Una lezione di grande umanità 

 Gentili Signore e Signori, 

Innanzitutto, devo personalmente dire grazie al direttore Cammarata, perché ha accolto con piacere il mio invito, e devo dirgli ancora grazie – e gliene do pubblicamente atto -, perché le sue opere, oltre a costituire motivo di studio, mi hanno arricchito moralmente e socialmente. 

In una delle prime “Taratalle” apparse su Spiragli, il prof. Davide Nardoni, ricorrendo alla Filologia Sperimentale, spiega come la parola “poeta” significhi “qualificatore”. 

Ebbene, se poeta è “colui che qualifica”, diciamo che stasera abbiamo l’onore e il piacere di avere con noi un grande qualificatore, un vero poeta: Romano Cammarata. 

Forse, molti dei presenti lo conoscono come l’autore delle lettere piene di umanità che di tanto in tanto pervengono dal Ministero ai dirigenti e ai capi d’istituto. Ma ai molti impegni che la carica di Direttore Generale comporta, Romano Cammarata abbina il suo silenzioso lavoro di artista che lo colloca tra i più accreditati del nostro tempo, e con le sue opere, alla stessa stregua di tanti altri grandi (dall’antichità ai giorni nostri), qualifica gli uomini e la loro condizione esistenziale. 

Si leggano, ad esempio, alcune liriche (Notte siciliana, Presente, Nel circo di notte, Dalla finestra, Amo tutto ciò che scorre). Si possono evidenziare, in questi pochi esempi, tante di quelle motivazioni che da sole basterebbero per intavolare un lungo discorso. 

Ma io non voglio dilungarmi, perché è giusto, in questa sede, sentire la viva voce dell’Autore. Pertanto, rimando, per una più ampia conoscenza dell’uomo e dello scrittore, al mio saggio, fresco di stampa, che porta il titolo di: Arte e vita nelle opere di Romano Cammarata, (*) e mi soffermerò, invece, su “Violenza, oh cara”, l’ultimo suo romanzo, evidenziandone l’aspetto didattico-educativo che nel mio saggio è accennato, come deve essere in uno scritto di un certo respiro, ma che qui merita una particolare attenzione. 

Fatta questa premessa, necessaria, devo dire prima di tutto che chi si accosta ad un’opera del nostro Autore rimane scosso e al tempo stesso affascinato: scosso per la verità del vissuto quotidiano che, specie in Dal buio della notte, porta al pianto e all’immedesimazione diretta col protagonista, affascinato per la compostezza formale, per la dignità di stile che la caratterizza, per cui – sin dall’inizio – vita e arte convivono senza alcuno stacco, e senza un minimo di sofisticheria. 

L’arte, in sostanza, in Cammarata, viene da sé, è qualcosa che nasce spontanea, senza – direi – cercarla. L’arte nasce da sé, perché è il vissuto che assurge a dignità artistica, venendo incontro all’intima esigenza dell’Autore di esternare agli altri il mondo che si porta dentro, per “qualificare” meglio se stesso e gli uomini. 

Il vissuto di Romano Cammarata è quello con cui tutti quotidianamente facciamo i conti; in poche parole, quello della condizione dell’uomo di oggi arroccato nel suo “io”, perché “fuori” predomina il male: da una parte dovuto alle malattie che silenziosamente mietono tante vite umane, dall’altra, alle ingiustizie e ai soprusi che disorientano gli animi e li reprimono. 

I personaggi del nostro Autore reagiscono a tutto questo: Andrea di Dal buio della notte lotta, e vince il male che lo ha deturpato nella persona, ma al tempo stesso lo ha arricchito nello spirito, facendogli ritrovare una “umanità nuova”; Agostino Bertoni di Violenza, oh cara sfida lo Stato, uscendo dall’anonima solitudine dell’uomo qualunque e riscopre il mondo degli affetti più puri e gli altri. 

In fondo, in ambedue i protagonisti, si tratta di violenza subita, una violenza, però, che ha un risvolto positivo. E appunto per questo, diviene cara, perché, ottimisticamente, e in concreto, il male non viene per nuocere. Ecco la giustificazione del titolo. 

Il dettato è sempre lineare, ma con diverse gradazioni della voce, perché venga sentita e apra delle brecce che abbiano un seguito nell’operato dei lettori. Sicché l’aspetto didattico-educativo è esplicito e manifesto, anzi è il vero movente che spinge Romano Cammarata a scrivere. D’altronde non può essere diversamente in un uomo di scuola come lui. 

Ma veniamo a Violenza, oh cara, il romanzo su cui mi voglio soffermare. 

Un abbaglio della Giustizia porta in carcere Agostino Bertoni, da un po’ di tempo pensionato e vedovo, con l’unico impegno di accudire alla cagnetta Eva. Per il resto, una vita piatta e monotona, non invidiabile, che viene interrotta tutto d’un colpo. 

Agostino, in un primo tempo, reagisce, ma subito comprende che non ne vale la pena, visto che, senza un dialogo che avrebbe potuto essere chiarificatore, lo si accusa di sequestro, con prove alla mano. Questo modo di agire dell’autorità lo spinge a non difendersi: che sia il giudice a provare la sua colpevolezza; lui se ne starà a guardare. 

Il dialogo: se tutti vi ricorressimo, tanti mali verrebbero meno. Anche se è risaputo, non sempre è così. Agostino ci dà una grande lezione e ce lo fa riscoprire, pagando lo scotto della violazione del suo diritto alla vita. E farà quello che gli altri spesso non fanno: chiudendosi alla Giustizia, si aprirà a quanti vengono in contatto con lui, e parla e dialoga, scoprendo così la vera essenza della vita. 

Agostino, in carcere, conosce quello che doveva essere l’avvocato d’ufficio e che, invece, diverrà il suo difensore di fiducia e amico. È bastato un breve colloquio, perché Mauro Fonti, così si chiama l’avvocato, venga attratto dalla forte personalità di lui, ne accetti il comportamento, e ne condivida le idee che, il caso vuole, coincidono con quelle del padre, fino a quel momento contestate. 

«Mio padre, che ora è in pensione, l’abbraccerebbe. 
Quante volte ci siamo scontrati per il suo modo di pensare, per quel suo concetto della dignità, per quel non voler 
scendere a compromessi, ed erigersi a giudice egli stesso. 
Ma si sa, è mio padre, e come sempre avviene, è diffìcile 
comprendere i propri genitori». […] 
«Credo che stasera farò felice mio padre, perché lo 
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di 
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione». 
Un contrasto generazionale, come questo tra padri e figli, viene così risolto nel giro di poche battute, grazie al contegno onesto e disinvolto che Agostino tiene nei confronti del suo interlocutore. 
Agostino Bertoni convince con la forza della parola, col ragionamento; e prima 
di esporre agli altri le sue idee, già le ha vagliate al lume della sua esperienza, le ha meditate, bandendo il superfluo e l’incerto. Perciò agisce con la sicurezza di chi è convinto, ma non impone mai i suoi convincimenti con l’autorità dei suoi anni. 

Il bello di questo protagonista è tutto qui. Ed è in personaggi così riflessivi e responsabili come Agostino o Andrea che il lettore trova esempi di coerenza. La loro parola scava in profondità e lascia un segno che non si può dimenticare. 

I personaggi sono veri e nonostante il loro status, ognuno di essi ha qualcosa di buono, o di “bello”, volendo usare una parola cara al nostro Autore, che spinge al bene, e nessuno sarà per il male, perché in Romano Cammarata il male non è nel singolo; è nelle circostanze che la vita associata presenta. Sicché l’uomo ne è una pedina. Dopo, magari, diverrà soggetto e oggetto del male, ed è allora che farà fatica ad uscirne fuori. 

