Rinnovamento e continuità nella poetica  architettonica siciliana dal 1930 al 1950 

Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale furono, per l’attività edilizia, anni di antinomia. Si ricercava, infatti, un equilibrio tra la necessità di operare e l’istanza di approntare un disegno organico di ciò che si dovesse fare. Le scelte operate in quegli anni affondano le proprie radici nel clima culturale che si era formato durante il ventennio fascista. In Italia, tra il ’20 e il ’30 si assiste ad una scarsità di contatti con l’Europa, accentuata dal protezionismo culturale del regime (che, in economia, doveva portare all’autarchia). Pochi, prima di Edoardo Persico, si erano resi conto di quello che succedeva nelle aree d’oltralpe. Questo clima è reso manifesto dalle sorprendenti parole con cui Marcello Piacentini descrive la situazione tedesca: «In Germania non si palesa ancora un carattere dominante e preciso: ancora perduta, in mezzo a grandi incertezze, la lotta tra la linea orizzontale e verticale»1. È soprattutto a partire dagli anni trenta che 1’Italia mostra notevole attenzione verso le nuove espressioni artistiche provenienti dal resto d’Europa. Le istanze di cambiamento, avanzate da più parti del nostro paese e caldeggiate in un primo momento anche dal regime, sembra possano coniugarsi alle novità in ambito architettonico promosse dal razionalismo; questo non risparmierà, tuttavia, di Raimondo Piazza l’accendersi di un dibattito tra i sostenitori del «tradizionalismo», inteso come la via più breve verso la soluzione dei problemi, e i promotori «dell’internazionalismo architettonico», secondo la definizione di Giuseppe Samonà2, che auspicheranno una concreta rivoluzione del linguaggio architettonico, nei metodi d’insegnamento e nell’ambito professionale. Entrambe le posizioni si pongono «come interpreti della modernità e fautrici di un ordine nuovo»3. 

L’accentuarsi delle posizioni conservatrici della dittatura e il conseguente intensificarsi del sentimento nazionalista, spinge comunque gli architetti verso la creazione di uno stile nazionale, fondato sulla riscoperta dell’architettura classica, ricco di toni celebrativi del potere del duce, scenografico e monumentale. L’imperativo del «ritorno all’ordine », contro l’eclettismo che aveva caratterizzato l’architettura del passato, in Sicilia si identifica con il superamento delle esperienze precedenti. 

Qui, come scrive Ettore Sessa, «l’ideale astratto di classicità assume quei connotati di “razionalità mediterranea” che, pur nelle dicotomiche valenze italico- monumentali [ … ] e italico-vernacolari […] ne assicurano l’appartenenza a quella “terza via dell’ architettura contemporanea” comune a Francesco Fichera e nella quale rientrano, fra le altre tendenze, il “classicismo moderno” scandinavo e il panslavismo architettonico di Kotera a Plecnick»4. 

Forse il maggiore esponente palermitano della nuova poetica architettonica è Salvatore Caronia Roberti, la cui sede del Banco di Sicilia a Palermo (1932-1938) ne è certamente l’esempio più paradigmatico. 

Lo scoppio della guerra frena com’è naturale, il maturare di una coscienza architettonica. Con la liberazione dell’ Italia, l’impegno maggiore cui vengono chiamate le forze della cultura riguarda non solo la ricostruzione materiale dell’isola, ma si rivolge anche ad una sorta di rieducazione delle masse affinché prendano coscienza del ruolo di cittadini della nuova Italia democratica: nuovi slogan predicavano un progressivo sviluppo culturale capace di mutare quelle condizioni esasperate che fino ad allora avevano favorito il fiorire del degrado. Anche gli architetti sono chiamati a svolgere il loro lavoro con un mutato spirito: dovranno farsi interpreti del cambiamento con le loro opere e sperimentare nuovi schemi funzionali, adatti a soddisfare le urgenze provocate dalle distruzioni della guerra. 

