Cenni sulla fortuna di Dante, Foscolo e Leopardi nella poesia maltese

Premessa storico-culturale

L’acquisto dell’autonomia costituzionale fu la prima vittoria importante dei Maltesi nella loro marcia verso l’indipendenza conseguita nel 1964.

Dal 1921 in poi la piccola nazione continuò a crearsi la propria fisionomia, organizzando meglio il sistema dei partiti e superando la polemica linguistica nel 1934, allorché il maltese, insieme con l’inglese, divenne lingua ufficiale. Attraverso gli assidui contatti con esuli italiani, e considerando le condizioni del risorgimento della penisola analoghe alla situazione del loro Paese, il popolo maltese trovò l’ispirazione e la motivazione che gli mancavano.

Alla base di tutto questo c’era il patrimonio culturale comune1. Per interi secoli a Malta si sviluppò una vasta letteratura in italiano, frutto di intellettuali educati “italianamente” (come si diceva) che seguivano costantemente l’architettura stilistica e la gamma tematica (largamente religiosa, civile e personale) degli autori italiani.

Quando poi ebbe inizio lo sviluppo di una letteratura in lingua maltese, accessibile facilmente a tutti, lo scrittore fu finalmente in grado di interpretare fedelmente e direttamente il sentimento proprio e collettivo e non più l’ambizione accademica, spesso distaccata dalle tensioni attuali della comunità.

L’autore non poteva rinchiudersi più nello stretto santuario delle sue care precettistiche e dei suoi preziosi formalismi, ma doveva incontrarsi con il popolo e ispirarsi alle sue esperienze.

A Malta il principio della popolarità della letteratura, un’eredità illuministica che il romanticismo modificò secondo le nuove profonde esigenze, non poteva realizzarsi pienamente in italiano.

Si ebbe così, «entro i limiti di una sola esperienza culturale», il dualismo fondamentale: l’italiano, la lingua dotta della tradizione. e della classe colta, e il maltese, la lingua incolta (anche se antica e ricca) delle masse popolari.

Tale processo di sviluppo in lingua maltese nacque all’incirca nella prima metà dell’Ottocento – se si vuole parlare in termini di movimento diffuso e di dimensione nazionale – quando chi scriveva in maltese non poteva prescindere dal fatto che, nonostante il substrato semitico del suo veicolo, la tradizione, la struttura dell’espressione e l’intera educazione letteraria di tutti erano esclusivamente italiane. Perciò la nuova produzione maltese era costretta a seguire la stessa direzione, ed in effetti a mantenere la continuità storica che è sempre essenziale nell’evolversi del pensiero e della forma.

Tra letteratura antica e letteratura moderna (o romantica) c’è, dunque, quasi a spartiacque, la distinzione linguistica tra italiano e maltese. C’è anche la distinzione inerente alla polemica tra il classico e il romantico, l’antico e il nuovo. Ma in ultima analisi c’è una sola identità che in termini di storia letteraria e sociale significa il trapasso dall’indifferentismo tradizionale alla maturazione di una nuova consapevolezza nazionale. In termini di polemica linguistica significa la scoperta romantica della lingua incolta, popolare.

Dunque la conoscenza della letteratura italiana come conoscenza della letteratura della regione (la presenza della cultura italiana è essenzialmente un aspetto della complessa identità mediterranea dell’Isola) è un bisogno indispensabile per la valutazione delle due esperienze della sensibilità maltese. A causa di questa presenza, ispirata alle personalità più distinte (Dante, Manzoni, Foscolo, Leopardi e numerosi altri), la poesia maltese, come del resto tutta la narrativa, è direttamente riconducibile alle caratteristiche fondamentali della tradizione europea. Non si trattano soltanto di influssi e di assimilazioni, si tratta anche di una autentica esperienza maltese che, vista sotto questo profilo, è un altro contributo alla formazione di un’unica, anche se complessa, spiritualità continentale.2

La visione spirituale di Dante

Frequentemente l’italiano è descritto dai letterati e dai politici maltesi come “la lingua di Dante”. In effetti è questa la frase che può introdurre il discorso sulla vasta fortuna che ebbe il poeta nell’Isola, sia sul piano educativo sia su quello della prassi letteraria.

Già nel 1643, anno della pubblicazione del primo libro stampato a Malta (I Natali delle Religiose Militiae de’ Cavalieri Spedalieri, e Templari, e della Religione del Tempio l’Ultima Roina, opera di G. Marulli da Barletta), c’è qualche eco della poetica della luce nel paradiso in un sonetto del Marulli e un certo riflesso dell’atmosfera infernale in un altro sonetto di Carlo Cosentino.

Sono elementi, comunque, rappresentati con una sensibilità e con un gusto di tipo barocco. In fondo, questa sintesi tra elementi danteschi e barocchi costituisce il carattere principale di tanta letteratura maltese in lingua italiana. Malta ha una vasta raccolta di inni religiosi e civili, di sonetti e di odi d’occasione che mettono in rilievo questa tipica scelta metaforica e lessicale.

Questo culto dantesco doveva per forza manifestarsi, particolarmente nell’Ottocento, anche nelle opere degli scrittori maltesi.

Accanto alla visione di Dante patriota c’è anche la scoperta sentimentale di Dante esteta del notturno, del terrore e della morte. È Richard Taylor (1818-1868) che introduce questo gusto nella letteratura in lingua maltese.

Egli comincia con la predilezione per la rievocazione di paesaggi indefiniti, ricchi di un fascino patetico e presto contribuisce all‘affermazione della sensibilità ossianica e sepolcrale del preromanticismo storico mediante la traduzione di un’opera dello Young, il Giudizio Universale (1845). Acquisito questo gusto attraverso la lettura di un poeta moderno, Taylor scopre la maggiore rilevanza di Dante. Lo stesso gusto lo spinse a tradurre, nel 1864, il canto XXXIII dell’Inferno (Il-Konti Ugolino, Malta, Borg, 1864), che Taylor definisce “il-kant tat-treghid” (il canto del tremore). Il poeta maltese pensava di tradurre tutta l’opera dantesca ma morì quattro anni dopo.

Con la traduzione di questo XXXIII canto si inizia il culto che poi ebbe vaste risonanze nella letteratura maltese.

Alla luce della psicologia apologetica con cui tanti letterati maltesi affrontavano il problema linguistico del maltese, tradurre Dante significava anche dare prestigio alla lingua nativa e fornire una prova della sua ricchezza espressiva. Nel 1899 Ganni Sapiano Lanzon (1858-1918) pubblicò Kant 33 ta’ l-Inferno: Il-Konti Ugolino e nel 1905 L-Ewwel Taqsima tad-Divina Commedia: l-Infern. Nello stesso anno, Alfredo Eduardo Borg pubblicò La Divina Commedia ta’ Dante Alighieri migjuba u mfissra bil-Malti, e nel 1907 uscì Att tal-Fidi miktub fuk il-Kredu ta’ Dante Alighieri (con una seconda edizione nel 1909) di Salvatore Frendo de Mannarino (1845-1918). Più tardi Sapiano Lanzon pubblicò anche Francesca da Rimini – Il-Hames Kant, ta’ l-Infern (1913) e II-Hajja ta’ Dante (s. d.). La traduzione più importante e più valida è indubbiamente quella di Erin Serracino Inglott (1904-1983), il cui primo volume uscì nel 1964. Accanto a questo corpo di traduzioni vi è una scelta abbastanza larga di saggi critici.

La fortuna di Dante è dovuta in gran parte al profondo riconoscimento datogli dal poeta nazionale Dun Karm Psaila (1871-1961), noto popolarmente come Dun Karm. È opportuno soffermarci brevemente almeno sull’influsso di Dante nella sua opera, visto che è la figura culturale maltese più importante e un sicuro punto di riferimento per la conoscenza del carattere della letteratura maltese in più di mezzo secolo.