Carlo, il giovane recluso con cui Agostino stringerà amicizia e colloquierà durante la sua detenzione, ce ne offre la prova, ma ci dà anche la prova di una grande abnegazione e di un sentito rispetto per gli altri. 

«Secondo lui [l’avvocato], per una valida difesa, è la 
società che bisogna tirare in ballo, con il suo permissivismo, 
il consumismo; la famiglia per un’educazione sbagliata. la 
noia, il benessere eccessivo, e quindi il disprezzo accumulato 
per tutto questo nel periodo delicato della crescita». 

Carlo non condividerà l’impostazione di una siffatta difesa che, pur di trovare le attenuanti, vorrebbe coinvolgere la sua famiglia, a cui niente ha da rimproverare, e la società. Quando, poi, saprà dell’ingiustizia che l’amico Agostino subisce, allora correrà subito dal giudice e si autodenuncerà, scagionandolo da ogni accusa. 

Una lezione di grande umanità che sembra riportarci indietro nel tempo, ma che l’Autore crede possibile anche ai nostri giorni con un ritorno effettivo all’uomo. Sicché Cammarata ci scuote: sta a noi, ognuno nel nostro piccolo, operare nel bene. Allora il mondo tornerà a sorridere. 

Volendo così tirare qualche conclusione, a proposito dell’aspetto didattico-educativo di Violenza, oh cara, dobbiamo dire che al Nostro sta molto a cuore la famiglia che, nonostante il capovolgimento dei valori a cui giornalmente assistiamo, è basilare per la convivenza sociale e, perciò, va tutelata e difesa. 

In Violenza, oh cara, la famiglia dell’avvocato Mauro Fonti ne esce rinsaldata, difesa l’altra del giovane Carlo, tutelata e rinvigorita dall’amore quella che lo stesso Agostino metterà su quando meno se l’aspetta. Sì, perché uscendo dalla solitudine Agostino riscoprirà anche l’amore vero. 

Ma Romano Cammarata non ce la ripropone soltanto in Violenza, oh cara; questo della famiglia è un tema ricorrente negli altri suoi libri. Si veda, ad esempio, Per dare colore al tempo, dove qua e là riaffiora l’amore coniugale e paterno. 

«La mano ricadde ancora piena 
del gesto di addio. […] 
Il sapore struggente 
di quell’abbraccio di sposa 
e di quello festoso e leggero del bimbo! 
Sapeva di primavera quell’abbraccio 
come le margherite raccolte nei campi 
a riempirmi il cuore e le mani». 

Oppure, si veda ancora il suo primo libro: Dal buio della notte. Qui Andrea riscopre nella figura del padre l’amico sicuro che lo incita alla lotta, perché – dice – ognuno di noi appartiene a quanti ci vogliono bene. Sicché Andrea reagirà e l’amore filiale corroborato vivificherà ancora di più l’amore per la famiglia. E quando Andrea, svegliatosi dopo un ennesimo intervento chirurgico, scorge la moglie che, stremata, aveva preso sonno chinata su di lui, carezzandola leggermente, dirà: «Povera Francesca, […] e io egoista che ho desiderato di andarmene, di lasciarti». 

Le opere di Romano Cammarata, come un terso specchio d’acqua, da cui si dipartono tanti cerchi concentrici, allargano e sviluppano tematiche facilmente riconducibili tra loro. 

Il tema della famiglia, riproposto in modo diverso nelle sue opere, è solo un esempio, ma !’insegnamento di Romano Cammarata non finisce qui, perché investe l’uomo nella sua complessità. Sicché potremmo ricordare tanti altri temi, come quello della libertà individuale, soprattutto quella morale e, di conseguenza, quello del comportamento dell’uomo di fronte alla violenza. 

Questo della libertà morale è presente in maniera più manifesta in Violenza, oh cara, dove l’alto senso dell’umana dignità caratterizza e delinea, meglio che gli altri, la figura di Agostino che già, sin dalle prime pagine, si rivela un uomo di tutto rispetto. 

Come esempio, si legga la pagina dedicata ai randagi. Un cane che va sicuro di sé e, incurante degli altri, dà ad Agostino lo spunto per parlare di certi individui che, pur di farsi avanti, si arrampicherebbero sugli specchi, niente avendo della dignità del cane. 

C’è da dire che i personaggi di Romano Cammarata sono di tutt’altro stampo. Addirittura hanno vissuto esperienze veramente brutte. In un modo o nell’altro hanno sperimentato, a proprie spese, la vita con i duri colpi che essa riserva, e hanno reagito tenacemente fino a raggiungere i loro scopi. E tutto questo non è forse di sprone per la realizzazione di una personalità coerente, per la partecipazione e per la presa di coscienza della realtà di cui facciamo parte? 

L’uomo deve aver fiducia ed insistere nella rivendicazione di quei valori che danno un senso al vivere. E da uomini come Agostino Bertoni o Andrea ci viene questa grande lezione che apre, ottimisticamente, alle aspettative e agli altri con un forte senso di responsabilità e di attaccamento alla vita, la quale va affrontata senza titubanza alcuna, e vissuta, perché veramente, così agendo, ne vale la pena. 

Salvatore Vecchio

(*) “Spiragli”. A. IV (1992) n. l, pagg. 13-35.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 7-12.




Tahar Ben Jelloun, L’enfant de sable, édition du Seuil, Paris, 1985, pagg. 209. 

 Tahar Ben Jelloun, premio Goncourt 1987 per La nuit sacrée, che è la continuazione de L’enfant de sable, in questo romanzo tocca veramente il cuore degli uomini e fa riflettere, lasciando l’amaro in bocca, proprio di chi si rivolta contro il destino. 

È la storia di un padre che, dopo sette figlie, desideroso di avere un erede, decide forzatamente che il prossimo figlio sarà un maschio. Il destino sembra accettare la sfida. Il bambino nasce, ma è una femmina. Hadj Ahmed, così si chiama il padre, complici la moglie e la vecchia governante, annuncia e pubblicizza, tramite giornale, la nascita del desiderato figlio maschio. Sarà una persona che conosce il diario segreto del figlio Ahmed a rivelare l’esilarante verità di una vita così provata dal destino. 

Jelloun dimostra di conoscere bene l’animo umano, scandagliandolo nei suoi angoli più riposti. Il suo è un romanzo di scavo, il cui protagonista è combattuto continuamente dal ruolo che gli è stato imposto e dal suo vero sesso. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 66.




Sempé – Goscinny, Il piccolo Nicola (a cura di S. Vecchio), Coppola editore,  Trapani, 1989, pagg. 194. 

Il titolo originale del libro è Le petit Nicolas. pubblicato nel 1960 dalle Éditions Den6el, e la traduzione italiana è di B. Cardoville. Gli autori sono due noti umoristi francesi: Jean-Jacques Sempé e René Goscinny. 

Il libro viene proposto come testo di narrativa nelle prime due classi della scuola media. È di piacevole lettura ed è interessante anche per i grandi, perché ha in sé certe verità che vanno attentamente meditate e prese in considerazione. 

Nicola, che è l’io narrante del libro, sotto forma quasi di diario, annota tutto quanto gli capita in classe e fuori. E riferisce con la spontaneità propria di un fanciullo che, se inizialmente fa ridere, lascia poi disorientati e fa riflettere. 

Vengono affrontati diversi temi (rapporto tra padri e figli, la famiglia, la scuola, l’amicizia, …) e sono di grande interesse, perché al centro vi è l’uomo con tutte le sue sfaccettature, c’è la società odierna con le sue contraddizioni, la negatività, e c’è anche il sotteso desiderio di volerla migliorare. 

Il libro è corredato dagli stessi disegni originali e da un’appendice di schede che ne facilitano la lettura e l’approfondimento linguistico-riflessivo. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 66-67.