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale, le prime costruzioni sono realizzate principalmente grazie ai finanziamenti del «Piano incremento occupazione operaia», attuato dalla legge Fanfani. Queste realizzazioni, in genere, sono improntate all’applicazione dei canoni del Razionalismo e attingono dalle esperienze degli anni venti, portate avanti dal Movimento Moderno nei «quartieri manifesto» tedeschi. Nel recupero, comunque, di quell’ eclettismo ereditato dall’Ottocento, ma avvilito dal progetto di unità stilistica nazionale messo a punto dal fascismo, vengono ripresi elementi tratti dalla tradizione costruttiva mediterranea, che contrassegnano molti quartieri abitativi. 

Dopo il conflitto, infatti, l’architettura cerca di rigenerarsi attraverso la storia che la letteratura ufficiale aveva ignorato, cioè rileggendo le manifestazioni spontanee dei luoghi. L’interesse per queste opere, per le tecniche costruttive tradizionali, che coinvolge progettisti come Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Giuseppe Samonà e molti altri, rivela la volontà morale di instaurare un discorso con la realtà semplice della vita quotidiana. È soprattutto nell’abitazione che verranno alla luce i primi frutti di questo rinnovato rapporto con la storia5. Abbandonata l’immagine della città-giardino degli anni venti, si tenta di ricreare l’unità e la ricchezza d’immagine dei centri storici, recuperando forme tradizionali di scale esterne, ritmi di finestre, deviazioni che disegnano strade non rettilinee, slarghi e piazze6. In qualche modo si cerca così di fondere schemi razionalisti ed elementi caratterizzanti della cultura vernacolare. 

In un clima culturale che non manca di evidenziare incertezze, come denota lo stesso bando di concorso per la creazione della nuova via del Porto a Palermo (1949), si può identificare nel progetto dell’Istituto tecnico nautico di Palermo (1948) di Giuseppe Spatrisano (con V. Ziino, A. Bonafede, P. Gagliardo), la prima opera dove si approfondisce il metodo progettuale sostenuto dal Movimento Moderno, che comporta l’abbandono dei localismi. 

Il nuovo Istituto doveva inserirsi in un’area particolarmente delicata in quanto densa di emergenze architettoniche e fomentatrice di relazioni spaziali complesse. Come scrive Edoardo Caracciolo nel 1950, «la sistemazione verso il mare risolve egregiamente la funzione di cerniera. La rigida massa parallelepipeda nella quale è incastonata la vecchia loggia dell’ospedale continua la “parete” formata dai palazzi sulle mura, dal De Seta al Trabia, e la conclude. Il tumulto di superfici, più che di masse, verso la cala, stacca nettamente la composizione aulica precedente e preannunzia i volumi frammentari estendentisi lungo l’ansa del vecchio porto»7. 

Edoardo Caracciolo mette in evidenza, inoltre, uno dei caratteri progettuali moderni dell’istituto, ovvero la scomposizione dell’edificio in «masse diverse a seconda delle esigenze funzionali interne»8. 

Il linguaggio aggiornato e sensibile dell’ Istituto nautico, sostiene Gianni Pirrone, «sembrava dovesse dare il via ad un nuovo corso dell’architettura palermitana»9. 

Il progetto, il cui nitore cristallino ricorda le opere dei milanesi Mario Asnago e Claudio Vender, viene però mutato in corso d’opera, forse per motivi economici, mortificando lo spirito dell’idea originaria ed evidenziandone, in definitiva, i difetti. Pur con le sue deviazioni dall’idea originaria, tuttavia, l’opera può essere considerata il primo tentativo cosciente di un’ interpretazione antiletteraria dell’architettura, forse il modo più corretto di inserimento in un luogo così delicato, analogamente alla stazione ferroviaria Michelucci, costruita a Firenze dietro le absidi di Santa Maria Novella. 

Creare un’ architettura per l’ uomo, fruitore dell’ opera dell’ architetto, è il motto che impera fra la maggior parte degli architetti italiani già all’indomani della guerra. Un imperativo che punta alla democratizzazione dell’ architettura e che proviene da lidi lontani, come l’America e la Finlandia. Le nuove vie dell’architettura indicate da maestri come Wright o Aalto hanno larga eco nell’Italia postbellica, promosse da Bruno Zevi con la fondazione dell’ Apao. 

