Cantu di carritteri

Quant’avi chi ‘un mi fazzu na fumata? 
quinnici jorna chi ‘un viu la zita! 
Mi sentu cu la testa strampalata, 
‘un si po’ fari cchiù sempri sta vita! 


Supra u carrettu ci staiu simanati
pi carricari mennuli, ogghiu e alivi, 
e li nuttati mei su attarantati
quannu partu di Chiusa mmenzu a nivi! 


Lu mulu già canusci tutti i strati, 
sapi a memoria tutti i me’ suspiri; 
io rormu supra i sacchi profumati, 
ma penzu a idda e mi sentu muriri! 


Appena agghicu ‘n casa m’a’ ‘mpupari, 
m’a’ mettiri profumu a mai finiri, 
ci curru ‘n casa e mi l’aju a vasari
stringennumilla cu tanti suspiri.

Tore Sergio

CANTO DI CARRETTIERE

Da molto ormai che non fumo,
e da quindici giorni non vedo l’amata!
Come se avessi la testa strampalata,
si può fare sempre questa vita?

Sul carretto passo settimane,
carico mandorle oli e ulive,
e le notti mi fanno accaponare,
se parto da Chiusa nella neve!

Il mulo conosce già le strade,
e conosce bene tutti i miei sospiri;
dormo su sacchi profumati,
ma penso a lei e mi sento morire!

A casa andrò a farmi bello,
metterò profumo a non finire,
correrò da lei a baciarla,
e la stringerò con tutti i miei sospiri.

trad. di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 47.




Cosaruci

È veramenti certu
e unn’è poi tantu lariu
chi addivintannu vecchiu 
unu è cchiù manciatariu. 
Viscotta, viscutteddi, 
cornetti e cosaruci, 
dolcini cu li mennuli, 
gelati e mustazzoli, 
“genovesi” du Munti, 
fissa cu è chi ‘un ni voli. 
Me nanna mi ricia: 
“Fannu cariari i renti”. 
Sarà na cosa vera
Ma ‘un mi nn’importa nenti, 
tantu aiu la rintera.

Tore Sergio

DOLCI

Davvero è certo
e non è un male
se, da vecchi,
si è più mangioni.
Biscotti, biscottini
cornetti e dolci,
dolcini alla mandorla,
gelati e mostaccioli, 
“genovesi” di Mont’Erice,
da stupidi non volerne!
La nonna mi diceva:
«Fanno cariare i denti.»
Sarà una cosa vera,
ma non m’importa niente,
pertanto ho la dentiera.

trad. di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 47.




Il siciliano a scuola

Era ora che il siciliano entrasse nella scuola, che finalmente gli si desse dignità, che fosse studiato e fatto conoscere perché potesse rimanere vivo e si potesse tramandare alle generazioni future e, con esso, entrassero pure nella scuola siciliana la cultura e la tradizione millenarie del nostro popolo! Con tanta gioia accogliamo la notizia della legge della Regione Sicilia che prevede due ore di insegnamento settimanali di dialetto. 

L’on. Nicola D’Agostino non ha fatto niente di particolare, se non quello di far rispettare e attuare lo Statuto regionale negli articoli 14 e 17 che danno al governo siciliano la facoltà di legiferare anche in materia scolastica per il bene e l’interesse della popolazione. Sono passati 65 anni dal riconoscimento della Regione autonoma ed era ora che ciò avvenisse.

Era auspicabile, perché un popolo è tale quando si nutre della sua lingua e tiene viva la sua tradizione. Ho in mente i versi di “Lingua e dialettu” di Buttitta, poesia riportata a pag. 24: «Un populu, /diventa poviru e servu, / … E sugnu poviru: haiu i dinari / e non li pozzu spenniri; / i giuelli / e non li pozzu regalari; / u cantu / nta gaggia / cu l’ali tagghiati».

A che vale avere una lingua se non possiamo utilizzarla? Accettare le innovazioni non vuol dire cancellare del tutto o dimenticare l’esistente; significa ampliare la propria conoscenza e andare incontro ai tempi che s’arricchiscono del nuovo; in altre parole, significa essere capaci di accettare la modernità senza rinnegare il passato, grazie a cui ci confrontiamo con essa e la viviamo con maggiore consapevolezza.

Voltare le spalle al passato è perdere giorno dopo giorno la propria identità. Specie in questo momento, in cui i nuovi mezzi di informazione e la televisione fanno opera di livellamento culturale, e la stessa lingua italiana è ridotta a parlata volgare, è tempo di correre ai ripari e salvaguardare la nostra che tanta parte ha avuto anche nella formazione dell’italiano.

A prescindere, la lingua siciliana è la viva stratificazione della storia dell’Isola che, passati i millenni, ha lasciato una traccia indelebile nella langue, di de saussuriana memoria, ricca di voci e vocaboli che si perdono nel tempo, uniformati solo dalla grafia, ma che sanno di parlate lontane e vicine, ultime quella piemontese e l’altra dei nuovi ritrovati della tecnica e della scienza, perché in Sicilia, contrariamente ai soprusi subiti che l’hanno impoverita nel corso dei secoli, la lingua ha incamerato nuovi acquisti e si è sempre arricchita.

In un articolo di Tano Grasso che, apparso su “La Repubblica” il 7 aprile scorso, commentava il disegno di legge, dice bene il prof. Giovanni Ruffino: non deve trattarsi di una fredda introduzione della parlata, perché non otterrebbe i risultati sperati; deve introdursi la cultura siciliana nel suo insieme, essendo essa il substrato da cui una lingua si alimenta.

La lingua siciliana, decaduta a dialetto per il sopravvento dell’italiano, ha in sé accumulato un bagaglio culturale che non è secondo a nessun altro al mondo e che bisogna conoscere per apprezzare, bagaglio di cui i Siciliani devono essere orgogliosi. Purtroppo i nostri giovani conoscono tutto, tranne la loro terra che molto contribuì alla crescita storica dell’umanità. Se ora si offre loro l’opportunità di approfondire la conoscenza del territorio, non solo vi s’integreranno meglio, ma faranno opera di conservazione, contro la barbarie omologante dei nostri giorni, per tramandare ad altri questo patrimonio.

Alla notizia del disegno di legge che, a distanza di un mese, è diventata legge della Regione Sicilia, abbiamo appreso sempre dall’articolo di Gullo che le reazioni sono state controverse.

Timori e perplessità ha manifestato Camilleri che nei suoi scritti, in mezzo ad un italiano strampalato, dà la stura ad un siciliano spesso inventato, sminuendo l’uno e l’altro.

Del tutto negativo è stato il giudizio di Consolo, timoroso di una perdita di italianità, accomunando l’azione del governo siciliano a quella leghista in Lombardia. Mi chiedo: forse che costituiscono un pericolo per la salvaguardia dell’italianità le altre regioni a statuto speciale che già dal 1948 o dal 1997 (è il caso della Sardegna) hanno riconosciuto le loro come lingue in regime di coufficialità con l’italiano? Cos’ha di meno la Sicilia rispetto a queste regioni?

Niente, semmai ha solo il torto di essersi fatta sempre calpestare, e i primi ingrati a mettersi contro di essa sono stati gli stessi suoi figli che, come scrive Falcando, storico di indubbia sicilianità, «nutriti dall’abbondanza del suo latte, le si rivoltano contro con calci ed altro». Ma la Sicilia non merita questo; ha una storia e una cultura invidiabili, una lingua, al dire di Dante, “illustre” e una letteratura che affondano le origini nei millenni, e non possono essere ignorate o racchiuse in poche righe nei testi scolastici ufficiali!

Coloro che la pensano così, e credono che si dia adito al disgregamento dell’unità nazionale o ad altro, dimenticano (o non conoscono) la storia della Sicilia e non sanno che la vera unità passa attraverso la conoscenza di usi, costumi e lingua del territorio di appartenenza, come conferma Romano Cammarata in un suo scritto in cui afferma che «un’attenzione regionalistica alla problematica culturale servirà a determinare visioni unitarie nel senso più autentico della parola, cementate dalla chiara conoscenza di nessi e rapporti di fondo che ne costituisce l’elemento caratterizzante nell’ambito di una superiore unità garantita dal carattere genetico nazionale».

È ora che i Siciliani si sveglino dal loro torpore e rivendichino il diritto a conoscere ciò che devono. Questo non significa allontanarsi dal contesto nazionale, ma integrarsi in esso con maggiore consapevolezza. È ciò che ci si auspica con il federalismo, che è il pieno raggiungimento dell’unità attraverso l’apporto molteplice delle realtà regionali.

