F. Hoefer, Senza partitura – diario poetico dall’ U. R. S. S., Ragusa, Ed. Duemila, pagg. 58.

L’ultima raccolta del poeta empedoclino si evolve con graduale e visibile intensità affettiva che confluisce in una vera e propria «dichiarazione d’amore» a quello terra così sterminata e così lontana che è la Russia, quasi fosse un mondo di favole oltre l’umana dimensione, un mondo sospeso eternamente fra antichissime tradizioni che accen- dono la fantasia e una realtà immu- tabile. avvolta nel mistero.

Tramite un’impalpabile velina di «metafisica respiro», l’autore rivela i sentimenti ispirati da luoghi, imma- gini e situazioni, realizzando undiario di viaggio sospinto senza forzature dell’anima, intrepida e instancabile moderatrice di emozio-ni. Il titolo stesso del libro ne è il segno premonitore, che indica come la spiritualità poetica sia sciolta da qualsiasi costrizione lirica per librarsi nella marea di motivazioni psicologiche che agiscono sull’impulso creativo.

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 78




 Una poesia essenziale 

Lucio Zinna. Bonsai, Palermo – Sao Paulo, Ila-Palma, 1989, pagg. 56. 

Esiste un filo conduttore tra le opere precedenti e quest’ultima, attraverso il quale si evolve un discorso continuativo. il cui sviluppo graduale permette all’autore di presentare, in maniera ampia e completa, le problematiche esistenziali, verificate però allargando l’indagine conoscitiva verso uno spazio vivente più vasto, varcando così definitivamente la cortina di silenzio che protegge i pensieri, privatizzati dalla paura di scoprirsi e di scoprire le proprie debolezze. 

Tramite l’analisi accurata di situazioni e di vicende personali, il poeta giunge, dopo ulteriori riflessioni, ad un riscontro dalle caratteristiche universali quanto mai evidenti. È un perpetuo travaso di lucide e razionali conclusioni, viaggianti su un binario unico, che inizia e finisce senza fermate secondarie. Si tratta della ricerca di nuove formule, per mescolare e coordinare le parole, ottenendo, con manovre da abile alchimista, uno stile raffinato, di grande effetto compositivo e terminologico. Esso rende la poesia essenziale, depurandola da inutili e superflui involucri strutturali, che, di norma, la appesantiscono con zavorra, utilizzabile soltanto per il galleggiamento persistente, di certe tendenze e correnti letterarie ormai stantìe. Ma l’elaborazione operata dall’autore, se da un lato rende agile e scorrevole la scrittura, raccogliendo valide ipotesi di sempre nuove sperimentazioni logiche, dall’altro propone una poesia che, al primo impatto, sembra fredda, difficile, chiusa, ma, dopo una successiva e attenta lettura, rivela aspetti di notevole interesse. S’insinua tra i versi una sottile e discreta velatura intellettuale, tessuta nel tempo con pazienza e tenacia, del resto, alquanto naturale, considerata la costante e ininterrotta permanenza del poeta, nell’ambiente letterario. 

Si aggiunga anche il persistere di un leggero strato d’ironia. addolcito dai ricordi, ricostruiti e rivisitati insieme ad alcuni avvenimenti legati al mal risolto meridionalismo, o meglio, meridionalità, tanto pesante da sopportare perché sempre imposta dall’alto, un’isola dentro l’isola, dove si attende ancora la libertà dai cosiddetti liberatori-conquistatori, senza capire che è necessario trovare dentro di sé la capacità di liberarsi ( «Preghiera per i liberatori»). 