In Sicilia, l’adesione al movimento fondato da Zevi, viene accolta come un momento d’ incontro e di collegamento con le vicende che si svolgevano altre lo Stretto; a Palermo nel 1949 si tiene una riunione dell’ Apao, alla quale partecipano i nomi di spicco dell’architettura locale. Qui la lezione organica viene assimilata e rivisitata alla luce di quella atavica tendenza conservatrice, che opta per una rilettura dei nuovi canoni lessicali e per un loro accostamento ad elementi tipici dell’ architettura mediterranea. Si può dunque parlare di un’esperienza che acquisisce toni originali in quanto si lega alla riscoperta del concetto di sicilianità. Il confronto tra l’Istituto tecnico nautico, del 1948, e il posto di ristoro sul Monte Pellegrino, del 1954, dello stesso architetto, evidenzia chiaramente la mutata concezione architettonica. 

Tuttavia l’idea di dover fare (o di non dover fare) un’architettura organica, che si contrappone a quella definita razionalista, porta con sé anche aspetti piuttosto negativi, poiché abitua a pensare la tradizione moderna in termini indebitamente ristretti. Infatti, il dibattito si sposta inavvertitamente sui vecchi temi culturali e la storia dell’ architettura moderna appare allineata con quella dell’architettura antica come una successione di indirizzi formali, che si soppiantano tra loro all’infinito 10. 

La vastità degli stimoli formali, sia essi riferiti all’ architettura internazionale, sia riferiti a quella mediterranea, porta, in antitesi con le istanze iniziali, a trattare ogni tema più come occasione isolata che come proposta per il rinnovamento organico della città. Si apre così una nuova strada, che è quella della ricerca della perfezione qualitativa della singola opera o del singolo complesso. 

La momentanea conciliazione di tradizione e modernità mostra, a distanza di tempo, che solo una parte di questa attività vale come contributo alla soluzione di alcuni problemi della città moderna – la museografia11, l’ambientamento di nuovi edifici nei quartieri antichi monumentali, la ricerca di una identità regionale -, mentre alcune limitazioni implicite hanno pesato negativamente sulle esperienze successive in misura notevole. Tra queste, l’ abitudine di trasferire l’esigenza della continuità storica sul terreno formale e spaziale e soprattutto la difficoltà di affrontare sopra una determinata scala i problemi che condizionano sempre più urgentemente la vita della città moderna, quindi la mancata continuità tra l’impegno architettonico e urbanistico. Questa diviene il punto cruciale della cultura architettonica, non solo siciliana, che mostra i propri esiti nella scarsa vivibilità di molte città italiane. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 M. Piacentini, Architettura doggi, Roma 1930, p. 34. 
2 M. C. Ruggieri Tricoli, Salvatore Caronia Roberti architetto, Palermo 1987, p. Il. 
3 M. Capobianco. Gli anni quaranta. “La via più dura» dellarchitettura italiana, in M. Capobianco (a cura di ), Architettura italiana 1940·1959, Napoli 1998, pp. 61·145, cit. p. 70. 
4 E. Sessa, Salvatore Caronia Roberti. Opere e poetica, Dipartimento di Storia e Progetto dell’Università degli Studi di Palermo, «Bollettino della Biblioteca», n. 2, gennaio-dicembre 1993, pp. 130·133, cit. p. 131. 
5 Cfr. C. Conforti, Roma, Napoli, Sicilia, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana, il secondo Novecento, Milano 1997, pp.176-241, cit. pp. 178-179. 
6 V. Fontana, Profilo dell’architettura italiana del Novecento, Venezia 1999, p. 219. 
7 E. Caracciolo, il teatro marittimo di Palermo, «Urbanistica», n. 3, gennaio-marzo 1950, pp. 75-77, cit. p. 77. 
8 Ibidem. 
9 G. Pirrone, scheda «Istituto tecnico nautico», in Architettura del XX secolo in Italia, Genova 1971, pp. 122· 123, cit. p. 122. 
10 Si veda a tal proposito: B. Zevi, Saper vedere larchitettura, Torino 1948. 
11 Si veda, per esempio, la sistemazione museale di palazzo Abatellis a Galleria nazionale di Sicilia, realizzata a Palermo da Carlo Scarpa negli anni 1953-54.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 22-26.