Salvatore Di Marco, Sopra oriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sici- lia delle zolfare, Palermo, Nuova Ipsa Ed., 2006.

Salvatore Di Marco, Sopra fioriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 57-59.




 Sàito narratore 

Sono passati più di trenta anni da quando lessi per la prima volta e scoprii Nello Sàito narratore. L’occasione mi fu data dall’attribuzione dei premi Viareggio 1970. Quell’anno vennero premiati Pietro Citati per la saggistica, Nelo Risi per la poesia e Nello Sàito per la narrativa. Una triade che apparve fin d’allora ben scelta, accomunata com’era, non tanto dal bisogno di dire quanto di contribuire con la scrittura a migliorare la società. 

Nello Sàito, che con Dentro e fuori era al suo terzo romanzo, aveva già evidenziato questa sua attitudine in Maria e i soldati (1948) e ne Gli avventurosi siciliani (1955), e così continuerà negli scritti che seguirono, nella narrativa, nel teatro e in quelli di letteratura o di altro, perché Sàito è un agguerrito germanista oltre che un giornalista che sa il fatto suo. 

Da buon siciliano qual è (il padre di Licata, in provincia di Agrigento, si era trasferito con la famigliola a Roma per motivi di lavoro), senza niente elemosinare, s’è fatto strada da solo, giorno dopo giorno, fidando nella sua caparbietà e nell’intelligenza, in anni del secondo dopoguerra quando era facile aggrapparsi al primo carrozzone e ottenere vantaggi. Caparbio, Sàito, nella sua coerenza d’uomo e di scrittore, anticonformista che di primo acchito può sembrare reazionario, anarchico, mentre invece è animato da sincere convinzioni e da un bisogno forte di andare contro il malcostume dilagante e le opinioni comuni che fossilizzano e rendono incapaci di agire positivamente e per il bene della collettività. 

È un discorso, questo, che va contro il tornaconto e che dovrebbe caratterizzare spesso l’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente ed invece, incuranti dei danni che arrecano, a tutto pensano fuorché a se stessi, eludendo per i più i bisogni elementari che poi sono sacrosanti diritti. Un esempio? Nel momento in cui si parla di ponte sullo Stretto, a che serve un ponte se nell’isola mancano le infrastrutture da garantire un vivere sociale più umano? Mentre tanti rimangono indifferenti, come se la cosa non interessasse, Sàito è una voce ferma nel panorama dell’ intellettuali tà siciliana che da subito si è alzata contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come una spada di Dàmocle sulla testa di tutti senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse e come se tutto fosse rose e fiori, dimentichi della gente che li vive, delle conseguenze che esso può avere sull’ambiente, in un punto geografico da sempre ballerino. 

La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue possibilità, non di un ponte; come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono. Essa è già un ponte, così com’ è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente, e basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che è nella sua gente! Ma dove sono i tanti altri a far da coro a questa voce? 

La sicilianità di Nello Sàito non è nel clamore, non nei colpi di testa e, tanto meno, nella Sicilia a cui non pochi scrittori hanno abituato a guardare, piuttosto pronti a cogliere consensi che a darne un’immagine veritiera. Egli ama la Sicilia e se la porta nel cuore con l’orgoglio del siciliano attaccato alla terra che gli è propria. Perciò ne parla col massimo rispetto, nel timore di poterla in qualche 

modo appannare, e ne evidenzia pregi e difetti, come è bene che sia. Sicché, tratti della Sicilia o dei Siciliani, è sempre pronto a cogliere il positivo e a sposare la causa giusta. Perché, a differenza di Sciascia, di Camilleri o dei tanti loro epigoni, Nello Sàito scrittore esalta la vita, gli uomini e i paesaggi, non la mafiosità e il male, dovunque imperanti (non solo in Sicilia) che distolgono dalla realtà e danno un’ immagine negativa. 

Il siciliano di Sàito (si tengano presenti Mauro di Maria e i soldati o Enrico di Una voce, tanto per citarne alcuni) non è mafioso, bensì uomo ricco di sensibilità, capace di agire e di reagire anche bellamente, e di uscire da situazioni incresciose con dignità, quasi col sorriso sulle labbra. Così anche il lettore è portato ad amare la Sicilia e la vuole conoscere per come è, con i problemi che la travagli ano e le caratteristiche proprie della sua gente, in particolare una che, come scrive H. Koenigsberger, tra tutte le è preminente: la sua umanità1. 

Maria e i soldati, pubblicato nel 1948, vincitore del Premio Vendemmia nello stesso anno, venne ripresentato al pubblico dei lettori nel 1970, conservando intatto quel clima di tensioni e di speranze che fu proprio di quanti vissero la guerra e la resistenza. Tanti scrittori riportarono sulla pagina la loro esperienza di uomini e di partigiani, spinti – come rilevava fin da allora Arnoldo Bocelli – «dall’urgere stesso di quella realtà, della sostanza umana e sanguigna di quella cronaca», altri preferirono tradurre quelle tensioni per vederci chiaro e «risalire dalla irrazionalità di un mondo di sensazione alla razionalità del pensiero, della coscienza2». Tra questi ultimi è il romanzo Maria e i soldati, salutato con i migliori auspici dai critici del tempo (Pancrazi, De Robertis, Gallo, Bocelli e tanti altri). Qui il fatto cede il posto allo studio psicologico del momento, incerto e per questo non meno ricco di risvolti che fanno dello scrittore, ancora alla sua prima opera di narrativa, uno tra i più promettenti e validi della nostra letteratura. 

Il pregio del romanzo, la sua originalità, sta proprio qui, nel trascurare volutamente gli accadimenti per dare più importanza ai soggetti (e alle loro reazioni) che quelle esperienze vivono, ciascuno secondo la sua sensibilità. Ormai siamo negli anni in cui il neorealismo cominciava ad uscire da un modo esasperato e soggettivo di intendere la realtà e la vita per dare inizio alla riflessione e passare così da una esteriorità rumorosa ad una consapevolezza che nella coscienza del singolo trova la sua immediata ragione3. 

Maria e i soldati (4), per questo, è un romanzo corale, nel senso che (popolazione, soldati, militi, partigiani) tutti concorrono a creare un’atmosfera di attesa dovuta all’incognita del domani, all’evolversi della situazione che sempre più diventa incandescente, mentre il paese è diviso e combattuto nel fisico e nella morale. E se prima questa situazione era maggiormente sentita tra quanti erano vicini al potere o in esso coinvolti e nei luoghi più direttamente interessati, ora (siamo intorno al 1944) vivono in stato di agitazione anche quelli che si erano ritenuti al sicuro e fuori di ogni pericolo. 

Il racconto è incentrato su un distaccamento di soldati che nei magazzini della Sussistenza di una non ben precisata località del Centro Italia, a pochi chilometri dalla borgata di Santa Fiora, lavora ai forni e fornisce di pane e di viveri la zona militare di sua competenza. Tutto tranquillo, fin quando non si verificarono le prime avvisaglie di incursioni aeree alleate, ma soprattutto fin quando ai magazzini non arrivarono i militi con l’ordine di tenere la situazione sotto controllo. C’era un sottile malessere tra i soldati, specie da quando le azioni dei partigiani cominciarono a coinvolgerli direttamente, e il comandante aveva pensato bene di chiedere rinforzi. Anche perché un giorno o l’altro potevano essere attaccati, cosa che alla fine del romanzo è già decisa e data per scontata. 