Il simbolismo è un’altra arma, sciorinata dall’autore per mettere a fuoco quelle che sono le caratterizzazioni umane, cercando una possibile classificazione («Gli irreversibili»). Ma il rivelare le gelide e ostiche realtà della vita, accende il desiderio di fuggire in una ipotetica «Casablanca», giardino, eden di «Palmizi bianchi» e «Bianchi palazzi» dove si confonde il passato vissuto, con la voglia di vivere, seppur meno intensamente l’improvviso flash nella memoria di rievocazioni frammentarie, che impreviste tornano, ospiti del pensiero, sotto forma di brevi ritratti, istantanee riviste in piccole sequenze alternate. Restare dunque, e affrontare l’enorme cosmo cittadino, vivere, e sentirsi in trincea tutti i giorni, immersi in questa urbana follia, oppure scappare? È difficile fare una scelta, sempre che esiste ancora la possibilità di scegliere. Per Zinna il dilemma continua, forse non c’è soluzione, forse bisognerebbe invertarla, ma non è detto che in seguito il poeta non ci riesca. 

Maria Giovanna Cataudella 

da “Spiragli”, 1990, n. 1 – Recensioni 




Rossano Onano, Inventario del motociclista in partenza per la Parigi-Dakar, Ediz. Tracce, 1991 – Pagg. 54.

L’anello di congiunzione che collega la produzione poetica di Onano (Gli umani accampamenti – 1985; L’incombenza individuale – 1987) è la figura femminile, a tratti smembrata, analizzata sino all’inverosimile (….sullo scoglio tormenta la sirena / la chioma azzurra: vanno i capitani / di barche a vela con la stiva piena / di tesori, tarocchi, alberi nani / rari; pesano i pegni per le bianche braccia… »). Si distingue un gioco di parole e sensazioni, rimescolate con sagace ironia che raggiunge l’effetto direzionale cercato,voluto con energia e decisione, usando armi sempre diverse e pur uguali nel contesto generale del comporre lirica .coscienziosamente trasgressiva», non delimitando altresì nessun tipo di frontiere ideologiche, trasmigrate nell’evolversi del pensiero cosmico, .circonciso» in una esclusività propria, con ampio margine del .consenso inconscio». 

L’allegoria nasce spontanea, una naturale tendenza al convincimento -ermetico» del .dire» (•…A pensarci. sono tenuti a corrispondere / il toporagno e la cavolaia: peccato / quell’ultimo anno di lei, finalmente / provveduta di ali bianche… »), offrendo curiosità e intrigante penetrazione nella teoretica mentale del giudizio umano, non trascendendo dal divenire ricerca obiettiva. rigorosa verifica -dell’elaborare», nel segreto comparto dell’io» non disgregando il senso della realtà, mai sfuggita oltre le sembianze ottenebranti di immagini congiuntive della memoria. 

Notevole l’impegno essenziale nei versi, accerchiati senza il vizio della noia e del ripetitivismo. La continuità di una efficace indagine della .nuda. e dunque -vera» espressione dialettica, non cede il passo alla regressione accettazione di .stanca tolleranza» terminologica. 

Il lavorio di -ape operaia. non conosce soste per questo autore. mai pago del suo raggiunto .stile programmatico., così -dissimile’ nell’essere propagazione interconnettiva del frasario generico usato dai più. 

La trasparenza del dettaglio non si identifica nell’equiparare stemperare rivelazioni dogmatiche. 

Il creare poesia resta, dunque, sorgente inopinabile. al di là delle -personificazioni oggettive» usate per caricare di accattivante affermazione la silloge (il re Salomone. Cavalcanti, Angiolieri. ecc.). 

Il tabù psicologico, che frena e livella ogni nostra azione verso noi stessi e gli altri, contribuisce a -intossicare. il rapporto d’interdipendenza con la vita, unica alternativa alla -vegetanza intrappolata» in cui ci dibattiamo come animali feriti, prossimi alla mattanza, per cui, il -Totem», intorno al quale ruota l’esigenza morale e sincera dell’individuo, viene demonizzato e in più reso idoneo a simboleggiare l’unica e l’ultima barriera alla follia (….il totem contrappone un silenzio ostinato ai nostri / balli rituali (per vecchie beghe di famiglia, furti / di mele, che noi daremmo dimenticati). Questa/ intraprendenza, sospettiamo, viene intesa con qualche insufficienza….). 

