La radice psico-sociale della responsabilità in B. Croce 

 Parlare di radice psico-sociale della responsabilità in Benedetto Croce, potrebbe far pensare a qualcosa che contrasti frontalmente con il suo noto antipsicologismo. In realtà non è così se si tiene bene presente l’esatto significato dell’antipsicologismo emergente nel pensiero crociano. Al riguardo sembra particolarmente illuminante quanto lo stesso Croce ha modo di puntualizzare in Filosofra della pratica: «Nel rifiutare ripetute volte… il metodo psicologico, siamo stati bene attenti ad aggiungere le frasi di cautela: “metodo filosofico-psicologico”, “metodo speculativo-descrittivo” e simili, perché si avvertisse che la nostra ostilità era contro quel miscuglio, ossia contro l’intrusione di quel metodo nella filosofia, ma non contro la Psicologia stessa»l . 

Come si può agevolmente rilevare, la polemica del Croce non è contro il “metodo psicologico” o la psicologia senz’altro, ma contro la confusione che a volte si tende a fare tra psicologia e filosofia o, per usare la stessa espressione del Croce, contro il loro indebito “miscuglio” emergente ogni volta che si giudica possibile un «passaggio dall’empiria (nel caso la psicologia) alla filosofia»2 , quasi che l'”empiria” possa essere «affinata…a filosofia»3. 

Per quanto si voglia “affinare” la psicologia (giusto per stare a ciò che qui particolarmente ci interessa), questa non potrà mai tramutarsi in filosofia, per il semplice motivo che appare finalizzata ad un obiettivo specificatamente diverso da quello della filosofia: ha per scopo infatti, secondo il Croce, «di ordinare e classificare in qualche modo le infinite intuizioni e percezioni…e di ridurle a schemi pel più facile possesso e maneggio»4, non di risalire alla loro intrinseca ultima scaturtgine, e quindi «di investigare i principio»5. La filosofia, invece, si propone proprio quest’ultima cosa6 : ha, infatti, per oggetto lo stesso Spirito universale concreto, inteso come principio immanente del reale, “omnirappresentativo” e “ultrarappresentativo”7 insieme, «autocoscienza che genera e regge la conoscenza»8, ossia come ciò che, una volta intravisto nella sua intrinseca vitalità, consente di intendere il reale storico concreto come progressiva 

attuazione di questa sua vitalità, e più segnatamente delle categorie (=estetica-logica-economia-etica) che ne scandiscono le varie direzioni. 

Insomma, si potrebbe dire sinteticamente che, mentre la filosofia abborda il reale alla sorgente (e cioè lo indaga a partire dalla sua intrinseca scaturigine), la psicologia (come ogni altra scienza empirica) lo abborda alla foce (limitandosi a “ordinare e classificare” quanto da quella sorgente emana), conseguentemente con finalità teoretiche (la filosofia) e pratiche (la psicologia). Si tratta, pertanto di due discipline ugualmente giustificate, distinte però per natura e, in quanto tali, irriducibili l’una all’altra. 

Questa distinzione, tuttavia, non significa, né può significare l’esclusione di reciproci e complimentari influssi tra le due discipline: esse, infatti, se da una parte appaiono distinte e inconfondibili tra loro, dall’altra non possono non rivelarsi strettamente connesse nella circolarità dello spirito di cui esprimono due diverse e ineliminabili esigenze vitali. 

L’analisi crociana della responsabilità rappresenta un significativo e concreto esempio di questa distinzione e, insieme, complementarietà tra filosofia e psicologia: si tratta, nel caso di un’analisi in sé tipicamente psicosociologica, subordinata, però, a un “tutto” altrettanto genuinamente filosofico. 

Ciò precisato, possiamo tentare di puntualizzare brevemente l’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità. In Etica e politica il Croce, nell’intento di chiarirci il suo pensiero al riguardo, dopo avere accennato alle discussioni circa la libertà di arbitrio da parte dei deterministi e dei difensori di tale libertà, sottolinea l’inutilità di una simile polemica in quanto verterebbe circa un problema mal posto e come tale inesistente. L’errore qui, secondo il Croce, sta nel contrapporre come inconciliabili tra loro libertà e necessità, con l’ovvia conseguenza di negare o la libertà (è il caso dei deterministi) o la necessità (è il caso dei difensori del libero arbitrio): elementi ugualmente caratterizzanti dell’atto volitivo in sé considerato. 