Su questo, poca cosa per la verità, ma sufficiente a creare lo stato d’animo particolare che è di guerra, Sàito tesse con sapiente regìa il suo discorso che traduce l’ambiguità, le diffidenze, ma anche la generosità che nonostante tutto ha terreno fertile pure in momenti così tristi, e poi le speranze con i dovuti ripensamenti, la dedizione alla causa. In poche parole, lo scrittore ritrae bene lo stato d’animo delle parti in guerra senza cadere negli eccessi di una retorica che è consueta in opere del genere. 

Tutta la notte Remo stette ad occhi aperti. Cercava una via d’uscita a quella situazione e non la trovava. Egli non credeva ai miracoli: calcolava, non fantasticava più, e se si fosse potuto vedere al buio, in un pezzetto di specchio, quell’ombra infantile che nel momenti di rilassamento affiorava istintiva e trasparente sul suo viso, era stata definitivamente vinta (p. 115). 

La monotonia dei magazzini rotta a poco a poco dalle imboscate ai camion, dall’arrivo dei militi, cede il posto ad un disagio interiore che pesa come una cappa sulla testa di tutti, sui soldati come sulla gente, e ciascuno lo vive a modo suo. Tutti risentono di quel clima di tensione senza sapere bene perché, disorientati, successivamente, solo dopo l’arrivo dei militi, consapevoli di doverli contrastare. La guerra che altrove opera una netta scissione tra nemici, qui è come se non avesse luogo, eppure logora gli animi e rende sospettosi. 

A risentire di questo, Remo è l’ esempio più lampante e più studiato, controfigura di Maria che, a prima vista, può sembrare ambigua, ed invece recita bene la sua parte per legare gli altri alla causa di quanti lottano per uscire dalla guerra. Questa apparente ambiguità si dipanerà alla fine, quando si offre per facilitare l’assalto ai magazzini. Sicché Maria si rivela nella sua luce più vera che va al di là dei sentimenti, e sacrifica tutto, persino se stessa, senza niente chiedere, senza niente dire; sa solo di rendersi utile e per questo aspetta nella dedizione totale il sacrificio. 

Maria è determinata, come Andrea, il capo partigiano, come Bianchetti, il soldato passato con loro insieme a Remo, che, però, non riesce a darsi interamente alla causa, a sentirla con dedizione come gli altri, perché si fa prendere dal sentimento ed è dibattuto dal pensiero di lei che «gli si era infiltrata in corpo lasciandogli come un veleno imprecisabile e vago, che tutti gli avvenimenti posteriori non erano riusciti a spremere dalle sue vene» e dei compagni relegati ai magazzini, dal desiderio di vederli liberi e dal bisogno di amare. Remo è un ostinato, non vuol rendersi conto che in guerra c’è poco posto per i sentimenti. Maria soffre ma non si tradisce, riesce ad essere forte, a far prevalere un’ anima, ed è solo all’ultimo compresa da Remo, quando già le cose precipitano e non c’è tempo per i ripensamenti. 

Maria e i soldati è un romanzo d’amore sofferto, dove l’uomo fatica a vivere la sua umanità con i sentimenti più puri per il trascinarsi di una guerra fratricida che snerva e disorienta, e risulta piacevole sia per i fili sottesi del discorso ‘ narrativo che è pure avvincente, sia per il linguaggio calato nella realtà dei personaggi che non sono nelle condizioni di sfoggiare chissà cosa ma di esporre e di esporsi nella crudezza del momento. Nonostante il disagio che è dovunque, essi sono ben delineati e formano il variegato mondo che vive quel definito periodo. Anche l’aria che essi respirano in quel fazzoletto di terra è la stessa di tante altre parti, e vi prende corpo l’attesa, pur nel precipitare discontinuo di avvenimenti che dicono la gravità delle circostanze: la reazione di Mauro e la sua conseguente uccisione da parte dei militi (e la rabbia rattenuta dei compagni), il malumore e la chiusura della popolazione. E ci sono anche i partigiani che fanno proseliti e incrementano la loro azione di disturbo, il furto della mitragliatrice, la corsa di Bianchetti e il suo incontro con Remo nella casa di Maria … 

Nello Sàito già in questo primo romanzo rivela le sue doti di scrittore inconsueto. Intanto, dimostra di conoscere bene l’uomo e lo sa scrutare senza farsene accorgere, senza far pesare la sua presenza che è pure vigile e sostenuta da una prosa asciutta, senza ricadute o abbellimenti vari, calata nella psicologia dei personaggi, nel loro modo di valutare le cose, nel cercare un perché e nell’agire nel modo più consono . Sicché la scrittura ubbidisce al movimento interno che spesso è concitato, libera espressione del sentire. di tutti. Lo stesso paesaggio è assorbito nella vicenda che i protagonisti vivono, e le descrizioni sono riferite più all’ ambiente che ad altro, un ambiente dove uomini e cose risentono di uno stato di pesantezza e quasi di depressione. 

Arrivarono alla borgata. Remo non era mai stato a Santa Fiora: quattro case strette intorno a una chiesetta dal campanile aguzzo e giallastro. Dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, una strada di campagna, ridiscendendo con larghi giri, conduceva nell’inteno della pianura. Sebbene fossero le prime ore del pomeriggio, non c’era quasi nessuno fuori delle case. 

Da una stalla uscì un contadino con una treggia, tirata da due buoi, piena di paglia mista a concime naturale. I buoi, dalle cui narici fumavano nuvole di alito caldo, si guardarono lentamente intorno: e a un grido dell’uomo si fermarono . di mala voglia, in attesa che quello aggiustasse con un forcone la paglia e il concime che minacciavano di cadere fuori della treggia (5). 

Eppure non mancano momenti. di grande tensione. Si veda la pagina che descrive Mauro nell’osteria con i militi e, quella di Bianchetti e Remo che recuperano la mitragliatrice e vanno defilati alla casa di Andrea. E poi Remo che incontra per la prima volta Andrea e il tumulto che quell’incontro gli suscita. Remo osserva, valuta ma a modo suo, con gli occhi del cuore, e non potrà mai rendersi conto, anche se partecipa, della determinazione di quegli uomini, a partire da Giovannino che nel suo silenzio decide ed è ubbidito e, inoltre, non riuscirà a motivare e tanto meno a giustificare l’uccisione di Antonio o di quella del milite. 

Lo scrittore plasma i suoi personaggi come l’artista la materia grezza, e non è facile dimenticarli perché in ciascuno di essi è la vita con le sue luci e le ombre su cui, vuoi o no, siamo chiamati a riflettere. 

Il secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, fu pubblicato nei «Gettoni» Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, in un momento in cui il realismo cerca nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società. Sàito, al di là delle tendenze, continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. Studiato nella struttura, che è già molto, perché l’autore fin dall’inizio sa dove vuole arrivare, il romanzo si svolge, pur nella sua coerenza logico-narrativa, in due momenti (se non in tre, se si considera a sé la sosta palermitana) collegati tra loro, e il tutto in una prosa ormai padrona e libera, in cui persino il paesaggio ha la funzione di contrappunto, partecipando dell’aria che tira e della disposizione 

d’animo dei protagonisti. Al centro di tutto la Sicilia, con l’ amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solari età non contrasti con la triste realtà della gente. 

Fulvia, giovane milanese di sangue siciliano, viene mandata dalla madre in Sicilia con la scusa che lo zio Rosario sta male e la vuole vedere, ma con lo scopo di darla in sposa al di lui figlio Ninl, frivolo e vanesio. La prima parte del romanzo è dedicata al viaggio della ragazza da Milano fino a Napoli in treno, e di qui per mare fino a Palermo, dove Fulvia farà una sosta con amici casuali (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) che già dalla partenza l’avevano adocchiata per spirito d’avventura. Si vede subito in opera, in treno come sulla nave o nella sosta a Palermo, l’estrosità dei due, che rasenta la comicità, ed è tutto un tocco di colore che mette in risalto alcuni aspetti dell’ essere siciliani, riconoscendo loro la generosità e la genialità delle trovate, il senso dell’ amicizia e anche la loro cocciutaggine. 