L’ammirazione di Dun Karm per Dante traspare non soltanto attraverso i giudizi di valore che lo collocano tra i maggiori poeti del mondo, ma anche dagli influssi tematici e stilistici che si manifestano varie volte nelle sue poesie, particolarmente in quelle della prima raccolta del 1896. Ma egli mostra ancor più schiettamente questa sua devozione nelle tre parti di un suo lungo commentario filosofico, Il monumento commemorativo del congresso. Nella prima parte Dun Karm dà un esempio stilistico di come Dante si servì di una figura geometrica per significare incrollabile fermezza, e presenta la sua giustificazione per questa scelta: «La piramide difatti tra le molte figure geometriche è forse la più stabile, giacché essa ha un centro di gravità più vicino alla base che al vertice e ugualmente lontano dai lati3». Si riferisce all’ episodio dell’ incontro di Dante con il suo trisavolo Cacciaguida nel quinto cielo del Paradiso, dove appaiono al poeta gli spiriti militanti. Nella seconda parte l’autore ritiene che dal felice sposarsi di due ritmi nascono il piacere estetico e la bellezza. Come esempio di questa fusione tra forma esterna e senso interno, la sostanza dell’ispirazione, Dun Karm cita l’episodio dell’incontro tra Dante e Casella. Nella terza parte del saggio Dun Karm discute la complessità che si dibatte nell’esperienza spirituale dell’artista, soprattutto del poeta.

Egli trova il massimo modello nella personalità di Dante. Oltre che in questo lungo articolo, in un suo discorso del 1901, trattando della gloria come uno dei motivi principali che conducono l’artista a compiere una grande opera, Dun Karm mette in rilievo la figura di Dante: «E fu questo magnanimo sentimento che poté produrre un Dante, il quale lavorò instancabilmente ventinove anni, procacciandosi nella vita d’esilio un pane che sapeva di sale 4». In una delle sue liriche maggiori, Lill-Kanarin Tieghil (“Al mio canarino”), scritta in un momento di amarezza personale, il poeta tocca il tema dominante dalla solitudine e adopera l’immagine del pane per dare un’impostazione sensuale all’esperienza di sofferenza spirituale.

In un altro momento Dun Karm discute la rilevanza di Dante come poeta nazionale: «Lontano da Firenze, scrivendo il suo poema, Dante se ne servì a redimere se stesso dall’infamia a cui è stato sottoposto, e a spargere (e simultaneamente calmare) la collera della sua mente e del suo cuore contro i suoi nemici che lo avevano separato dalla città che amò affettuosamente e che fino all’estremo della sua vita sperava di rivedere5».

La luce, la forma che Dante sceglie per esprimere l’indicibile nella terza cantica, ispirò Dun Karm a coniare qualche frase che descrive Dio. Dante scrive: «luce eterna6», «eterno lume7», «somma luce8», e Dun Karm, forse ricordandosi anche del «sommo sole» di Manzoni9, scrive «sole divino10», e «mar d’eterno lume11». Il motivo della luce si sviluppa in varie poesie; ad esempio, nel brano che segue il motivo dello splendore si fonde con quello dello spazio: «del sol d’eterna luce, / onde s’ammanta Dio discese un raggio, / che d’un fulgor superno ti vestío12».

Per Dante la Chiesa è «l’esercito di Cristo13», mentre per Dun Karm è la «vincente repubblica di Cristo14». È anche la sposa del Signore,15 e Dun Karm riproduce l’immagine dantesca, adoperata anche da Monti16, in alcune delle sue opere più impegnate come La Chiesa e Leone XIII, Per Novello sacerdote – II, La Framassoneria in Malta, Nel Giubileo Episcopale di Leone XIII, e Ancora l’Alpinista. La crisi foscoliana Dun Karm pubblicò la traduzione dei Sepolcri foscoliani nel 1936. Intendendo dare evidenza alla sua piena adesione al sentimento di rispetto dovuto alla lingua nazionale, Dun Karm costruì una versione di alto valore linguistico, basata quasi esclusivamente sulla componente semitica del lessico maltese. Ma questo è soltanto il motivo esteriore, storico di una esperienza che riconosce nella traduzione soltanto un primo momento. Il poeta stesso dichiarò che intendeva comporre un poema concepito come compagno ed epilogo dei Sepolcri. Si tratta di II-Jien u Lilhinn Minnu (L’io e l’aldilà), il capolavoro del poeta e una delle opere maggiori di tutta la letteratura maltese.

La prima fase dell’esperienza foscoliana di Dun Karm consiste in un’accettazione aperta della supremazia stilistica e fantastica del carme17; la seconda prende la forma di una radicale contestazione della sua filosofia. Si tratta di una reazione calma, malinconica e tormentata, anche se è sempre svolta alla luce della sua profonda fede cristiana. A volte il poeta finisce per abbracciare in parte alcuni elementi della concezione pessimistica. Fondamentalmente Dun Karm rimane sempre un romantico e la sua spiritualità si dibatte costantemente in un clima di effusione sentimentale e di rassegnato rimpianto.

Da un’accurata analisi della visione dei due poeti, si deduce che il loro interesse si concentra, essenzialmente, sul problema della sopravvivenza. La soluzione è del tutto differente; tra le due posizioni c’è l’abisso che separa una visione metafisica, anche se sofferta, dallo scetticismo che emana dal razionalismo puro.

Dun Karm reagisce cristianamente contro la teoria dell’io come il centro del mondo, e dell’illusione come il principio che motiva l’attività umana. Negando questa visione, risultato del soggettivismo kantiano, Dun Karm restaura questa costruzione intellettuale introducendo il motivo dell’amore divino (riflesso nella fede) come il fondamento inalienabile di tutta l’esperienza terrena. Contro «il sistema della continua illusione», per citare Rosmini, il cristiano riconosce un punto oggettivo di riferimento (il paradiso nell’oltretomba) invece dell’ «illusione creante» (il paradiso soggettivo che Foscolo colloca nello spirito e nella memoria umana). La restaurazione di Dun Karm è vicinissima a quella che Rosmini presenta nel Saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo, in cui sostituisce la funzione affidata all’illusione (creata dall’io egoista) con la missione del cristianesimo che realmente «soddisfa tanto a tutte le umane necessità18».

Mentre Foscolo sposta la sua visione sull’ordine mitologico e leggendario del mondo pagano, Dun Karm cristianizza tutto il suo panorama e sceglie le immagini dalla cultura evangelica.

Nei Sepolcri ci sono i colli, i giardini, i fiumi, le fonti, il mare; in II-Jien u Lilhinn Minnu ci sono le rose, gli uccelli, le stelle, il mare. C’è soprattutto il sole; quello del Foscolo risplende sulle «sciagure umane» e quello di Dun Karm è avvolto da cupe nuvole mentre «piange» sul dolore e sull’essenziale aridità della terra.

Noto per la sua devozione verso la madre, Foscolo fonde il tema autobiografico con il tema metafisico; nel «tetto materno» raffigura tutti i sospiri per la vita familiare che non poteva più godere. Il ruolo affidato alla madre nel Jien u Lilhinn Minnu non suggerisce soltanto una memoria di una donna morta; è lei la personificazione della verità rivelata, il simbolo vago ma presente di una fonte inesauribile di principi morali. Le figurazioni foscoliane riassumono in sé la grandezza umana.

Sono inconfondibili nella loro linearità scultorea, e hanno una fisionomia che giganteggia sull’ambiente. Dun Karm mescola l’inno con l’elegia, la gloria sul livello metafisico con l’annientamento della materia.

L’opposizione fondamentale tra i due poeti si illustra anche attraverso un semplice confronto tra il verso iniziale dei Sepolcri, «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne», e il verso l42 del poema maltese, «gos-sigar tac-cipress u qalb is-slaleb» (intorno ai cipressi e fra le croci). L’intonazione ritmica del verso di Dun Karm conserva la malinconia della cadenza foscoliana, e gli accenti dell’endecasillabo danno maggiore rilievo alle due parole più importanti: “cipressi” e “urne”, “cipress” (cipressi) e “slaleb” (croci). Si rispecchia sinteticamente il divario sostanziale che c’è tra le due opere. Il poeta maltese cristianizza il contenuto razionale di Foscolo. Lo spettacolo è unico, caratterizzato dalla presenza suggestiva dei cipressi ma, mentre le urne foscoliane sono la dimora concreta della nuova sopravvivenza ideale, le croci di Dun Karm rievocano emblematicamente un’altra realtà.