Salvatore Vecchio




Riflessione e sentimento. L’io e l’altro nella poesia di Gaetano Trainito

Gaetano Trainito (Gela, 1928) è uno tra i poeti italiani viventi più rappresentativi di questa nostra età. A voler fare una sintesi della sua poesia, diciamo che si rivela poeta a partire dalla silloge Le mani degli angeli (1994). Sebbene non avesse pubblicato altro no ad allora, da sempre era rimasto vicino alla poesia attraverso letture ed esercizi che plasmeranno la sua sensibilità e lo apriranno alla parola poetica, come lo stesso poeta afferma in una breve nota ancora inedita: «Mi piace fare un’altra considerazione: io le poesie le ho scritte sempre, sin da quando sedevo sui banchi del Liceo Classico “Eschilo” di Gela. Nei momenti nei quali i sentimenti tracima- vano e gli interrogativi non trovavano risposte, la maniera primaria di esprimermi era il linguaggio poetico fatto di parole autentiche come l’acqua di roccia mai cercata e ricercata».
Nella raccolta Le mani degli angeli abbiamo già il poeta che ritroviamo nelle altre sillogi successive, da Il viaggio, del 1996, e sempre nello stesso anno, a Filo spinato, libro che raccoglie i primi due. Seguiranno Stelle di gesso (2000) e Lontani approdi (2003), più controllati, anche se mantengono forti i legami con i precedenti (da Il viaggio, ad esempio, sono prese la lirica omonima, con qualche piccola variante, e riproposta in Lontani approdi, e “A Cinzia”, ripubblicata in Stelle di gesso). Lo si nota in questi versi:
Ho visto il sole e tutte le comete. Già vecchio e stanco,
io non ho più sete
di colori e di spazi.
Sono versi che compongono la lirica “Il viaggio”, ripubblicata – abbiamo scritto – in Lontani approdi. Ha elimi- nato i primi due versi («Il mio volo / l’ho fatto» e abbinato il terzo e il quarto che formano il primo, un endecasillabo, apportando qualche ritocco ai tre che seguono. Piccoli accorgimenti, ep- pure dicono il lavoro di lima di Trainito che mira all’essenziale. Ciò che gli preme non è tanto l’effetto da raggiungere, quanto la pregnanza di significato per dire quel che ha dentro e comu- nicarlo, per gridare forte lo scontento e lo stato d’animo, lui che, giunto ad una certa età, non ha niente da sperare («io non ho più sete / di colori e di spazi.»), perché non ha più un futuro davanti a sé e il tempo presente non gli prospetta alcuna aspettative; sente solo il biso- gno di dire sul “visto” e il fatto. Perciò, ora che non si aspetta altro, guarda con occhi sereni la vita e il mondo che lo circonda, riflette e partecipa sentita- mente a sè e agli altri situazioni e coseche la musa ispiratrice gli detta dentro. La poesia di Gaetano Trainito si svolge tutta per ritorni interni o, me- glio, per moti circolari, che coinvolgo- no e delimitano l’io individuale e, al tempo stesso, allargano i punti di vi- sta, sviluppando i temi di sempre con un’ottica diversa, più raccolta, meglio interiorizzata. Moti circolari e ritorni, fatti di chiari cazioni e di sempli ca- zioni, dovute a tagli – come abbiamo notato – volti ad eliminare impurità, a dare maggiore pregnanza alla parola. E questa è il suo punto di partenza, enunciato in “Poetiche”, a cui sin da Le
mani degli angeli tiene fede.
Non ho intrecciato endecasillabi
in strofe arcaiche né ho cantato
con ritmo ilota
i miei lamenti.
Ho solo sofferto nelle brevi sillabe del mio linguaggio il vissuto1.
Trainito ha le idee chiare. Ciò che conta non è tanto la struttura del verso, la rima, o l’effetto che ne può deriva- re, ma ciò che il poeta sa estrinsecare e cogliere dalla parola che si carica di signi cato e di musica, per esprimere l’intimo, la vita, più che nell’essere, nell’essenza, senza esternazioni passi- ve, proprie di chi subisce.
Il poeta virilmente non si ferma in supercie, esprime il sofferto attraverso «brevi sillabe», scava e ri ette sull’umano operare e nella concisione dice tanto; e la parola arriva al cuore dell’uomo senza tanti intermediari, per immagini e riflessioni che acquistano una forte carica e la comunicano.
C’è alla base di questa poesia il vissuto, continua acquisizione di sofferenza, che è la molla di ogni ispirazione e, in particolare, della poesia. Lo ha bene notato Mariella Vigliano che, da attenta lettrice qual è, scrive in un suo saggio che «di là di ogni generi- ca enunciazione, è evidenziato il tema di fondo di questa poesia: il dolore. Senza fronzoli, è la de nizione di una poetica, ma di quella che esclude i ru- mori chiassosi per darsi all’ascolto e per essere vera poesia2». Ed è quanto lo stesso poeta asserisce in “Povertà”: «Con limpida povertà / rivesto i miei pensieri / di parole. / Non ho gemme / né piume di pavone…3». La sua è una poesia asciutta, ma ricca di signi cato e profonda, capace di suscitare emo- zioni e riconoscersi in essa. E, ancora, quasi a chiarimento, scrive nella lirica “La parola”:
È come il cieco
– che vede troppo con l’anima
e trema –
la parola
caduta
sola
sulla carta bianca4.
L’immagine del cieco, cara alla poesia classica (Omero cieco va trascinando a stento i suoi passi in terra greca per interrogare i morti eroi; la stessa immagine è ripresa dal Foscolo per dare risalto alla poesia eternatrice), serve al Nostro, greco anche lui, per caricare di denso significato la parola che ”vede troppo / con l’anima” e che, quasi “caduta” per caso sul foglio, è capace di andare oltre e di fare intrave- dere la realtà foriera spesso di tensioni e di forti contrasti. Questo perché non i rumori e né i suoni lo interessano. Gli è cara la parole atta a tradurre i suoi pensieri, frutto di puntuali osservazioni, di riflessioni profonde e di nobili
sentimenti che interessano tutti, indi- stintamente l’io e l’altro.
La “limpida povertà”, di cui parla il poeta, è una libera scelta, è il preferire la parola autentica, “sola / sulla carta bianca”, alle costruzioni ef mere che dicono per non dire, come l’accostarsi all’acqua di roccia che disseta piutto- sto che alle tante altre che riempiono e lasciano l’arsura. Ed è un grande pregio, questo di Trainito (a buon ragione, Giuliano Manacorda5 parla di “bella virtù”), specie nella nostra età, in cui fattucchieri della parola s’improvvisa- no sperimentatori e vogliono farsi ac- clamare poeti.
Il fondo ri essivo, come l’acqua di roccia, caratterizza la poesia di Traini- to, rivestendo di una patina di saggezza uomini e cose, ricordi puri cati dalle scorie e volti di donne fossilizzati dal tempo. Si nota anche in “Lontani approdi” che dà il titolo alla silloge ci- tata, ma anche nella lirica “Silenzio”, ripubblicata in Filo spinato:
Quando
di pallide ombre
si empie la notte
e canti di cicale
attendono l’alba
il cuore di tutte le cose si ferma. Nell’ora della verità
c’è solo silenzio6.
Nell’ora in cui tutto sembra dormire è il momento propizio per ascoltare se stessi; solo nel silenzio si può sentire viva la verità che è in noi. Trainito lo afferma senza mezzi termini. C’è qui una punta di gnomicità che non gua- sta, anzi apre al dialogo e al confronto. Così è in “Beatitudini” o, ancora, in “Naufragio” («… Confuso / nei colori e nello spazio / in un naufragio / che non ha con ni…»), in cui è evidente l’aspetto metafisico della vita e il bisogno di trovare scampo o di gettare un’àncora di salvezza che possa alleviare il dolore e mettere freno alle difficoltà di ogni giorno.
Trainito, che pure ama la vita e, a modo suo, da poeta la partecipa, pur constatando lo sconforto e le amarezze del vivere, non si chiude in sé, tanto meno si rassegna, perché sa che nessuno ne rimane indenne. Il dolore, come categoria della vita, è il lievito che spinge verso gli altri, e il poeta, novello Prometeo, si fa portatore di umana solidarietà, aprendo alla speranza, che è consapevolezza, accettazione virile, coraggio nell’andare sino in fondo e vivere con dignità.
Elemosinare la vita ed ottenerla
non è prodigio. Miracolo
è
salvare la speranza7.
Questa speranza, miracolo salvavita, è uno dei motivi che, insieme con il dolore, è presente in tutta la produzione poetica del Nostro. In “Homo”, oltre alla sofferenza e alla solitudine («Ferito dalle catene / tra tto il costato / … / e aspetta l’amore»), c’è la speranza nell’amore che tutto fa dimenticare. L’uomo d’oggi che sopporta il male esistenziale aspetta una parola, un gesto, perché possa aprirsi al sorriso e attutire il dolore nel nome dell’umana fratellanza e della solidarietà.
In “Solitudine Pasquale” c’è una cosciente accettazione del dolore, senza lamenti, senza invocazioni di aiuto.
Non ho una madonna che pianga né un calvario
dove tutti possano vedere
il mio dolore.
…Nudo,
solo
ma vero 8 ritorno alla terra in silenzio .
Nel dolore e nella solitudine l’uomo, «oscuro martire di in niti calvari», vede consumare piano piano l’esistenza: la vita va a nire e dà spazio alla morte. Eppure, al dolore sono collegati la vita e la morte. Nella brevissima liri- ca “Nagasaki”, egli, in bilico tra la vita e la morte, non si rende conto di anda- re incontro ad un’immane catastrofe, qualora continui a sganciare bombe nell’indifferenza, quasi a non dare peso all’in nità di morti e alle conseguenze delle irradiazioni, segni dif cilmente cancellabili e portatori, essi stessi, di morte. Continuare a giocare con l’ato- mica, l’essere tra la vita e la morte, signi ca incoscienza, non valutare un pericolo così devastante e annullatore («L’angelo di pietra / di Nagasaki / ha pianto. / Nessuno l’ha visto»). Il poeta, che è un veggente, con un pizzico di ironia, ma con bonomia, sembra qua- si tirare le orecchie a quanti auspicano il ritorno al nucleare, per aprire ad un tema attuale che tiene in allarme, ora più discusso, specie dopo l’avvenuto terremoto/maremoto del Giappone che ha sensibilizzato fortemente l’opinione pubblica mondiale.
Trainito sente il contrasto vita/morte, lo fa suo e lo sviluppa nella maniera più consona ed originale. Si leggano le liriche “Ai miei sogni” («Quando / mi si fermerà il cuore / nessuno / ruberà nuvole / ai miei sogni»), “Correranno cavalli” o, ancora, “In orbita”, tanto per citarne alcune, in cui, di là dell’evento che segna una cesura con il mondo, l’uomo s’immagina talmente libero dai condizionamenti, sicuro di poter vedere le cose nella loro luce più vera e bella, in un candido stupore infantile, come nella lirica “L’idealista”:
Morì bambino
da vecchio seguendo
tra ciuf di nuvole un sogno9.
Questa di Trainito è la presa di coscienza dell’ultima tappa, a cui siamo destinati, motivo portante di Lontani approdi, ma egli è sempre per la vita che prorompe da ogni dove («Agavi sulla mia strada / e profumo di zagara. / Fatemi vedere Dio», – grida -), e si manifesta attraverso le grandi piccole cose che la inghirlandano, per cui, an- che se si snoda tra un caleidoscopico vortice di spine e profumi, rifugge il dolore per aprirsi alla conoscenza e al mistero («Voglio annegare / in una ca- scata di luce / per conoscere Dio»10), per veri care il miracolo, di cui è dono, a costo di pagarla cara, come è in «Meduse», dove il gioco tra la vita e la morte è palesemente scoperto, e vale la pena farlo.
Sul lembo della spiaggia bagnata dal mare
a tempo di culla,
le lievi meduse
sospinte dall’onde, anemoni d’acqua
– fra sassi –
si sono dischiuse .
Le meduse sono metafora della vita; «anemoni d’acqua», pur sapendo di morire, s’aprono alla bellezza, così come l’uomo alla vita. Pochi versi, eppure carichi di signi cato, profondi. Di qui il bisogno del poeta di darsi all’amore e agli affetti, spesso recuperati nel ricordo (“A mio padre”), oppure semplici presenze e numi tutelari, come in “Torno all’antica casa”:
Come ulivi cresciuti
nello stesso pozzo di terra
11
– coi rami e le radici
confuse in sostegno d’amore – m’attendono il padre e la madre12.
L’amore liare, il senso dell’unità della famiglia, sono ben compendiati nella similitudine degli ulivi che allude alla solida resistenza al tempo, oltre che alla pace, mentre l’immagine dei rami e delle radici costituisce un tutt’uno «in sostegno d’amore», l’amore verso i propri cari e la terra che lo lega a sé.
Il poeta coglie in sintesi ampie tema- tiche o problemi, di cui tanto ci sareb- be da dire, perché, da buon quali ca- tore (secondo la lologia sperimentale di Davide Nardoni, poeta è chi quali – ca), anche indirettamente, non rinuncia all’impegno, fatto di denuncia per il degrado ambientale e il disagio socia- le. Si legga “Gela 1960”, dove il poeta grida la sua amarezza per lo scempio della città («L’immensa nube del pe- trolio / ha sciolto già / no all’orizzon- te / il rosso del tramonto. / Mi hanno ucciso la patria»), o “Spiagge del sud” in cui, nel persistere dell’amarezza, scrive: «sono rimasto solo»:
Hanno ucciso
le lepri che fuggivano

hanno fermato
le sirene
che venivano a notte
sottola luna tremula
in mille voci di conchiglia… ed io
sono rimasto solo13.
Non resta che constatare la triste miseria in cui il Sud è stato ridotto da una miope classe politica che permet- te ogni abuso. Il poeta rimane solo e inascoltato; nessuno fa niente per salvare il salvabile. Cosa gli resta, allora, se non ripiegarsi su se stesso e darsi al ricordo?
Chi non conobbe
Gela contadina