Libertà e necessità – precisa il Croce – non sono due elementi contrapposti, inconciliabili tra loro, ma al contrario sono a tal punto collegati che, se esaminiamo a fondo la cosa, dobbiamo concludere con l’identificarli. La libertà coincide con la necessità, e consiste nell’agire conforme a quello che si è momento per momento. «Azione libera – così il Croce – è quella che il nostro spirito crea perché non potrebbe crearne altra, l’azione pienamente conforme all’essere nostro nella situazione determinata»9. Ciò «è comprovato – soggiunge – dalla forma perfetta del conoscere, il conoscere storico, nel quale le azioni sono spiegate, qualificate e intese, ma non lodate o condannate, e non vengono riportate agli individui come a loro autori ma al corso storico, del quale sono aspetti»10, cioè queste azioni «non vengono lodate o condannate» appunto perché, in ultima analisi, esse trovano la loro scaturigine in qualcosa che è al di sopra dei loro autori, e cioè precisamente in uno stato di necessità a cui questi ubbidiscono. 

Del resto la «stessa cosa – sottolinea ulteriormente il Croce – traluce nella tante volte notata molestia dei grandi, consapevoli di essere stati strumenti di qualcosa che li supera»11 e addirittura «nella candidezza di certi scellerati, che affermano che hanno dovuto fare quello che hanno fatto e non potevano non fare, ubbidendo a una necessità»12. 

Ma se la libertà coincide con la necessità, come si può parlare di responsabilità? «La risposta – dice Croce – è semplicissima: non si è responsabili, e chi ci fa responsabili è la società, che impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio: se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai»13. 

 

Una situazione analoga si verifica nel nostro intimo «quando poniamo un ideale o un fine» da aggiungere, e cioè quando agiamo non in rapporto a ciò che siamo momento per momento, ma a ciò che ci proponiamo di diventare: «in quell’atto stesso, ci facciamo responsabili di non adempierlo o di non averlo adempiuto» 14. Da qui il rimorso che consiste nel prendere coscienza dello stacco tra ciò che abbiamo fatto e ciò che avremmo dovuto fare in base all’ideale propostoci. Se però «dall’atteggiamento pratico, dallo sforzo di volontà intento a creare il mondo», e cioè a realizzare un cambiamento in noi e nelle cose (e quindi un “fine”, un “ideale” che ci poniamo) ci fermiamo «al puro atteggiamento teoretico»l5, ossia a ciò che siamo momento per momento, ci renderemo conto dell’irragionevolezza del rimorso su tale piano, in quanto il nostro agire, di cui «ci addoloriamo», non poteva non essere quello che è stato. Esso, infatti, corrisponde a ciò che eravamo in quel momento: «quel che abbiamo fatto – precisa appunto il Croce – rappresenta l’essere nostro»l6. 

Di responsabilità, pertanto, non si può parlare in rapporto all’atto volitivo in sé, ma solo al dovere essere: in altre parole – come il Croce spiega ulteriormente – la responsabilità «è un momento della dialettica del fare»17, cioè nasce per “fini pratici”, perché ci sia responsabilità in concreto si richiede che l’individuo «abbia la capacità di intendere quel che ha fatto e quel che da lui si chiede e si pretende»18, perché solo se «è in grado di comprendere e ragionare, ha in sé la condizione per un cangiamento volitivo»19. 

In termini alquanto diversi, si potrebbe dire che noi non siamo responsabili in rapporto al volere in sé, perché questo, considerato nella sua intrinsecità, si presenta come coincidenza di libertà-necessità e perciò come creatività, sottratta, in quanto tale, ad ogni deliberazione (proprio come analogamente avviene per l’espressione estetica in rapporto al sentimento su cui nasce20. Siamo. però, responsabili in rapporto a quella che è la base di questo nostro volere (e cioè il nostro essere concreto), in quanto è nelle nostre possibilità modificarla, incanalandola in una direzione consona all'”ideale”, al “fine” che ci viene imposto dalla società o anche da noi stessi (che siamo poi società immagazzinata), in modo che il nostro volere possa risultare opportunamente orientato nella sua creatività21 . 

Questa scaturigine psico-sociale della responsabilità, secondo il Croce, non può non gettare una luce più giusta su quello che dovrebbe essere fondamentalmente l’atteggiamento della società verso il colpevole. Anche il delinquente ha agito in conformità a ciò che è. Si tratta di portarlo (attraverso un’azione di recupero) a diventare diverso da quello che è. Il dovere della società, di conseguenza, non è tanto di punirlo, ma quanto di metterlo in condizione di cambiare se stesso. e questo tanto più che quel “se stesso” trova proprio nella società gran parte della sua spiegazione. Certo, con questo non si vuol dire che non sia giustificata la pena. Oltretutto, se di responsabilità non si può parlare in rapporto al singolo atto volitivo in sé considerato, in quanto espressione necessaria di ciò che si è, se ne deve normalmente parlare in rapporto alle eventuali manchevolezze passate che hanno consentito le attuali deformazioni di chi agisce: «la verità – dice, infatti, al riguardo Croce – è che dal cuore viene anche tutto quel male che sembra prodotto di falso vedere, perché quel falso vedere essi se lo sono foggiato coi loro sofismi»22. Anche in tal senso, però, la pena, perché sia ragionevole, non deve essere mai fine a sé: deve avere di mira di «disporre diversamente la volontà dei componenti di un complesso sociale», o, ciò che è lo stesso, deve avere «un valore energetico sulle coscienze»23. Insomma, anche nel caso della giusta pena non ci si deve mai dimenticare che – non siamo responsabili, ma siamo fatti responsabili». 