La mutazione progressiva di Onano come uomo e come poeta si protende con graduale lotta indirizzata ai due fronti, prospicienti -punte di attacco». Ma altri -orientamenti interiori. attendono e contendono l’autore che viaggia -senza bagaglio» nel tunnel dell’esistenza spirituale mai disgiunta dalla materia, così utile e importante oggetto comparativo. 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 60-61.




Il contrassegno del poeta 

Gaetano Salveti – P.O.W. 358483 poesie disperse – Ragusa, CDE, 1990, pagg. 48. 

Salveti ha al suo attivo numerosissime pubblicazioni, tra le più recenti ricordiamo: Il caso Lucifero (prefazione di Giacinto Spagnoletti, 1982 ) e Il vento delle Pasque del 1989. Inoltre, sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, e ciò dimostra l’internazionalità di questo poeta e critico letterario. E ancora Dimenticanze e successi ingiustificati – Cosenza 1983; Il trapianto dell’io – Palermo 1989; Elogio all’ipotesi – terza edizione Maiori, 1986. Al momento è Segretario Generale dell’Associazione Critici Letterari Italiani e Segretario Generale dell’Union Europèenne des Artistes, des ècrivains et Hommes de Science. 

La sua ultima silloge raccoglie poesie inedite, scritte quando si trovava prigioniero in Mrica, durante la seconda guerra mondiale, ed era appena all’inizio della sua attività creativa. 

I versi che compongono ogni singola immagine di ricordi così particolari e terribili si trattengono sullo scritto lievemente, quasi volessero disintegrarsi nel tempo. Tuttavia queste immagini riescono con estrema lucidità ad essere solide, compatte presenze guidate da un caratterizzante essenzialismo che determina il quadro, quanto mai esauriente delle emozioni vissute, senza l’assillo di un possibile ritorno ad una estensione temporale del passato. Dunque, l’evolversi del pensiero corre sul filo dipanato della memoria, sviluppando una serie coordinata di frammenti esistenziali alternanti tra la vita quotidiana nel lungo momento della guerra e il vissuto normale e felice all’interno del nucleo familiare, idealizzato come un sogno mitico, un Eden perduto, ma forse ancora recuperabile, sotto forma di energia, stimolo continuo per non smarrire l’esatto svolgimento della ragione, sopra ogni probabile demoralizzazione psichica: 

«…Frammenti! degli amici, degli studi della casa dei giorni più felici. .. È triste dimenticare le cose consuete…» (Frammento di Sempione). 

La figura di Serapione (non è altri che il poeta) ci conduce attraverso il racconto utilizzando, nelle situazioni descritte via via, un sottile velo sensitivo che ricopre con garbo e con maestria il contenuto assemblaggio di protagonisti, siano essi uomini, luoghi o paesaggi che non sono separati nettamente in categorie ma si mescolano con naturalezza. «Venne e parlò: son io. Poi chiuse le palpebre e gridò: son io. Quindi si copri di un velo e scese nel deserto…» (Memoria per il capitano Gibardi). 

L’ambiente che ospita il confronto delle armi, non è un sito poi così ostile e ciò è dimostrato dalla delicatezza con cui l’autore descrive alcuni particolari: «Notte di oriente lucidità del prodigio… Deserto di dolcezze a questa landa dolcezze di risacche colonne pensili di mare…» (Il mio golfo). 

Le bellezze che catturano lo sguardo anche soltanto per qualche istante, suscitano un lirismo che però si spegne quasi immediatamente nella cruda certezza bellica: «Cimiteri marini e paesi per sempre abbandonati…» (Il mio golfo). 

Il desiderio di dimenticare la condizione attuale, non accettata perché non voluta, trascina il malinconico fragore dei pensieri, che sciabolano senza tregua dalla terra natia («Risale dalla notte il tuo ricordo terra natia, tenero paese festose campagne di ciliegi a rosse lune» (Casa quadrata), al naufragio interiore nella consapevolezza di aver sprecato gli anni migliori, quelli più importanti: «Sopra 

specchi immoti di deserto… passi stanchi, memorie, galoppo di cavalle sul Volturno sentieri di lichene e capelvenere giovinezza che sfuma nella guerra…» (Solitudine). 