mai ne conoscerà
l’anima oscura
nascosta dentro un ciuffo di cotone, …14
L’uomo, ormai spaesato, non trova gli agganci nella realtà e con il ricor- do si ricrea la Gela d’una volta, fatta di miseria, seppure sopportata con dignità, ma vera.
Le immagini sono appena abbozzate, ma la luce che le irradia, anche se al tramonto, è luminosa, tale da farle rimbalzare e presentarle nella loro essenza, velate da una dignitosa nostalgia, non rimpianto, perché il poeta sa che a niente vale, e la vita, nonostante tutto, continua.
La nostalgia, il dolore del ritorno alla vita e alle cose d’un tempo, alla natura a misura d’uomo, lontana dalla plastica e da ogni forma d’inquinamento («fatta di sole, mare, / e di tuguri»), questa sì, è sentita e riproposta con accenti di liale attaccamento, perché è la terra dei padri. E la parola, ancora una volta, caduta purificata sul foglio, riesce a far trasalire e trascina, accompagnati da un sottofondo di chopiniana musicalità, reso bene dal verso breve che caratterizza la lirica trainitiana.
Non credo che nel panorama della poesia contemporanea ci siano poeti che, come il Nostro, sappiano coglie- re con tanta abilità gli stati d’animo, le trepidazioni proprie d’un sentimento, qualsiasi esso sia, tali da coinvolgere e lasciare indelebile traccia. Il lettore è portato a calarsi nel suo intimo e solo in quella sfera è spinto a riconsiderare la sua umanità, il suo io proteso verso gli altri e la vita, la sua limitatezza e l’aspirazione all’in nito. Per tutto ciò, il fondo ri essivo di questa poesia non
Saggi 12
ha riscontri, e non ha senso richiamarsi a questo o quel poeta. Senza dubbio, possono esserci luoghi comuni, ed è normale che ci siano, anche se i veri poeti non li presentano mai allo stesso modo, e ciò fa parte dell’originalità che in Trainito sta nell’attenzione che rivolge a tutto ciò che attiene all’esistenza e al modo di esprimerla, fatta di essenzialità, di equilibrio, di senti- mento, e di adeguato uso delle gure retoriche (la similitudine, l’anafora, l’analogia, l’anastrofe, ecc.) che mol- to danno ad una poesia siffatta, tutta rivolta all’economia della parola ed a raggiungere il massimo effetto. Va detto pure che questa poesia non va confusa con il frammentismo, né, altresì, con l’astrattismo, perché essa parla un linguaggio aperto alla sensibilità del lettore, assuefatto e coinvolto in un’avventura dello spirito.
Ritornando ai temi di questa poesia, dal motivo degli affetti familiari a quello dell’attaccamento alla terra d’origine, dall’amore a quello della natura, il passo è breve. È stato già fatto notare, ma piccole sfumature li presentano nella loro luce diversificata che si riflette sull’uomo. La natura ora è deturpata, come in “Gela 1960” o “Spiagge del sud”, ora è umanizzata dal lavoro dell’uomo (“Rose”), e appare solare e bella, incontaminata, come in “Villa Massimiano”, in cui « ori di cactus / aprono isole di sole / e sui cocci di pomice / la lucertola fugge / verso il verde», e desiderata (“Floppy”, «Fatemi fare / – senza inginocchiarmi – / quattro passi, / su una terra reale /…», per il semplice bisogno di vivere, magari per un po’, in diretto contatto con la natura reale, di là di ogni travisamento informatico. Il poeta preferisce rifugiarsi in essa e sentirne i palpiti,
anche le negatività che possono esserci. Sono parte integrante della vita con tutta la consapevolezza della sofferenza a cui va incontro.
L’amore è il sentimento forte che fa sprofondare il poeta in un piacevole baratro:
Affondo in te
per amarti
e gli occhi tuoi socchiusi s’aggrappano al buio
per soffrire.
Un baratro
mi si apre nel petto
e sprofondo15
.
Sono i versi di “Per amarti”. Si noti l’analogia, “un baratro”, che dà un senso di smisuratezza a quest’amore, e l’immagine della donna nella sua dolce sofferenza. Nel giro di otto brevi versi, Gaetano Trainito esprime tutta la gioia di vivere, che è anche un eterno morire, per continuare e tramandare l’umana esistenza. Così è in “Luce degli occhi” o in “Soffrire d’amore”, dove, al solo sentore di rimanere solo, dichiara la sua tristezza.
Il più delle volte, però, la donna vive nel ricordo, e l’amore allora non è che intima sofferenza (“Spaventapasseri”, “Incontro”), se si considera che con lei è passato il tempo più bello, ormai, come in «Ore», considerato «… lago d’amore / coperto di nebbia», mentre «le ore / tessute in silenzio / si strappa- no / sotto le mani»16. Di qui l’abbando- narsi nel ricordo, ma la donna è ormai lontana ed allora il poeta è portato a ripiegarsi su se stesso e a illudersi. Si leggano i versi di “Le cose che ama- vo”, o de “Le donne vestite di nero”, in cui, insieme con le donne, egli grida: «ed io sono rimasto bambino17», mentre, quasi in proiezione, si pro la l’immagine della Sicilia cara a Trainito, che ricorda per comunanza di sentire il greco siracusano Teocrito.
O dolce canto nenia
lamento d’amore sospirato
sul metallico fruscio del pizzicato scacciator di pensieri18.
È la lirica “L’aratro”, dove il ricor- do va a ripescare uomini e cose che rivivono in una luce diafana e vera. La poesia si fa canto aperto e musica ammaliante.
Stelle di gesso e Lontani approdi sono le ultime sillogi, in ordine di tempo, che, pur tenendo fede alla poetica che ha caratterizzato finora la poesia del Nostro, presentano qualche novità dovuta ad una particolare disposizione dell’animo che privilegia il vissuto come ricordo in un più insistente piegarsi su di sé, dando più spazio alla nativa propensione alla riflessione. Il poeta rivolge il suo sguardo bona- rio verso le cose della vita che insieme con essa sfumano e dicono addio, senza che questo comporti rinuncia, perché rimane ancorato alla realtà e la vive, nonostante l’inesorabile volgere del tempo e l’enigma del futuro. C’è in queste liriche un più manifesto bisogno di scrutare l’umana esistenza, di voler comprendere il noumeno, il tendere meta sico che è in noi, vivo e pressante, anche se spesso non è oggetto di dovuta attenzione.
Stelle di gesso
sulla lavagna cancellate
con lo straccio. Suona la campana. La lezione è nita19.
La lirica è Stelle di gesso, che dà il
titolo al libro citato. A volercela spiegare, diciamo che la vita, fatta di illusioni, sogni, aspettative, è, per il poeta, nita, ed ora entra nella fase in cui vol- ge al tramonto, nella vecchiezza, dove tutto è visto con distacco e come se le cose non gli appartenessero più. Il poeta è più contemplativo, tende maggiormente alla poesia occasionale (“Cappelle votive”, “Sicilia”) e al ricordo. La donna è ancora presente, ma la sua ormai è una presenza/assenza, come in “Marsala”, “A Cinzia” o in “Foschie”:
Ci siamo persi
in questo cielo grigio tra l’umide foschie …
Addio fantasma, ombra
del recente passato. Eppure
– no a ieri –
io t’ho amato20.
Il verso andante e sicuro richiama da vicino un certo modo di versi ca- re di Cardarelli, ma è una condizione propria della lirica moderna. A ciò è di aiuto l’aggettivazione, che in Trainito è scarna, per la verità, e che qui («sul stanco e lento», «Vago il pensiero / povero e svogliato») concorre parec- chio a ricreare un’atmosfera di sereno abbandono, una calma che altre volte non si addirebbe. Il poeta è portato a rivivere nella donna la bellezza, la stitica bellezza che nel ricordo gli è di conforto.
Rosa (“Rosa”, “A Rosa”) è una dol- ce creatura odorosa di alghe che, come Beate, gli dà sollievo e linfa.
Io
te cerco

– con la bianca schiuma – i miei pensieri
come del ni
a parlarti d’amore21.
Saggi 14
Questa lirica non ha niente da in- vidiare a tanta altra. Nel tono e nelle immagini, nella struttura compositiva, il poeta di Gela ssa in versi limpidissimi una bellezza che gli è lontana, eppure è vivida e presente, ricreata dalla poesia e, ad onta del tempo, continuerà ad essere ammirata.
La silloge Lontani approdi, rispetto a quella precedente, è più scarni cata, risente del tempo e delle cose che furono, e il poeta rivive tutto nel ricordo con distacco ma sempre con l’attenzione che gli ha riservato nelle altre rac- colte. È come se soppesasse di più la parola che, denudata da ogni elemento decorativo, esprime l’essenziale, toccando da vicino l’uomo nel cuore e nella mente.
Il poeta osserva e lascia spazio al silenzio: nella consapevolezza non c’è bisogno di parole, più bene co è l’ascolto. Si legga “Solo con Te” («Solo con Te, / Signore, / reciterò la preghiera / senza parole22») che è una preghiera composta, dove non viene meno la ducia, sostenuta dall’attesa. Ma tutte le liriche di questa raccolta danno spazio all’io che, come in una confessione, si apre per dare libera uscita ai ricordi che affollano l’esi- stenza e sono motivo di ri essione che spesso offre spunti gnomici, frutto dell’esperienza e degli anni.
I desideri e le sofferenze dei primi passi riaf orano
nel sopore della vecchiaia in nebulose parvenze23.
Altrove i ricordi, queste “parvenze” che sono le tracce del passato, diventa- no più sfumati, come in “Dissolvenze”, dove il poeta metaforicamente ricorre all’immagine dell’isola «di volti e di parole / sempre più vuota» e mantiene
la calma per quella consapevolezza di cui abbiamo scritto e che in “Senilità” è molto palese.
Un passato
– nero di grafiti –
in un futuro spento. Un lento trascinarsi tra le pietre e le ombre fuori dell’ore24.
È un guardare in faccia la realtà, senza chiudersi in sé e la canta. Nell’approssimarsi del tramonto, a niente vale illudersi, ed è meglio chiamare le cose col proprio nome. La parola è levigata, come i sassi dal tempo (“Gli inutili soli”), e l’effetto è ammirevole, come il ritmo che è gradito all’orecchio e al cuore. Segno della vitalità di questa poesia, che è capace di fare accettare e non si chiude in sé e le canta le umane avversità e di s dare il tempo.

Salvatore Vecchio

1 1 G. Trainito, Le mani degli angeli, Ragusa, Ci. Di. Bi ed., 1994, pag. 59; poi in Filo spinato, Torino, SEI, pag. 141.
2 M. Vigliano, La poesia di Gaetano Trainito, in “Spiragli”, Anno IX, 1-2, 1997, pag. 29.
3 G. Trainito, Stelle di gesso, Padova, Il Poligrafo, 2000, pag. 71.
4 Ivi, pag. 70.
5 G. Manacorda, “Testimonianze critiche”, in Stelle di Gesso, cit., pag. 90.
6 G. Trainito, Filo spinato, cit., pag. 87.
7 Ivi, pag. 131.
8 Ivi, pagg. 63-64.
9 Ivi, pag. 111.
10 Ivi, pagg. 59 e 61.
11 Ivi, pag. 163.
12 Ivi, pag. 5.
13 Ivi, pagg. 3-4 e 21-22.
14 Ivi, pag. 103.
15 Ivi, pag. 17.
16 Ivi, pag. 49.
17 Ivi, pagg. 11 e 73.
18 Ivi, pag, 119.
19 G. Trainito, Stelle di gesso, cit. pag. 19.
20 Ivi, pag. 60.
21 Ivi, pag. 38.
22 G. Trainito, Lontani approdi, Padova, Il Poligrafo, 2003, pag. 48.
23 Ivi, pag. 58.
24 Ivi, pag. 35. 

 

 

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 7-14.




Ionesco e la critica

 Ionesco e la critica 

Ionesco, agli inizi della sua carriera di drammaturgo, era rimasto disorientato e abbastanza risentito per un certo modo di fare critica. Non aveva tutti i torti, perché spesso tutt’altro si fa che criticare un’opera o, nell’insieme, un autore. Criticare, checché ne dicano i professori, è sapere ascoltare con umiltà e mettersi nelle condizioni di sentire ciò che l’autore dice attraverso la sua opera. Così facendo, se si troverà dinanzi a un vero interlocutore, il critico – io direi il lettore – ne sarà affascinato e ne gusterà l’arte, perché quello gli parlerà direttamente al cuore e lo esalterà nell’anima e nel corpo. Al contrario, si troverà come dinanzi a un muto, mancherà ogni tipo di allusione e vano sarà il tentativo di stabilire un qualsiasi dialogo. 

L’autore, capace di tenere vincolato a sé il fruitore, e di esaltarlo, è quello che diciamo vero artista, che – a sua volta – opera nella piena libertà, lavorando la materia grezza della sua fantasia e dei suoi sogni, avendo cura soltanto del suo lavoro. Il vero artista non è affatto come i politici che, già fin dall’inizio, devono essere inquadrati in questo o in quel partito e in quella corrente; egli è veramente libero e opera incurante di ogni movimento o 

corrente, lasciando, appunto, che siano i critici a interessarsene e a perdersi poi in un labirinto di parole vuote. Venditori di fumo, piuttosto che mediatori d’arte tra l’autore e il suo pubblico. 