L’analisi crociana sulla scaturigine del sentimento di responsabilità non si limita solo a gettare una luce nuova sul modo più giusto di intendere la pena, ma, come è facilmente intuibile, si presenta ricca di significativi riflessi anche sul poblema psico-pedagogico concreto, specie per quanto concerne lo sviluppo della coscienza morale nel fanciullo. L’intuizione crociana, infatti, qui può significare (un po’ in analogia a quanto in grande viene affermato con la positività della storia, «mai giustiziera, ma sempre giustificatrice»24 una forte motivazione in più per sdrammatizzare gli errori di percorso del fanciullo, sgombrare il suo animo da pericolosi accumuli psicologici negativi, in modo da favorire, così, il massimo equilibrio nella formazione del suo io etico-sociale. A conclusione di questo breve accenno all’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità, sembra opportuno sottolineare che, qui, ciò che rende meritevole di particolare attenzione il discorso crociano non è tanto quello che esso si sforza di mettere in risalto, ma tanto il fatto che ciò che viene affermato, oltre che frutto di attenta analisi psico-sociologica dei fatti di esperienza, si presenta supportato dalla luce di fondamentali intuizioni filosofiche (quale, ad esempio, la positività della storia), alle quali il discorso crociano appare subordinato. 

Alberto Nave 

1.B. Croce, Filosofia della pratica, Bali, Laterza, 1973, pag. 69.
2.  Ibidem, pag. 78. 
3.  Ibidem. 
4.  Ibidem, pag. 69. 
5. Ibidem, pag. 78. 
6.  Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia. Bari, Laterza, 1973, pag. 141. 
7. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1971, pag. 16. 
8. B. Croce, Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1969, pag. 40.
9. B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1973, pag. 102. 
10. Ibidem. 
11. Ibidem. 
12. Ibidem, pag. 103. 
13. Ibidem. 
14. Ibidem. 
15. Ibidem. 
16. Ibidem. 
17. Ibidem. 
18. Ibidem. 
19 Ibidem. Circa il sottofondo teoretico su cui si delinea l’atteggiamento crociano sulla “responsabilità”, tra gli altri, cfr. anche: D. Soleri, Ubertà e moralità nella filosofia di Benedetto Croce, Reggio C., Tip.”Fata Morgana”, 1944, pagg. 11 e ss.; G. A. Roggerone, Croce e la fondazione del concetto di libertà, Milano, Marzorati 00.,1966, in particolare, pagg.220 e ss.; L. Dondoli, Benedetto Croce: intuizione, conoscenza storica e panteismo etico, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1984, segnatamente le pagg. 43-71; V. Vitiello, Etica e liberalismo nel pensiero di B. Croce, Napoli, 1964. 
20. Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1965, pagg. 57-59; come pure, sempre dello stesso Croce, Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1966, pagg. 17-30.
21 Non è superfluo sottolineare, qui, che la libertà affermata dal Croce come coincidente con la necessità è la libertà intesa rigorosamente come spontaneità: essa non ha nulla a che vedere con la cosiddetta libertà di arbitrio o di scelta, di cui il Croce non mostra interesse a discutere direttamente, sia per la nausea provocata al riguardo dalle vuote polemiche del recente passato, e sia, soprattutto, perché la presuppone cosa troppo ovvia (altrimenti non si potrebbe neanche essere “fatti responsabili”). A differenza della prima, che caratterizza l’agire in sé considerato (ossia, l’agire in quanto espressione di ciò che siamo momento per momento), la libertà di arbitrio è qualcosa che caratterizza l’agire rapportato a ciò che dovremmo essere, o anche (giusto per essere più aderenti al contesto crociano) l’agire rapportato alla dialettica del fare. 
22 B. Croce, Filosofia della pratica, cit. pag. 46 
23 B. Croce, Etica e politica, cit., pag. 104. 
B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., pag.79. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 19-24.