Se fin qui tutto si svolge nel segno di un’esaltante euforia dei protagonisti, l’arrivo a Trapani, da parte di Fulvia e di Petralia che la volle accompagnare, segna il cambio di registro che qui diviene drammatico con punte alte che sfiorano il tragico. Fulvia arriva in un momento particolare per don Rosario Barrancu, lo zio, che è ricco ma è anche uno sfruttatore e abusa dei salinari che lavorano nelle sue saline, grandi come un regno. Basta la morte di uno di loro per scatenare una rivolta e per far capire anche che è un mondo da fuggire, materialmente e soprattutto moralmente. 

Al primo apparire de Gli avventurosi siciliani alcuni critici notarono una minor coerenza alla tematica. G. De Robertis e N. Gallo che avevano salutato positivamente e con i migliori auspici Maria e i soldati, ora rilevano un contrasto tra prima («rumoroso, eccedente») e seconda parte («essenziale»)6, ora la caduta nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese7». 

Com’ è strutturato il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene sin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di trattare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano, con nostalgia, reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che l’avvocato Pennisi e l’imprenditore Petralia fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. E quando l’avvocato Pennisi afferma: «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità, perché non ha potuto essere altro, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (basta dire che lo è tuttora), e non si è potuta mai realizzare come avrebbe potuto e dovuto. E la realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani, per cui non resta loro che darsi all’ avventura. 

Sàito, che è nella mente e nel cuore siciliano, ha sperimentato a spese sue questo, e ne soffre, perché sa che a niente valgono i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare una volta per tutte le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una vigile presenza, eppure discreta e mai invasiva. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. Firdusi, l’uomo di fiducia di don Rosario Barrancu è l’esempio lampante di questa categoria di persone fautrice dello schiavismo moderno. 

Alcuni uomini lavoravano nella prima salina, erano a circa trenta metri da noi. Correvano come animali neri, une dietro l’altro, in su e giù, coi cesti pieni di sale sulle spalle. Salivano sull’argine opposto, scaricavano in fretta il cesto e poi tornavano. [ … ] In basso c’era un uomo con una grande paglia in testa; era seduto sull’argine e ogni tanto gridava perché qualcuno dei salinai rallentava8. 

E c’è Barrancu che dalla sua parte ha la ricchezza ed è tutelato da quella stessa legge che dovrebbe essere garante di giustizia. A che vale la rivolta se viene soffocata dalla consorteria dei poteri? Non resta che evadere. Fulvia, liberatasi dalle grinfie dei Barrancu, prima va ad assistere con i suoi amici ad uno spettacolo dei pupi (che è realizzare con la fantasia ciò che è difficile nella realtà), poi fugge insieme con gli altri per non essere compromessa, per essere libera dai condizionamenti. 

E magari dicevano a tutti Sicilia Sicilia ma in fondo erano contenti di esserne fuggiti; e magari dicevano Palermo […] ma poi fuggivano perché essi non volevano tradire, non volevano essere complici di quell’ambiente dove tutti erano con la loro omertà complici9. 

Si potrebbe a questo punto pensare ad un senso di sfiducia, di delusione diffusa, ma in Nello Sàito non viene mai meno la speranza. C’è più che altro una forte denuncia contro lo Stato latitante che, una volta per tutte, deve mettersi dalla parte della gente e rendere giustizia delle inconc1udenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Dopo una lunga parentesi di anni, Nello Sàito ritorna alla narrativa nel 1970 con Dentro e fuori, pubblicato da Rizzoli. Si nota subito che Sàito narratore punti sulla qualità più che sulla quantità, se consideriamo che al suo primo apparire il romanzo viene salutato con molto entusiasmo dalla critica e dai lettori, è finalista al Premio Strega e, sempre nello stesso anno 1970, vincitore del Premio Viareggio. Lo stacco temporale, comunque, non comporta un affievolirsi dell’ impegno o un allontanamento dalla tematica; essi risultano convalidati, e la stessa scrittura ne esce arricchita, sicura, corroborata da un raziocinio che scava nella realtà del momento, e denuncia un immobilismo cronico, asfittico dei Siciliani, pronti ad accogliere mai a rifiutare, vittime non protagonisti della storia, di quella di ieri e anche di quella di oggi, ma lascia pure intravedere una speranza che è quella di non cadere nella tentazione di mollare tutto ed andare come tanti fanno. 

I migliori non hanno trovato di meglio che fuggire da qui. A me verrebbe invece la voglia di non tornare più su, comprarmi un pezzo di terra e inchiodarmi qui non per isolarmi sdegnosamente come il professore di filosofia o trincerarmi nel pessimismo totale di Guardione: ma per cominciare qualcosa proprio da qui, per risalire la corrente, non per me, io sono ormai morto dentro, ma per gli 

altri 10. 

È l’io narrante che pensa, ma è anche il nerbo del pensiero di Sàito che in questo come in altri suoi scritti spinge alla consapevolezza che vuoI dire fare storia, non subirla, bensì cercare di combattere per uscire dai condizionamenti ultrasecolari che oscurano la Sicilia e non la fanno apprezzare. 

Il titolo la dice lunga: Dentro e fuori, in Sicilia e fuori di essa, guardare dentro ma anche fuori, a confronto continuo con gli altri, sentirsi parte viva di un tutto e non chiudersi nel sordo settarismo, come fanno i professori di cui si parla, innalzando muri di incomprensioni e di chiusura. Allora il romanzo si connota come la continuazione ideale de Gli avventurosi siciliani. In entrambi l’io narrante espone lo stato d’animo di chi non vuole accettare, anzi non può accettare situazioni di compromesso e vuole essere se stesso, preferendo piuttosto fuggire o resistere rimanendo e portando avanti coerentemente la propria idea. 

Un professore universitario, nominato presidente di Commissione, da Roma viene in Sicilia per gli esami di Stato, e dovrà imporsi per ottenere un risultato più consono alle aspettative degli studenti piuttosto che un responso distaccato, freddo, dei professori, sempre in combutta e pronti a rintuzzare qualsiasi cosa, ma uniti quando si tratta di difendere il loro operato e il ruolo di cui sono investiti, come se si trattasse di una casta da difendere ad ogni costo. Nelle riunioni e durante gli esami il clima è teso; c’è tanta chiusura mentale ed è inutile affermare che la scuola deve essere viva, se vuole suscitare interesse e continuare la sua opera educativa; perciò, deve cambiare crescendo dentro, ma anche fuori, visto che ormai le informazioni vengono da tante parti. Ma di questo poco si curano i professori, presi come sono da interessi privati, a tutto pensano che ai giovani studenti considerati numeri più che persone. Alla fine, dietro le prese di posizioni del presidente, viene salvato il salvabile con buona pace di tutti. 

Il presidente, sin dal primo giorno va a stabilirsi a Portopalo, sul mare, in provincia di Siracusa, e preferirà viaggiare, pur di tutelare la sua libertà e la integrità morale. Così, al clima pesante degli esami alterna altri momenti che pure fanno scuola, vissuti con gli amici, a stretto contatto con l’ambiente paesano e il mare che gli danno il vero senso dell’ isola e lo mettono in posizione di privilegio, perché gli consentono di guardare dal di fuori dentro, la Sicilia e l’Italia, la scuola come si svolge in un’aula e come è nella vita. Terminati gli esami, il presidente rimane a Portopalo, anche perché col passare di agosto sarà impegnato con la seconda sessione. È la scuola della vita che lo affascina ed è l’amicizia di pescatori come Nunzio, o di Lorenzo e Michele, che lo legano ancor più alla Sicilia. 