Il malessere leopardiano

Uno dei poeti maggiori maltesi, Karmenu Vassallo (1913-1987) trova in Leopardi non soltanto l’artista che si avvicina di più al suo modo in cui, a suo parere, si deve creare la poesia, ma anche l’uomo autenticamente sin cero con se stesso (che soffre) e con gli altri (a cui sente il bisogno di svelare il proprio dolore). La sincerità è la qualità che unisce l’esistenza con la poesia, l’uomo che soffre con l’artista.

Il confronto Leopardi-Vassallo si realizza mediante un contatto diretto di conoscenza e di immedesimazione: «Sono entrato nel cuore e nell’anima della poesia leopardiana e… sono diventato una stessa cosa con lui19». Gli esempi seguenti sono alcuni del complesso rapporto psicologico e letterario

tra i due poeti.

L’escludersi, una esperienza prettamente leopardiana che anche Vassallo scopre troppo presto nella gioventù, si presenta sotto due aspetti. Il primo scaturisce dal confronto tra se stesso e la società che si sente gioire intorno, condannato alla solitudine dai mali fisici e da tutto quello che lo rende socievole.

Il confronto è, in primo luogo, ambientato poeticamente in un giorno di festa tradizionale. Zewg Ghidien (“Due feste”) si compone di due quadretti contrari l’uno all’altro. Nel primo si dà rilievo alla festa che si svolge in un paese; nel secondo si dipinge la triste scena di un giovane fatalmente ammalato che si sta portando all’ospedale.

Dalla contemporaneità delle due scene, svolte nello stesso luogo, nasce il contrasto. A guisa di Leopardi (La sera del dì di festa, A Silvia, Il passero solitario), Vassallo contrappone due circostanze, l’una lieta e l’altra  tristissima. Con la loro compresenza o contemporaneità arriva ad una fusione di inno e di elegia, rendendo così, in virtù degli opposti, più commovente il significato del contrasto e più malinconico il quadretto. È questa poesia del contrappunto felicità-dolore che spiega perché il poeta, pur essendo solitario, è continuamente consapevole della festa sociale che si sta svolgendo intorno a lui.

L’escludersi di Vassallo è leopardiano anche nella sua polemica contro la banalità della folla contemporanea. E, in fondo, la poetica, di ascendenza petrarchesca e poi alfieriana, che nel recanatese si preannunzia già con All’Italia e continua a maturarsi e a diventare una delle preoccupazioni salienti della sua vita. Vassallo degli anni 1932-1944 è polemico contro la folla insensibile, priva di valori che sollevano l’uomo al di sopra dell’animalità20. La definizione degli uomini contemporanei, atroci nelle loro azioni, e moralmente ipocriti, è data, sia in Vassallo che in Leopardi, dall’idea della superiorità spirituale del poeta nei confronti della leggerezza collettiva del popolo21. I due, in ultima analisi, si definiscono nemici del genere umano; l’isolamento, che in alcuni momenti sembra l’effetto di una sconfitta personale, si traduce orgogliosamente in motivo di netta distinzione degna dei grandi: «llbiebi kulma hlaqt Int: barra l-bnedmin!22 (I miei amici sono tutte le creature: fuorché gli uomini!); / E sprezzator degli uomini mi rendo23».

Il secondo confronto da cui esce il quadro dell’escluso, sempre in virtù della rievocazione contemporanea di due opposti, è quello tra il processo incessante e sovrabbondante della natura e la sterilità insanabile e moribonda del poeta. Da un lato, c’è il continuo rinnovamento di un programma stagionale che non si esaurisce mai; e dall’altro, c’è la staticità di una condizione umana.

Il susseguirsi dell’inno e dell’elegia è comune ai due poeti24. Accanto alla celebrazione della bellezza del mondo esterno, si erge la figura desolata, simbolo del mondo interiore, così che il trionfo dell’oggetto e l’agonia del soggetto, i superlativi per la natura e le parole di privazione per il poeta (individuo e rappresentante di una intera razza umana), si intrecciano in un doloroso insieme. Apparentemente, i temi sembrano accostati, in realtà si fondono perché la relazione tra l’esterno e l’interno è reciproca, intrecciata in rapporto di causa ed effetto. Più la natura rivela il suo incanto, più si addolora lo stato d’animo.

Nella contemplazione del limite (la realtà negativa) e nella sua sublimazione fantastica (la realtà poetica), si trovano i due poli estremi di un’unica esperienza: da un lato l’autobiografia, dall’altro l’arte. Nel centro di tutta l’esperienza c’è la metafora del mare visto sotto due aspetti: come visione infinita in cui si cerca di annegare e come simbolo che oggettiva lo stato d’animo inquieto. Come in Leopardi, in Vassallo è veramente difficile distinguere tra la necessità psicologica di «tuffarsi» nell’indeterminato e nel vago, e la volontà di utilizzare la stessa visione come immagine della condizione interiore. «La vastità della sensazione » è interiore, e rivela la crisi, ma la sua esteriorizzazione si trasforma in una esperienza estetica. Accanto all’effetto che fa nell’uomo la vista del cielo, Leopardi pone anche la visione del mare «e d’ogni sorta d’immagine presa dalla navigazione ecc. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo motivo25».

L’esperienza è, dunque, contemporaneamente un concentrarsi sul proprio io turbato e un dispiegarsi in uno spazio sconfinato. Come nell’Infinito, il mare è il più idoneo a raffigurare poeticamente la tensione interiore; in Vassallo è anche il mare che dà dimensioni vaghe e indeterminate al problema.

Conclusione

I due piani principali dello studio comparato, qui brevemente illustrato con alcuni cenni agli autori più rappresentativi, sono i seguenti: influenza diretta e influenza indiretta. È diretta quando un autore si identifica idealmente con un autore ‘straniero’ (ad esempio, Dun Karm con Monti, con Manzoni e poi con Foscolo). È indiretta quando l’influenza, ad esempio, di un Dun Karm foscoliano, trova eco in altri autori maltesi attraverso la conoscenza di Dun Karm, e non direttamente attraverso Foscolo; è il caso dei poeti minori che sono maturati sotto le ali di Dun Karm.

Si tratta di un processo complicato di contatti, confronti e assimilazioni. Ad esempio, alcuni romantici maltesi formano la loro identità alla luce del mondo italiano che, a suo tempo, ha subíto influssi tedeschi, inglesi e francesi.

Questi elementi, quando riescono a profilarsi nell’ispirazione maltese, sembrano il frutto diretto del contatto Malta-Italia. Gli elementi dello sturm und Drang che risalgono alla superficie nella personalità di Karmenu Vassallo sono controllati e relativamente superati perché sono passati dal filtro latino.

Gli autori minori si sviluppano attraverso l’influenza di Dun Karm, e il cammino dell’assimilazione assume qui un carattere triplice: dal mondo italiano al mondo di Dun Karm e al mondo dei poeti maltesi. Questo processo non vieta che qualche autore maltese si rifaccia all’autore originale, che ora può diventare una fonte rinnovata di metafore, tonalità e contenuti che l’autore maggiore stesso (Dun Karm in questo caso) non avrebbe mai assimilato.

Ad esempio, l’importanza di un Byron nella letteratura russa si è diffusa sia a causa dell’influenza di autori russi su altri autori russi, sia a causa dell’incontro diretto tra Byron e autori russi, tra i quali un Pǔskin, che ha poi influito su un Lermontov e su altri.

Più che il carattere diretto o indiretto dell’influsso, lo studioso del fenomeno maltese deve prendere in considerazione il bilinguismo (italiano-maltese, inglese-maltese) come punto di partenza e punto d’arrivo allo stesso tempo, e così riesce a far entrare il contributo maltese (ricco anch’esso di una sua forte originalità e di molte caratteristiche indigene) nel grande oceano della letteratura continentale e mondiale.

Sia che si analizzi il rapport de fait di Carré sia che si cerchi di individuare il courant commun di Van Tieghem, ritengo che il risultato conduca sempre ad una sintesi. L’indagine su tutti e due mette in luce alcuni aspetti extraletterari, ad esempio la distinta identità dei Maltesi come popolo. Questo rapporto si traduce in un documento di identificazione nazionale; è così, sia se si chiama iufluenza, adattamento, assimilazione, interferenza, fortuna letteraria, imitazione, sia se si considera – come ritengo doveroso nel caso maltese – come partecipazione diretta ad un mondo (grande), partecipazione che è naturale per un mondo (piccolo) fatto di un’isola definibile secondo una tradizione, una storia, una lingua antica e una situazione geografica. In altri termini, l’europeità di Malta letteraria è l’evidenza anche di un’europeità extra-letteraria, una caratteristica che risale alla superficie anche dal modo meraviglioso in cui un dialetto di origine semitica è diventato una vera e propria lingua autonoma, assumendo numerose tendenze romanze.