 Architetti dei «centri minori» in Sicilia:  Salvatore Costanzo 

Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club Italiano, definisce «centri minori» quelle città che, seppur di piccole dimensioni, hanno svolto una funzione di controllo del territorio circostante ed espresso significativi momenti di civiltà urbana. Qui si riscontra spesso una considerevole tipicità in termini architettonici e urbanistici, dovuta alla presenza di individui dotati di ingegno e sensibilità che, per motivi diversi, scelgono di operare lontano dalla ribalta delle grandi città. Di costoro, talvolta magistrali registi delle metamorfosi dei luoghi, la storia con difficoltà tenta di ricostruirne criticamente l’operato, anche per la dispersione del materiale documentario. 

La definizione di Lunati calza perfettamente a Mussomeli, «centro minore» della provincia di Caltanissetta, noto soprattutto per il trecentesco castello chiaramontano. 

Qui, tra i protagonisti della scena urbana si distingue l’architetto Salvatore Costanzo; attivo per gran parte dell’Ottocento – scompare il 29 gennaio 1889, all’età di settant’anni -, è tra gli ultimi professionisti ad operare in contatto con una committenza colta ed esigente, attenta ai problemi del «decoro urbano», prima che le modificazioni del centro abitato e del territorio divenissero preda di speculatori e di politici privi dei più elementari strumenti culturali e morali. 

Le fonti letterarie su Costanzo ne evidenziano1 il ruolo incisivo assunto all’interno di quel processo tendente alla modernizzazione di Mussomeli, consono ai progressi urbanistici, architettonici e tecnici di un secolo caratterizzato da profondi cambiamenti in molti settori della società, della scienza e dell’ arte2. 

Si può ritenere che la formazione accademica dell’architetto avvenga a Palermo tra la seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta del sec. XIX. In questo periodo, la cattedra di architettura civile è tenuta da Carlo Giachery3, che dà un taglio tecnico ai suoi corsi, e affronta anche la trattazione dell’opera di Francesco Milizia (1725-98), uno dei più significativi teorici del Neoclassicismo. 

Il percorso universitario fornisce all’architetto mussomelese anche quelle basi culturali che lo inducono, certamente per inclinazione personale, ad essere al contempo pittore, cesellatore e poeta, nonché cultore di letteratura e storia, di scienze fisiche e naturali4. 

L’ambito cronologico in cui si forma ed opera Costanzo è certamente tra i più complessi della storia dell’architettura: da un lato, le scoperte archeologiche conducono al risveglio del classicismo; dall’altro, le evoluzioni della tecnica, l’adozione di nuovi materiali costruttivi come la ghisa e il vetro, la necessità di nuove tipologie edilizie adatte alle nuove istanze del progresso, spingono verso la formazione di nuovi linguaggi espressivi in grado di rispondere pienamente alle esigenze della vita contemporanea. L’Ottocento, pertanto, oscilla tra pionieristiche fughe in avanti e consolatori rifugi nel passato, che nella seconda metà del secolo sfoceranno nel vario e ampio formalismo architettonico dello storicismo e dell’eclettismo, talvolta con abili compromessi. Giovan Battista Filippo Basile e Giuseppe Damiani Almeyda riassumono perfettamente le contraddizioni dell’epoca5. 

Come molti progettisti che operano nell’Ottocento, Costanzo tiene disgiunta la nozione di arte da quella di tecnica, per cui la sua abilità ingegneristica si applica ad opere di carattere utilitario, altrimenti viene dissimulata in una veste architettonica d’ispirazione prevalentemente classica. 

Tra il 1867 e il 1882 l’architetto si cimenta in opere che denotano approfondite conoscenze nel campo dell’idraulica: la riforma dell’impianto idrico comunale, il pubblico lavatoio, le fontanelle a getto intermittente6. 

Nel 1871 si inaugura la strada che collega Mussomeli con la costruenda stazione ferroviaria di Acquaviva Platani; nel 1882, lungo tale strada, ad appena un chilometro fuori dall’abitato, Costanzo realizza la cappella funeraria Sorce-Malaspina, dedicata alla Madonna del Riparo. Si tratta di una piccola costruzione in pietra a faccia vista, a pianta quadrata, sormontata da una cupola emisferica, con ingresso a fornice affiancato da paraste ioni che; la paraste, due per lato, danno solidità visiva ai cantonali e reggono una trabeazione che si svolge lungo il perimetro. Sopra la cornice, in asse con le paraste, volute lapidee a quarto di cerchio creano un felice contrasto con la curva della cupola. I fondamenti storici – e quindi culturali – che qui presuppongono l’attività di progettazione rimandano ad esempi romani e rinascimentali. 