 L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico* alla luce di alcune involuzioni  presenti nello storicismo crociano 

l -Il problema del fondamento epistemologico e la crisi contemporanea dei valori 

Parlare dell’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico nel nostro tempo potrebbe significare (almeno da una certa ricorrente angolazione) un indebito accostamento di realtà culturali troppo diverse tra loro per poter avere qualcosa in comune da dirsi. E invece, se riflettiamo bene su quella che sembra emergere come una delle cause di fondo (se non come l’unica vera causa) della crisi di valori nel nostro tempo, e cioè sulla frattura, presente in larghi strati del pensiero contemporaneo, tra le istanze dell’essere e del divenire, della trascendenza e dell’immanenza, non sarà difficile intravedere come questa frattura si concretizzi prossimamente nell’impossibilità di assegnare un fondamento solido al conoscere in modo da sottrarlo al logorio del tempo, un fondamento solido che invece rappresenta il punto fermo di tutta l’impostazione agostiniana del problema della conoscenza, Il positivismo, lo storicismo, il neopositivismo e l’empiriocriticismo sono tra le espressioni più tipiche di questa frattura in atto nel pensiero contemporaneo e del conseguente naufragio della ragione teoretica, concretizzatosi, poi, a sua volta nel problematicismo in filosofia 

e in pedagogia, o più genericamente nel cosiddetto pensiero “post-moderno”. 

Venendo a mancare una base sicura all’attività conoscitiva, è evidente che tutto finisca, pressoché inevitabilmente, per avvolgersi nella fitta foschia di un relativismo a sfondo scetticizzante, rendendo precario in partenza ogni possibile discorso sui gravi interrogativi a cui direttamente o indirettamente appare collegata la vita umana nella molteplicità delle sue manifestazionil. 

L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico emerge drammaticamente proprio dalle insanabili contraddizioni o involuzioni (con conseguenze a tutti i livelli) in cui una considerevole parte del pensiero contemporaneo, a causa del suo rigido immanentismo, finisce, suo malgrado, 

per sfociare. 

Particolarmente sintomatiche al riguardo alcune involuzioni emergenti (sempre a proposito del problema del fondamento epistemologico) in uno dei massimi teorici della filosofia dell’immanenza del nostro tempo: B. Croce. 

2 – Alcune significative analogie tra le posizioni agostiniana e crociana sul 

problema epistemologico 

Allo scopo di intravedere meglio l’indiretto risalto che queste involuzioni finiscono per dare all’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico, sembra particolarmente opportuno iniziare col porre in evidenza una certa significativa analogia facilmente riscontrabile tra alcune tipiche affermazioni crociane circa il problema epistemologico e la nota posizione agostiniana al riguardo2. 

S. Agostino, come sappiamo, pone nell’autocoscienza il punto di partenza dell’attività conoscitiva: “iudicamus… , così infatti egli in uno dei tanti passi significativi al riguardo, secundum illas interiores regulas veritatis quas communiter cernimus: de ipsis vero nullo modo quis iudicat”3. Analogamente sembra fare il Croce nell’accennare a questo stesso aspetto del problema epistemologico: “Lo spirito è … autocoscienza che genera e regge la conoscenza”4, sottolinea infatti in FilisoJìa e storiograjia, soggiungendo più oltre che “i logici predicati”, grazie ai quali si realizza il “giudizio”, e quindi la conoscenza, “sono nient’altro che l’autocoscienza dello spirito nella dialettica delle sue eterne distinzioni”5. Per l’uno e per l’altro, poi, la conoscenza vera non solo trova nell’interiorità del soggetto il suo punto di partenza, ma anche quello di arrivo, ossia si attua essenzialmente in questa stessa interiorità del soggetto. Così S. Agostino al riguardo in un passo particolarmente sintomatico: “Conceptam rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo intus gignimus; nec a nobis nascendo discendit. Cum autem ad alios loquimur, verbo intus manenti millitrerium vocis adhibemus, aut alicuius signi corporalis, ut per quandam commemorationem sensibilem tale aliquid fiat etiam in animo audientis, quale de loquentis animo nos recedit”6. Nel De Magistro, ricollegandosi alla stessa tematica, ribadisce con particolare incisività: “Verba… admonent tantum ut quaeramus res, non exhibent ut noverimus”7. Insomma, talmente la verità si realizza nell’interiorità del soggetto che essa non può essere direttamente comunicata ad altri con le parole: si può solo provocare con il linguaggio uno stimolo a che essa nasca nell’altro, come è nata in chi parla, ossia nella sua propria interiorità. Proprio come, a sua volta ribadirà il Croce, dopo aver affermato anch’egli, e a più riprese, che la conoscenza vera si realizza unicamente nell’interiorità del soggetto, per cui “l’oggettivo” nel giudizio viene a coincidere con il “soggettivo”8: “Il vero, pensato che sia da noi, è già bello e detto (detto a noi.. .ma, quanto a dirlo o comunicarlo agli altri, l’affare è serio, tanto serio che è disperato. Il vero non è una merce che passi di mano in mano… In effetto noi non 