Il deserto, menzionato quasi ossessivamente è il simbolo immoto della solitudine e del rimpianto, ma anche la denuncia di uno “status” di «soldato perduto nel deserto» (Ricordi) che oppone resistenza, rifugiandosi in un turbinio di passato-futuro, alla ricerca di una dimensione più chiara dell’essere umano: «E tu, invecchiato precoce Serapione cerca dell’uomo il giorno che ti manca» (Ricerca). 

La poesia si scioglie con cadenza espressiva del linguaggio, costruito tramite una sobrietà fraseologica, molto efficace. «La rocca diruta, l’altare abbandonato, la cresta dei merli…» (Elegia alla noia). 

È rilevabile il misto compendio di aspirazioni varie, che annoverano anche l’evenienza di tollerare positivamente persino la noia, come un utile antidoto per l’oblio: « Meglio la dolce, amabile noia… la voce che tutto fa uguale» (Elegia alla noia). 

La reclusione sembra confinare in un limbo preordinato, privo di visibile perimetro, l’autore e i suoi compagni. L’unica traccia che riporta un alito di vita è il discontinuo mutamento atmosferico e i rumori circostanti. «È passato il ghibli sulle tende. Viene dal Nilo la frescura della sera il canto del jellàh, il rumore del biroccio sulla strada» (Negritudine 4). 

Una ridda di sembianze eteree che interrompono il silenzio appassito della segregazione. 

I carcerieri si allineano ad un segmento di riflessa similitudine con il quadrante fisico e spirituale dell’autore. Infatti la frase «s’annera tra i negri della muta» offerta in diverse versioni si trasfigura in una triste litania, anticamera del lamento isolato, che assurge a mesta preghiera ormai priva di speranza. 

P.O.W. 358483 (non a caso il titolo del libro) è una sigla, un numero che contrassegna il poeta e lo accompagna per tutta la permanenza nel campo di prigionia. La guerra, atroce e diabolica invenzione, riduce l’uomo ad un semplice numero: questa la drammatica realtà che viene sempre imposta con la forza, mascherandola come unica soluzione per risolvere i conflitti sociali. Ma la contiguità degli elementi presi in esame provoca una combinazione in perfetta armonia. Il narratore si confonde con il narrato in una fusione mistica che coinvolge il lettore, pur senza l’ausilio dei rituali formalismi, di solito utilizzati da certi reduci che esaltano, simili a “novelli rambo”, la “falsa gloria” degli eventi. 

Questo non è certo Salveti per il quale la composizione diventa un felice pretesto, che nonostante l’argomento trattato, non si chiude alla lettura delle riflessioni, ma assimila nel contesto globale, altre e nuove aperture tematiche. L’attualità della raccolta ne è la conferma, l’autore va oltre il significato primario del poetare, in quanto affronta, con l’elasticità tipica “dell’incessante navigatore di parole”, l’itinerante letterario. 

La semplicità del segno non soffre di scalfiture provocatorie, ma vuole essere il commento pulito di una frase storica appartenente ad ogni individuo, al di là del fatto generazionale, che avverte comunque la necessità, l’esigenza di una continua analisi delle azioni e dei comportamenti umani, affinché possa concretizzarsi in un “presente-futuro immediato” la capacità dell’uomo di vivere un rapporto sereno e civile con i propri simili e con il territorio, 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 53-55.