Il rigore geometrico dell’impaginato architettonico conferisce una solennità all’opera che ben si adatta a perpetuare la memoria delle virtù umane di chi vi è sepolto: nella cappella riposa, infatti, il cav. Vincenzo Sorce Malaspina, fondatore dell’omonimo orfanotrofio. Nella parte sommitale, oltre all’opera di Palladio, il riferimento più prossimo che Costanzo adotta è presumibilmente il gymnasium dell’ Orto botanico di Palermo, progettato da Leon Dufourny nel tardo Settecento. L’accostamento della cupola alle volute con opposta curvatura, infatti, ricorda da vicino l’opera palermitana dell’ architetto francese. Comunque sia, Costanzo dimostra di assimilare nella propria architettura la lezione della storia che, attraverso una considerevole abilità grafica nell’articolazione delle forme e un forte senso di equilibrio nella composizione volumetrica, trascende il passato con nuovi apporti non privi di originalità. 

Analoghe considerazioni possono farsi per il palazzo del barone Mistretta, in piazza Umberto I. 

Il palazzo Mistretta, anch’esso realizzato in muratura portante con pietra a faccia vista, si articola su tre livelli: piano terra, piano nobile e mezzanino. Il prospetto sulla piazza riflette l’uso interno dei piani ed è quindi tripartito: il piano terra, destinato a magazzini, si presenta con una teoria di aperture a fornice; l’ingresso principale è inserito in un leggero risalto che comprende tutte le elevazioni. Il piano nobile è articolato da coppie di paraste ioniche e lesene pensili, alternate a balconi a petto in asse sia con le aperture sottostanti sia con quelle del mezzanino, ed è concluso da una evidente cornice che lo separa dal piano superiore, presumibilmente destinato alla servitù. 

La tipologia trova ancora echi nell’arte del Cinquecento, ma l’astratto rigore geometrico del secondo rinascimento, che Costanzo adotta nella cappella Sorce-Malaspina, ha qui lasciato il posto ad un pregevole virtuosismo grafico, in particolare nelle mostre e nei decorativi rilievi sopra i balconi; non si può escludere che sia stata la stessa committenza a richiedere una maggiore enfasi formale quale simbolo evidente di un solido status economico. Osservando il palazzo con attenzione, si nota come il risalto centrale paradossalmente non sia al centro. Ovvero, sul lato destro si trovano due moduli di balconi compresi tra paraste binate, mentre sul lato sinistro si trova un unico modulo. Tuttavia, esaminando la cornice del lato destro, si nota che rigira ad angolo retto per attestarsi come limite laterale del palazzo. La cornice del lato opposto, invece, prosegue rettilinea per un breve tratto oltre le ultime paraste, segno che la costruzione sarebbe dovuta continuare nel sito oggi occupato da un altro fabbricato, il cui fronte equivale proprio ad un modulo del palazzo. Anche nel paramento lapideo è evidente la predisposizione all’ammorsamento con altra struttura laterale, cioè con il modulo del palazzo forse originariamente prevista, ma non realizzata. Non sappiamo per quale motivo il palazzo venga ridimensionato; fortunatamente, il risalto centrale, poco accentuato, rende meno evidente lo squilibrio della facciata, che rimane, però, degna di merito per il rapporto proporzionale tra piano terra e piano nobile e per l’eleganza degli intagli, pur notandosi qualche forzatura compositiva proprio nell’innesto del risalto sulla facciata. Questo palazzo è solo il prologo dell’intervento che più di qualunque altro caratterizza urbanisticamente l’espansione di Mussomeli extra moenia: «la bella e moderna via Palermo», per citare l’articolo del 1955 di Raimondo Piazza sull’architetto mussomelese. 