A questo punto si impone il quesito se è giusto parlare di influenze, cioè di contenuti importati e imposti da una grande cultura su un’altra subalterna, o se si deve piuttosto riconoscere l’esistenza di un intero programma di partecipazione naturale e organica, consapevole e istintiva, ad una civiltà comune, quella mediterranea. Quando si riesce a constatare la presenza di vari elementi comuni che caratterizzano un’intera tradizione, e quando si trovano sentimenti, immaginazioni, forme di ragionamento, schemi retorici e altre componenti che tutti conducono verso la scoperta e la definizione di un’unica e sola identità regionale o continentale, lo studio comparato si riduce ad uno studio di una vasta civiltà unica. Alla luce di queste considerazioni fondamentali che il tema del presente saggio non ci permette di illustrare, Malta ci potrebbe interessare come una parte piccola e vivace di tutto l’organismo.

Sul piano letterario ciò conduce alla conclusione che il periodo tradizionale della letteratura maltese fa parte integrante dell’esperienza romantico risorgimentale italiana (e non è semplicemente il risultato di un influsso esterno), e che il periodo moderno, iniziato negli anni Sessanta del secolo scorso, costituisce una variazione o l’aumento di altri filoni su quello basilare (cioè mediterraneo, realizzato secondo una fusione di eredità italiana e di assimilazione maltese). Nonostante il fatto che questi giudizi siano stati qui consapevolmente ignorati, il loro valore rimane particolarmente in rapporto alla necessaria conoscenza di una linea di demarcazione tra una cultura nazionale e un’altra di provenienza straniera.

Gli autori maltesi del primo Novecento, inserendosi fedelmente nella strada aperta dai loro predecessori, si sono dedicati con tutta la loro forza intellettuale e linguistica alla conferma di un duplice ideale: rimanere fedeli alle esigenze della visione romantica (che, pur sorpassata come tale o quasi, era ancora a Malta la situazione storica più nota e l’unica via da battere in sede letteraria e, da un punto di vista ideologico, l’unica a potere sfruttare con efficacia il principio dell’identità razionale) e fare risalire la lingua maltese al livello di lingua letteraria.

In sede tematica intendevano raggiungere una profondità paragonabile a quella della letteratura italiana. Conservavano la disposizione dei poeti del secondo romanticismo italiano, e si servivano come loro di una irruenza retorica e di toni impetuosi (continuando così a camminare nella stessa direzione della generazione precedente), costruendo una visione sentimentale, irrequieta della vita privata e nazionale, che sublima la vita interiore quasi in uno sforzo incessante a realizzare un compromesso ideale tra il mondo esterno (turbato dai mutamenti politici e dall’insicurezza sociale) e il mondo esterno (in cui è evidente, in vari modi, il «male del secolo»).

È, comunque, sempre profondo il senso della presenza dei protagonisti del primo momento romantico italiano (e con loro, i maggiori dei secoli precedenti), ad esempio di Foscolo con la sua dottrina dei sepolcri e la sua ansia per l’immortalità, di Manzoni con la sua fede incondizionata manifestata negli Inni sacri e con la sua indomabile volontà di dare un posto stabile e perenne a Dio nel crogiuolo della storia, e di Leopardi con il suo pessimismo che non riesce a trovare significato nella vita, vista come perenne dolore, priva della possibilità di formare illusioni. Tradizione letteraria italiana, spiritualità maltese, lingua semitica: sono elementi che qui si fondono in un insieme, riconoscibile in sé e nel quadro di un’intera cultura europea.

Oliver Friggieri

Note

1 Uno dei più antichi documenti italiani a Malta è del 1409 (cfr. Archivio della Cattedrale, Malta, ms. A, ff. 171-176, pubblicato da A. Mifsud, Malta al Sovrano nel 1409, “La Diocesi”, II vol. VIII, 1918, pp. 243-248). Cfr. anche A. Mifsud, La Cattedrale e l’Università, ossia il Comune e la Chiesa in Malta, “La Diocesi”, II, vol. II, 1917, pp. 39-40; U. Biscottini, “Il Giornale di Politica e di Letteratura”, X, vol. VI, 1934, pp. 665-670. 
2 Cfr. O. Friggieri, Storia della letteratura maltese, Edizioni Spes, Milazzo, 1986, pp. 11-28 e passim. 
3 Il monumento commemorativo del congresso, “La Diocesi”, II, vol. X, 1918, p. 311. 
4 Il discorso pronunciato dal precettore sac. Carmelo Psaila il giorno della distribuzione dei premi al seminario, “La Palestra del Seminarista”, I, 4, 1901, p. 74. 
5 L-Oqbra, Stamperija tal-Gvern, Malta, 1936, p. 29. 
6 Paradiso, XI, v. 20; XXXIII, v. 43. 
7 Paradiso, XXXIII, v. 124. 
8 Paradiso, XXXIII, v. 67. 
9 La Risurrezione, v. 47. 
10 A San Filippo d’Aggira, v. 29. 
11 L’Assunzione, v. 20. 
12 Per novello sacerdote – IV, vv. 9-11. 
13 Paradiso, XII, v. 37. 
14 Nel giubileo episcopale di Leone XIII, vv. 129-130. 
15 Paradiso, XI, v. 32; XII, v. 43. 
16 In risposta al sonetto di Vittorio Alfieri, v. 14. 
17 A proposito dei diversi influssi foscoliani, qui appena accennati, sull’opera del maltese, occorre ricordare gli inizi di varie poesie. Diverse aperture di Foscolo prendono la forma di una conclusione di una precedente meditazione, e hanno parole come “così” (Luce degli occhi miei), “né” (A Zacinto) e “forse” (Alla sera). Dun Karm ricorre a questi inizi in numerose opere, e , ha “no” (A Leopoldo Dagradi), “e” (Nella morte dell ‘alpinista, Ancora l’alpinista, Al novello sacerdote G. Spiteri), “izda” (Lil Malta, II-Ghanja tar-Rebha), “issa” (Lill-Muza), “hekk” (Il-Bandiera Maltija) e “le” (II-X ta’ Frar – 1920, Lil Marija, Lil Dun Gwann Muscat, II-X ta’ Frar – 1927, Lil Dun Anton Galea). 
18 “Della speranza – saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo”, Apologetica, Milano, 1840, p. 100. 
19 Alla taz-Zghazagh, G. Muscat, Malta, 1939, p. 34. 
20 Cfr., ad esempio, Mysterium mysteriorum, vv. 37-40 e Il’ biza’ tieghi, vv. 19-36. 
21 Si può paragonare, tra l’altro, la figurazione del popolo Iftahli mà e Int biss con “la codarda gente” (Amore e morte, v. 12) che è presente in Il pensiero dominante, vv. 53-58, 65-68 e in Le ricordanze, vv. 30-33. L’avversione che ebbe Leopardi per il “borgo natio”, sentita già nelle prime lettere dell’epistolario, corrisponde all’avversione che Vassallo ebbe per la generazione contemporanea dei Maltesi; è un argomento che ritornerà con tutta la forza nell’ultimo periodo (1947-1970) in cui si fa meno sentito il profondo dissidio tra il mondo interiore e la realtà mediocre dei contemporanei, e si dà inizio ad un processo di smascheramento dell’ipocrisia e della bassezza morale della società. Fra le poesie dell’ultimo periodo, cfr. Jekk … , Il-lum, Unknown Island, II-Bniedem, Lil Dun Mikiel Xerri. L’introversione sparisce e viene fuori l’estroverso rigenerato, il Vassallo del periodo post-leopardiano che lancia invettive senza, però, ritirarsi e richiamare la propria miseria. 
22 Hbiebi, v. 40. 
23 Le ricordanze, v. 42. 
24 Cfr. Marzu, vv. 11-18 e Ultimo canto di Saffo, vv. 19-26.
25 “Zibaldone”, Opere, II, a.c. di S. Solmi e R. Solmi, R. Ricciardi, Milano-Napoli, 1956-66, pp. 387- 388. Cfr. anche pp. 314, 375-376.

