone viene denominata San Calogero. / Il pilone si trova fuori dal centro abitato in aperta campagna ed a distanza di circa 1500 metri esiste un cascinale che viene denominato “Cascina di San Calogero”. / Il piccolo pilone risale a data remota. / Il Parroco ha riferito, per averlo sentito dire, che il Santo durante la sua vita passò da Govone come pure dimorò nella città di Asti distante da Govone circa Km. 18». Si sa che i nostri berberi erano giunti in Liguria e in Piemonte, non pareva che li avessero seguiti i monaci ortodossi. Ma, ad Albenga, suore clarisse hanno il ‘Monastero di San Calogero’. Questa circostanza rafforza il convincimento che davvero i calogeri affiorino, come una germinazione sostitutiva però analoga, nei luoghi in cui siano stati dei marabut. 

Secondo la tradizione, i calogeri erano sette fratelli che occupavano altrettanti sedi diverse; fratelli di sangue, o di congregazione; e sette, nella Càala, è numero infinito. Le grotte del santo girgentano erano probabilmente situate nell spiazzo antistante la chiesa, nella parete rocciosa ora occupata da un palazzotto; è più probabile che il santuario sia stato costruito proprio dov’era la grotta principale, poiché esso sta sopra un groviglio di vani incavati nella roccia. Questi potevano costituire un eremo arcaico; cui si sovrappose l’eremo medievale, formato con l’edificio a oriente della chiesa da tempo usata come abitazione. 

Nella circostanziata tesi del sacerdote Salvatore La Rocca, storico eccellente ed ignoto, si tratterebbe di un culto bizantino dedicato a monaci basiliani guaritori. Un culto simile a quello dei marabut, dei santoni arabi – anche quelli, medici dell’anima e del corpo – venerati e amati in vita, e in morte, nei loro paesi tuttora. Non è probabile, ritengo, si sia definita con un solo nome (Calogero, come Marabut) l’attività di quanti si dedicavano a quel tipo di opere: i monaci basiliani guaritori abbiano risposto, dunque, alle aspettative della popolazione abituata ai marabut; e quindi si venera l’idea del monaco, del santone, e non di un particolare eremita. 

Questo fatto, insieme ad altri motivi, fa chiare le ragioni della resistenza – più volte acuminata – della chiesa latina a vedersi imporre, dal popolo, un santo che ha una consistenza spirituale sostanzialmente avversa a quello per cui la stessa chiesa latina ha lottato: qui, addirittura con le armi. Ciò vale, e sono questi gli altri motivi, almeno per i riflessi dell’epoca in cui la chiesa latina si trovava in lotta armata contro quella greca; e per la commistura, panica, di elementi derivati dai riti solari (arcaici ed ellenici) e dalle abitudini arabe che stanno tra l’utilitarismo e il misticismo. 

Rimangono della vecchia festa una tumultuosa processione, ricche offerte di doni; il molteplice rullo dei tamburi: la diana; la variopinta fiaccolata, il lancio dei pani sul santo durante la processione. San Calò è il protettore dell’agricoltura. Il suo mese è quello che va dalla prima domenica di giugno alla prima di luglio: il tempo della mietitura e della trebbia, durante le quali è invocato e pregato; la processione della prima domenica di luglio è ripetuta la seconda domenica, a “l’ottava”. A san Calò si fanno i “viaggi” a piedi scalzi; le offerte in denaro, in candele, forme di pane fine: a riproduzione di qualunque parte del corpo sia stata miracolata; ex voto dipinti su tavola, da qualche tempo fotomontaggi. 

Le preghiere non hanno formule fisse; sono spontanee ed entusiastiche. Il santo è amato dai contadini come un parente stretto, benefico, tenuto in casa. 

Il suono dei tamburi – qualcuno ha pensato riproducesse ritmi della prosodia greca – è un intero concerto dalle caratteristiche arabe, poco variato, che si conduce dal venerdi sino alla definitiva chiusura della festa. La mattina della prima domenica (“San Calò dei forestieri”) inizia con le grida. Si porta il frumento, alla chiesa, con la mula “parata”; tutta la mula è adorna di nappe, sonagli e nastri, riluce di specchietti, e le bisacce sono coperte con gualdrappe di seta dai vivaci colori villerecci. Seguono i carretti, anch’essi parati. 

Finita la messa solenne, i contadini si lanciano sull’altare, e calano giù il santo – che aspetta appoggiato al bastone, libro in mano e la cassetta delle erbe medicinali che gli pende dal polso – quieto nella grande serenità dei suoi occhi e della barba fluente. Resta il fervore contadino, diminuito nell’estensione man mano che la classe contadina si assottigli. 