L’idea di un tessuto stradale che costituisse la matrice della nuova espansione edilizia non è estranea alla cultura siciliana: validi esempi si riscontrano a Palermo nella settecentesca addizione regalmicea o nella via della Libertà che si realizza a metà dell’Ottocento7. E certamente sulla base di questa nuova cultura urbanistica che Costanzo immagina la strada capace di regolare la nuova espansione all’abitato verso est e collegarsi con la provinciale che porta alla stazione ferroviaria e alla statale Palermo-Agrigento. Ma maggiori pregi di questa nuova strada si ritrovano soprattutto nelle qualità dello spazio, nelle proporzioni complessive della sezione, nel confluire elegante verso la piazza Umberto I. 

Nonostante l’importanza architettonico-urbanistica, l’approvazione del nuovo tracciato stradale non è immediata. Pare che l’architetto trovi forti resistenze non solo da parte dei proprietari delle aree da espropriare, ma persino da parte dell’ Amministrazione comunale, che difficilmente può comprendere lo spreco di tanto suolo edificabile. Superate le resistenze e i particolarismi, l’opera viene realizzata. Purtroppo oggi, il valore di exemplum viene trascurato: l’attuale sviluppo urbanistico dell’abitato mette in evidenza soprattutto atteggiamenti speculativi che, per soddisfare interessi personali, ignorano quella che è la più elementare istanza di una società civile: la qualità ambientale. È proprio vero, come scrive Giuseppe Spatrisano, che «ogni epoca esprime la propria condizione materiale, morale e spirituale [ … ] nell’architettura, per quel rapporto fisico e profondamente umano che essa ha con la società»8. 

I lavori di cui si è detto costituiscono solo frammenti dell’intensa attività progettuale dell’ architetto Costanzo. Ad esempio, nel 1867, per tutto l’anno solare, l’architetto si occupa delle «fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà degli eredi del principe di Trabia»9. Un documento dello stesso anno conferma la sua presenza anche nel castello, per interventi di manutenzione10. Nel 1870 è incaricato dal Comune del completamento della piazza Sant’Antonioll . Nel 1872, in esecuzione della legge del 1865 sulla sanità pubblica, che vieta la tumulazione dei defunti nelle chiese dell’ abitato, l’architetto redige il progetto per la costruzione del cimitero. Il complesso funerario comprende anche la costruzione di una cappella, di una stanza mortuaria e una per il custode, cui si è accennato. 

Nel 1883 Costanzo si occupa del progetto di rifunzionalizzazione dell’ex convento di San Domenico, destinato a scuola elementare. Giuseppe Sorge, nelle sue Cronache, scrive che l’architetto, nell’esercizio professionale, dirige lavori di costruzione per conto del municipio, delle chiese, dell’amministrazione Trabia e di altra committenza12. 

Possiamo supporre, pertanto, la sua influenza, se non proprio il suo intervento, nei prospetti delle chiese di Sant’Enrico e soprattutto di Sant’Antonio, ascrivibili agli anni della sua attività e stilisticamente coerenti con la sua poetica. La facciata della chiesa di Sant’Antonio, ad esempio, oltre ad essere ispirata morfologicamente e sintatticamente all’arte del Cinquecento, presenta in sommità quelle singolari volute a quarto di cerchio che abbiamo già osservato nella cappella Sorce-Malaspina. Si evidenzia in queste opere una predilezione per l’esibizione dei materiali naturali, soprattutto la pietra, modellata con singolare maestria. 