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 15-24




 Ruzar Briffa, un poeta lirico maltese 

Il tormento della vita e della parola 

Nella schiera dei poeti maltesi che hanno svolto la loro attività nella prima metà del Novecento e hanno appena sfogliato la seconda, il nome di Ruzar Briffa (1906-1963) emerge con una sua individualità inconfondibile. Rappresenta soprattutto un filo diretto tra quel presente e un futuro molto diverso. Quel presente è identificabile soprattutto per una gamma di ragioni con le impostazioni più tipiche dell’Ottocento romantico che sotto l’influsso dell’esperienza italiana diede contenuto e forma all’ispirazione dell’isola; quel futuro è caratterizzato da una graduale presa di coscienza alimentata da esigenze di una società trasformata sotto vari profili. 

Non era stata soltanto o maggiormente la volontà di scrivere in lingua maltese, l’idioma antico di origine araba, a condurre questo medico schivo e solitario e sperimentare in forma poetica. La sua vocazione era fondamentalmente quella di dover riflettere sul patire, sulla vita come sofferenza ineluttabile, e non di coltivare, come era di moda, il dialetto che ancora richiedeva l’attenzione scientifica del filologo e il contributo raffinato di validi letterati. 

Il pregio lirico dell’opera di Brilla emana da una coscienza che si trovò in grado di parlare con sé in versi, e poi di mettere questi schizzi personali sulla carta con grande, anche se finalmente superato, tormento. Dal profondo dissidio tra la sofferenza dell’essere e la felicità dello scrivere, anche se il processo della creazione è in ultima analisi una continuazione o addirittura una estensione della prima, nasce il paradosso della lirica del mistero, una parola autentica che vuole presentarsi come alternativa unica e insostituibile al vivere stesso. Il non voler vivere si traduce nel voler scrivere. Dall’infelicità dell’atto umano scaturisce la felicità dell’atto creativo. 

La condizione storica del romanticismo maltese 

Nata come coscienza nazionale in seguito ad una lunga, ininterrotta tradizione di silenzio e di rassegnazione, la letteratura maltese è un fenomeno recente. Mikiel Anton Vassalli (1764-1829), oggi noto come il padre della lingua maltese e conosciuto da tutti come un patriota di stampo romantico, riassume in sé la nuova volontà di affermarsi di una piccola comunità che è arrivata finalmente, quasi nella pienezza dei tempi, alla scoperta del suo essere, alla consapevolezza della sua identità particolare e unica, basata su una lingua, una storia, una religione, una civiltà, tutti elementi che formano un insieme am10nico. L’utilizzazione della lingua maltese diventò presto una presa di coscienza, e non poteva rinchiudersi facilmente nei confini strettissimi di un puro esercizio scientifico. La nascita di una letteratura in dialetto, dunque, significava anche la elaborazione automatica di un ambizioso corpo di principi e di sentimenti contenenti la giustificazione culturale e politica del concetto della nazionalità, e di conseguenza il sostegno su cui posa la pretesa dell’autonomia nazionale. 

Il nazionalismo subentrava letterariamente e finiva col diventare la ragione d’essere delle strutture politiche messe in atto durante l’arco di tempo che va dalla prima metà dell’Ottocento fino all’acquisto dell’indipendenza nel 1964. La poesia e la narrativa dell’Ottocento e del primo Novecento, dunque, costituiscono un deposito eminentemente patriottico, cioè, una rottura “moderna” con il passato indifferente e passivo, ispirato soltanto ai canoni classici dell’imitazione e della attenta, fedelissima continuazione della tradizione e dei suoi sacri modelli. 

Il poeta nazionale di Malta, Dun Karm (1871-1961), scrittore in lingua italiana e dal 1912 maggiormente in lingua maltese, andava scoprendo con decisione e con calma il senso dell’individualità dell’isola. Sperimentando nella lingua incolta, sfruttandone le nascoste potenzialità espressive, Dun Karm andava elaborando una intera, quasi sistematica, sublimazione del concetto romantico della patria, trasformandolo in un culto legato al binomio mazziniano del diritto e del dovere del cittadino libero. L’origine etnica, l’unità popolare evidenziata da una vasta gamma di motivi e di costumi, la funzione storico-culturale, oltre che morale, della fede cristiana lungo i secoli e nel mondo contemporaneo, le qualità distintive del paesaggio e delle forme architettoniche, la ricchezza spontanea e naturale del parlare quotidiano delle masse prive di una propria formazione culturale, il significato democratico delle antiche vicende storiche: sono alcuni dei motivi che trovano nel poeta “politico” la loro trasformazione estetica. 

Accanto al filo oggettivo, estroverso, che mette in piena evidenza l’identità collettiva e che dà ampio rilievo alla tematica dell’individualità nazionale, cresce anche l’ansia di un io turbato con la propria, singolare, solitaria presenza nel cosmo. 

Insieme al senso “felice” dell’isola nazionale si acquista anche il senso “infelice” dell’isola universale. La elaborazione della poetica della cittadinanza civile non fa dimenticare il bisogno di definire e di conoscere nelle sue più remote e struggenti implicazioni la poetica della cittadinanza cosmica. Con la traduzione dei Sepolcri foscoliani (L-Oqbra, 1936), Dun Karm introduce con sicurezza nella poetica maltese i grandi temi del processo della vita e della morte, e gli interrogativi sul problema della sopravvivenza. 

Sono temi che si insinuano già, anche se ancora privi di una forma letteraria di rilievo e lontani dalle complessità di spiriti veramente inquieti e sofferti,nelle liriche di Gian Antonio Vassallo (1817-1868), Richard Taylor (1818-1868), Guzè Muscat Azzopardi (1853-1927), Anton Muscat Fenech (1854-1910) e di Dwardu Cachia (1858-1907. Ma con Dun Karm assumono pure il carattere di modelli letterari, di archetipi tematico-formali, e sono di una importanza decisiva nel quadro dell’ispirazione maltese dei decenni successivi. Spettava ad altri poeti arrivare anche loro alla scoperta del filone soggettivo, introverso, riflessivo del romanticismo ottocentesco e dei residui neo-romantici ancora vivi nel primo Novecento europeo e continuati in varie sfumature fino ad oggi. Dai confini di una stretta concezione nazionale e sociale la poesia maltese si avviava verso gli spazi della tematica universale. 

La lirica del tormento esistenziale 

Nell’opera di Brilla la causa poetica diventa del tutto autonoma dalla causa linguistica. Comporre lirica non significava più contribuire alla normalizzazione e al recupero dell’incolto idioma antico. La distinzione tra interesse filologico e accademico nella lingua, e necessità psicologica di espressione poetica in quella lingua diventò netta, anche se Briffa stesso si pronunciò del tutto favorevole all’uso del maltese e al suo completo riconoscimento in sede culturale e sociale. 

Con Brilla si ha la figura del poeta integrale, cioè della personalità che riassume nell’atto poetico tutti i vari, multiformi aspetti dell’essere, professionale, sociale, familiare, civile. 

Essere poeta significa investire l’esistenza di un contenuto e di una forma particolare. L’intuizione lirica e non la poesia della letteratura e della rigidità formale, il senso del mistero e non la consapevolezza delle certezza nazionale, la lingua ricostruita con sofferenza dalle rovine di una sensibilità malinconica e non la normalizzazione decisa della sintassi e del lessico: in queste scelte, intimamente legate tra di loro, appare la figura del poeta come essere quasi privato, racchiuso in sé, piegato su se stesso, separato dalle masse, ispirato soltanto ai sussurri che si fanno sentire nel suo intimo angoscioso, del tutto noncurante della problematica storico-culturale. Lo sfondo di Briffa non è l’età contemporanea ma un eterno mondo di solitudine, privazione e tristezza. Le dimensioni del luogo e del tempo, mai evidenze di dati precisi, sono forme archetipiche entro cui quasi tutte le sue brevi meditazioni trovano una cornice per presentarsi come poesia, cioè come parola, sfida al silenzio continuo: 

Il-ferha ta’ bla tarf li jien poeta 
darba hassejt, 
u bkejt 
bil-qalb mim ija 
x’hin l-oghna holm tal-hajja 
ghannejt. 
(Mill-Gdid Poeta, vv. 1-6) 

(Ho provato una volta la felicità infinita di essere poeta, e piansi con un cuore pieno, mentre cantavo i più ricchi sogni della vita). Di nuovo poeta, vv. 1-6. 

