VIRGILIO TITONE, Politica e civiltà , ed. Sciascia, 1951
All’indomani della prima guerra mondiale un’opera di filosofia della storia emblematicamente intitolata Il tramonto dell’occidente veniva pubblicata dal pensatore tedesco Oswald Spengler. In essa si dava un giudizio negativo sul destino della civiltà europea, avviata secondo lui ad una inevitabile catastrofe. A partire d’allora, di fronte alla grande mutazione che appariva chiara nelle istituzioni e nell’economia, il concetto di civiltà nella sua essenza, la storia delle diverse civiltà del presente e del passato, comparate tra di loro, entrarono tra i temi più discussi della saggistica contemporanea, anche per lo spessore culturale degli autori che vi hanno partecipato.
Virgilio Titone scrisse sull’argomento il libro Politica e civiltà, pubblicato nel 1951 dalle edizioni Salvatore Sciacca, nel quale si rifaceva alla “morfologia della storia” prospettata dallo Spengler. Lo storico siciliano apprezzava questa come contributo all’inevitabile rinnovamento degli studi storiografici e delle dottrine politiche, richiesto dal nostro tempo. Il Titone faceva riferimento ad Arnold J. Toynbee, inglese e di professione storico, a differenza dello Spengler. Nella sua poderosa opera, A Studi of History, 12 volumi apparsi tra il 1934 e il 1961, con metodo comparativo, venivano studiate ventuno società che avevano in comune il carattere di civiltà, a differenza delle società primitive.
Le civiltà sono, al pari degli individui viventi, degli organismi che nascono, crescono e muoiono, le cui vicende il Toynbee narra con un “ottimismo cosmologico”, che lo distingue dal radicale pessimismo dello Spengler (Lucin Febvre, Problemi di metodo storico, Reprints Einaudi, Torino, 1976, pag.1 01). Titone, nel riferirsi a questi autori, che tra gli storici d’allora venivano accolti con diffidenza, avvertiva l’importanza che le loro opere avevano per l’innovazione degli studi storici, per un loro incontro con le scienze dell’uomo e sociali, prendendo (e dando) linfa alla loro metodologia. ((Ogni età – scrive – ha la sua storia. E forse può credersi che qualche volta la nostra età abbia la sua in questi scritti che in quelli che propriamente si considerano come storie, e ciò puri tra i molti paradossi, le generalizzazioni gratuite e le astrazioni o analogie arbitrarie» (Politica e civiltà, pag. 8. D’ora in avanti di quest’opera citerò solo la pagina).
Movendo dalle due guerre mondiali della prima metà del ‘900, l’attenzione del Nostro si allarga ad altri periodi storici, alla ricerca di ((come avvenga il passaggio da una certa serie di forme storiche a un’altra» (pag. 26), lo sviluppo delle singole civiltà. Lo fa elaborando i concetti che costituiscono la trama di «Politica e civiltà». Tra essi contesta l’uso che di quelli di crisi si è fatto tra gli anni Trenta e Quaranta, rendendolo un termine generico e ormai fin troppo abusato» (pag. 141). Considerare le crisi come fuoriuscita da una condizione di normalità, intensa come qualcosa di stabile e di duraturo, non ci dà una interpretazione corretta della storia, la cui regola è il divenire.
((Se per crisi dunque – scrive il Titone – s’intende, come vuole intendersi, un periodo di transizione, poiché di nessun periodo della storia può dirsi che transizione non sia, la storia stessa non sarebbe se non un succedersi ininterrotto di crisi, anzi un’unica interminabile crisi: il che sarebbe come negare che di crisi, comunque definibili, possa parlarsi» (p. 142). Spiegare i fatti storici, il loro
succedersi, non può consistere in una sovrapposizione di modelli prestabiliti, il che fanno le varie teorie.
