Quasi un racconto di Mario Tornello
Dalla notissima Place Pigalle di Parigi sale una via tortuosa; è Rue Lepic che conduce a Montmartre, il quartiere degli artisti dove la musica, la letteratura e la pittura coabitano.
La place du Tertre è il punto focale di incontro di artisti da strapazzo in cerca di gloria radicati con i loro cavalletti e dipinti tra gli stentati alberi della piazzetta. «Au pichet du tertre» è uno dei ritrovi di questa gente squattrinata in cerca di caiore umano e, d’inverno, di quello fisico dove dinanzi ad un bicchiere d’assenzio pare scompaia il disagio esistenziale di chi lotta per sopravvivere sulle orme sbiadite di quei pittori che lì posero le basi dell’impressionismo.
Il fumoso locale è letteralmente tappezzato di dipinti di artisti che hanno saldato così un lungo conto sospeso con il proprietario del locale. E sono tante quelle opere che ad occhi in su è possibile ammirare sospese al soffitto, rivolte verso il basso e trattenute da opportuni sostegni.
Tanti artisti, Manet, Seurat, Monet, Tolouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Matisse e l’epigono Utrillo, vissero parte della loro vita in questo quartiere, attratti dal suo fascino particolare, dove numerose gallerie d’arte odorano di vernici e resine delle opere esposte.
La breve rue Norvins·offre una visione ormai classica, infiorata com’è, a distanza, dalle imponenti bianche cupole del Sacre Coeur. Non c’è pittore che non ne sia rimasto ammaliato e non l’ abbia ritratta.
Rue Rustique, la parallela, accoglie nelle sue mansarde quegli artisti squattrinati che vivono la loro bohème tra esaltazione e sconforto, tra idealismo esasperato e vicissitudine umana. I suoi lampioni, a sera, diffondono una luce che, giungendo fioca in alto, spande una luminescenza d’alba alle finestre degli studi.
Le vecchie librerie d’antiquariato, internate negli stretti vicoli, espongono delizie grafiche di altri tempi: incisioni e volumi che, pur a prezzo sostenuto, hanno un vivace mercato, e cultori d’ogni paese vi trascorrono intere ore alla ricerca della rarità da altri non notata.
«Le lapin agile», «Le moulin de la Gallette» e «Le moulin rouge», vicini l’un l’altro, sono luoghi che hanno consegnato alla narrativa dell ‘ arte vizi e virtù, baldoria effervescente e storie umane esasperate vissute tra interminabili discussioni.
Quell’animata vita artistica è scomparsa quasi del tutto, e ad essa se n’è sovrapposta un’altra dai valori meno radicati, superficiali, con la prospettiva unica della resa economica in vista dell’afflusso turistico. Non c’è più un Modigliani con le sue donne e la poetessa russa Anna Akhmatova ritratta in nudi memorabili; ora non tracanna più assenzio e non assume stupefacenti alla ricerca elegiaca della poesia interiore; né c’è più de Chirico che per la sua presunzione esasperante le prendeva da Picasso irritabile.
Ben altri tempi e personalità si sono sovrapposti con diverso marchio. Gli anni Cinquanta a Montmartre, tranne che per Bernard Buffet, non sono rimasti nella storia dell’Arte. Non hanno segnato un periodo di fertilità figurativa, cosicché quel quartiere oggi sembra spento.
Gli artisti si sono dispersi tra i vecchi edifici di Montparnasse dai muri su cui campeggiano ancora pubblicità e scritte ottocentesche, tra boulevard Saint Michel e il boulevard Raspail, tra il «Café de la cupole» e il «Procope», dove Sartre e Simone de Bouvoir, nonché Prèvert e la Greco, attorniati da altri intellettuali di quegli anni, posero le basi dell’ esistenzialismo.
Il «Café Procope», dove alla fine del XVIII secolo nacque il gelato per genialità del palermitano Procopio dei Coltelli, è ancora un ritrovo di intellettuali di ogni lingua. Qui e alla «Cupole», come alla «Rotonde», negli anni ’20 Modigliani ed altri non lesinavano di ritrarre qualche avventore annoiato.
Su tali orme vagheggiò, ai primi anni ’50, un giovane artista siciliano, Placido Marino, attratto da tanto nome. Si stabilì sulla collina dei Martiri per il fascino particolare e la tanta storia che vi era trascorsa, a partire da George Michel a Coro t, da Gericault a Louis Daguerre, il pioniere della fotografia, da Berlioz a Chopin, da Franz Liszt a Eugene Sue, autore del popolarissimo I misteri di Parigi, fino a Susanne Valadon, madre di Maurice Utrillo.