Quando il simulacro compare nello spiazzo, la folla esplode in acclamazioni; e il santo è baciato, lisciato coi fazzoletti che saranno imposti ai malati, implorato con pianti sinceri e con lamenti. Il male che più guarisce, poiché questo è il momento dei miracoli, è l’ernia dei bimbi. Senza sacerdoti (forse in collegamento col divieto a suo tempo opposto ai nobili di fare parte della confraternita) la processione avanza nella città con numerose fermate, ondeggiando, battendo la bara – nella foga – sui muri delle case, fra strepiti ed evviva, fra gli spari dei mortaretti e la musica, e la diana, sotto la pioggia dei pani e la gara della gente per accaparrarsene. 

Il lancio dei pani è da riconnettere alla raccolta di vettovaglie fatta dal Calogero, cioè dagli eremiti, durante una pestilenza: sicché il pane non veniva porto, ma lanciato. Poi il simulacro giunge all’Addolorata, nell’altra parte della città e vi rimane cinque ore guardato dalle donne e dai ragazzi. Gente prezzolata – e così all’ottava – lo riporterà nel suo eremo, e i portatori della mattina (i “devoti”) faranno da spettatori. Ma il santo rimane fra la sua gente e starà molto tempo, avanti e indietro sulla soglia, prima di tornare in chiesa; avvolto nel suo manto decorato con un gran numero di stelle di Davide, ripetuto simbolo – s’intende – della sapienza: nessun riferimento ai successivi Calòpugliesi, hasidici kalonymos. 

Senza dubbio, i monaci basiliani svolgono un’intensa attività in favore delle popolazioni locali; tanto da essere considerati tuttora, attraverso il Calogero, al di sopra di qualunque altra protezione e di qualsiasi altra entità da venerare. Molto, però dei riti si è perduto. Si facevano salire sulla bara i medici affinché sottoponessero alla pressione dell’ernia i bambini, cui un sacerdote imponeva la stola, sotto gli occhi del santo. A volte i bimbi, monachelli di san Calò, venivano spogliati in pubblico del saio che avevano indossato per devozione. 

Da tempo, e fortunatamente, sono scomparsi i “viaggi” con la lingua per terra (dalla soglia della chiesa sino all’altare) per ringraziamento. Si facevano ex voto d’argento o di cera, oltre quelli dipinti. Due giorni prima della domenica – il venerdi della cera – ragazzi portavano in testa canestri di candele ornati di foglie, preceduti dalla diana e seguiti da gente festosa. 

Per qualche tempo una vecchia barca, pavesata di festoni e di fiaccole, fu trascinata dai buoi avanti la chiesa e lì lasciata bruciare nel tripudio della folla: per simboleggiare un arrivo senza ritorno. La processione iniziava con il portatore della cerva accovacciata; spesso gridava l’annunzio: “Il santo delle grazie, devoti”, “Viva viva Sancalò”. Ma l’arte della diana va deperendo, poiché vi si dedicano gruppi sempre più sparuti (fatto che non sembra diverso da quello che riguarda i suonatori di tamburo di Casteltermini). 

Esiste, dunque, un problema di conservazione; che non può essere risolto, alla maniera romantica ottocentesca, in modo semplicemente iconografico: in una staticità museografica. La soluzione – peraltro non nuova – è quella di una conservazione dinamica, revivificante. Non certo nel senso di fingere, oggi, una tradizione estinta: mediante rappresentazioni da teatro gelido. Nel senso, invece, di uno studio accurato (demopsicologico, sociologico, storiografico) di queste tradizioni perdute. 

Una collezione – in costante arricchimento – di documenti, di pitture e di stampe; l’esegesi e il commento dei testi; l’insegnamento del tamburo e del modellamento delle figure del santo (in terracotta e in cartapesta): nella serie di istituti di specializzazione – anche postuniversitaria, a carattere mediterraneo – che potrebbero essere collocati nelle ville ottocentesche della valle dei templi (forse, meglio, nell’eventuale parco archeologico della valle dei templi). Intanto, alla festa calogerina, Sergio Campailla ha elevato un monumento: Il paradiso terrestre [ed. Rusconi], 1988, romanzo che potrebbe assumere il ruolo attribuito a I promessi sposi nel secolo scorso. 

Antonino Cremona

* Nel giugno 1992 Antonino Cremona ci inviava un plico contenente parecchi inediti, e scriveva: «Forse ho dato fondo agli inediti. Vedano, un po’, Loro. Mi avverta circa quanto non sarà pubblicato». 
Una breve lettera, quasi un saluto di commiato, presagendo la sua scomparsa che sarebbe avvenuta nel 2004. Così noi continuiamo a 
pubblicare quegli scritti, ricordando lo scrittore che fu anche un validissimo poeta e ripromettendoci di leggerlo e dedicargli successivamente qualche nostro scritto. 
Intanto, finora, di lui “Spiragli” ha pubblicato: 

•Giustizia e decentramento 
•L’espressione e l’abitante 
•Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 
•Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel». 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 41-46.