Ciò che è capitato inizialmente a Ionesco è stata un’incomprensione tale da far gridare allo scandalo. I critici, più disorientati che mai, pensarono all’arrivo di una nuova barbarie, e netto fu il loro rifiuto nei confronti di quello che poi verrà detto «nuovo teatro». E gliene dissero di tutti i colori. Lo presero per un provocatore (in senso negativo – s’intende -, perché positivamente a tutt’altro porta l’opera di Ionesco), per un dilettante e un imbroglione. Ma non mancarono quelli che lo apprezzarono e lo incoraggiarono fin dalla prima rappresentazione di La cantatrice chauve, riconoscendolo come drammaturgo. E André Breton, per fare un nome, andava dicendo e scrivendo che questo tipo di teatro era proprio quello che mancava al surrealismo che già aveva avuto una poesia e una pittura surrealiste, ma non un teatro (1). 

Noi non percorreremo tutta la bibliografia critica, ché sarebbe troppo lungo: ci limiteremo a citare alcuni saMi che riteniamo abbiano contribuito enormemente a far conoscere e a far comprendere l’uomo e l’artista Ionesco. 

Già nel 1954 Jacques Lemarchand. nella sua prefazione al l° volume del Thédtre d’Eugene Ionesco. dopo essere stato dei primi più accaniti sostenitori della Cantatrice chauve. dice di essere attratto da questo genere di teatro che diverte “perché i suoi personaggi assomigliano a noi indistintamente, agli uomini importanti e a me, – di profilo, – ed è proprio il nostro profilo che egli lancia con brio in queste avventure impreviste, imprevedibili in apparenza. e che spesso riconosciamo addirittura più vere di tutte quelle che ci sono potute capitare». E, avvicinandosi alla conclusione, scrive: «Il teatro di Eugenio Ionesco è sicuramente il più strano e il più spontaneo che ci abbia rivelato il nostro dopoguerra… Esso rifiuta la leziosità drammatica. e con tanta naturalezza che non c’è nemmeno verso di scorgere una “provocazione” – ciò che accomoderebbe tutto – in questo rifiuto». 

Lemarchand individua fin dalle prime opere di Ionesco qual è la motivazione profonda del suo teatro, la quale non è certo quella di fare arte per arte, o di rimpiazzare col suo un certo modo di fare teatro. E quello che meravigliò, e stordì i primi spettatori e i critici, fu proprio la mancanza di un riferimento concreto al reale, mentre, a guardarci bene, era la realtà umana nella sua essenza che veniva loro imposta. Lemarchand intuì lo sforzo di Ionesco di voler cogliere nelle sue sfaccettature l’uomo, presentandolo così come egli è, e non nelle sue apparenze fittizie. 

Ionesco porta sulle scene i mali della società di cui l’uomo è lo specchio fedele (la rozza banalità dilagante, il conformismo, la solitudine, la violenza) e in cui si dibatte per trovare una sua identità e tutelarla dalle quotidiane oppressioni della vita e dalle invadenze della materialità che tende a uniformarlo e a renderlo un oggetto. 

È un discorso nuovo, e come tale, ci vorrà tempo prima che venga accettato. Ora, magari, siamo abituati a questo genere di teatro, ma negli anni Cinquanta fu considerato strano, perché diverso in ogni aspetto dai precedenti, e persino dissacrante di una consuetudine teatrale universalmente accettata. Dalla messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore a quella della Cantatrice chauve erano passati trent’anni e molte cose erano cambiate. Se dal punto di vista prettamente scenico Pirandello aveva trovato soluzioni che verranno attuate e fatte proprie dal «nuovo teatro», e da quello della rappresentazione aveva dato risalto ai personaggi con tutte le loro problematiche. Ionesco opera sul linguaggio, disarticolandolo, e dà grande rilievo agli oggetti. facendo tutto procedere in maniera illogica e priva di un significato apparente. Da qui l’imbarazzo e la difficoltà di capire il testo, da qui anche la taccia di assurdo che questo teatro inizialmente dovette meritarsi. 

Il teatro di Ionesco non solo rompe i ponti con la tradizione, ma pretende che la disposizione dello spettatore sia di uno che rinunci al divertimento fine a se stesso. Insomma, il teatro non è più un posto ove si sciorinano soltanto i panni altrui e la partecipazione è disinteressata, come se non si fosse minimamente toccati dal dramma proposto: esso è divenuto ormai lo specchio della nostra esistenza che costringe a vedere quello che non si vorrebbe, visto che si stenta a riconoscersi in quello che realmente si è. Ma questo ha comportato il non volerlo accettare e ha fatto sì che venisse considerato come assurdo, mentre assurdo non è, se si tiene conto della precarietà della vita odierna. Certo, può sembrare contraddittorio, come lo stesso titolo della Cantatrice chauve, non notando sulla scena una cantante, e tantomeno calva. Lo stesso potremmo dire dell’uomo di oggi che è nella solitudine più nera, nonostante sia più che mai a contatto col suo prossimo e abbia una vita abbastanza frenetica. Egli vive di apparenze e si mostra quello che non è: finge e s’immedesima bene nella sua finzione che a lungo andare lo tradisce, e scoperto, si difende a spada tratta e insiste nella sua testardaggine. Come non si accetta nella vita. non si riconosce nelle rappresentazioni del «nuovo teatro» che, rifuggendo da ogni tipo di sofisticheria drammatica, ce lo presenta nella sua misera nudità. 

Jacques Lemarchand, senza niente indulgere all’amico, riconosce la grande validità della sua opera, e questo suo giudizio troverà – come avremo modo di constatare – riscontro in tutto il teatro ioneschiano. 

Gabriel Marcel è tra quelli che criticheranno negativamente le pièces di Ionesco, specialmente le prime. In un suo saggio apparso nel 1958, La crise du thédtTe et le crepuscule de l’humanisme, considerato che i nuovi drammaturghi 

sono stranieri trapiantati in Francia, parla di « sradicati di cui si potrebbe dire che il pensiero si muove in una specie di terra di nessuno. Un Bechett, un Adamov, un Ionesco, in realtà, vivono ai margini della vita nazionale, quale essa sia, e questo fenomeno di non appartenenza è legato a certi caratteri distintivi della loro opera. Sono dei nuovi arrivati, e con ciò bisogna intendere, non diciamo solamente quello che potrebbe risultare ingannevole, dei diseredati, ma degli uomini che rifiutano ogni eredità… Le opere di questa avanguardia sono in linea di massima espressioni rivelatrici di quella che chiamo qualche volta la coscienza sogghignante». 

L’impressione che si ha a leggere il saggio di G. Marcel è quella di uno che non solo è insofferente a ogni novità, chiuso com’è nell’orto tradizionale, ma che non riconosce all’arte una patente internazionale, facendo differenza e valutando le opere in rapporto al luogo di origine dei singoli autori. Questo è grave in una Francia che predicò la cultura come mezzo di elevazione dei popoli. Vero è che, negli anni a cui ci riferiamo, il nazionalismo era più che mai acceso (lo è tuttora, forse un po’ meno), ma nessuno poteva pensare che si sarebbe arrivati al punto di discriminare autori validissimi che stavano in quel periodo vivificando il teatro. sforzandosi di trovare vie nuove e una nuova credibilità, solo perché stranieri d’origine. 

Gli autori nuovi stavano portando avanti un discorso di rottura con la tradizione, e in questo solo trovavano il loro punto in comune, perché ognuno di essi poi avrebbe sviluppato tematiche proprie; ciò non deve essere considerato motivo di debolezza. bensì pregio e segno di vitalità. 

L’avanguardia degli anni Cinquanta non fu una moda, ma una scelta che in maniera diversa fu portata sino in fondo. Le mode non durano e nel giro di una o due stagioni diventano sorpassate. Le scelte, se sono valide, trovano conferma e si consolidano nel tempo, com’è avvenuto col teatro di Bechett e di altri, Ionesco compreso. i quali – ciascuno a suo modo s’adopereranno a portare sulle scene l’uomo nella sua realtà più profonda, più vera e niente affatto assurda. dando così il via non al “crepuscolo” ma al consolidarsi di un nuovo umanesimo. 

Ionesco non deride l’uomo, ciò che a primo acchito potrebbe sembrare, anche se lo presenta dimesso, trasandato, e apparentemente fuori della normalità, e non fa ironia; se presenta così l’uomo, è perché vuole riportarlo entro i confini dell’umano, da cui si è allontanato. Nuovo don Chisciotte contro i mulini a vento? Forse; intanto, il teatro di Ionesco, dalla prima all’ultima pièce, testimonia la volontà del suo autore di superare l’angusta realtà con una ricerca. condotta in prima persona, tesa a ridare un valore alla vita, tormentata com’è dai mali che s’accompagnano al progresso. 

G. Marcel difende a spada tratta il teatro tradizionale. «Vediamo qui verificarsi il ritorno a una specie di stato bruto. […] uno stato decaduto. […] Il teatro di cui si parla è un prodotto di disassimilazione». E, per dare credito alla sua affermazione, cita un saggio di Ionesco, Espérience du théatre, pubblicato nel febbraio del 1958, dove il drammaturgo, nel vivo della polemica, si lascia prendere la mano da una critica altrettanto pungente contro il teatro tradizionale, non risparmiando nessuno, tenendo conto solo dell’idea che si era fatta. secondo cui, «il teatro non è il linguaggio delle idee», e la sua riuscita consiste nel dare grande risalto agli effetti: «Spingere il teatro al di là di questa zona intermediaria che non è né teatro né letteratura, è restituirlo alla sua funzione, ai suoi confini naturali». E fa il nome di autori più o meno lontani nel tempo. Noi vorremmo solo ricordare che ogni autore vive e risente dello spirito della sua età, per cui, chi viene dopo è sempre avvantaggiato dalla ricerca altrui. A Pirandello (a parte che apporti positivi sono anche negli altri autori), pur accusato di essere troppo discorsivo, possiamo negare il merito di aver rivoluzionato l’arte teatrale? La stessa avanguardia. il «théàtre nouveau» in genere, Ionesco, non gli devono veramente molto? Pirandello, con la prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, ebbe la stessa delusione che subirà trent’anni dopo Ionesco con La cantatrice chauve. Poche le presenze, moltissime le reazioni del pubblico e della critica. 

Il nuovo incontra difficoltà a essere accolto; è oggetto di incomprensioni e di tante riserve. come quelle di G. Marcel, che è portato a chiedersi, a un certo punto, perché sta accordando tanto spazio a questo teatro: non si spiega perché tanti spettatori cominciano a seguirlo. E trova la spiegazione nella stanchezza e nella loro capacità di sopportazione, così come avviene in certe riunioni che si protraggono fino a notte inoltrata: «In realtà, non si ha più niente da dire, non se ne può più, ma non si ha neanche il coraggio di separarsi, di fare lo sforzo necessario per uscire, per andare a coricarsi, e allora, si comincia a fare e a dire stupidaggini». Un modo come un altro per uscire da una rigida presa di posizione come questa, in cui il critico si ostina a non volere riconoscere una pur minima validità a un teatro che, nuovo in ogni suo aspetto, ha tutte le qualità che ci vogliono per imporsi e per farsi amare. 

Il teatro di Ionesco, che non ha niente di drammatico, si ascrive nell’ambito della farsa dove il comico più che muovere al riso disorienta perché non si riesce a capire bene l’obiettivo che l’autore vuole raggiungere. Tutto questo fa sì che lo spettatore rimanga fino all’ultimo come sospeso tra la realtà e il sogno, e solo quando tutta la matassa creativa si dipanerà dinanzi ai suoi occhi, allora vi riconoscerà la cruda realtà, spoglia da ogni conformismo, e avrà maggiore consapevolezza del suo io, quell’io che viene meglio preso in considerazione, e non ridicolizzato, come sembra a Marcel, come se Ionesco, lui tanto amante della vita, avesse fatto propria la filosofia del non-essere. 

Tra il giugno e il luglio dello stesso 1958, l’ “Observer” ospitò un acceso dibattito sull’opera di Ionesco. Il punto di partenza di questo dibattito (Ionesco interverrà con due scritti che avremo modo di ricordare più avanti) fu dato da un articolo di Kenneth Tynan dal titolo: «Ionesco: uomo del destino?», dettato dall’ammirazione per il drammaturgo delle Chaises, che proprio in quei giorni venivano rappresentate al Royal Court Theatre di Londra, e dalla meraviglia che il successo andava oltre le aspettative. Quell’ammirazione, da una parte, e questa meraviglia, dall’altra, spingono la Tynan a chiedersi se non ci si trovi proprio dinanzi a un «messia», e dove voglia arrivare l’autore con la sua «evasione dal realismo». 