G. Stecher, Album, – Editrice Il Vertice, Palermo, 1991, pag. 32.

Leggendo i versi della Stecher (vive e lavora a Messina. Collabora alla terza pagina della Gazzetta del Sud, ha pubblicato: “Dialoghi e Soliloqui” – Firenze 1978-; “Qualcosa di sbagliato”- Palermo 1981-; “Non la terra” Palermo 1983-; “Quale Nobel Betuna” -Palermo 1986-; sue poesie sono presenti in riviste ed antologie sia italiane che estere) è quasi del tutto naturale immaginarsi l’autrice seduta alla sua scrivania, intenta a raccogliere da vecchie e ingiallite foto d’epoca il ricordo, l’emozione, il pensiero svanito nel tempo. Gli affetti familiari sono “la culla primordiale” del nostro “crescere”, della nostra personalità, e se vissuti in serena simbiosi, offrono spunti incredibili per itineranti “trasmissioni” della memoria, ricco forziere di possibili animazioni sensitive, lontane dal freddo pragmatismo psicologico. Non basta rivelare come preistorico florilegio gli episodi genealogici, per coinvolgere con la poesia chiunque voglia soffermarsi sull’idillio elegiaco di un “artista delle parole”. Occorre (come fa la Stecher) “creare” atmosfere, veri teatri di posa dove gestire la regia del “raccontare”, con la naturale conversione di attenti, precisi riferimenti storici e sociali che navigano “oltre” il tema privato, in un armonico, coerente “spazio architettonico” dove l’eterogeneità dei singoli componenti non agisce come elemento di disturbo. Un “campo lungo” che si rivolge a se stesso, estraendo l’io narrante per adagiarlo su una base speculare, adatta all’interpretazione diretta dello spirito introspettivo, ultimo anello della catena, ma assolutamente fondamentale. Le assonanze ironiche, terse freddure logiche, aggiungono lo stile denominativo, che puntualizza senza errore il temperamento “stecheriano” (“… La tua incuranza fu la loro penai perché non c’è peggio per i polli / che di veder fuggire un prigioniero”. – Foto di mia madre-). 

Da non dimenticare la minuzia, il gioco sottile del “particolare”, non sempre legato ad un oggetto ma spesso identificato con l’atteggiamento specifico, che attira l’attenzione selettiva e sagace (non per questo discriminante) della poetessa, abile nelle sortite dialoganti con l’ampio carnet dei personaggi presi in esame. 

Questa miscelante rappresentazione del nucleo domestico, lascia nel lettore un vago profumo di cose perdute. Evanescenti essenze mai svaporate dalla ciclica e intermittente “danza delle ore”. Ingranaggio di percezioni che non “corrodono” la temporalità poetica dell’autrice. Lucida e reale evocatrice del proprio lirismo. 

Maria Giovanna Cataudella

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pag. 79




F. Hoefer, Senza partitura – diario poetico dall’ U. R. S. S., Ragusa, Ed. Duemila, pagg. 58.

Quest’ultima raccolta di poesie di F. Hoefer si evolve con graduale e visibile intensità affettiva che confluisce in una vera e propria “dichiarazione d’amore” a quella terra così sterminata e così lontana che è la Russia, quasi fosse un mondo di favole oltre l’umana dimensione, un mondo sospeso eternamente fra antichissime tradizioni che accendono la fantasia e una realtà immutabile, avvolta nel mistero. Tramite un’impalpabile velina di “metafisico respiro”, l’autore rivela i sentimenti ispirati da luoghi, immagini e situazioni, realizzando un diario di viaggio sospinto senza forzature dall’anima, intrepida e instancabile moderatrice di emozioni. 

Il titolo stesso del libro ne è il segno premonitore, che indica come la spiritualità poetica sia sciolta da qualsiasi costrizione lirica, per librarsi nella marea di motivazioni psicologiche che agiscono sull’impulso creativo. Eppure non è eluso, neanche per un istante, quel tratteggio ironico che caratterizza Hoefer, misto il più delle volte ad una malinconica briciola di amarezza, mai esaurita. 

G. M. Cataudella

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 78.

 




Carmelo Pirrera – La farfalla di Brodsky. Ediz. Il Vertice, Palermo, 1992, pag. 91.