Di qui l’idea di volersi stabilire definitivamente a Portopalo, la ricerca di un pezzo di terra e gli ostacoli che, almeno per il momento, non gli consentono di acquistarla. 

A parte gli incontri e le discussioni, la visita a Pantàlica, il riproporsi del contrasto fra passato e presente, più frequenti e vive sono qui, meglio che nella prima parte, le presenze immaginarie del padre e di Fosca che permettono al narratore di fare il punto su temi già anticipati (politica, antifascismo, Nord e Sud) che danno misura della molteplicità di interessi e spingono ad un confronto più aperto e sereno. Per la Sicilia che è musica, ora dolce ora triste, che invade tutto, come acqua del mare, punto fermo di tutto il romanzo. 

Nello Sàito è una voce sicura della nostra letteratura, che affida alla parola scritta ciò che si porta dentro e alla parola s’affida, auspicandosi una società più umana e più consapevole. 

Questo è il suo sentire, questo bisogno gli urge dentro, ed è un discorso di cultura più che di politica. Ed è magistrale ed esemplare insieme il modo come tutto questo è detto. L’autore ha nel sangue il teatro, e la Sicilia è un aperto scenario dove viene rappresentata la storia di tutto un popolo che ha sete di giustizia, che stenta ancora a farsi protagonista e rivendica a sé ciò che da sempre le viene imposto. 

I colloqui col padre lontano e con Fosca sono un efficace espediente con cui Sàito tesse il romanzo e lo arricchisce di pezze d’appoggio solide che gli conferiscono una forte valenza didattica, e gli danno anche materia per la narrazione, scavando in profondità nel tentativo di capire e, di conseguenza, agire. 

«Ma che vai a fare in Sicilia?» 
«Sono venuto proprio per questo, per capire», volevo dirti. «Ti ho disobbedito, lo so.» 
«Ma perché?» 
«Perché non ho mai condiviso questo tuo astio verso la Sicilia che ormai dura da quasi cinquant’anni, mi pare un astio irrazionale; ed io almeno non ne conosco le ragioni. Sei tu piuttosto che devi risponderrni, che non hai mai risposto alla mia domanda: perché sei venuto via di qui? Me lo dici perché?11» 

Vicinanza e distacco, riconoscenza e disobbedienza, portano non tanto a disconoscere l’operato dei padri, ma a verificarlo e perciò a continuarlo, a riconoscerlo. 

C’è anche la visita a Pantàlica. Per il presidente è una nuova esperienza, un tuffo nel passato che non deve coinvolgere più di tanto, perché è il presente che va preso in considerazione. Di qui la sfuriata con Turicchio e contro quanti si chiudono in un immobilismo che è rinuncia ed anche accettazione. Bella, a proposito, l’immagine del contadino che corre dietro al suo mulo che scappa sotto un sole cocente in una terra che è un deserto, ma è altrettanto bella l’immagine del presidente che inveisce ora contro Turicchio ora contro i professori, perché si ribella a questa staticità, lui scheletrico ma deciso ad andare avanti per dare una lezione di coraggio e di grande umanità. 

Dentro e fuori credo sia uno tra i libri più belli scritti in quello scorcio di secolo; a parte il fatto che non cede agli indirizzi di moda, esso non si stacca dalla realtà e ubbidisce al cuore e alla fantasia del suo autore. Di certo, comunque, è il romanzo più interessante, utile, tuttora attuale, che descrive una Sicilia sofferente e meravigliosa al tempo stesso.  

Quattro guitti all’ Università viene pubblicato a Roma, presso Bulzoni, nel 1994. È ancora il tema della scuola, allargato all’Università, che viene ripreso e affrontato in modo aperto, critico e certamente di accusa degli altari della cultura o, meglio, di tanta pseudocultura. Se ne I cattedratici (1969) e in Dentro e fuori Nello Sàito mette a nudo le sfasature, il tornaconto, il solipsismo e l’arrivismo che condizionano spesso i professori, tutti presi da ben altro piuttosto che dal lavoro di competenza, dal di dentro, perché conosce bene l’Università, essendo lui stesso un professore, in questo romanzo denuncia la grettezza e l’ignoranza che li porta a chiudersi in sé, presi dall’orgoglio e da una smania di potere che li mette l’uno contro l’altro. Di quale potere? viene subito da chiedersi, come anche fa il protagonista, e, in ogni caso, ne vale la pena, se a farne la spesa è sempre l’uomo? 

Quattro guitti (Bakunin, Anguilla, Marta e Cipolla) vivono di teatro e non ne possono fare a meno, perché il teatro è la loro vita, in quanto, in uno spazio pur ristretto, la verità prende corpo ed è la dominatrice della scena. Ma le cose non vanno bene. Proprio perché questi guitti dicono il vero, viene loro tolto il teatro di Mola di Bari e vengono a trovarsi in mezzo alla strada con pochi soldi e un camion che fa loro da mezzo di trasporto e da casa, visto che una casa non l’hanno. A Bakunin, un ex studente universitario, viene in mente il teatro dell’Università di Roma, e i quattro, dopo un viaggio movimentato, nottetempo, si presentano nella capitale, sperando nel professor Colapietro che proprio quella notte muore, e con lui la speranza di essere presentati al rettore: dovranno fare da sé, magari servendosi di Francesca, la giovane moglie del morto che niente potrà fare. Sarà Francesca a dire che il marito non andava d’accordo con i colleghi, e un diario trovato sul tavolo di Colapietro darà a Bakunin la dimensione di quel contrasto. 

Il teatro verrà negato, e la reazione è sempre imprevedibile e il più delle volte scatena violenza che si colora di rosso sangue quando i quattro guitti, usciti dalla casa della Colapietro, penetreranno nell’Università e s’impossesseranno del teatro. 

Questa è la trama che però è intessuta da acute notazioni che danno movimento all’ azione. È come se i protagonisti recitassero in un grande palco, ed è il teatro della vita che si apre loro davanti, tra realtà e sogno, anche se a dominare è la realtà che fustiga e tarpa le ali a chi avrebbe e potrebbe dire e fare qualcosa per la collettività. 

Avevamo un piccolo teatro a Mola di Bari, grazioso, ottocentesco, una gemma. Eravamo riusciti a raccogliere dopo due anni di fatiche intorno a noi alcuni giovani, poi adulti: insomma un pubblico, cui volevamo appunto dal teatro aprire gli occhi. Non ce l’avevamo con nessuno, semmai contro il mondo che continuava a camminare ad occhi chiusi e secondo cui siamo noi i sonnambuli. Per essere veri. O se volete finti ma di modello agli altri che secondo noi si sono dimenticati di essere uomini12. 

La tematica è di grande attualità: il teatro e la cultura che non vengono valorizzati come dovrebbero, i professori che s’allontanano sempre più dalla didattica e a tutt’altro pensano che al proprio insegnamento, la violenza che dilaga, il venir meno dei buoni sentimenti e, ancora, il divario Nord-Sud. Eppure il teatro e la cultura che aiutano ad aprire gli occhi non interessano più di tanto ai detentori del potere. Ne è che i finanziamenti sono sempre meno e, nel romanzo, ai quattro guitti non verrà ceduto il teatro e i professori, come Colapietro, che vorrebbero fare bene il loro lavoro sono emarginati. 

L’autore, con una scrittura agile e più che mai essenziale, ha saputo ancora una volta mettere il dito su una piaga che travaglia la nostra società, ed ha parole dure contro i responsabili di questo stato di cose, non per puro gusto di mettersi dall’altra parte, bensì per evidenziare i lati oscuri e aiutare a correggerli. 