2. Come è risaputo, il discorso agostiniano sulla conoscenza (come per altre analogie tematiche) parte dalla filosofia e si prolunga sul piano della teologia. Noi, qui, in ottemperanza all’indole della presente breve indagine, ci proponiamo di richiamarlo in causa solo per quel tanto che esso rientra nell’ambito della ragione meramente filosofica. A scanso,poi, di pericolosi equivoci, forse non è superf1uo sottolineare che dire “analogia” non è dire “identità”, tanto meno poi annullare la radicale contrapposizione delle angolazioni da cui si guarda al problema epistemologico in S. Agostino, c nel Croce. comunichiamo mai il vero, e solamente… foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione… di ripensare quel ver che pensammo noi. .. il problema del comunicar con altrui, del parlar…non è quello di dire o non dire il vero, ma di operare su di altrui perché operi”9. 

Questa certa analogia tra la posizione agostiniana e quella crociana su alcuni aspetti del problema epistemologico si può cogliere fino all’ammissione di un fondamento atemporale del conoscere, in grado cioè di sottrarre questo al divenire. È però nella diversa collocazione logica di questo fondamento che l’analogia svanisce per dare luogo ad una contrapposizione radicale tra i due atteggiamenti di pensiero. 

3 – La collocazione teoretica del fondamento epistemologico nell’ottica agostiniana 

S. Agostino, sulla base della sua filosofia libera da ogni pregiudiziale immanentistica, non solo ha modo di affermare con sicurezza l’esistenza di un fondamento atemporale del conoscere, ma anche di dare un supporto logico coerente a tale affermazione, agganciando l’atemporalità del fondamento a un ordine ontologico trascendente. 

“Intima scientia est qua nos vivere scimus”10, così S. Agostino nell’iniziare a scavare questo fondamento trascendente del conoscere a partire dal superamento dello scetticismo accademico. Quindi, altrove, entrando più direttamente nel merito della presente tematica, dopo aver ribadito a proposito della “verità dei numeri” che essa “non è di pertinenza del senso, ma permane idealmente immutabile ed è universale nella conoscenza per tutti i soggetti pensanti”1l, soggiunge: ” cum multa alia possunt occurrere, quae communiter et tamquam publice praesto sunt ratiocinantibus et ab eis videantur mente atque ratione singulorum quorumque cernentium, eaque inviolata et incommutabilia maneant”12. 

Nel De Trinitate, ricollegando in maniera più esplicita il problema del fondamento a un ordine ontologico trascendente, ribadisce: “sublimioris rationis iudicare de istis corporalibus secundum rationes incorporales et sempiternas; quae nisi supra mentem humanam essent, incommutabiles profecto non essente” (13). Analogamente nelle Confessioni: “Quaerens, undeiudicarem.. .inveneram icommutabilem et veram veritatis aetemitatem supra mentem meam commutabilem”14. 

S. Agostino, però, non si limita solo a sottolineare questo stretto legame del fondamento epistemologico col trascendente, ma cerca anche di scandire i termini logici secondo cui intendere rettamente la cosa, senza indebita confusione tra i due presupposti piani del reale (l’immanente e il trascendente). È quanto in sintesi si può cogliere nel seguente brano, che fa seguito al rifiuto della dottrina della reminiscenza sostenuta da Platone e da Pitagora: “potius credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut rebus intellegibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta sic ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quaemadmodum oculos carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius lucis capax eique congruens est creatus”15. Si potrebbe dire con parole meno impegnative, ma più semplici, che l’uomo, come ha ricevuto da Dio l’essere, così è stato da Lui equipaggiato, nella parte spirituale, di una capacità conoscitiva tale da consentirgli di incamminarsi con sicurezza sulla strada della verità, sfuggendo in ciò alla capricciosità del divenire. 

Data questa collocazione teoretica del fondamento epistemologico, si può facilmente capire quanto S. Agostino ha modo di decantare circa la “bellezza della verità e della sapienza”: “illa veritatis et sapientiae pulchritudo”, così in uno stupendo brano del De libero arbitrio, “tantum adsit perseverans voluntas fruendi, nec multitudo audientium constipata secludit venientes… nec nocte intercipitur, nec umbra intercluditur, nec sensibus corporis subiacet… nullo loco est, nusquam deest; foris admonet, intus docet… nullus de illa iudicat, nullus sine illa iudicat bene”16. 

Come si vede, nel pensiero agostiniano si delinea un fondamento epistemologico sottratto con sicurezza al flusso del divenire in quanto strettamente collegato alla scaturigine antologica trascendente dell’essere umano. Non altrettanto, invece, è dato rilevare, come presto vedremo, nell’atteggiamento crociano al riguardo. 

