IL FUOCO DELLA RABBIA 

Per spegnere il fuoco 
della rabbia 
sciolgo la catena delle parole. 
L’urlo feroce del peccato 
diventa stelo sottile 
d’àloe. 
Al di là della disperazione 
l’anelito 
verso ritrovate armonie 
torna 
alla muta profondità 
delle origini 
dove il discorso 
si risolve. 

Pino Giacopelli 

Oltre la siepe, N. Calabria, Patti, 2004

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 29.




GIUSEPPE BAGNASCO, L’amore viola. collana «Poesia Oggi», l.l.a. Palma, Palermo, 2008.

Il colore del sentimento e la vitalità della memoria 

L’amore viola, cioè, l’amore come un nome, come un colore, forse come uno strumento a corda che vibra e produce suoni profondi. Sono poesie che, in una fitta trama di rimandi e nell’inarcatura tra verso e verso, ci restituiscono lo stupore, la magia, il dolore di un canzoniere d’amore che, come tale, si sottrae ai livelli della storicizzazione” che esprime l’uomo, la sua cultura, i suoi vissuti. 

È una poesia dell’io, che parla all’amore e dell’amore, che guarda dentro di sé per scavare le vibrazioni più intime. 

Fra le cinquanta poesie, ce ne sono almeno cinque (Felice il vento, La pazzia, Senza cuore, Poi arrivasti tu e Mura il tuo silenzio), in alcuni versi delle quali abbiamo trovato, quel senso del labirinto assunto emblematicamente da alcuni poeti siciliani della fine del’ 500, in primis il poeta di «Celia» nelle sue Canzuni amurusi. il monrealese Antonio Veneziano – limitatamente alla esperienza amorosa. Laddove il sentire la passione d’amore con un lirismo che ci confermaquanto il sentimento amoroso sia consonantico e senza tempo, e come la poesia di Bagnasco raggiunga vertici di espressione così nobili e rari. 

Fare poesia significa mettersi a servizio della natura, non per imitarla nel canto, ma per darle espressione; significa esplorare quel luogo segreto all’interno di noi per tirame fuori immagini e fantasie che non appartengono solo a noi, ma che racchiudono tutti i sogni del mondo. Non a caso Hermann Hesse ha scritto che «nei sogni dei poeti risiedono una bellezza e una grazia che si cercano invano nelle cose reali». 

Il poeta scrive una poesia, non inizia affatto un libro. Soltanto dopo si rende conto che, tra le diverse poesie scritte, si ri-trova la linea di un percorso, il tracciato di un discorso. Dove iterazioni, sineddoche, sinestesie, anafore, metonimie, ispirano ed evocano stati d’animo che si trasformano in immagini. 

Bagnasco propone una poesia in cui fantasia e verità si incontrano nel segno di una superiore armonia: «E poi arrivasti tu / e il tempo / non fu più il tempo. / Si accesero le vetrine dell’ amore … ». Molte sono anche le suggestioni (da sub gerere) con cui, attraverso metafore fortemente fisiche, i testi poetici si possono leggere come partiture dell ‘anima: «Se dovessi descrivere l’amore / disegnerei un chiodo / e lì appenderei tutti i suoi sogni / e per vincere la solitudine / starei solo assieme a un cane / a dividere la zuppa con lui» (Calcinacci). 

Una poesia, dunque, che più sembra lontana dalla vita veloce ed ipertecnologica 

di oggi, più riporta alla condizione eterna dell’uomo, alla maledizione e alla ricchezza della sua corporeità. Sì, perché la poesia non dà risposte, ma interroga «il silenzio delle cose» (Luzi). 

Voglio concludere riportando alcuni versi della poesia Mi manchi. Qui l’amore si fa confidenza e si circonda di letteratura senza perdere nulla della sua immediatezza. E per me è come chiudere un cerchio: come se l’ultimo pezzo del puzzle fosse stato già pronto a combaciare: «E tu mi manchi / mi manchi appena dopo / esserci lasciati / [ … ] Mi manchi oltre la vita / perché in me non c’è vita / se tu mi manchi … ». 