I suoi luoghi sono spazi desolati, lontani dalle città della convivenza, distinti dal mondo dell’attualità; ad esempio, cimiteri, cattedrali dimenticate, castelli, vecchie chiese, spiagge lontane, strade disabitate, tombe, chiese demolite, fontane salutarie, città desolate. I suoi tempi e le sue stagioni sono momenti e periodi facilmente identificabili con la sofferenza, ad esempio, l’inverno, la notte, le ore della tempesta. Il passato con le sue ricordanze amaramente nostalgiche è un presente continuo, una “eternità” storica vissuta entro cui l’esperienza diventa psicologica, e il presente perde la sua attualità per diventare momento ambiguo dominato dalla memoria: 

Qatt ma Kien hemm il-bierah, 
m’hemrnx ghada jew pitghada, 
il-bniedem fassal wahdu 
il-jiem tac-civiltà … 
Imm’A1la halaq qablu 
it-tul t’Eternità. 
(Il-Hadd fìlghaxi ja, vv. 13-18) 

(Non c’era mai ieri, non c’è domani e dopodomani, l’uomo disegnò da solo i giorni della civiltà . . . ma Dio creò prima di lui la lunghezza di una Eternità). La sera della domenica. vv. 13-18. 

L’insistenza su vocaboli che evocano limitatezza, tenerezza, introversione, 

timidezza, piccolezza richiede una precisa interpretazione. Il linguaggio poetico di Briffa costituisce già un concentrarsi su un tipo particolare di lessico: è scelto istintivamente. con criteri psicologici, e non letterariamente, con criteri stilistici. Invece di cercare di ampliare il proprio vocabolario e di trovare le parole meno note, più antiche e pure (cioè di origine semitica, siccome il concetto di purezza, ormai da tempo superato, significava l’eliminazione dei vocaboli di origine latina), il poeta riduce il suo dizionario ad un glossario quasi specializzato, ispirato soltanto alla tematica del tormento esistenziale. Non risale mai alla superficie l’ambizione di chi desidera dare evidenza della vastità e dell’efficacia espressiva della lingua tradizionalmente incolta. Passando dalla langue alla parole Brilla arriva ad una lingua scheletrica, scarna e del tutto priva di ogni elemento decorativo. Non c’è un rifacimento della comune lingua parlata: si tratta di una riduzione estrema, evidenza letteraria di un retrocedere psicologico. Anche la poetica della lingua diventa così un documento di una particolare vicenda interiore. 

Dati i limiti entro cui poteva svolgersi l’attività letteraria, e considerando il grave svantaggio storico imposto sull’antico idioma di origine araba, sempre vissuto in condizione di subalternanza culturale e politica rispetto alla tradizione latina dell’isola, una tale scelta “linguistica” (così appare a prima vista, e così è anche, ma non soltanto, nel quadro della vita culturale maltese del primo Novecento) costituisce una importante novità nella storia della poesia del Paese. Significa l’affemlarsi del contenuto sulla forma, il superamento del preconcetto che attività linguistica equivale a attività creativa. Tirando le somme, dunque, ciò significa che il contenuto (l’atto poetico) non doveva dipendere più dalle condizioni del programma di ricostruzione sintattica e lessicale\ oltre che morfologica, della lingua popolare. Poetare ora significava soltanto scoprire la propria metalingua entro la lingua, restringere ancora, tormentare i nuovi modi, ricrearsi una forma espressiva che in ultima analisi non contribuisce in nessun modo all’avanzamento della lingua in termini di standardizzazione scientifica e colta. 

La forma dello spirito 

Trovandosi privo di una propria formazione letteraria, essendo un medico occupatissimo, Briffa aveva paradossalmente il vantaggio di poter distanziarsi senza polemiche dai formalismi, necessari storicamente nell’ambito della breve storia letteraria della lingua maltese, e richiesti dalla condizione difficile dell’idioma non ancora sufficientemente elaborato in sede estetica, dei suoi contemporanei come Anastasio Cuschieri (18761962). Ninu Cremona (1880-1972). Gorg Zammit (n. 1908), Gorg Pisani (n. 1909). Karmenu Vassallo (n. 1913). Guze Chetcuti (n. 1914) e altri. Messo in questa foto di gruppo, Briffa si isola anche come poeta e non soltanto, caratteristicamente, come persona umana. La sua distanza psicologica si traduce presto in distanza linguistica e formale, quasi per mettere in evidenza il fatto che la prima condizione fosse la causa della seconda, e che tra l’uomo e l’artista non potesse esserci alcun spazio. 

La sua lingua ridotta, costituendo un compromesso con il silenzio e con il mutismo, è frammentata, sciolta e sconvolta. Il lessico è scarno e “povero” oggettivamente, fedele alla condizione di privazione e di negazione che l’autore intende proiettare. Le forme si creano nel processo dello scrivere, anche se spesso 

utilizzano le stanze precise della tradizione, particolarmente la quartina. Entro la formalità, comunque, cresce il nervosismo personale di chi non trova facilmente lo spazio adatto allo spirito in cerca di comunicazione. 

Il contrasto con l’impressione che viene fuori dall’opera collettiva dei contemporanei ha condotto Dun Karm, troppo avaro di solito a collaudare i suoi colleghi, a conoscere in Briffa un autentico poeta. In fondo si tratta di un anti-letterato valido che ha prodotto alcune delle liriche più belle scritte in maltese nella prima metà del Novecento. 

È una condizione paradossale. Questa bellezza sta soprattutto nell’informalità, che presto dà prova dell’intraducibilità del testo. 

Tradurre Briffa significa veramente tradirlo, renderlo contrario a se stesso, cioè stereotipato, formale e ovvio, quasi banale. 

La spontaneità risiede soprattutto nella naturalezza istintiva, antiaccademica, con cui ha colto dopo lunghi periodi di riflessione (come lui stesso ha dichiarato in una rarissima lettera di chiarifica, e come mostra la sequenza cronologica delle sue opere, spesso separate l’una dalla seguente con ampi spazi di mesi e di anni) la forma pronta ad essere semplicemente registrata su un pezzettino di carta. Cogliendo il momento opportuno. dovuto alla sua psicologia di sconvolto pensatore, disorganico e deciso sentimentalmente, che sente e che non concepisce, Brilla riesce a creare la forma nell’atto stesso di trascriverla. Scrivere significa qui, dunque, tradurre la poesia interiore in poesia esteriore, arrestare il sentire attraverso lo scrivere. 

I suoi momenti tradotti in lirica costituiscono i primi passi della poesia maltese nel mondo della modernità novecentesca. Il contenuto è ancora quello tipico dei partecipanti ottocenleschi all’angst esistenziale. Da Keats a Leopardi, da Shelley a Foscolo, ci sono voci europee di primo piano che trovano eco, remotamente, nei suoi scritti. Sono tutti, comunque, riecheggiamenti di mediazione culturalmente inevitabile, perché il tormento è rivissuto interamente in prima persona. Le sfortune personali, di carattere sentimentale, e l’indole naturale di uno spirito perfidamente malinconico e depresso fin dalla fanciullezza sono essenzialmente i “modelli” veri e propri che hanno tanto influito sul suo animo. È l’uomo che ha formato il poeta, e non la grande tradizione letteraria, anche se questa non può essere assente come esemplificazione di archetipi in cui partecipa la coscienza del singolo in una data condizione personale. 

Le tensioni rivissute a livello privato, dunque, conducono al bisogno di creare pure le proprie modalità espressive. Il diarismo, la psicologia in cui si riassume tutta la poetica di Briffa, spiega l’intero procedimento: i temi della tradizione sono sofferte dall’individuo, e la trascrizione personale riesce a crearsi le forme “private” che placano di più le esigenze dello spirito. 