4 – L’ambiguità della posizione crociana sul fondamento epistemologico 

Posizione ambigua quella del Croce, perché, mentre da una parte perviene all’affermazione di un fondamento atemporale del conoscere, dall’altra non riesce a fornirne una convincente giustificazione logica all’interno della sua tipica filosofia. Per dirla in parole più esplicite, non si può affermare un fondamento epistemologico sottratto al divenire e nello stesso tempo concludere che esso non è nulla al di là del reale immerso nel divenire. È quanto il Croce, lo ribadiamo dall’insieme sembra sostenere. Ma a questo punto conviene accennare più direttamente ai termini specifici essenziali in cui la cosa si presenta nel pensiero crociano. 

È noto come tutta la filosofia del Croce parta da un rifiuto, pressocché radicale, di ogni apertura al trascendente, un rifiuto che trova nell’affermazione dell’identità di storia e filosofia la sua affermazione teoretica più significativa: “filosofia e storia – così il Croce in uno dei passi più sintomatici al riguardo – non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura si identificano… Né la storia precede la filosofia né la filosofia la storia: l’una e l’altra nascono a un parto”17. In questa asserita identità di storia e filosofia trova la sua prossima scaturigine il tipico storicismo crociano, con la conseguente affermazione della non definitività di ogni filosofia: “nessun sistema filosofico è definitivo (così il Croce nella Filosofìa della pratica), perché la Vita, essa, non è mai definitiva”18. 

Se la filosofia si identifica con la storia, e quindi si rapporta essenzialmente al divenire immanentistico del reale, è evidente che non ci potrà essere più posto per una verità che si sottragga al logorio del tempo, in modo da rimanere come saldo punto di riferimento per l’ulteriore cammino del pensiero umano e, insieme, come sicura base per la fondazione di una morale che sfugga ad ogni rlativismo individualistico. Affermare,però, una cosa del genere avrebbe significato la vanificazione in radice di qualsiasi approccio al vero. Al Croce una cosa del genere non poteva certo sfuggire. Ed è per questo che, di fronte alla prospettiva di un inevitabile sbriciolamento del mondo della conoscenza nelle sabbie mobili del divenire, il Croce è indotto a fare delle precisazioni (al riguardo del presente problema) che, per certi aspetti, non possono non configurarsi come un chiaro (anche se implicito) ridimensionamento del suo abituale immanentismo. 

Nella Storia come pensiero e come azione, dopo aver precisato a proposito della “necessità storica” che si tratta di una necessità di ordine logico, consistente in ciò che il “giudizio, nel pensare un fatto, lo pensa quale esso è, e non già come sarebbe se non fosse quello che è… secondo il principio d’identità e contradizione, e perciò logicamente necessario”19 (il che, come è ovvio, già equivale ad ammettere qualcosa di ben più saldo al di là del divenire, in grado di giustifìcare questa necessità logica), più oltre, riferendosi più direttamente al presente problema, sottolinea significativamente: “La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha portato a negare la distinzione delle categorie del giudizio, considerate anche esse una trascendenza”20. Quindi soggiunge senza possibilità di equivoci per quanto concerne un fondamento epistemologico sottratto al divenire: “Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arricchirebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell’atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno dell’atto logico, se la categoria ‘logicità’ non fosse costante e ritrovabile in essi tutti”21. 

 

Subito dopo, allo scopo di spiegare meglio la cosa, riprendendo il discorso iniziale a proposito della “polemica contro la trascendenza”, prosegue: “quella polemica mostra aperto di essere trascorsa oltre il segno nella sua incapacità di rendere ragione del motivo di verità che… , in rapporto alla filosofia della trascendenza, consisteva appunto nell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali (buono, giusto, vero, ecc.)”22. 

Lo stesso atteggiamento si può riscontrare, sia pure in maniera per lo più solo indiretta, in numerosi altri passi. Quelli citati, però, sono senza dubbio tra i più sintomatici per la presente indagine. 

Come si può facilmente constatare, anche nel Croce emerge come indubitabile l’affermazione di un fondamento epistemologico sottratto al divenire: si parla infatti di “eterne categorie”, dell’ “esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”… Quello che però lascia perplessi è come conciliare questo fondamento epistemologico sottratto al “flusso della realtà” con la chiusura sistematica al trascendente, alla quale, sia pure con toni diversi, il Croce rimane costantemente legato. Basti pensare che perfino nel paragrafo in cui emerge il discorso circa le “eterne categorie” si parla come di qualcosa di scontato, di “errore della trascendenza”, nel quale, proprio come “in fondo ad ogni errore”, si anniderebbe pur sempre qualche “motivo di verità”, che nel caso specifico consisterebbe “nell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”23. 