L’opera di Salvatore Costanzo connota profondamente l’attuale morfologia dell’abitato. I risultati ottenuti nel campo della tecnica, del restauro, dell ‘ architettura, dell’urbanistica, dell’ arredo urbano, almeno nell’accezione ottocentesca dei termini, impongono uno studio approfondito della sua operal3, congiuntamente a quella di molti altri architetti operanti all’ombra di «centri minori». In questo modo emergerebbe un quadro più esaustivo di quello che, senza dubbio, può essere considerato tra i più complessi e contraddittori, nonché fecondi, periodi della storia dell’architettura: l’Ottocento. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 La prima pubblicazione di rilievo, dove si trovano notizie sull’architetto Costanzo è dello storico Giuseppe Sorge, Mussomeli nel XIX secolo, 1812-1900, Palermo 1931; una seconda è dello studioso Raimondo Piazza, La bella e moderna via Palermo, testamento ideale di Salvatore Costanzo, «Giornale di Sicilia», 3 setto 1955, p. 5. 
2 Pur non volendosi sminuire la dimostrata attendibilità degli autori, poiché le notizie riportate nelle fonti bibliografiche non sono riconducibili a documenti di archivio, saranno presi in considerazione solamente i dati ritenuti attendibili sulla paternità e la datazione di alcuni progetti. 
3 La cattedra di architettura tecnica viene affidata, nel 1837, all’appena venti sei enne Carlo Giachery, che la manterrà fino al 1852. 
4 R. Piazza, La bella e moderna , cit. 
5 Lo stesso Costanzo dimostrerà di cogliere questa valenza revivalistica nella modesta chiesa del cimitero di Mussomeli (1872), dove mutua elementi desunti sia dall’ architettura gotica sia da quella paleocristiana, forse con l’intento di conferire una maggiore spiritualità ad un luogo così sacro. Allo stato attuale degli studi, la chiesa del cimitero costituisce soltanto l’eccezione di una visione prevalentemente classicista dell’architettura. 
6 Il primo intervento in cui Costanzo mostra approfondite conoscenze tecniche e di idraulica è la riforma dell’impianto idrico comunale attraverso una nuova conduttura d’acqua che dalla contrada Bosco confluisce in una fontana posta nel centro dell’abitato di Mussomeli, dinanzi al palazzo Trabia, oggi piazza Roma (1867). L’architetto sostituisce la precedente conduttura in tubi di argilla con elementi in ferro fuso, che possano resistere alla pressione di ben sedici atmosfere, importati direttamente dell’Inghilterra, all’avanguardia in Europa. Il percorso studiato dall’ archi tetto per la nuova conduttura attraversa ambiti irregolari e scoscesi, come i burroni nella zona dell’ Annivina, conseguendo una sostanziale riduzione della lunghezza complessiva delle tubazioni rispetto all’impianto precedente, che portava l’acqua nell’attuale piazza Umberto I. Alcuni anni dopo, Costanzo progetta il pubblico lavatoio presso la fontana dell’Annivina (1872), nel periodo in cui la zona viene dotata della strada carrabile di circonvallazione. Il lavatoio merita particolare interesse per i rilievi lapidei che vi sono integrati. Nel 1874, poiché l’Amministrazione comunale vuole rendere agevole agli abitanti la presa dell’acqua per uso domestico, egli progetta delle fontanelle a getto intermittente che vengono collocate in vari punti del paese e in cui confluisce, attraverso diramazioni realizzate con tubi in ghisa, l’acqua della condotta principale. Altra conduttura viene realizzata nel 1882, insieme a un abbeveratoio nella «via del Signore», presso la chiesa di Santa Maria. 
7 Si consideri la riqualificazione parigina con arterie spaziose e rettilinee ad opera del barone Haussmann, prefetto della Senna dal 1853 al ’69, che assume in Europa un valore ecumenico. In Italia sono poche le città dove non si realizzi una strada in linea retta fra il centro e la stazione ferroviaria: via Nazionale a Roma, via Indipendenza a Bologna, via Roma a Torino e Palermo, mentre nella Firenze capitale d’Italia l’intervento è ancora più comprensivo. 
8 Cito in Vincenza Balistreri (a cura di), con scritti di Raimondo Piazza e Agnese Sinagra, Giuseppe Spatrisano architetto (1899 – 1985), Palermo 2001. 
9 Archivio di Stato di Palermo, Fondo Trabia, Serie A, voI. 509: comprende fasc. 1-2-3-4, Mussomeli. Cautele e spese 18561868, fasc. 4, f. 38, anno 1867: «Nota di giorni di servizio prestati dall’architetto Salvatore Costanzo per le fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà delli eredi del Principe di Trabia da gennaio a dicembre». 
10 Ivi. 
11 Archivio Storico di Caltanissetta, Deliberazioni comunali, delibera 1085 della Prefettura di Caltanissetta, 11 luglio 1970. 
12 G. Sorge, Mussomeli nel sec. XIX. 1812-1900. Cronache, Palermo 1931, p. 139. 
13 Molti sono, infatti, i punti ancora da chiarire: ad esempio, ci si chiede perché i suoi primi interventi documentati risalgano al 1867, quando l’architetto ha quasi quarant’anni; qual è stata la sua attività, anche progettuale? In quale ambito territoriale opera? 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 33-38.