L’incomunicabilità che è ne Les chaises può non essere condivisa («Questo mondo non è il mio, ma riconosco si tratti di una visione completamente legittima, presentata con molto equilibrio immaginativo e audacia verbale»), ma – sempre secondo K. Tynan – «il pericolo comincia quando lo si presenta come esemplare, come il solo accesso possibile verso il teatro dell’avvenire, – questo lugubre mondo da dove saranno escluse per sempre le eresie umaniste della fede nella logica e della fede nell’uomo». 

Il teatro di Ionesco, allora, più che ora, non poteva non disorientare, perché in queste prime opere effettivamente non si intravvede alcuno spiraglio; è come se ci venissero presentate delle allucinazioni (tra l’altro poco comprensibili e sul filo di un giuoco verbale molto acceso, che alla Tynan sembrano interessare solo Ionesco), le quali costituiscono la premessa di un lungo straziante itinerario 

destinato a essere ulteriormente proseguito. E ciò che apparentemente sembrava interessare soltanto l’autore, a poco a poco riusciva a coinvolgere quanti gli si accostavano, perché in quel fuori del normale, o del reale, c’era una verità latente e troppo inquietante. 

Fa, comunque, piacere notare che già in quegli anni le pièces di Ionesco varcarono i confini e cominciavano a essere conosciute e rappresentate nei teatri europei. Il 1958 è stata la volta di Londra, ma anche dell’Italia, dove, precisamente a Genova, Paolo Poli rappresentò La cantatrice calva per la regia di Aldo Trionfo, e ad Atene. Ciò significò l’interesse crescente verso quest’autore che, partendo da piccoli teatri parigini, si impose all’attenzione di un pubblico sempre più vasto, conquistando i maggiori teatri del mondo. 

Gilles Sandier, scrivendo di Ionesco nel libro Thédtre et combat, del 1970, a un certo punto, riferendosi alle opere successive del drammaturgo, dà risalto alla retorica e al meccanismo allegorico che le caratterizza e nota una recessione, come se Ionesco, preso dall’idea ossessionante della morte, rinnegasse gli elementi costitutivi dell’antiteatro e, in poche parole, ciò su cui poggiava la sua originalità che consisteva in «una concezione tragica del linguaggio, impotente a esprimere sentimenti e pensieri», e continua: «L’universo favoloso e sinistro che la sua comicità di una volta ci rivelava nel quotidiano ha ceduto il posto a un fantastico di scarso valore e senza pericolo». Ionesco, insomma, stando a quanto afferma Sandier, nella nuova fase del suo teatro dice cose già dette, servendosi, però, di un linguaggio più esplicito, cioè, più letterario e meno poetico. 

Abbiamo scritto che Ionesco disorienta. Così ci troviamo dinanzi a una parte della critica che, dimostratasi indifferente e del tutto ingenerosa verso le opere scritte intorno ai primi anni Cinquanta, cominciò a interessarsi di lui da Rhinocéros in poi, mentre, partendo sempre da quest’opera, un’altra parte di essa (noi abbiamo citato Sandier) ritiene, all’opposto, che Ionesco si sia discostato dal suo modo iniziale di fare teatro, facendo registrare in negativo la perdita della spontaneità che era alla base della sua originalità. A scanso di equivoci, va detto che non c’è stato alcun cedimento da parte di Ionesco. Se è vero che inizialmente Ionesco fu spinto dalla necessità di ridare vigore al teatro, è pure vero che la sua non era soltanto ricerca di nuove formule drammatiche, bensì ricerca spirituale, dibattito aperto soprattutto con se stesso prima che con gli altri: una ricerca che gli permetteva di chiarirsi alcune verità elementari e, al tempo stesso, di servirsi d’un linguaggio più semplice e adeguato a esprimere le conquiste del suo animo. Gli stessi gesti, il moltiplicarsi degli oggetti, le allusioni, saranno ancora presenti e sempre con una funzione di grande importanza per la comprensione; nelle pièces successive, magari, non saranno veri e propri oggetti (come nel Roi se meurt le crepe nelle pareti o le notizie diverse e allarmanti che sopraggiungono dall’inesistente regno, o il proliferarsi delle coma in Rhinicérosl. ma siamo nell’ambito di un equivalente che dice lo stesso il degrado dell’uomo e del mondo odierni. Nonostante questo, a cominciare da Macbett, Ionesco riprenderà il tono parodistico delle prime pièces. 

La tematica è sempre la stessa: l’incomunicabilità, la solitudine, il conformismo, la sete di potere che getta nell’imprevedibile e spinge verso la morte e, ancora, la precarietà della vita e il senso della morte, che annientano ogni illusione; temi che, seguendo uno sviluppo circolare, acquistano via via sfumature diverse. ma che riportano al drammaturgo delle prime opere. Segno di estrema coerenza morale oltre che artistica, grazie a cui Ionesco è, a buon diritto, uno dei massimi esponenti della drammaturgia contemporanea.

Salvatore Vecchio

(1) «Voilà ce que nous aurions voulu faire au théàtre. Nous avons eu une poésie surréaliste, une peinture surréaliste, mais nous n’avons pas eu un théàtre surréaliste, et c’était celui-là qu’il nous fallait».

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 17-24.

 




Specchio dell’animo

Eugenio Bruno, calabrese di nascita e romano di adozione, da qualche anno opera in Sicilia, avendo qui ritrovato la disposizione alla pittura già da tempo accantonata. Attualmente lavora per l’allestimento di una personale che avrà luogo a Madrid nel settembre del ’95, ma al suo attivo ha tantissime altre mostre in Italia e all’estero. 

Quello che incuriosisce di questo pittore è il suo silenzio, la sua riservatezza, lo starsene quasi in disparte, a differenza di altri che espongono ad ogni fatta di luna. 

Ogni artista vero è segnato nel suo profondo da stati d’animo e da situazioni personalissime, e solo a sprazzi, quasi ad intermittenza rallentata, sprigiona prepotente ciò che si porta dentro, rtgenerandolo e facendolo vivere di luce propria, vera, come lo è in casi del genere l’arte. Eugenio Bruno è uno di questi, e più che essere ascoltato, ha forte l’esigenza di ascoltare, di capire il suo travaglio, che è, poi, identico a quello degli altri. 

Potrebbe essere questa una delle motivazioni che diamo al suo riserbo, ma non è certo esaustiva. Per questo abbiamo chiesto a Bruno quale altro motivo stia alla base di questa indifferenza che lo spinge ad isolarsi dal contesto produttivo pittorico di questi ultimi anni. 

«Senza dubbio, è vero quanto dice – risponde l’artista -, e lo confermo appieno; ma il motivo profondo, per cui sembro e sono discostante, è la mercificazione che il più delle volte si fa dell’arte. La vera pittura deve innanzitutto rispondere alle esigenze dell’animo, piuttosto che a quelle del corpo. Come può notare, c’è un abisso tra l’arte come esclusivo profitto e quella come la intendo io». 

Questa dichiarazione è molto utile a chi vuole inoltrarsi nel mondo pittorico di quest’uomo che, a spese sue, sa andare contro corrente, a favore, però, di un’arte che è tutta luce ed è, di riflesso, lo specchio di un animo terso, come tale ci appare l’acqua degli abissi marini o quella, più direttamente toccata dai raggi solari, che è in superficie, oggetto in entrambi i casi di tanti suoi quadri. Si vedano, ad esempio, Gli abissi o Paesaggio, con le diverse gradazioni di luce che danno la somma di tanti colori intensi e vivi, di una luminosità sorprendente, che s’accompagnano alle pennellate ora larghe ora smorzate, in ogni caso, sempre sicure e pronte a cogliere nel segno il bisogno di dire e di comunicare che è nell’artista.. 

Nella pittura di Eugenio Bruno l’esplosione della luce dà la tonalità ai colori che riflettono un paesaggio per tantissimi aspetti surreale. E l’ascendenza surrealista non manca certo in questo pittore, proteso, com’è, verso l’onirico, il diverso, appunto, per cogliere in modo nuovo l’essenza della vita che è nella luce che si dilata e dilata le cose e l’uomo. Per meglio cogliere questo aspetto, che è l’essenza primaria della pittura di Eugenio Bruno, si potrebbe tenere come preciso riferimento Arborescenze, in cui i colori, dilatandosi, sembrano formare un “unicum”, simbolo di uno stato di cristallina purezza, a cui l’artista tende, volendo in esso rispecchiarsi e ad esso richiamare gli altri che questa purezza hanno (ohimè, per sempre?) perso di mira. In questa prospettiva si colloca la splendida tela dedicata a Don Chisciotte. Bruno, con la sua pittura, come il personaggio di Cervantes, in un contrasto di luce, dai colori forti, esprime la condizione dell’uomo di oggi proteso tra la realtà e il sogno, tra la quotidianità e l’evasione. 

L’artista è travagliato da questo dualismo, per cui è spinto da un’esigenza di ricerca che va al di là dell’aspetto estetico, intento, com’è, a scoprire l’essenza della vita e delle cose. Quello che lo interessa è la zona buia del profondo, l’estrazione di quell’io che fa difficoltà ad emergere proprio perché troppo l’uomo è preso dalla materialità e dai rumori. Sicché, se in un primo momento, Bruno si era dato al paesaggio e al fIgurativo, via via è venuto a sviluppare un’arte tutta propria che, pur awicinandolo alle varie esperienze del Novecento italiano ed europeo (De Chirico, Picasso, Kandinsky, Marc), trova la sua ascendenza nel surrealismo, che così recita, servendoci di una frase di De Chirico, a sua volta mutuata da Bréton: «L’opera d’arte deve abbandonare del tutto i limiti dell’umano, deve rinunciare completamente al buon senso e alla logica». 

Le esigenze dello spirito sono quelle che maggiormente contano nella pittura del Nostro. Così si spiega il suo scandagliare delle profondità marine o certi suoi lavori che chiamerei “aerei”, per quel suo giuoco di luci e di ombre che sa di sacche di nubi e di chiaro intenso, facile a vedersi volando. E si spiega così la luminosità che fa da padrona in ogni suo quadro, sia che si tratti di visioni oniriche o che oggetto della sua attenzione sia il mare o il cielo, perché alla base della sua creatività artistica c’è l’aspirazione alla purezza. Di qui anche il contrasto, su cui abbiamo insistito (luci e ombre, lineare e non lineare), che è caratteristico di quest’arte. 

Le stesse sculture, che si rifanno alla millenaria civiltà di Sicilia (in particolare i sei pannelli in cemento che ripercorrono la storia di Marsala dai Fenici ai giorni nostri), riprendono questi motivi che tendono alla ricerca di una forma che bene non si configura. Come nella tela Resurrezione, o in quella ispirata alla Famiglia, opere ben riuscite sia per la fattura, che sa di una delicata stilizzazione degli elementi, sia per i colori, dove perviene (la luce del Cristo resuscitato che squarcia la tenebre attorno; nell’altra, il senso dell’unione, proprio della famiglia, che s’amalgama con l’unicità-molteplicità del creato) ad una simbiosi di realtà e di sogno. 

L’informale che c’è nella pittura di quest’artista si origina dall’insoddisfazione che è in lui, dal bisogno di ricercare una forma che, magari andando al di là della realtà, sia capace di comunicare con sé e con gli altri. Si veda, per esempio, la tela Sicilia, oppure l’altra, La notte. Nella prima, il contrasto prodotto dalla luce (contrasto che caratterizza l’Isola e i Siciliani) o, meglio, la dilatazione propria della luce proietta cladodi di ficodindia somiglianti a ombre umane, mentre nella Notte, che è sinonimo di buio, e anche di paura, i volti stralunati, toccandosi, fanno pensare a una boscaglia, dove i colori, facendosi breccia, urtano (il rosso e il nero sono di predominio) ed esplodono una luce che meraviglia e suscita stupore. Partendo da una realtà, quindi (la Sicilia, per quello che essa è, e la notte che, di per sé, dovrebbe essere un momento di riposo), l’artista va al di là del visibile per immergersi in un’atmosfera insolita, ma pur sempre radiosa e avvincente. E questo viaggio che lo coinvolge ci rende partecipi e ci avvince. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg.41-43.