È proprio per questo che abbiamo voluto parlare di “involuzioni” o di “ambiguità” nel pensiero crociano a proposito del fondamento epistemologico. 

Esula naturalmente dal nostro compito seguire fino in fondo queste involuzioni crociane. Quello che, però, preme qui ribadire è che sono proprio queste involuzioni la conferma indiretta più significativa dell’attualità della posizione agostiniana sul problema del fondamento epistemologico. Mentre infatti, da una parte, l’affermazione crociana di “eterne categorie”, e cioè “dell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”, rappresenta a distanza di secoli una significativa riprova della perenne validità dell’istanza agostiniana di un fondamento atemporale del conoscere, dall’altra parte, la mancanza di una convincente giustificazione logica di questo fondamento all’interno della filosofia crociana conferma come la direzione seguita da S. Agostino al riguardo si riveli sempre più priva di vere alternative. 

Da questi brevi accenni, pertanto, possiamo concludere che l’affermazione 

agostiniana di un fondamento trascendente dell’attività conoscitiva, il riferimento all’ultimo “sole”24 dal quale emana la flebile luce grazie a cui gli uomini sono posti in grado di impadronirsi delle sparse briciole di verità nel vortice del divenire, si configurano, oggi più che mai, come l’unica ed irrinunziabile prospettiva teoretica in grado di consentire alla ragione filosofica di sfuggire ad uno smarrimento fatale nell’interminabile notte del tempo e seguitare, così, ad assolvere alla sua funzione di illuminatrice delle umane vicende. 

Certo, si potrà discutere sul modo di calare in un linguaggio filosofico più aderente alla realtà culturale contemporanea il discorso agostiniano, ma non sulla direzione indicata dal filosofo di Tagaste per la soluzione del problema cardine della filosofia (il problema, cioè, del fondamento epistemologico): non basta, infatti, solo affermare l’atemporalità del fondamento epistemologico (come in qualche modo si può rilevare nel pensiero crociano), ma è necessario supportare questa atemporalità con il riferimento a un ordine ontologico che si collochi al di là del contingente… Almeno che non ci si voglia rassegnare ad un inevitabile frantumarsi del fondamento ipotizzato sulle sabbie mobili del divenire25. 

Alberto Nave 

L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico alla luce di alcune involuzioni presenti nello storicismo crociano 

(Traduzione dei passi in latino) 

Nota 3 (De lib. arb., p. 255): “si esprime il giudizio mediante le regole interiori della ideale verità che universalmente si intuiscono, ma di esse non si giudica assolutamente”. 

6 (De Trin., p. 379): “la conoscenza vera che grazie ad essa (l’eterna verità) noi concepiamo l’abbiamo come verbo presso di noi, un verbo che generiamo dicendolo al di dentro di noi e che nascendo non si separa da noi. Quando parliamo ad altri, restando il verbo a noi immanente, ricorriamo all’aiuto della parola o di un segno sensibile per provocare anche nell’animo di chi ascolta, mediante una evocazione sensibile, un qualche cosa di somigliante a ciò che permane nell’anima di chi parla”. 

7 (De Mag., p, 783): “le parole … ci stimolano alla ricerca dell’oggetto, non ce lo rappresentano alla conoscenza”. 

10 (De Trin., p. 657): “È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere”. 

12 (De lib, arb., p. 241): “Molte altre nozioni possono presentarsi che universalmente e quasi di pubblico diritto si rendono accessibili ai soggetti pensanti e sono intuite con atto di puro pensiero da tutti coloro che sanno intuirle, sebbene esse permangono inderogabili e fuori del divenire”. 

13 (De Trin., p.465): “è compito della ragione superiore il giudicare di queste cose corporee, secondo le leggi incorporee ed eterne. Se queste non fossero al di sopra dello spirito umano, certamente non sarebbero immutabili”. 

14 (Confess., p. 207): “nel ricercare dunque la formulazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità”. 

15 (De Trin., p. 497): “Bisogna piuttosto pensare che la natura dell’anima intellettiva è stata fatta in modo che, unita, secondo l’ordine naturale disposto dal Creatore, alle cose intellegibili, le percepisce in una luce incorporea speciale, allo stesso modo che l’occhio carnale percepisce ciò che lo circonda, nella luce corporea, essendo stato creato capace di questa luce e ad essa ordinato”. 

16 (De lib. arb., p. 261): “la bellezza della verità e della sapienza, purché ci sia la volontà di fruirne, non esclude i nuovi arrivati, anche se assediata da una moltitudine di uditori, …non si interrompe con la notte, non è intercettata dall’ombra, né soggiace ai sensi… Non è nello spazio e non manca in alcuno spazio; avverte dall’esterno, insegna dall’interno… nessuno può giudicarla, nessuno senza di essa giudica bene”. 