Pino Giacopelli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 62-63.

 




 DAL SUD di Pino Giacopelli 

Vengo dal sud, quel mito che abita ere 
trapassate e si dissolve nella zona 
degli uccelli 
nel pendio scorticato dagli artigli 
del grifone, 
quella strada in salita merlata turrita 
vaga di essenze esotiche, di cedri, 
sulfuree pietraie 
e scende nel mare della mattanza 
dove leggiadro veleggia un catamarano 
corindone, 
e le donne (stordite dal profumo 
di tuberose?) si aprono al piacere 
forse senza sensi di colpa, degustando 
sorbetti 
al gelsomino, senza coturni ai piedi. 
Corpi che sono labbra spalancate. 
Per amare 
e mentire, sognare e tradire. 
Voci della boucherie, necropoli 
macchiata 
di fantasmi che il mattino accende 
di lucerne 
e si perdono nel crocevia che spezza 
la speranza, negli ancestrali mal (umori) 
tellurici, 
nelle confidenze custodite della prima 
età e diventano marzapane e malvasìa. 
Vengo dal sud, quella sciarada 
che traveste 
di verità ventri di madreperla, dove 
per le coccinelle i pipistrelli sono 
angeli 
e lo spaventapasseri attira i corvi senza 
spaurirli nemmeno. 
Quel percorso triangolare dei gufi dove 
la gente 
viene a deporre lame di coltelli, 
a perdere 
la testa (almeno una volta) 
per somigliare 
a se stessi e sceglie la libertà che 
non conosce 
e crede che le stazioni dei metrò 
sono catacombe e l’oceano una latomìa 
abissale 
che inghiotte il sole, dove la maschera 
rugosa 
della morte ha il volto di una P-38 
carica 
di polvere di eroina, dove hai paura 
di assopirti 
e di svegliarti, mani nelle mani, 
nella morte 
che passa e ripassa sul corpo disteso 
portando 
via, poco per volta, la luce dagli occhi. 
Un’amàca tramata, 
dove allungarsi per addormentare 
il dolore 
attraversando i secoli, paesi, oscurità 
silvestri 
cariche di porfido, sfrascando steccati 
fra i passi della storia e vetrine ex voto. 
Vengo dal sud, la schiena contro 
la solitudine, 
i colori mescolati ai sapori, 
la fronte contro le illusioni (orecchie 
di cane che spazzano le pietre), 
le pietre 
pagine scritte e cancellate con rametti 
di mentastro, 
l’amante contro il fascino fatale, 
l’azzardo e il rimorso bleu cobalto, 
i ricordi contro il computer, 
vivere come i segreti, sottoterra, 
i santi contro l’assenza della vita, 
la fedeltà l’enigma, dove le brillanze 
di percorsi 
labirintici sono nascondigli, cartilagini 
di favi d’api e fuga, rifugio del tempo 
a venire, 
dove il sole ha nostalgia dell’ ombra 
e il querceto bagnato tinnisce allibito. 
M’aggrappo alla terra che si muove 
senza legami 
con la terraferma, un ponte verso 
lo zenit. 
Resto al sud, progetti di futuro: andare 
a fragole, 
arrivare alla vecchiaia con la faccia 
rivolta 
all’infanzia, senza memoria, non senza 
immaginazione. Incontrarsi vicino 
al piccolo 
castello di Eloisa, alla Ciambrina, 
la minuscola 
medina segreta e misteriosa intarsiata 
di ciottoli spuntati che schiudono 
le porte 
all’ utopia evocata dagli artisti, 
dove nelle notti di luna, negli intarsi 
absidali venati di madore adamantino, 
fa capolino 
l’anima nuda, l’aurora della vita 
e si potrà vedere l’aria e l’erba crescere 
e, nel vento che gonfia la camicia 
ed accarezza il petto, le ancore levare. 
I sogni, nervosi tentacoli barbicati 
di gemme ascellari, sono sempre 
più importanti di chi li ha generati. 

Pino Giacopeli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 45-46.