Gaetano Salveti – P.O.W. 358483 poesie disperse – Ragusa, CDE, 1990, pagg. 48.
Salveti ha al suo attivo numerosissime pubblicazioni, tra le più recenti ricordiamo: Il caso Lucifero (prefazione di Giacinto Spagnoletti, 1982 ) e Il vento delle Pasque del 1989. Inoltre, sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, e ciò dimostra l’internazionalità di questo poeta e critico letterario. E ancora Dimenticanze e successi ingiustificati – Cosenza 1983; Il trapianto dell’io – Palermo 1989; Elogio all’ipotesi – terza edizione Maiori, 1986. Al momento è Segretario Generale dell’Associazione Critici Letterari Italiani e Segretario Generale dell’Union Europèenne des Artistes, des ècrivains et Hommes de Science.
La sua ultima silloge raccoglie poesie inedite, scritte quando si trovava prigioniero in Mrica, durante la seconda guerra mondiale, ed era appena all’inizio della sua attività creativa.
I versi che compongono ogni singola immagine di ricordi così particolari e terribili si trattengono sullo scritto lievemente, quasi volessero disintegrarsi nel tempo. Tuttavia queste immagini riescono con estrema lucidità ad essere solide, compatte presenze guidate da un caratterizzante essenzialismo che determina il quadro, quanto mai esauriente delle emozioni vissute, senza l’assillo di un possibile ritorno ad una estensione temporale del passato. Dunque, l’evolversi del pensiero corre sul filo dipanato della memoria, sviluppando una serie coordinata di frammenti esistenziali alternanti tra la vita quotidiana nel lungo momento della guerra e il vissuto normale e felice all’interno del nucleo familiare, idealizzato come un sogno mitico, un Eden perduto, ma forse ancora recuperabile, sotto forma di energia, stimolo continuo per non smarrire l’esatto svolgimento della ragione, sopra ogni probabile demoralizzazione psichica:
«…Frammenti! degli amici, degli studi della casa dei giorni più felici. .. È triste dimenticare le cose consuete…» (Frammento di Sempione).
La figura di Serapione (non è altri che il poeta) ci conduce attraverso il racconto utilizzando, nelle situazioni descritte via via, un sottile velo sensitivo che ricopre con garbo e con maestria il contenuto assemblaggio di protagonisti, siano essi uomini, luoghi o paesaggi che non sono separati nettamente in categorie ma si mescolano con naturalezza. «Venne e parlò: son io. Poi chiuse le palpebre e gridò: son io. Quindi si copri di un velo e scese nel deserto…» (Memoria per il capitano Gibardi).
L’ambiente che ospita il confronto delle armi, non è un sito poi così ostile e ciò è dimostrato dalla delicatezza con cui l’autore descrive alcuni particolari: «Notte di oriente lucidità del prodigio… Deserto di dolcezze a questa landa dolcezze di risacche colonne pensili di mare…» (Il mio golfo).
Le bellezze che catturano lo sguardo anche soltanto per qualche istante, suscitano un lirismo che però si spegne quasi immediatamente nella cruda certezza bellica: «Cimiteri marini e paesi per sempre abbandonati…» (Il mio golfo).
Il desiderio di dimenticare la condizione attuale, non accettata perché non voluta, trascina il malinconico fragore dei pensieri, che sciabolano senza tregua dalla terra natia («Risale dalla notte il tuo ricordo terra natia, tenero paese festose campagne di ciliegi a rosse lune» (Casa quadrata), al naufragio interiore nella consapevolezza di aver sprecato gli anni migliori, quelli più importanti: «Sopra
specchi immoti di deserto… passi stanchi, memorie, galoppo di cavalle sul Volturno sentieri di lichene e capelvenere giovinezza che sfuma nella guerra…» (Solitudine).
Il deserto, menzionato quasi ossessivamente è il simbolo immoto della solitudine e del rimpianto, ma anche la denuncia di uno “status” di «soldato perduto nel deserto» (Ricordi) che oppone resistenza, rifugiandosi in un turbinio di passato-futuro, alla ricerca di una dimensione più chiara dell’essere umano: «E tu, invecchiato precoce Serapione cerca dell’uomo il giorno che ti manca» (Ricerca).
La poesia si scioglie con cadenza espressiva del linguaggio, costruito tramite una sobrietà fraseologica, molto efficace. «La rocca diruta, l’altare abbandonato, la cresta dei merli…» (Elegia alla noia).
È rilevabile il misto compendio di aspirazioni varie, che annoverano anche l’evenienza di tollerare positivamente persino la noia, come un utile antidoto per l’oblio: « Meglio la dolce, amabile noia… la voce che tutto fa uguale» (Elegia alla noia).
La reclusione sembra confinare in un limbo preordinato, privo di visibile perimetro, l’autore e i suoi compagni. L’unica traccia che riporta un alito di vita è il discontinuo mutamento atmosferico e i rumori circostanti. «È passato il ghibli sulle tende. Viene dal Nilo la frescura della sera il canto del jellàh, il rumore del biroccio sulla strada» (Negritudine 4).
Una ridda di sembianze eteree che interrompono il silenzio appassito della segregazione.
I carcerieri si allineano ad un segmento di riflessa similitudine con il quadrante fisico e spirituale dell’autore. Infatti la frase «s’annera tra i negri della muta» offerta in diverse versioni si trasfigura in una triste litania, anticamera del lamento isolato, che assurge a mesta preghiera ormai priva di speranza.
P.O.W. 358483 (non a caso il titolo del libro) è una sigla, un numero che contrassegna il poeta e lo accompagna per tutta la permanenza nel campo di prigionia. La guerra, atroce e diabolica invenzione, riduce l’uomo ad un semplice numero: questa la drammatica realtà che viene sempre imposta con la forza, mascherandola come unica soluzione per risolvere i conflitti sociali. Ma la contiguità degli elementi presi in esame provoca una combinazione in perfetta armonia. Il narratore si confonde con il narrato in una fusione mistica che coinvolge il lettore, pur senza l’ausilio dei rituali formalismi, di solito utilizzati da certi reduci che esaltano, simili a “novelli rambo”, la “falsa gloria” degli eventi.
Questo non è certo Salveti per il quale la composizione diventa un felice pretesto, che nonostante l’argomento trattato, non si chiude alla lettura delle riflessioni, ma assimila nel contesto globale, altre e nuove aperture tematiche. L’attualità della raccolta ne è la conferma, l’autore va oltre il significato primario del poetare, in quanto affronta, con l’elasticità tipica “dell’incessante navigatore di parole”, l’itinerante letterario.
La semplicità del segno non soffre di scalfiture provocatorie, ma vuole essere il commento pulito di una frase storica appartenente ad ogni individuo, al di là del fatto generazionale, che avverte comunque la necessità, l’esigenza di una continua analisi delle azioni e dei comportamenti umani, affinché possa concretizzarsi in un “presente-futuro immediato” la capacità dell’uomo di vivere un rapporto sereno e civile con i propri simili e con il territorio,
Maria Giovanna Cataudella
Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 53-55.