* L’aggettivo “epistemologico” nella presente indagine viene usato secondo la sua più estensiva accezione semantica. 
(1) Una significativa analisi delle catastrofiche conseguenze che possono derivare sul piano esistenziale, nell’era atomica, dalla mancata contemperanza delle istanze dell’essere e del divenire si può cogliere nel volume di Angela Marta Jacobelli, La responsabilità individuale nell’era atomica (Bulzoni editore, Homa, 1970), segnatamente nelle pagine dedicate all’atteggiamento jaspersiano sull’argomento.
(3) Aug., De 1ibero arbitrio, 2, 12, 34, in Opere di S. Agostino. III/2: Dialoghi, Città nuova editrice, Roma 1976, p.254. Al riguardo, degno di particolare mensionc è anche il celebre passo che si trova nel De vera religione: “Noli foras ire. In interiore homine habitat veritas” (39,75). 
(4) B. Croce, Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1969, p. 40. 
(5) Cfr. Ibidem. 
(6) Aug., De Trinitate, 9, 7, 12, in Opere di S. Agostino, IV, Città nuova editrice, Roma 1976, p. 378.
(7) Aug. De magistro I l, 37, in Opere di S. Agostino, cit., p.782. 
(8) Cfr. B. Croce, Problemi di estetica, Laterza, Bari, 1966, p. 153. Inoltre: Teoria e storia della storiografta, Laterza, Bari, 1973, p. 76: Il concetto della storia, Antologia a cura di A. Parente, Laterza, Bari, 1970, pp. 77-79. 
(9) B. Croce, Etica e politica, Laterza, Bari 1973, pp. 32-33. 
(10) Aug., De Trinitate, 15,12, 21, in Opere di S. Agostino, IV, cit., p.656. 
(11) Aug. De libero arbitrio, 2, 8, 24, in Opere di Agostino, III/2, cit., p.241. 
(12) Ibidem, 240. 
(13) Aug. De Trinitate, 12, 2, 2, in Opere di S. Agostino, IV, cit. , pp. 464-466. 
(14) Confess., 7, 17, 23, in Opere di S. Agostino, I, Città nuova editrice, Roma 1956, p. 206. Cfr. anche De ordine, 2, 8, 25. in Opere di S. Agostino. III/I: Dialoghi, Città nuova editrice, Roma 1970, p. 320.
(15) Aug., De Trinitate, 12, 15, 24. in Opere di S. Agostino, IV, cit., p. 496. 
(16) Aug., De libero arbitrio, 2, 14, 38, in Opere di S. Agostino, IlI/2, cit., p. 260. Nei Soliloquia, dopo aver precisato che “la verità e vero sono due tcrmini distinti” (Soliloquia, 1, 15, 27, in Opere di S. Agostino, IlI, ciI. p. 425), ribadiscc nella stessa direzione : “Est autem vetitas, et non est nusquam” (Ibidem. 1, 15, 29, p. 426).
(17) B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 1971, p.192. 
(18) B. Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari 1973, p. 406. 
(19) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1970, p.18. 
(20) Ibidem, p. 28. 
(21) Ibidem.
(22) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 28-29. 
(23) Cfr. Ibidem, p.29. 
(24) Cfr. Aug., De libero arbitrio, 2. 9, 27, in Opere di Sant’Agostino, III/2, cit., pag.245. 
(25)A riguardo della presente tematica (tra i vari studi) cfr. anche: C. Boyer S.J., L’ideé de vérité dans la philosophie de Saint Augustin, Paris 1915, pp.198 ss.; C. Boyer, Sant’Agostino filosofo, pp.97-130; J. Hessen, Augustin Metaphysik der Erkenntnis, Berlin und Bon 1930, segnatamente le pagine 208-212; B. Bubacz, St. Augustin’s Theory of knowledge: A contemporary analysis, The Edwin Mellen Press, New York and Toronto 1981, pp. 133 ss.; F. Piemontese, La veritas agostiniana e l’agostinismo perenne, Marzorati editore, Milano 1963, in particolare le pagine 189-211; G. Di Napoli, Essere e verità in S. Agostino e in Heidegger, in AA.VV., S. Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea (Atti del Congresso italiano di filosofia agostiniana), Edizioni agostiniane, Roma 1954, pp.287-296; L. Bogliolo, Significato e attualità dell’interiorità agostiniana, in AA.VV., cit, in particolare, p.322; G. Capone Braga, Il significato della teoria dell’illuminazione di S. Agostino, in AA.VV., cit., pp. 306-331; G. Bonafede, Interiorità e immanenza. in AA.VV., cit., pp. 312 ss. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 50-58.