Carmelo Pirrera (nato a Caltanissetta nel 1932 ma vive a Palermo) è un autore versatile che ama «distribuire- il proprio estro grafico nei diversi settori della scrittura (la poesia, la narrativa e la critica), senza subire alcuna difficoltà di impostazione. In questa epoca letteraria dai labili e scadenti «costumi creativi» spacciati per «genialità di pensiero» è un fatto raro, degno di attenzione. 

Tra le numerose pubblicazioni segnaliamo: Racconti: Il colonnello non vuole morire – Palermo 1978: Poesie: Il miele di maggio Itinerario antologico – Palermo 1985; Pergamo la cenere – Palermo 1986. 

C’è da aggiungere la collaborazione di Pirrera con riviste specializzate e l’impegno con cui dirige una casa editrice siciliana (in particolare una collana di «presenze nella poesia») per la quale ha realizzato alcune raccolte antologiche, inoltre, le sue poesie sono state tradotte in svariate lingue. Questa ultima silloge ha registrato notevoli riscontri positivi. 

Il libro, suddiviso in varie e ordinate argomentazioni che hanno una loro precisa collocazione strutturale, permette una lettura scorrevole e coordinata. La composizione sviluppa il suo reticolo lirico traendo origine dal ricordo. La memoria, con l’infinito bagaglio di immagini remote, accende la mente che si abbandona all’onda costante del confuso smembrarsi di episodi, sentimenti, persone e sensazioni riemersi improvvisamente dal silenzio più profondo dell’anima. Il passato e il presente si «attraversano», incrociando un muto e onnipresente ascoltatore («l’altro io»), sicuro e indiscusso giudice del «muoversi» quotidiano nel bene e nel male. 

«Esigenza dialogante» primaria per il poeta che rievoca senza tregua, in uno sfogo intimo e solitario, la metafora trascendentale dell’essere, lievitando così in un possibile sollievo spirituale. Anchise, personaggio emblematico, controfigura dell’autore che aleggia in tutta la raccolta («Da vecchio, Anchise riscoprì le lacrime ed il gusto del pianto. Il miele era ricordo di una bocca e di seni di luna, ed era già finito quando sciami d’api scesero a pungerlo negli occhi»). Definisce il modulo tecnico della comunicazione espressiva, non necessariamente legata al verso, stimolando il metodico sciogliersi di un «canto» spontaneo che sommerge il volo radente delle parole, in perfetta simmetria con il «suono» grammaticale. 

Ma figure evanescenti appaiono e scompaiono in un silente e ininterrotto colloquio con il poeta (•.. .Inutile tirarsi il lenzuolo sulla faccia. Mi stanno guardando tacendo È per orgoglio. soltanto per orgoglio. che resisto alla voglia di urlare il mio disappunto per questa invasione improvvisa e per questa nuova violenza…» “Gerontion”). 

Come uno «specchio animato» le percezioni più nascoste ed invisibili della coscienza accennano un ritorno, per essere considerate nel loro intento persuasivo alla riflessione. anticamera di un probabile cambiamento. Non è facile riuscire «sempre» a rimuovere le paure, i dubbi e i timori che «intossicano» con la loro rutilante presenza la vita. La realtà non è certo elusa da Pirrera, che denuncia le «manipolazioni politiche» costruite dall’uomo per avvelenare il libero arbitrio dei propri simili («…non c’erano più rami di mimosa / né ventagli di seta. / ma parole / solo parole di scontata cenere / che crescevano dentro come pena…. “Guernica”) («…scende la barca. / il fiume grigio e pigro. / Il sonno non ci condurrà le fate / ma visioni di piazze-mattatoio…» “Ikebana”). 

Il fiore della libertà ha il diritto di sbocciare ovunque sia richiesto, desiderato come riscatto per una civile e armoniosa coesistenza sociale. È dunque irrimediabile solitudine, quella che accompagna il proficuo dibattito interiore dell’autore, un granello di sabbia nel mare delle intemperanze. 

Purtroppo, il messaggio di contenuti racchiuso nella poesia è nella maggioranza dei casi, «la voce» che si perde nel deserto dell’indifferenza collettiva. 

Maria Giovanna Cataudella 

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 56-57.