La prima lirica, Lacryma e rerum (1924), e l’ultima, Ballatella tal Funtana 

(1962), non sono molto diverse. Si prestano facilmente ad un confronto che le definisce come tappe lontane di un unico ininterrotto procedimento stilistico e formale. esprimente una sola preoccupazione. La monotematicità, una delle conclusioni acquisite attraverso un tale confronto, mette ancora in risalto la condizione da cui parte la poesia di Briffa: l’uomo richiede una sua espressione, ed è l’uomo, al di là della storia letteraria del continente e del proprio Paese, che deve ricostruirsi le forme. Il diario è diventato poesia; è una fortuna per la cultura maltese, ma non è che una necessità che il poeta, se avesse potuto, ne avrebbe presto fatto a meno. È infatti con grande difficoltà, e malgrado la sua indifferenza. che la moglie e un intimo amico lo hanno mosso a raccogliere le sue liriche nel 

1960, tre anni prima della morte. Del resto, la biografia storica non è in nessun modo distante dalla biografia poetica. 

La stessa malinconia esistenziale unisce l’azione dell’uomo con la parola del poeta siccome le due dimensioni nascono entro una sola storia che non separa il fisico dallo spirituale, identificando il vivere con il patire. 

Oliver Friggieri 

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 24-31.




 La visita di Luigi Capuana a Malta

La prima edizione della rivista «Malta letteraria» (*), pubblicata in settembre 1904, aveva già dato spazio a Sorrisino, una novella di Luigi Capuana1. Nel 1910 Antonio Deni, uno dei siciliani che collaboravano alla rivista, pubblicò un ampio resoconto della festa celebrata all’Università di Catania nell’occasione del giubileo letterario dello scrittore2. 

Quasi a consolidare sempre di più questo inevitabile avvicinamento tra le due coscienze letterarie che, superando la visuale astratta del romanticismo, dovevano affrontare la problematica socio-economica, e che accanto alla visione risorgimentale sentivano anche esigenze molto pratiche, il 12 dicembre 1910 Capuana visitò l’isola come ospite dello scrittore giornalista maltese Agostini Levanzin (1872-1955). che così descrisse l’evento: «Lunedì scorso arrivò il famoso romanziere italiano Luigi Capuana, professore di letteratura italiana presso l’Università di Catania. Mi scriveva da lungo tempo esprimendo il grande desiderio di fare una visita alla nostra isola e ora è arrivato. È l’autore di numerosi bei romanzi… Spero che ci conceda una conferenza degna della sue capacità3». 

Fu “L’Avvenire” a divulgare la notizia: «Porgiamo un ossequioso e reverente saluto all’illustre letterato, scrittore e poeta Luigi Capuana, professore dello Ateneo catanese, il quale ha onorato la nostra isola di una sua visita che, ci è grato sapere, durerà per vari giorni …Parecchi nostri giovani studiosi si sono recati ad ossequiare il rinomato scrittore al Hotel d’Angleterre dove alloggia. Possa il nostro distinto ospite godere di un soggiorno piacevole tra noi. Ed ora un voto. Non potrebbe egli regalarci una delle sue applaudite conferenze che tanto entusiasmarono in Italia? Lo speriamo4». Due giorni dopo lo stesso giornale diede ampia informazione biografica e letteraria sul romanziere e continuò: «Noi siamo certi che l’illustre letterato italiano è talmente noto al nostro pubblico intelligente da non aver bisogno di presentazione: anzi sappiamo che già parecchie persone, tra le più colte del paese, si onorano a tenergli compagnia durante la sua breve permanenza tra noi5». 

Agostino Levanzin scrisse anche sul giornale “Malta” per meglio pubblicizzare questa visita presso i letterati. Nel suo articolo, oltre ad un profilo biografico, letterario e critico, Levanzin evidenzia la sua amicizia con il siciliano: «Il nostro gradito ospite è una delle più fulgide figure della letteratura italiana contemporanea. Il suo ingegno policromo è di una versatilità meravigliosa: critico de’ più autorevoli, romanziere de’ più ricercati, novelliere per bambini de’ più spontanei e simpatici, drammaturgo de’ più applauditi, conferenziere dalla parola calda ed affascinante, è pure un profondo psicologo ed ha pubblicato lavori interessantissimi sulla scottante questione dello spiritismo… Figli non ha: è astemio,  feroce,  fotografo,  spiritista convinto, modestissimo allo eccesso, amico  sincero, ama i giovani e procura sempre di incoraggiarli, parlatore arguto e piacevole, ed uno di quelli che trattano con squisita gentilezza e cordiale ospitalità con tutti quelli che, fortunati, vengono in contatto con loro. lo non dimenticherò mai la grata accoglienza che mi fece a Catania, quando, sentendo del mio arrivo colà, venne al Hotel per condurmi a casa sua in carrozza dove mi trattò con una espansione e famigliarità eccezionali in un uomo del suo valore… Abbia intanto l’augurio affettuoso di tutti gli ammiratori del genio latino per una lunga e felice permanenza fra noi6». 

Durante il suo soggiorno Capuana visitò il Collegio Flore, uno dei centri educativi più importanti del periodo, «dove si trattenne per oltre due ore, accompagnato in giro pel nuovo e grandioso locale, dal direttore Flores… e si compiacque che’ per opera sua anche Malta possa gareggiare, se non sorpassare in fatto d’Istituto d’Educazione, con le Città più importanti del continente7». 

Il governatore britannico di Malta tenne un pranzo in suo onore. Fu anche intrattenuto a colazione al Casinò Maltese della Valletta durante il quale gli intervenuti chiesero il suo autografo; tra questi c’erano diversi scrittori maltesi, ad esempio Luigi Randon, Arturo Mercieca, Giovanni Roncali ed Enrico Magro. Fu intrattenuto anche dagli studenti e da G. F. Inglott, uno dei collaboratori di “Malta letteraria”. Agostino Levanzin lo invitò a casa sua e lo presentò a vari intellettuali maltesi. «Fu anche accolto dal rettore dell’Università e nei pochi giorni del suo soggiorno non passò neanche un’ora senza essere accompagnato da qualcuno che gli voleva bene8». Il 25 dicembre al Collegio Flores si organizzò una funzione religiosa per la notte di Natale, e alle ore 10,30 Capuana lesse due dei suoi bozzetti per quella festa9, Capuana ritornò in Sicilia a bordo della nave Enna il martedì 27 dicembre 1910.10 Poco dopo la sua partenza due giornali pubblicarono due suoi lavori, la novella Un anniversario11e un lungo studio sul novellista francese Alfonso Daddet12. 

Il breve soggiorno di Capuana a Malta è significativo per la conferenza che lesse il lunedì 26 dicembre «nella gran sala del Collegio Flores innanzi ad una scelta accolta di signore e signori, ammiratori del grande romanziere italiano13». Due giorni prima della conferenza Levanzin scrisse un lungo articolo sul proprio giornale “In-Nahla” dichiarandosi contento dell’onore che lo scrittore aveva fatto all’isola con la sua visita, invitando il pubblico a dargli una meritata accoglienza che metta in luce la capacità  dei maltesi di stimare  le  persone che valgono. Tale 

comportamento è un passo positivo perché smentisce l’accusa di arretratezza spesso rivolta contro i maltesi. Levanzin auspica che Capuana «si ricorderà della nostra cara isola nelle sue valide opere future» e conclude augurandosi che con tale accoglienza «mostriamo di essere capaci di apprezzare i grandi uomini e particolarmente quelli legati alla lingua italiana, che è la lingua della nostra civiltà14». 

La pubblica presenza di un noto scrittore italiano a Malta agli inizi del secolo rischiava di essere interpretata e sfruttata anche politicamente. La questione della lingua, che metteva in dubbio il ruolo concesso tradizionalmente all’italiano nella vita ufficiale e culturale dell’isola e che indicava l’avanzata dell’inglese come alternativa di comunicazione culturale e internazionale, e che chiedeva al maltese, l’idioma incolto di origine semitica, una sua giustificazione culturale e politica, serviva come presa di coscienza a favore della tesi della latinità del paese e come decisa presa di posizione contro la minaccia di una così detta devastante anglicizzazione. 