 Virgilio Titone narratore 

Ci sono scrittori la cui fama dura si e no il tempo di una vita, altri la consolidano di più da morti, come se si dovessero prendere una rivincita per continuare a sfidare il passare inosservato del tempo e far parlare di sé. Di questi è Virgilio Titone scrittore. È noto e si ricorda lo storico, trascurando che fu un eclettico versatile e molto geniale, di vasta cultura che s’interessòdi tutto, lasciando una traccia indelebile. 

Al di là d’ogni tornaconto, guardò esclusivamente all’uomo e all’umanità che è in lui. Per questo continueremo a ricordarlo, mettendo in risalto lo studioso attento, il sociologo, il letterato, lo storico che dà importanza alle piccole cose, perché- diceva – sono la chiave di comprensione dei grandi fatti, e lo scrittore, capace di calarsi nella realtà per farla vedere nella sua luce migliore. 

Virgilio Titone, sia che trattasse di storia o di letteratura, sia che esprimesse, com’è nei Diari1, sue riflessioni, aveva il senso del giusto mezzo del vero scrittore, e tale è da ritenersi: uno scrittore che sa bene dosare la parola per andare subito al nòcciolo del discorso ed esprimere tutto quel mondo visibile o sotterraneo che l’uomo si porta dentro. 

Come narratore, nel senso proprio del termine, si rivelò nel 1971, quando pubblicò presso Mondadori la raccolta Storie della vecchia Sicilia. Nel 1987 la ristampò con alcune varianti presso la casa editrice palermitana Herbita con il titolo Vecchie e nuove storie siciliane. Già nel titolo “storia” sta per narrazione, com’è nella parlata del popolo siciliano, e lo scrittore Titone narra fatti con gli usi e costumi propri di una Sicilia che stava tramontando per sempre, sul finire degli anni Cinquanta, con l’avvento del boom economico; narra alla maniera diodorea ma con puntuali cognizioni di causa la Sicilia che lo aveva visto fanciullo e, nell’avanzare degli anni, con la nostalgia delle cose che furono ma non con rimpianto, perché c’è in lui la consapevolezza che la vita abbisogna di questo lento passare per rinnovarsi e continuare il suo moto, e insieme con quella delle cose, c’è la nostalgia degli uomini che passano, come un fiume in piena, lasciando un ricordo destinato anch’esso ad essere cancellato per sempre. 

Ad aprire Storie della vecchia Sicilia2 è “La zolfara”, seguita da “La pensione” e da “L’odio”. Le prime due nell’edizione palermitana prenderanno rispettivamente titolo “La fuga” e “Gli anni di Mazara”, mentre non verrà riproposta “L’odio” e così anche “L’annunciatore del traghetto” e “Il pranzo di Natale”. In cambio, a corredo della sezione «Nuove storie siciliane», verranno aggiunte “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”, “Andrea” e “L’onorevole trombato”. Pare che l’Autore abbia voluto snellirla nella tematica e, al tempo stesso, rinnovarla per avvicinarsi all’attualità degli anni Ottanta. 

“La zolfara”, poi “La fuga”, e “L’odio” propongono l’immagine della Sicilia, con i suoi pro e i contro, con la mafia e con la povera gente che doveva farsi giustizia da sé rifacendosi del torto ricevuto, essendo lo Stato assente o forte con i deboli. Nella storia “L’odio” un poveraccio che s’era fatto tutto da sé Nicola Rizzo, che aveva conosciuto la vita di emigrato, il carcere, una posizione di agio, perché ci sapeva fare con gli uomini e con le cose, lui, ora don Nicola, non può godersi per una malattia i frutti del suo lavoro, non è ri- cambiato dalla moglie e, per giunta, deve subire le angherie del giovane avvocaticchio, suo cognato. Era questa la ricompensa di tutta una vita, che gli altri, irriverenti e ingrati, avrebbero goduto della sua roba? 

«La sera l’incendio aveva compiuto la sua opera. Pietro eseguì fedelmente gli ordini del padrone. […] Di là tutt’e due guardavano le fiamme che si levavano alte sul paese, mentre i pompieri, accorsi da Mazara, cercavano inutilmente di spegnerle. Nicola guardava il suo regno distrutto e ora si sentiva meglio. Sarebbe restato là Tutto ormai era dietro di lui, mentre la luna illuminava i campi tranquilli e in lontananza il mare di Mazara3». 

La luna è la testimone silenziosa, come lo è stata sempre, degli accadimenti umani e niente può se non alleviare con la sua luminosità il dolore che tutto avvolge, la solitudine che è nelle cose e negli uomini. 

Ne “La fuga” la malvagità spinge un bravo giovane a lasciare tutto, la senia e la madre con cui viveva, per andare alla macchia, dopo aver vendicato il torto subito, rinunciando ad una vita normale a cui aveva aspirato. Non gli mancheranno alcune vecchie amicizie, ma sarà forte in lui la lontananza dalla madre bisognosa di lui. 

Vi troviamo anche, oltre il motivo della vendetta, quello dell’omosessualità diffuso nella vecchia Sicilia, le cui origini affossano molto lontano nel tempo. Titone ricorda i pueri catinensis, ma era un uso normale e consolidato anche nella Sicilia greca e in quella delle miniere. La promiscuità e la solidarietà che si instauravano tra carusi e pirriatura, gli zolfatai, ne favorivano l’uso. È un aspetto poco conosciuto e, per questo, lo scrittore lo inserisce abilmente nella sua “storia”, perché si sappia. Lo storico non prevale sul narratore, ma tutte le occasioni sono buone per dare notizie e conoscenze attinenti alla Sicilia. Perciò non manca di inserire usi e costumi del tempo a cui si riferisce. Ecco un esempio tratto da “La fuga”: 

«Tra l’altro i contadini non vanno all’osteria, né bevono vino se non a casa loro, quando ne hanno, e sempre dopo i pasti. Una volta, come parte del salario di una giornata di lavoro, si usava darne una certa misura, che generalmente era il quartuccio, circa tre quarti di litro, e lo bevevano nei campi. Ora non si usa più Gli zolfatai invece, benché pagati meglio, spendevano tutto quello che guadagnavano ed erano frequentatori abituali delle osterie4». 

Il narratore è un osservatore attento a cui non sfugge niente ed è sempre pronto a cogliere quelle sfumature che concorrono a fissare e a far conoscere quel mondo che stava scomparendo. 

Il tema della vendetta offre lo spunto per scrivere quelle belle pagine che costituiscono la storia “L’esattoria”. Un arrogante, arrivato esattore, un certo Giacalone che aveva comprato anche il titolo di cavaliere, si accanisce contro l’impiegato Bertuglia, assiduo lavoratore che non scende a compromessi, e non manca occasione per riprenderlo e rimproverarlo. Bertuglia non cede ai ricatti e, da buon siciliano qual è ma senza voler spargere sangue, medita la vendetta, facendogliela pagare con la stessa moneta e con fredda impassibile determinazione. 

“Il pranzo di Natale” è ancora l’amara constatazione che la solitudine pesa come macigno sulla testa di ognuno e suona come una condanna con cui l’uomo è chiamato a fare i conti, ma deve trovare la forza per reagire, se non vuole soccombere. È questo, un motivo ricorrente e abbastanza presente nella narrativa del Nostro che così apre a tutto un filone proprio della letteratura europea di quegli anni. 

Col passaggio dalla vecchia alla nuova Sicilia, l’uomo si è scoperto più solo, perché se la modernizzazione ha migliorato materialmente il tenore di vita, nel contempo lo ha isolato ancora di più Allontanandolo dalla campagna, lo ha relegato apparentemente ad una vita più associata ma asociale e deprimente, fatta di apparenze e carente nei rapporti interpersonali che da soli danno senso alla vita. 

Con “L’annunciatore del traghetto” c’imbattiamo in Gaspare Riccobono, un deviatore addetto alla cabina di controllo di mezzi e persone diretti a Villa San Giovanni che vive la sua solitudine nel disagio, così come altri personaggi. Come Nicola Rizzo de “L’odio”, non è amato dalla moglie, non ricambiato nell’amore dall’unica figlia insensibile e, senza darlo a vedere, ritardata mentale e, tanto per non cambiare, un lavoro monotono che lo rendeva automa. 

«Perciò aveva dovuto abituarsi anche a questo: a considerare la famiglia come si considera un male che non si possa né curare né evitare e per il quale non ci sia nulla di meglio da fare che pensarci il meno possibile. […] Aveva cominciato a lavorare nelle ferrovie da ragazzo. Poi si era sposato. Da anni si alzava ogni mattina, sempre alla stessa ora, per fare le stesse cose che aveva fatto e che avrebbe continuato a fare, fino a quando non fosse divenuto tanto vecchio da andarsene in pensione. […] Che senso c’era in tutto questo?5» 

Se la solitudine, come ne “Il pranzo di Natale”, che tratta dell’anziano pensionato cavalier Cataldi, può essere accettata e virilmente vissuta, non così è l’estraniamento che esaspera e rende impossibile il vivere. Riccobono, a lungo andare, diventa un estraniato e medita la vendetta per riscattarsi una volta per sempre. 

“La caccia” e “La visita” ci riferiscono alcuni aspetti della vecchia Sicilia, qualcuno dei quali resiste ancora, specie nell’entroterra o in certi paesi a spiccata vocazione agricola: le lunghe strette di mano di amici e parenti ai congiunti di un morto dopo l’accompagnamento e le visite a casa, il “consolo”, cioè le cibarie che vi si portavano, a consolare il lutto. Ne “La caccia” sono le consuetudini tarde a morire di grossi proprietari terrieri, come don Ciccio Saporito e il barone Merlo, dediti alla caccia che ormai per loro cominciava ad essere un ricordo di altri tempi; e ricordo lontano era ormai per don Ciccio la giovane Concetta, giovane che aveva amato e che ora rivedeva vecchia e appesantita dagli anni «curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle». 

«- Voscenza benedica! – Anch’essa veniva da quel tempo. Don Ciccio la guardò incerto. Sembrava lei, Concetta, quella che era stata Concetta. Ma era possibile? La vecchia veniva avanti, curva sotto un sacco, troppo pesante per le sue povere spalle. […] Concetta non era stata come le altre. Aveva gli occhi lucidi e le carni calde e bianche. Ed era accaduta una cosa strana, che lui non avrebbe mai confessata. A poco a poco aveva preso a volerle bene. E anche lei gli si era affezionata. […] A un nuovo scroscio di pioggia, la salutò – Addio, Concetta! – Lei non seppe rispondere subito al saluto. E, mentre lui si affrettava a tornare indietro, rimase lì col suo sacco ai piedi. Due lacrime le scendevano sulle guance scarne, mentre continuava a guardarlo sotto la pioggia6». 

A leggerlo (ma bisognerebbe leggere tutta la “storia”), è un passo di struggente tenerezza per il poco che dice e per il molto che fa intuire. Titone è un abile lettore e descrittore dell’animo umano. Come un bravo pittore, gli bastano poche pennellate per rappresentare quella vita che è in noi e che ai molti sfugge. Dire in poche parole qualcosa di complesso non è di tutti gli scrittori; lui punta all’essenziale e al vero che è quello che conta e il tempo non scalfisce. 

“Gli anni di Mazara”, intitolata prima “La pensione”, come “Il sogno” e “La strada” della sezione «Ricordi castelvetranesi», sono scritti che rivelano lo strato più intimo dell’uomo Titone, sensibile, umano, vicino ai più umili. Sono gli scritti più propriamente autobiografici che ricordano amici compagni di scuola (“Il sogno”), e uomini affermati che vivevano di ridenti lavori o benestanti nella strada principale del paese (“La strada”) che, ripercorsa dopo lungo tempo, non riconosce più spopolata, com’è da quella gente scomparsa per sempre insieme con le sue cose. 