Uno dei fili conduttori di tutta la produzione di Nello Sàito è il senso della vita, la moralità e, quindi, l’impegno che ognuno deve fare suo, perché il mondo diventi più umano. Può sembrare un’utopia, eppure alla luce di quanto avviene giorno dopo giorno bisogna puntare su questo, se si vuole evitare il peggio. Dire le cose, gridarle, uscire dal conformismo, è il modo migliore per essere prima di tutto se stessi e poi per ritrovare l’umanità che è in noi e negli altri. 

Con il suo nuovo romanzo Una voce, Sàito si serve di una voce che a poco a poco prende corpo e si manifesta perché predomini il bene e se ne tragga vantaggio, e l’uomo s’avvicini all’uomo per creare insieme condizioni di vita più consone, lontani il frastuono e la materialità. Tanti scrittori, pensatori d’ogni tempo (viene di pensare, a proposito, ad Antoine de Saint-Exupéry), attraverso le loro opere, cercano l’uomo; la stessa cosa è in Sàito particolarmente in quest’opera, dove la piena consapevolezza del modo come gira il mondo fa presagire l’andare incontro all’irreversibile. 

Come in tutti i suoi romanzi, la trama sembra appena abbozzata, eppure è ricca di immagini e contenuti profondi, e la penna è quasi una matita leggera che lascia un segno indelebile e connota persone e cose nella loro luce più vera, perché l’autore vuole arrivare al cuore e alla mente dei suoi lettori, convincere per farli ragionare. E come negli altri, anche in questo romanzo c’è molto autobiografismo, un recupero della giovinezza, la vita in famiglia, un richiamo della Sicilia che si fa sempre sentire, specie nei suoi figli migliori costretti ad andar fuori per realizzare la loro vita. 

Enrico, un giovane professore di storia e filosofia, stanco della stagnazione e del conformismo di provincia, dopo la morte dei suoi lascia la Sicilia insieme con il fratello Tommaso e va a Roma, dove si trasferisce per dare un senso alla vita, a quella sua e del fratello. Il contrasto fra la vita di città e quella del paese è enorme già al primo impatto: è un passaggio dalla noiosa staticità all’assordante caos, da un posto dove ognuno conosce ed è conosciuto fin nei particolari ad un altro dove si è nessuno e si passa inosservati tra una folla senza nome. In attesa di prendere servizio, Enrico e Tommaso vanno in giro per Roma, visitano la basilica di San Pietro e la trovano fredda, con poche persone e per lo più preti che si muovono nella piazza semi vuota come «tanti scarabei neri». Qui è la prima avvisaglia della voce che rimprovera il fasto, mentre altrove come a Gerusalemme è miseria; voce che si fa ancor più insistente all’inizio della partita di calcio cui i due fratelli avrebbero dovuto assistere. Difatti la partita non ci sarà perché essa punirà l’idolatria dei tanti scalmanati e succederà un putiferio: attacchi della polizia, scontri fra tifosi. Tommaso, mentre escono dallo stadio, viene scaraventato a terra, la gamba spezzata. La corsa al Policlinico, il ricovero, tra l’indifferenza dei medici e le proteste dei malati. Anche qui la voce minaccia e punisce l’arroganza di chi cura solo il suo tornaconto. 

Enrico deve per forza di cose ridimensionare le sue attese. La nuova scuola che si rivela conservatrice, il caos e il disagio sociale di Roma, la tracotanza e l’interesse che hanno sede laddove non dovrebbero aver luogo (nel Parlamento come al Policlinico), lo stordiscono talmente che la «voce» che si porta dentro si materializza e diventa più esplicita. A lui e a Carla non resta che fuggire, e da lontano, dall’alto del Gianicolo potranno guardare Roma. Enrico, provato, immagina la distruzione. 

Sàito con questo nuovo romanzo conferma le scelte e i temi altre volte affrontati ed enunciati. Il lettore può leggere Una voce a suo piacere, limitandosi alla narrazione, che è piacevole e fuori degli schemi comuni, soffermandosi magari su qualche particolare che più lo attrae. Ma per quel che mi riguarda, ritengo più utile soffermarmi sugli approcci che l’autore combina, perché egli fa parte di quella schiera molto ristretta di scrittori che insieme ‘ con il piacere della buona lettura regala spunti di riflessioni che non è facile dimenticare. Piacere della mente, ma anche dello spirito che ha pure bisogno di respirare aria nuova e di confrontarsi. Specie in un momento in cui i condizionamenti fanno capire quanto siamo soli e in che stato ci troviamo. 

Altro motivo in più per apprezzare i libri di Sàito, e non mi stancherò di ripeterlo, è che espone con distacco inconsueto la materia trattata e l’immagine che ne viene fuori, sia della Sicilia, dei Siciliani o di altro, rispecchia la realtà e, inoltre, non la esagera e deforma come spesso avviene. Questione di stile ma anche di onestà professionale che spinge lo scrittore ad essere obiettivo e coerente con sé e con gli altri. Va detto anche che le argomentazioni sono attualissime e se pure riferite il più delle volte alla sua terra, hanno un valore che vanno al di là dell’isola e interessano l’uomo ovunque si trovi. La fuga, il viaggio, il conformismo, il rapporto Nord-Sud, quello tra padri e figli, la scuola e i giovani, non sono temi cosmopoliti? 

Una voce è un romanzo loico-riflessivo che condanna la materialità e il conformismo, malattie della modernità, pericolo che ottenebra la quotidianità e rende infelici, lontani dai sentimenti puri. Narratori e filosofi del secolo scorso, drammaturghi (basti pensare a Camus e a Ionesco), hanno affrontato questi temi nella loro cruda drammaticità e hanno prospettato la rivolta, ma l’uomo s’è trovato spesso solo o non è riuscito nel suo scopo o si è chiuso in sé stesso. Il protagonista Enrico reagisce, dà voce alla sua coscienza e senso alla vita. Lui e Carla si salvano perché ascoltano e non sono attaccati ad alcunché, e si rendono uomini. Essi, ed anche Tommaso, sono personaggi ben delineati, e positivi. Miracolo dell’anticonformismo e dell’ anarchismo di Enrico-Sàito! 

Anarchismo? Da professore di filosofia ero abituato a ragionare, a non prendere per principio posizione contro nulla. L’anarchia dell’ 800 era stata utopia, ansia di libertà e per meglio dire di liberazione. Gesù, se era vero che era la sua voce, non era stato il primo anarchico, il primo ribelle contro l’ingiustizia? Che egli all’ ingiustizia contrapponesse l’amore, bene, ma non dimenticava nemmeno, citando spesso l’Antico Testamento, che il problema principale era quello dell’ingiustizia prima dell’amore. E me, siciliano, nonostante ogni critica sulla Sicilia ma per l’umanità, mi trovava particolarmente sensibile. Tornava il giovanile interesse per l’universalismo di me cittadino del mondo? E anche Bruno e Gesù non erano prima di tutto cittadini del mondo? Ribelli l’uno, lui ebreo contro la cultura ebraica del suo tempo e l’altro contro il conformismo, la struttura, la visione non certo italiana dell’inquisizione. Interesse per l’umanità non per se stessi, era questo che mi affascinava13. 

Il lettore sin dalle prime pagine noterà bene la serietà e la compostezza di questa ispirazione che mette in risalto l’invadente amoralità del nostro tempo, ed anche il disagio in cui sono costretti a vivere quanti vogliono starne fuori, come se fossero anormali, mentre sono i portatori sani di un malessere generale che rifiutano e combattono. 

Il mondo saitiano è fatto di documento umano, ma anche è ricco di tanta invenzione, di intreccio, di entrate e uscite di scena con freschezza e disinvoltura, dovuta, credo, alla frequentazione del teatro, anzi, alla professione di drammaturgo dell’autore, ai cui effetti deve anche la sua originalità. E questo perché Sàito non segue la moda, bensì quello che sente e come lo sente, pronto a far macerare la materia destinata a prendere forma. 