Marino, presa in affitto una mansarda sui tetti di rue Rustique, vi alloggiò con idee non tanto chiare. Ebbe bisogno di riequilibrare i suoi pensieri, mentre scopriva il quartiere e la sua gente. Passò più di un mese da solo a confrontare idealmente le proprie concezioni pittoriche con quelle esposte nelle gallerie. Cercò pure un volto compiacente tra i tanti anonimi a conforto del suo iniziale scoramento. La tasca gli cantava per le regalìe di parenti e amici che avevano creduto in lui, e quel periodo di ambientamento, data la primavera avanzata, gli servì per osservare con attenzione l’ umanità che vi risiedeva e allo stesso tempo vagliare le possibilità di affermazione che vi si sarebbero potute prospettare.
Una sera al «Pichet du tertre» si specchiò negli occhi di Angela Paraiso, una bella ragazza portoghese dai capelli “orvini e il viso ambrato. Poche parole valsero a leggersi l’anima, scoprendo lentamente che si erano cercati senza saperlo: lei raffinata, in figura esile, di eleganza naturale, orgogliosa come rosa sullo stelo con un innato senso di protezione; lui alto, scattante, pervaso da un’ansia palpitante di cavallo di razza mitigata da un’ apparenza rassicurante che celava una fragilità nervosa.
Bastò una sera fitta di rispettive rivelazioni e gli animi furono scorticati in una confessione catartica. Si attrassero come chiodi alla calamita e furono giorni vòlti alla scoperta di sé, pervasi dalla stessa frenesia del vivere: messe insieme le scarse finanze, unirono anche i loro destini: lui in cerca del suo fazzoletto di notorietà, lei votata a mostrarsi, a bussare alle case di Moda di Montparnasse per sfilare in passerella.
A place du Tertre il turista sbadato si soffermava curioso tra i cavalletti dei pittori e la rara opera venduta permetteva all’autore un pasto caldo ed un bicchiere di quell’anice sciolto in poca acqua che, ravvivando lo spirito, stimolava la creatività, si diceva.
Nella mansarda dei due innamorati, d’inverno, il gelo era sovrano, cosicché qualche volta capitò loro di coricarsi vestiti tra le due coperte che possedevano. Il fornellino elettrico contribuiva a mantenere un minimo di tepore in quel nido e spesso si addormentavano abbracciati per darsi reciproco calore, mentre i lampioni da giù spandevano nella misera stanza un alone che giungeva loro come l’aurora primordiale che avvolse la terra agli albori. Eppure, d’estate, da quelletto al buio, spesso s’intravedeva il sorriso di una luna compiacente a conforto della loro indigenza.
Credendo fermamente nel proprio talento artistico, Placido continuava a proporre ai mercanti d’arte di Montmartre una pittura che, esulando da quella vilmente commerciale, aveva tutti i numeri per affermarsi, e fu in tale rovinìo
spirituale che assistette incredulo ad un evento inaspettato: un suo corregionale, artista anch’egli in cerca di notorietà, ebbe la casuale idea di dipingere un volto di bimbo, dolcissimo in verità, che gli spalancò d’improvviso le porte del mercato di Montmartre. Le ordinazioni gli fioccarono al punto da essere imitato da altri con uguale fortuna.
Placido se ne avvilì e, seppure sollecitato, non volle concorrere a firmare analoga pittura come souvenir parigino. Ne fu sconvolto, ma continuò a percorrere con tenacia il binario della sua ispirazione su cui aveva adagiato i suoi soggetti. Lo sconforto lo avvolgeva e fu sul punto di abbandonarsi alla tentazione di lasciare il campo, pur conscio di dover affrontare il ludibrio di quanti avevano creduto in lui. Resistette e non volle svilire la sua pittura, anche se pressato da un’indigenza sempre più manifesta, e proseguì con la sua voce artistica inascoltata. Continuò a dipingere con il cuore i suoi paesaggi lontani, assolati, visti in un inno evocativo intriso di nostalgia per quella natura che lo aveva allevato, esaltandone persino le dune di torrida sabbia, in riva ad un mare maestoso, infiorate di fichi nani dal frutto mielato e di ginestre fragranti che concorrevano nei giorni uggiosi a lenire la tristezza.
Quella vita stentata tra ristrettezze economiche e il rifiuto sistematico delle gallerie li portò presto a frequentare all’alba con altri artisti i Mercati Generali «Les Halles», dove, raccattando resti di ortaggi, realizzavano una calda minestra con la mente rivolta ai pranzi domenicali nel calore delle famiglie di provenienza.