Sono “storie” che ripercorrono la vita di un uomo, con i suoi incontri, le sue cose care; ricordi che s’intrecciano e che offrono uno spaccato tra il nostalgico e il comprensivo, l’accettazione consapevole ma anche il chiedersi perché viviamo e dove andiamo che in Titone trova ferma risposta nella vitae, quindi, nel viverla con dignità nel rispetto degli umili e dei diseredati, com’è ne “Gli anni di Mazara”. Qui fa le sue prime esperienze lontano dal suo paese e nuove amicizie (quella con il falegname e con il maestro, o col sordomuto suo coetaneo che rivedrà poi in età adulta), e scoprirà un mondo che si porterà dietro per sempre. 

«Quando vediamo in campagna i lunghi filari degli alberi e calpestiamo le zolle che ci danno il nostro pane e ce l’hanno dato da secoli, non pensiamo alle generazioni di contadini che sono vissuti in silenzio, gli uni dopo gli altri, su queste stesse zolle, per andarsene poi e altri li avrebbero seguiti. Il loro silenzio era simile a quello degli alberi e alla voce del vento. Non aspettavano nulla dagli uomini, ma sapevano che la terra poteva qualche volta ripagare le loro fatiche. Ora nessuno più li ricorda, né può ricordarli7». 

Titone scrive le “storie” col cuore in mano, e queste pagine di “Gli anni di Mazara”, che sono tra le più belle della sua produzione, sono tutto un poema in prosa, poesia vera, perché sentita, oltre che vissuta. Si può mai dimenticare l’incontro del piccolo Titone con don Vito il falegname, o la figura generosa e buona del mezzadro di Seggio, Peppe Balsamo, e l’approccio e poi l’amicizia col sordomuto? Sono figure difficili da dimenticare, perché hanno un’anima e una vita loro, lontane da quelle di di un certo realismo che non va oltre il proprio orto. 

Le “Nuove storie siciliane” trattano temi di attualità che sono ripresi più avanti nel romanzo. Solo “L’onorevole trombato” affronta il tema dell’estraniamento e dell’ineluttabilità della vita che sono anch’essi ampiamente presenti nell’opera di Titone. In tutte queste “storie” la Sicilia è di sfondo. Eppure ci appare nella sua luce più vera, popolata di un’umanità spesso dolente, ma aperta e ricca di suggestioni. 

Titone detestava l’accademismo, così come l’arroganza dei colti senza cultura (il Nostro parlava di incultura, propria di quelli che non credono in quello che scrivono) e dei boriosi; e una satira abbastanza pungente la si trova in “L’AIDS in Sicilia: storia di una colonna infame senza la colonna”. 

Egli non ammetteva giocare sull’uomo-persona, qualcosa di sacro che va rispettato, al di là delle convinzioni o delle tare di ognuno. Al centro di tutto c’è infatti, l’uomo, con le sue aspirazioni, i sogni, i problemi che lo attanagliano e che cerca di risolvere, le contrarietà della vita che, imprevedibili, lo sbattono da una parte all’altra senza rendersi conto di niente, e quando tutto sembra giocargli a favore, ecco un’altra contrarietà ancora maggiore lo stringe quasi come in una morsa e, addirittura, lo porta alla morte. 

* 

Altra opera di Virgilio Titone scrittore, a parte gli inediti, è il romanzo Le notti della Kalsa di Palermo, pubblicato da Herbita nel 1987 e riedito postumo, dopo un laborioso lavoro di lima dello stesso autore, nel 1998 dalle Edizioni Novecento in cooperazione con il Comune di Castelvetrano. Ma già molti anni prima, aveva scritto un altro romanzo (La morte del Vescovo), smarrito e poi riscritto, come si legge nei Diari, e tuttora inedito, come scrive in una nota Calogero Messina8. 

Le notti della Kalsa di Palermo, scritto tra la fine degli anni Settanta e i primi dell’Ottanta del secolo scorso, è come avvisa lo stesso scrittore nell’”Avvertenza” premessa all’edizione del 1987, datata Selinunte – Triscina, 20 agosto 1981, un romanzo storico, ambientato in Sicilia proprio in quegli anni, anzi è anche un documento sociologico, storico e psicologico insieme, di una psicologia che non sa di manuali, bensì di vissuto umano e sociale. 

L’edizione del 1998 ha subito molti tagli e varianti. L’Autore vi lavorò con tanta solerzia; si era reso conto che il romanzo così non andava bene e bisognava sfoltirlo dei tanti riferimenti e personaggi che offuscavano le figure centrali e il finale. Ne parlava con Calogero Messina e lo scriveva agli amici Montanelli, Koenigsberger, Caruso. Allo storico Helmut Koenigsberger così scriveva: «La Kalsa è un romanzo sbagliato, sotto tutti i punti di vista: anche per i molti personaggi lontani dalla conclusione finale dell’azione. Infatti se ne sta pubblicando un’edizione ridotta a metà delle pagine», e ad Indro Montanelli: «La pietà per il protagonista, quel ragazzo sepolto senza un nome e cui ho tentato di dare un nome, si è risolta in un romanzo sbagliato: sbagliato come romanzo. Ho perciò tentato di rimediare mostrando nella premessa che protagonista è tutta la Kalsa – e lo è veramente – negli antichi e strani costumi di quell’isola nell’isola, dai poveri pescatori al principe di Lampedusa, anch’egli un quasi kalsitano, né solo per la via in cui abitava9». 

Titone si faceva scrupoli, ma anche nella sua prima stesura il romanzo si legge con piacere. Pur nella densità di contenuti, non è prolisso; è la vita di questo popoloso rione che viene alla ribalta e sembra esplodere, con le strade piene di gente e il vocìo che arriva lontano, a Mazara e pure a Torino o a Malta e Amsterdam, perché fin là s’allarga e si svolge l’azione dei personaggi. 

Certo, snellito com’è nella nuova stesura si fa accostare meglio dal lettore, ma non ha perso niente nella sua sostanza, che è diventata più fluida e coinvolgente. 

Le notti della Kalsa di Palermo è un insieme di fatti ben amalgamati come tessere di un mosaico che nella sua singolarità contribuisce a dare un quadro d’insieme abbastanza convincente e armonico. Sono ripresi e approfonditi i motivi già espressi nelle Storie, e nel movimento sembra che essi vengano fuori per caso, fatti propri dai singoli personaggi che popolano quest’opera, degna, al pari di altre (e forse meglio) di essere letta nelle scuole e studiata, perché oltretutto, ne viene fuori un’immagine della Sicilia a cui non siamo stati abituati dai tanti altri scrittori che invece si servono di essa per fare cassa, una Sicilia auspicante un riscatto che le potesse ridare la dignità di cui solo nel passato poté godere. Titone auspicava un Risorgimento umano e sociale della Sicilia che la facesse risollevare dalla condizione di disagio e di abbandono in cui si trova dall’unità d’Italia ad oggi, perché niente è cambiato in questi ultimi decenni e il romanzo avanza ancora quelle aspettative che non vuole deluse. Per questo fu inascoltato da quanti politici avevano interesse perché tutto rimanesse invariato. 

Dal I capitolo leggiamo: 

«La strada, come tutti avevano capito, era sicuramente inutile. L’avevano progettata per farsi pagare le tangenti sugli appalti. Di strade la zona non mancava. Dopo la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi, era stata aggiunta un’autostrada. Tuttavia anche per essa s’invocava una sacralità che non si doveva negare: il Mezzogiorno, sempre sfruttato, sempre calunniato dall’avido Nord, che mai nulla aveva fatto per i poveri meridionali. Tutto questo si continuava a ripetere, anche se quell’autostrada da un giornalista straniero era stata dichiarata “un’opera faraonica”10». 

Come cambiare se, così com’è è fonte di profitto? Quella di Titone è un’analisi puntuale, obiettiva, fatta sempre con cognizioni di causa, che copre un arco di tempo abbastanza ampio, riferibile a quasi tutto il Novecento, se consideriamo che tanti problemi sono tuttora aperti e non c’è ancora la volontà di volerli una volta per tutte risolvere. Il Nostro non tralascia niente, perché tutto fa parte integrante dell’uomo, viva egli alla Kalsa di Palermo o altrove. Perciò argomenta di scuola, omosessualità emigrazione, devianza giovanile e, quindi, di droga, e denuncia le anomalie sociali che condizionano e rendono difficile la vita: il burocratismo diffuso, la furbizia dei falsi invalidi, l’arroganza dei politici. E c’è anche il decadere delle cose e degli uomini che, non dando il giusto peso al passato, non riescono a cogliere il presente. Di qui il senso dell’abbandono e la solitudine che relega l’uomo a chiudersi in se stesso e a subirne anche le conseguenti ripercussioni sociali. 

Il riferimento alla mafia gioca nell’insieme un ruolo di rilievo. Titone distingue tra quella che era la vecchia mafia, ben rappresentata dal personaggio don Peppino Novacco, e la nuova, aggressiva e delinquente. Ad essa connessi sono la corruzione, il latrocinio, la richiesta di tangenti, la collusione tra mafia e politica, in un momento in cui di tutto questo non si parlava. 

E c’è il ricco tema degli affetti che dalle prime pagine alla fine è svolto con maestria e tanta delicatezza. Pietro, attaccato morbosamente alla famiglia, Nino alla sorella Lia, e don Peppino, e poi Gianni che per amore muore! È un libro che non vuole intermediari, va letto e per questo ad esso rimandiamo. 

A distanza di più di vent’anni dalla pubblicazione, il romanzo è molto attuale. L’Autore, da storico qual è ha saputo leggere il passato, scorgendovi i pregi e anche le storture che continuano a condizionare il presente, dando una chiave di lettura che è andata oltre la semplice registrazione degli eventi; sicché quelle che erano soltanto le sue intuizioni ora sono di dominio pubblico e ancora valide, se si volesse porre rimedio a certi malanni che affliggono la nostra società. 

Virgilio Titone è uno tra i realisti più veri del XX secolo, nel senso che ha trascritto nella pagina il suo modo di sentire e di vedere il mondo con nobiltà di sentimenti, aderenza e partecipazione alla realtà e con una capacità espressiva che bene si coniuga con uno stile sempre controllato, curato anche nei particolari e mai artefatto né artificiale. I più tendono a fare arte, la fanno o vi si avvicinano. Il Nostro ha avuto solo a cuore di esternare il suo mondo, che è poi il mondo in cui viviamo e ci confrontiamo, anche se si è disorientati da ciò che si vede e si sente e spesso disincantati. 

C’è tra gli studiosi e i critici la brutta consuetudine di incasellare un autore secondo parametri precostituiti, collocandolo prima, dopo o sullo stesso piano di un altro autore; si potrebbero addurre tanti esempi attinenti al verismo o al realismo. Ma è cosa che poco interessa, perché ogni scrittore ha una sua personalità e si differenzia, se vero scrittore, dagli altri. Con Titone ci troviamo dinanzi ad uno che, conoscendo la letteratura italiana e straniera, sa bene il fatto suo e opera nella piena libertà e senza condizionamenti, seguendo solo il suo nume ispiratore e facendosi trascinare dal magma che gli esplode dentro. 

A differenza di tanti altri e dello stesso Verga, lui, conoscitore di storia, non fa arte avulsa dalla realtà ma vi arriva, utilizzandola con molta onestà intellettuale. Sicché il suo realismo, dando voce ai tanti popolani, tende a riscattarli in senso sociale e morale, raggiungendo gli obiettivi che si prefigge e vi rimane coerentemente legato con i suoi principi umani e sociali. Perciò chi voglia cogliere nel vivo la Sicilia, e senza preamboli leggere nelle sfumature il presente che è anche il nostro tempo, non ha che accostarsi alle opere di Titone, questo solitario che, disdegnando i compromessi, cercò di avvicinarsi, per capirli, a tutti, da amico tra amici, come lui stesso scrive, a proposito di padre Giacinto da Favara, guidato da «un singolare intuito dell’animo umano e una conoscenza profonda della società in cui viveva11». 