Quella del Titone non è arida metodologia. Nel saggio qui esaminato troviamo un notevole stile narrativo, quale si addice ad un’ opera di storia, con un richiamo costante ad avvenimenti situati tra l’antichità e l’età contemporanea, nei quali si manifesta il processo stesso della vita, il movimento. Leggiamo: «La storia ci si presenta come una serie di organismi che, compiuto il ciclo dell’affermazione e dello sviluppo, si esauriscono per dar luogo a nuove vite» (pag.61). Ed ancora, e questa valga per tanti altri richiami che si ricavano dalla lettura del libro: «È certamente un grave errore parlare dei romani della decadenza come di degeneri e indegni nipoti dei loro avi gloriosi. In sé, anche quando abbandonano ai barbari la difesa dell’impero, non lo sono più di quanto non fossero stati prodi coloro che avevano combattuto con Annibale. Non ci sono generazioni di eroi e generazioni di poltroni, nati a servire. Si tratta sempre di bisogni e di concezioni della vita diverse: di circostanze, anche, nelle quali è necessario o superfluo l’eroe… Figlia di Roma è la Chiesa Cattolica … Quegli stessi motivi che ci fanno nel declinare dell’impero pensare alla fine imminente, qui ci parlano di una promettente giovinezza» (pagg. 65-67).
A spiegare la storia valgono poco le filosofie della storia, le sociologie che tendono a prendere il suo posto nel nostro tempo, il tentativo di ridurla entro i limiti di una scienza esatta. Essa non ubbidisce alle regole della nostra logica, non valgono gli accorgimenti dell’individuo: «La storia è più accorta che egli non sia. Può magari girare l’ostacolo, ma prosegue ugualmente per la sua via» (pag. 41).
Gli avvenimenti successivi alla seconda guerra mondiale fanno esitare il cattedratico palermitano sulla chiave di “interpretazione” dei fatti storici che ha usato sinora. «Abbiamo – scrive – mostrato come si alternino le fasi di espansione e quelle di contrazione e come pervengano a una saturazione e quindi alla crisi, alla guerra o alla rivoluzione, che segnano il passaggio alla fase successiva, del resto preparata dall’esaurimento progressivo della fase in questione… Ci si affaccia il dubbio … se questo presente sia tale da potersi in qualche modo porre sul piano stesso del passato. E sembra che tutto sia così diverso e così radicalmente nuovo da escludere senz’altro ogni possibilità di confronto» (pagg. 241- 243). Qui emerge il limite del saggio del Titone. Esso sta nella concezione elitaria della storia che spinge il nostro autore ad auspicare il ritorno sulla terra di nuove primavere nelle quali sia possibile il formarsi «di una vera aristocrazia che si erga a maestra e guida del popolo» (pag. 105). Invece – osserva turbato – si assiste all’emergere non di «quella che il Fichte chiamava la classe dei dotti», ma dell’altra, («quella degli indotti» (pag. 245).
La crisi del nostro tempo non terminerà con una restaurazione, come nelle passate, perché sono entrate come nuove protagoniste le “masse” ( un termine che il Titone non usa). Esse, “gli indotti”, non hanno radici nell’ordine tradizionale della società, non riconoscono le aristocrazie, come portatrici di valori, che giustifichino il loro predominio sociale. L’atteggiamento del Titone si avvicina all’angoscia del Croce timoroso che l’avvento della democrazia liberale di massa travolgesse, insieme alle élites, la loro morale (Domenico Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989, Laterza, RomaBari, 1991, pag. 400). Un altro hegeliano, il Weil, avverte la fine della tensione che divideva la società del passato. Ancora una volta la storia dimostra di essere “accorta”, con la possibilità di accesso per tutti ai gruppi superiori, rendendo sempre più uniformi il modo di pensare e lo stile di vita. «Così non c’è niente di sorprendente se i vecchi valori mettono di nuovo radici nella massa» (Eric Weil, Masse e individui storici, Feltrinelli , Milano 1980, pag.98). Lo testimonia la vicenda dei “diritti umani”, in nome dei quali oggi si può fare anche la guerra. E su quella del Kosovo leggiamo: IlGli Stati democratici dipendono dall’opinione dei cittadini e quest’ultima va conquistata attraverso l’impiego di argomenti in cui la giustificazione morale abbia peso… il mondo costituito sugli arcana imperii era il mondo chiuso delle corti e dei principi. Ora quell’universo autistico non esiste più e regna il potere trasparente della democrazia. E quindi gli Stati sono legittimati solo se sono in grado di giustificare moralmente le proprie azioni… in guerra non si punta più sulla conquista e la gloria, ma sulla difesa dei diritti umani» (Sebastiano Maffettone, Guerra e pace sotto gli occhi degli innocenti, in “Il Sole – 24 ore”, n°124/8 Maggio 1999, pagg. 1-5).
Giovanni Gerardi
Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 43-46.