“Risorgimento” prese subito lo spunto da questa complessa problematica, citando il nome di Capuana come sostenitore della tesi più antica. Asserendo che la sua visita riuscì graditissima, ricordò pure l’amicizia del siciliano con il romanziere maltese Levanzin: «Egli ha sempre, come ci ha detto l’egregio amico signor Levanzin Agostino editore dell’«In-Nahla». cercato di festeggiare ogni maltese letterato che si portò mai a Catania». Affermò anche che Capuana si interessò molto «della malaugurata questione della lingua» che, secondo il giornale, «stupidamente si era sollevata qui da un governo spensierato che… ben la sollevò senza badare alle ripercussioni, all’eco, ai riverberi che avrebbe potuto avere (come infatti ebbe) lontano e nella diplomazia europea». Comunque, continua lo scrittore anonimo, «il grande siciliano ha poi saputo colle sue maniere affabili. e squisitamente gentili, e col suo fare espansivo che rammentava… ‘il gentil sangue latino’, accattivarsi l’amore, la simpatia, l’amicizia di tutti anche di coloro che in politica o nelle sue idee letterarie non ne condividono le opinioni». Il giornale ritiene che, anche se Capuana riuscì a evitare la politica, la sua visita ha dato luogo spesso e forse sempre a manifestazione schietta dell’italianità di Malta15. 

È facile sospettare che Capuana fosse consapevole del rischio che correva se si fosse pronunciato pubblicamente in qualche modo su temi altrimenti neutrali come la storia e l’identità di Malta e il rapporto culturale tra l’isola e l’Italia. Arturo Mercieca, poeta e politico, ricorda che durante una adunanza tenuta al Casinò Maltese, una organizzazione che sosteneva l’italianità dell’isola, a Capuana «venne richiesto di presiedere e pronunciare il brindisi d’onore… eravamo ansiosi di ascoltare un forbito discorso del Capuana. Ci toccò però rimanere a bocca asciutta quando egli levatosi a rispondere disse: ‘Signori, io sono uno scrittore, non un oratore; dunque, grazie, grazie, grazie’16». 

 

La conferenza, pubblicata interamente su “L’Avvenire”17, prende le mosse da alcuni dei principi più noti del pensiero letterario dell’epoca ed è tutt’una con le idee caratteristiche dello scrittore. Capuana parla del contegno con cui la Scienza si comporta verso l’Arte e viceversa. Di fronte alle scoperte che hanno rivelato forze fisiche mai prima sospettate, si capisce perché la creazione d’arte è stimata cosa primitiva e infantile. L’Arte non poteva dunque rimanere estranea allo svolgimento con cui veniva radicalmente rinnovato il sapere umano. Siccome nell’Arte non agisce la facoltà superiore dell’intelligenza ma l’immaginazione, gli artisti sono stati costretti a domandarsi fino a che punto l’Arte possa assimilarsi le dottrine scientifiche. Non volevano vedersi tagliati fuori dalla società, sentirsi accusare di agire in un mondo fittizio. 

Così Capuana riassume l’accusa rivolta dalla Scienza contro gli artisti: «Se volete che l’Arte sia qualcosa di vitale e che eserciti una funzione efficace nell’organismo della società, scendete dalle nuvole… Siate apostoli, profeti o poeti… ogni vostra pagina sia un’eco dei vostri dolori, delle vostre aspirazioni, delle vostre lotte… Gridate, urlate con noi, piangete, esaltatevi con noi… Noi non troviamo quasi nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei vostri lavori d’arte e perciò buttiamo via il volume». Gli artisti avrebbero potuto rispondere che avevano sempre aderito a questi propositi, ma entro i confini della letteratura stessa c’era già la coscienza del rinnovamento. Capuana si sofferma su quella che definisce «la forma d’arte più specialmente moderna, il romanzo», che fino a Balzac era «una specie di fiaba per adulti» in cui «la fantasia… regnava da sovrana assoluta». Con Balzac penetrava nel romanzo l’idea dell’osservazione immediata del luogo e dell’ambiente e nessun angolo della vita rimaneva escluso dalla rappresentazione narrativa. 

Purtroppo Zola passò il confine con cui l’Arte rischia di non riuscire opera d’arte. È giusto trasportare il metodo positivo nello studio del soggetto e inserire nella forma una severità scientifica. Ma pretendere che l’opera d’arte potesse assumere valore scientifico, cioè .far servire la concezione artistica al preconcetto d’una teorica scientifica», è un’assurdità. Capuana ritiene che concetti scientifici, filosofici, religiosi, mistici, estetici hanno inquinato l’opera d’arte, e insiste sul tema centrale del suo discorso: «il carattere precipuo dell’opera d’arte consiste unicamente nella forma che ogni concetto vi prende». Prosegue polemizzando contro l’abuso di “dare al concetto una eccessiva preponderanza sulla forma», e arriva alla sua conclusione più determinante: «compito dell’Arte è creare, fare … concorrenza allo stato civile, mettendo al mondo creature superiori alle creature ordinarie pel fatto che sono creature immortali». Il loro valore sostanziale non consiste nel concetto ma nella forma, e la loro dimensione didattica è incidentale. Capuana cita due esempi estremi che mettono in risalto la perdita dell’equilibrio richiesto dall’atto creativo; l’Arte non deve essere strumento di mistica e sociale propaganda come vuole Tolstoi, e neanche una produttrice di bellezza come vuole D’Annunzio. Queste posizioni sottomettono la forma al contenuto, la letteratura al concetto. «La risposta più ovvia sarebbe l’Arte sia l’Arte e nient’altro che l’Arte… ha un’essenza sua propria, un organismo spirituale da non essere confuso con altri organismi spirituali». Capuana conclude il suo discorso auspicando che l’Arte riprenda la coscienza del suo precipuo valore consistente esclusivamente nella forma, riconoscendo che la sua funzione è veramente diversa da quella della Scienza, della morale e della religione. Il suo invito finale è rivolto agli scrittori maltesi: «che, tra i giovani studiosi qui cortesemente convenuti si trovi già un perfettissimo degenerato cioè un genio capace di produrre tale opera d’Arte da onorare fino alla fine dei secoli questa nobilissima isola alla quale esprimo davanti a voi il mio affettuoso e rispettoso saluto». 

Oliver Friggeri

(*) Abbreviazioni dei titoli dei giornali e di riviste maltesi: 
A – “L’Avvenire”; M. – “Malta”; M.L. – “Malta letteraria”; N. – “In Nahala”; R. – “Risorgimento”. 
(1) Cfr. M.L. I, 5, sett. 1904, pp. 139-144. 
(2) Cfr. A. Deni, Per il giubileo letterario di Luigi Capuana, M.L., VII, 71-72, marzo-aprile 1910, pp. 74-77. 
(3) A. Levanzin, Frak, N, III, 12C, 17/12/1910, p. 954.
(4) A.• I. 155. 13/12/1910. p. 3. 
(5) A., I, 157. 15/12/1910. p. 2.
(6). A. Levanzin. Luigi Capuana. M., XXVIII, 8136, 17/12/1910. p. 2. L’autore maltese racconta lo stesso episodio a Catania anche in N.• III, 121, 24/12/1910. p. 963.
(7) A., I, 158, 16/12/1910, p. 2. 
(8) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963; A., I, 162, 21/12/1910, p. 2. 
(9) A., I, 164, 23/12/1910, p. 2. 
(10) N., III, 122, 31/12/1910, p. 971. 
(11) Cfr. M., XXVIII, 8145,28/12/1910, p. 2. 
(12) Cfr. R XXXV, 7921, 29/12/1910, p. ~; XXXVI, 7922, 2/1/1911, p.l.; XXXVI, 7924, 9/1/1911, p. 3; XXXVI, 7925,12/1/1911, p. 3; XXXVI, 7926,16/1/1911, p. 3; XXXVI, 7927, 19/1/1911, p. 3. XXXVI, 7928, 23/1/1911, p. 3; “Risorgimento” aveva già concesso ampio spazio alla visita di Capuana, dando un sommario delle sue attività letterarie e mostrando la propria stima nei suoi confronti (cfr. R XXXV, 7918, 19/12/1910, p. 3).
(13) A., I, 167, 27/12/1910, p. 2; cfr. anche M., XXVIII, 8140, 22/12/1910, p. 2.
(14) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963. 
(15) Spectator, Il prof. commend. Capuana a Malta., R, XXXV, 7921, 29/12/1910, pp. 1-2.
(16) A. Mercieca, Le mie vicende, Malta, Tipografia San Giuseppe 1946, p. 92.
(17) Cfr. Arte e scienza – Conferenza dci prof. Luigi Capuana letta ieri nel Collegio Flores, A, I, 167, 27/12/1910, pp. 1-2.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 29-29