Salvatore Vecchio

* Virgilio Titone, nato a Castelvetrano (Tp) nel 1905, insegnò Storia moderna presso l’Università di Palermo. Ebbe molti interessi e fu uno studioso attento di letteratura italiana ed europea. Fondò e diresse tre riviste: “La nuova critica”, “L’osservatore” e “Quaderni reazionari”. Tra le sue opere, ricordiamo: Espansione e contrazione (1934), Cultura e vita morale (1943), La poesia del Pascoli e la critica italiana (s. d.), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (1955), Origini della questione meridionale. I. Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), Storia, mafia, costume in Sicilia (1964), Machado e Garcia Lorca (1967), Introduzione alla Rivoluzione francese (1966), La storiografia dell’Illuminismo in Italia (1969), Il pensiero politico italiano nell’età barocca (1975). Morì a Palermo nel 1989. 

Note 

1 V. Titone, Diari (a cura di C. Messina), III t., Palermo, Novecento / Comune di Castelvetrano – Selinunte, 1996 / 1997. Un mio saggio, “ I Diari di Virgilio Titone”, si trova in “Spiragli”, XIV, 1999-2002, pagg. 4-12, dove, tra l’altro, scrivo: «I Diari di Virgilio Titone aprono il lettore a tutto un caleidoscopio di idee e di pensieri che costituiscono il fondo della sua vasta produzione. E il lettore, o lo studioso, che si accinge ad esplorarla, non può non tenerli in considerazione, se vuole davvero comprenderla». E ancora, a proposito delle sue opere: «in tutte c’è il rispetto della parola, ponderata e messa al posto giusto, indice di padronanza del lessico che s’accompagna alle idee, di cui l’autore si fa portatore, ma c’è anche il rispetto del limite, cioè la capacità di dire molto nella stringatezza, senza che ciò pesi nell’economia della pagina, anzi la rende agile e piacevole.» 
2 Storie della vecchia Sicilia, nell’edizione del 1971, è così composto: “La zolfara”, “La pensione”, “L’odio”, “La caccia”, “La visita”, “L’annunciatore del traghetto”, “Una notte inquieta”, “Il pranzo di Natale”, “Il terremoto”, “L’esattoria”. Citeremo l’edizione postuma (introd. di L. Zinna) Racconti, Novecento / Comune di Castelvetrano, 1999. Il titolo non è condivisibile per la ragione sopra esposta e nemmeno Titone l’avrebbe accettato, visto che nelle sue edizioni ha usato il termine “storie”. 
3 V. Titone, Racconti, cit., pag. 30. 
4 Ivi, pag. 55. 
5 Ivi, pag. 32. 
6 Ivi, pag, 112. 
7 Ivi, pag, 81. 
8 V. Titone, Le notti della Kalsa (Introduzione di L. Zinna), Novecento/Comune di Castelvetrano), 1998, pag. 22. Vedi Diari (1977-1989), III t., cit. pag. 212: «Ore 3 del mattino. Mi sono svegliato all’ora solita. Sto finendo il Vescovo1». La nota è di Messina. Il nostro auspicio è che quanto prima il romanzo si pubblichi per aggiungere qualche altro tassello alla conoscenza del nostro autore. 
9 V. Titone, Diari (1977-1989), III t., cit., pagg. 271 e 274-275. A pag. 276, nella lettera a Vincenzo Caruso, scrive: «… spero di fare una nuova edizione corretta. È un libro troppo affollato di persone e cose che allontanano dalla conclusione. L’ho ridotto di 70 pagine». 
10 V. Titone, Le notti della Kalsa , cit., pagg. 38-39. 
11 Ivi, pag. 90. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 19- 26.




 Editoriale: Verso il trentennio 

“Spiragli” ha compiuto 20 anni, essendo stata fondata nel 1989, – come recita l’editoriale pubblicato nel n. XXI, 2009. A ricordarne l’attività sono state due manifestazioni: a Marsala il 9 novembre 2009 e a Palermo l’11 dicembre 2009. 

Nella prima, che ha avuto luogo nella Sala delle Rappresentanze dell’ex Convento del Carmine, hanno relazionato Donato Accodo, responsabile della redazione romana della Rivista, e Salvatore Valenti, presidente dell’Associazione per la tutela delle tradizioni popolari del trapanese; nella seconda, che si è svolta nel salone di palazzo Isnello, gentilmente concesso da Jean Paul de Nola che ha coordinato i lavori, ha relazionato lo scrittore-poeta Tommaso Romano ed ha presenziato l’editore Renzo Mazzone. In entrambe le manifestazioni ha preso la parola Salvatore 

Vecchio, fondatore e responsabile della Rivista. 

In quell’editoriale scrivevamo che «la rivista continua, pur nelle difficoltà dei tempi, le pubblicazioni, con dignità e con orgoglio: con dignità poiché non abbiamo chiesto elemosina a nessuno, e con orgoglio, se l’abbiamo vista crescere portando avanti la sua linea editoriale in libertà di scelta» Con libertà di scelta continueremo ad operare in campo culturale, artistico e letterario, augurandoci tempi migliori e maggiori disponibilità al fine di incrementare la periodicità della rivista e diffonderla per l’utilità di tutti. 

In un momento così problematico per la vita comunitaria, c’è l’esigenza di affermare con forza la nostra libertà di espressione che è quanto di più bello e buono l’omo possa avere. E questo diritto lo dobbiamo esercitare con vigore contro ogni condizionamento, senza per questo ledere le idee degli altri e senza scadere nel chiacchiericcio a cui, non volendo, siamo costretti ad assistere e a sentire. Questa è stata la nostra forza, come i relatori sopracitati hanno evidenziato, e su di essa puntiamo ancora per meglio realizzarci come uomini e come appartenenti alla società globale. È l’obiettivo a cui l’omo deve tendere, se veramente vuole affermare con consapevolezza il proprio io, capace di raggiungere vette inaudite o abissi profondi. 

Pubblichiamo, nell’ordine sopradetto delle manifestazioni, le relative relazioni e cogliamo l’occasione per ringraziare quanti hanno contribuito all’affermazione della Rivista, ai relatori tutti (Accodo, Valenti, Romano) che hanno evidenziato le positività del nostro lavoro, mettendo anche in controluce quello che ancora dovremo fare per renderlo migliore. 

Ci auguriamo, pertanto, quanto prima, di dotarci di un sito per dare a tutti la possibilità di seguire i nostri lavori e consultare la rivista con i moderni mezzi di cui la tecnologia dispone. D’altronde è assurdo non adeguarsi ai tempi. Noi lo stiamo facendo, anche con ritardo. Ma se consideriamo che il materiale accumulato nel corso del ventennio è abbastanza vasto, questo giustifica in parte il ritardo. 

La volontà è di mettere a disposizione di tutti la serie completa di “Spiragli” una realtà ormai radicata negli ambienti culturali e quelli letterari, italiani e stranieri. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 2.




 Ventunesimo anno 

«Spiragli» entra nel 21° anno. Fondata nel 1998, la rivista continua, pur nelle difficoltà dei tempi, le pubblicazioni, con dignità e con orgoglio: con dignità, poiché non abbiamo elemosinato niente a nessuno, e con orgoglio, se l’abbiamo vista crescere portando avanti la sua linea editoriale in libertà di scelta. In questi anni abbiamo cercato di rispettare il programma che ci prefiggevamo, cioè, contribuire a dare un apporto di crescita culturale alla società, per ripristinare quei sani valori che danno fiducia nella vita. Per questo motivo, noi diamo valenza all’arte, alla letteratura, alle scienze umane, sicuri che da esse possiamo trarre linfa per costruire un vivere migliore. Scrivevamo allora: «Spiragli è una rivista libera, fuori da ogni condizionamento di parte e da fini di lucro. La motivazione che ci sostiene è prettamente culturale e nasce dall’esigenza di voler dire la nostra nel rispetto delle opinioni altrui. È, dunque, una rivista aperta a quanti sono animati da questi intenti che crediamo – nessuno escluso, operando nella buonafede – siano condivisi da tutti.» Crediamo di essere stati coerenti con gli impegni assunti, se da varie parti arrivano atte-stati di apprezzamento, con richieste di collaborazione, anche dall’ estero. E questo corrobora il proposito di continuare sulla strada intrapresa, dando voce a quanti, meritevoli, non necessariamente affermati, hanno qualcosa da dire in campo letterario, artistico e culturale. Ci prefiggiamo ora di incrementare la pe-riodicità delle pubblicazioni e la diffusione nelle scuole e nelle biblioteche pubbliche, e di ripristinare gli abbonamenti e la distribuzione nelle librerie specializzate. Con questi intenti e con tale spinta opere-remo: è un modo di dare senso alla nostra vita, facendo nostro quanto scrive il Poeta: si cresce in umanità, se si segue «virtute e canoscenza». Ringraziamo per il fattivo aiuto la prof.ssa Maria Di Girolamo, gli editori Renzo Mazzone e Donato Accodo, e quanti collaborano per rendere la rivista sempre più fruibile e interessante. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 2.




V. Monforte, Battaglie editoriali del ‘500 dal Veneto alla Sicilia, ed. Ila Palma, Palermo, 1992, pp. 144.

Con questa sua ultima opera Vincenzo Monforte crea, tra Veneto e Sicilia, un ponte ideale che assume il valore di un messaggio di unità in questi tempi confusi in cui leghismo e separatismo sembrano dominare le coscienze o piuttosto irretirle, plagiarle verso chi sa quali nascosti interessi ciechi ed anacronistici. 

La cultura, invece, non separa, unisce. E certo è di grande conforto scoprire o riscoprire l’indissolubile unità della cultura italiana .dal Veneto alla Sicilia-, sin dai primissimi avvii dell’arte della Stampa e poi durante tutto il Cinquecento. 

Queste .Battaglie editoriali- volte a ricostruire casi clamorosi di concorrenza fra tipografi della stessa città (gli eredi di Aldo Manuzio, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Vincenzo Valgrisi ed altri stampatori veneziani), oppure fra tipografi di provincia ed editori delle città che egemonizzavano la stampa delle grandi opere della cultura classica ed umanistica, ci danno un’immagine confortante ed intimamente unitaria di tutta la civiltà rinascimentale: e ciò al di là e al di sopra della separatezza fra i vari staterelli che componevano l’Italia d’allora. 

Vincenzo Monforte scopre e dimostra che gli entusiasmi che la nuova arte della stampa accese in tutta l’Italia sul finire del ‘400 e il suo prosperare in numerosi centri della regione padana, ma anche in altre città come Roma, Firenze, Napoli, Messina, Perugia, Foligno, Urbino, sono le prove di un’unità culturale ed etnica che faceva sì che l’intera penisola – dal Veneto alla Sicilia – si riconoscesse nella tradizione letteraria e linguistica che, avviata dai poeti siciliani e dal mecenatismo di Federico II di Svevia. si era affermata poi in Toscana, come la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, lingua del bel paese .dove dolce il si suona-. 

Questa unità culturale e spirituale degli Italiani – nota il Monforte – si consolida proprio grazie alla nuova arte della Stampa, con la sua opera capillare ed insistente, estensiva ed intensa. Per quest’opera – dice l’autore – si rese necessario da una parte la delega della cultura umanistica e dei suoi principali centri (Firenze e Roma) in favore di Venezia. affinchè essa si facesse veicolo di diffusione della nuova cultura e delle opere prodotte dalla nuova arte. dall’altra una continua osmosi fra centro e periferia. fra i letterati (o i tipografi) che si trasferivano a Venezia per avere successo (potendo da lì giovarsi della rete e degli itinerari commerciali della Serenissima) e stampatori veneziani che un po’ dovunque creavano succursali in altri centri dell’Italia o della Francia, specialmente a Lione. 

Un quadro d’insieme ricco ed articolato. nel quale Vincenzo Monforte sa inserire, privilegiandola con l’equilibrio e il garbo che lo contraddistinguono, sia la vicenda del Cieco d’Adria, coinvolto nelle battaglie per la supremazia fra gli editori Veneziani, sia le avventure .tipografiche» di Emanuele Filiberto di Savoia che seppe servirsi della nuova arte per italianizzare il suo Piemonte e conquistare all’unità culturale italiana tutti i territori al di qua delle Alpi.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 59-69.