Angela era attratta dall’ artista di cui, in certe espressioni dialettali, coglieva assonanze con la sua lingua d’origine, al punto di percepirne il senso e ciò la legava di più a quella personalità scontrosa, pronta ad un’amara autoironia. Percepiva nei confronti di Placido vibrazioni d’anima mai provate e, invaghendosene sempre più, sentiva germogliare dentro l’idea sommersa di dover provvedere alla sua protezione, date le prime manifestazioni di una insofferenza fisica accresciuta da una macerazione d’anima.
Placido si accaniva a dipingere per gionate intere, in un’euforia sfrenata, paesaggi evocati dai nudi di Angela, passando, poi, d’improvviso a giornate cariche di un’angoscia introspettiva in cui ammutoliva pervaso da un’abulia che non permetteva alla mano di accompagnarsi al pensiero creativo. Accadde che nel trascorrere di pochi anni, tra sbalzi di umori ed intime macerazioni, il fisico di Placido tendesse all’esaurimento delle energie vitali insieme ad una opacità mentale.
Un mattino Angela ebbe chiara la sua missione terrena: appena desta da un sonno profondo costellato di sogni nebulosi premonitori di qualcosa che ritenne nefasto, avvertì su di sé, all’altezza delle scapole, due escrescenze cartilaginose dalla vaga sembianza di ali. Sorpresa e incuriosita si alzò di scatto, volgendosi al frammento di specchio alla parete dove il suo viso s’ illuminò di un radioso sorriso per ciò che scoprì, indicandole chiaramente la promozione, tanto attesa, a cherubino. Tale la felicità che, fremente, non resistette a svegliare Placido, il quale, ancora tra le braccia di Morfeo, a sguardo spento, mostrò un vago interesse per l’eclatante novità fuori da ogni immaginazione.
Montmartre fu scossa da quella notizia e sembrò rianimarsi dal suo torpore. Gli scettici, e furono tanti, incrociando Angela per le vie tendevano a toccare quelle ali già chiaramente manifeste; dopo che, scuotendo il capo e ritenendola una mistificatrice, si allontanavano, mentre lei, orgogliosa ed altera, proseguiva quasi levitando per il quartiere.
Qualcuno arrivò a chiederle se non si fosse prestata per una trovata pubblicitaria; fu addirittura intervistata dal «Paris Macht», ma non volle definire i termini della sua missione terrena né l’origine di quelli ali; in sintesi, riferì soltanto del gran dono ricevuto.
Il caso fu eclatante; un angelo o pseudo tale, a Montmartre e nel mondo intero, non si era mai visto né sognato. Quelle ali bianche, carezzevoli sulla sua persona, evocando quelle di una maestosa aquila o di certi dipinti rinascimentali, fecero scalpore. Altra stampa, anche straniera, si occupò del caso, che ben presto, superata la novità dell’accadimento, fu dimenticato restando nella memoria di quel quartiere. Ed Angela s’inserì come personaggio in perfetta sintonia con le stravaganze tipiche del luogo.
Placido iniziava ad avvertire i sintomi di una grave sofferenza fisica che minandolo di giorno in giorno ne consumavano le energie vitali, ma con fermezza continuava a rifiutare il ricovero in ospedale, desideroso soltanto di avere accanto a sé il suo angelo custode, come era solito chiamarla, a conforto dei penosi giorni che gli si prospettavano. Morì all’alba di un livido mattino d’autunno, dopo aver chiesto di baciare la mano del suo cherubino. Il trapasso avvenne nell’alone di luce dei lampioni di rue Rustique. Angela Paraiso, al dolore di quella scomparsa silenziosamente sofferta, associò la conclusione della sua missione terrena. Assorta in tale riflessione le sembrò d’improvviso di cogliere un frullare d’ali alla finestra; due colombi s’erano posati lievi sulla cordicella per il bucato, rimanendo immobili rivolti verso l’interno di quel che era stato un nido, come a chiedere di trasportare le spoglie. Si era conclusa in quella misera stanza una vita di artista svenduta ad un amaro destino.
Sette amici, un prete ed Angela l’accompagnarono all’ultima dimora nei pressi del cimitero degli animali. Sotto un velo di pioggia la breve cerimonia religiosa suggellò il funerale. Alla fine, quelle persone, salutata Angela, tornarono ai loro affanni quotidiani. Sulla tomba scavata nel prato restarono tre garofani ed Angela, pietrificata, chiusa come crisalide nelle sue ali.
Mario Tornello
Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 38 -41.