A popolare questo mondo sono personaggi comuni ma di alta levatura morale, che si chiedono il perché delle cose per aggiustare il tiro, mai per denigrare o adeguarsi passivamente alla realtà. È gente che si ribella per essere se stessa e dare prova di umanità, e si serve della dialettica dell’anticonformismo, coadiuvata però da motivazioni sempre fondate, calate nella realtà e perciò molto attuali. Più sfumati risultano i ritratti femminili. Tranne Fulvia de Gli avventurosi siciliani, essi sono abbozzati, eppure veri e vivi nella loro misurata presenza. Fulvia è tra le meglio disegnate, esplode vita dai pori e sa il fatto suo e in un modo o nell’altro sa farsi valere. Maria del primo romanzo si staglia e delinea in quel clima di guerra che giustifica la sua equivocità e la fa eroina. Ma tutte sono positive, come Carla di Una voce o la stessa Marta o Fosca degli altri romanzi, tutte ricche di una profondità d’animo che dà loro tono e le risalta. 

Personaggi vivi che a poco a poco prendono corpo e si delineano nella loro luce più vera. Come’ nel conterraneo Pirandello, in Nello Sàito vogliono evidenziare la loro presenza per essere emulati nella realtà. Che è forse la cosa più importante e bella per uno scrittore, e anche per il lettore che nella pagina scritta si riconosce. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquantanni), Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002, pag. 13. 
2. A. Bocelli, Maria e i soldati, «II Mondo », 26.3. 1949. Dello stesso anno sono i contributi di P. Pancrazio «Corriere della Sera», 15.3. 1949 e G. De Robertis, «Tempo», 29. 5. 1949. 
3. Si legga, a proposito, G. Manacorda, «L’età del neorealismo», in Storia della letteratura italiana contemporanea / 1940-1965), Editori Riuniti, Roma, 1972,2″ rist., pagg. 27-49. 
4. N. Sàito, Maria e i soldati, Garzanti, Milano, 1970. 
5. Ivi, pag. 29. 
6. G. De Robertis, Gli avventurosi siciliani, «Tempo rivista». 
7. N. Gallo, Siciliani di Sàito. 
8. N. Sàito, Gli avventurosi siciliani, Garzanti, Milano, 1973, pagg. 141-142. 
9. Ivi, pagg. 176-177. 
10. N. Sàito, Dentro e fuori, Garzanti, Milano, 1973, pag. 131. 
11. Ivi, pag. 22. 
12. N. Sàito, Quattro guitti all’Università, Bulzoni, Roma, 1994, pagg. 8-9. 
13 N. Sàito, Una voce, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2001, pagg. 95-96.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 9-23.




 Ricordo di Nello Sàito, utopista anarchico 

L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore, così è stata intitolata una lettera che Nello Sàito inviò al «Manifesto» e alla redazione di «Spiragli» e fu pubblicata nel n. 1-4 del 2005. Quella lettera, che sprizza uno sviscerato amore per la Sicilia, sembrò premonitrice di qualcosa d’infausto che cercammo di fugare, pubblicando in quello stesso numero il saggio: Sàito narratore. Un omaggio all’uomo, per dire che non era solo e, soprattutto, un omaggio allo scrittore che nella parola scritta credeva e la professava. 

Nello Sàito, uomo e scrittore, non sopportava la chiusura, il conformismo del senso comune e voleva che si ragionasse seriamente per assumere posizioni nette, precise, che facessero valere l’uomo nella sua individualità e nel suo essere profondo. Voleva che ci si battesse per ciò che nobilita la vita e rende veramente liberi da ogni asservimento cui la modernità spinge con insistenza. Utopia? Può darsi. Ma questo era l’ ideale della sua vita, il sogno per il quale lavorò fino all’ultimo e si batté, a costo di essere solo, di non essere ascoltato e seguito; sogno a cui, novello Bruno, fu abbastanza coerente, tanto da continuare nella sua amara eloquenza. Sì, amara, perché il suo eloquio, più che aprirlo, lo chiudeva, limitandone l’azione, e i molti, tesi solo all’utile, s’allontanavano e di Salvatore Vecchio gli chiudevano le porte, restii a pubblicare i suoi scritti, perché la verità fa male. 

Eppure, nel suo silenzio, continuò a lavorare e a pubblicare (anche in proprio), diffondendo il frutto del suo ingegno tra quanti gli erano rimasti vicini e gli amici, che pure gli volevano bene, come fece con Lutero oggi, in cui riporta una puntuale traduzione di un saggio del riformista del 1545, sconosciuto in Italia. Così, indomito, portò avanti le sue battaglie, anche quando il dolore, che da tempo lo travagliava, non lo lasciava più un istante. Perciò, pochi giorni prima di morire, poteva scrivere: «La staticità della nostra esistenza è la nostra condanna. L’utopia anarchica è la nostra ancora di salvezza.» La caparbietà, che non lo fece scendere mai a compromessi, gli fu di aiuto nel perseguire il sogno di tutta una vita, quello di un nuovo rinascimento in cui l’uomo potesse realmente realizzarsi nella libertà e senza alcun condizionamento. 

Di origine siciliana – il padre era di Licata (Agrigento), la madre di San Cataldo 

(Caltanissetta) – Nello Sàito era nato a Roma nel 1920, ma si considerò sempre, come risulta dalle sue opere, siciliano, ultrasiculo, e non mancò occasione per tornare nella sua terra, sia che si trattasse di un convegno pirandelliano o di un esame di Stato. Portò la Sicilia nel cuore e nella mente, guai a parlargliene male! E andò contro quegli scrittori che, per avere credito tra i lettori, evidenziano sempre i lati brutti, contribuendo a dare di essa un’immagine falsa e stereotipa. 

Laureatosi giovanissimo all’Università «La Sapienza», ottenne alcune borse di studio che gli permisero di andare a Berlino per perfezionarsi in lingua e letteratura tedesca; qui, nel 1942, ricevette la visita dell’amico Giaime Pintor, altro giovane promettente di quella triste stagione di guerra. Tornato in Italia, fu assistente di Natalino Sapegno a Roma, poi professore di lingua e letteratura tedesca all’Università «Tor Vergata». 

Intensa fu l’attività di Nello Sàito in quegli anni. Pubblicò saggi e studi di letteratura tedesca (studiò Schiller, Goethe e i romantici tedeschi, ne tradusse altri, Brecht, Kleist, Lutero) e si diede al giornalismo che – come lui stesso scrive – aveva nel sangue. Ai primi anni ’40 risale la collaborazione a «Roma fascista» (cui collaborarono tanti altri che passeranno a sinistra o saranno considerati tali, come Giaime Pintor), a «Primato», a «Il mondo» di Mario Pannunzio e a vari altri giornali. 

Come scrittore, Sàito esordì nel 1948 con il romanzo Maria e i soldati, che gli valse l’attenzione della critica e il «Premio Vendemmia». Questo romanzo, ripreso 

e ritoccato, venne ripubblicato nel 1970, conservando quella novità e freschezza di invenzione che lo rendono originale, per non essere caduto nella mitizzazione della Resistenza in cui tanti incapparono, visto l’abuso che in campo letterario se n’è fatto. 

Un altro romanzo, Gli avventurosi siciliani, è del 1954, pubblicato da Vittorini nella collana «Gettoni» di Einaudi. Se Elio Vittorini, da buon siciliano, vide bene in questo romanzo, spaesati si trovarono i critici, perché Sàito portava avanti un discorso a due angolazioni, per certi aspetti nuovo, ma tendente a dare della Sicilia un’immagine più rispondente al vero. 

Lo scrittore individua nuove strade e vi rimane coerente, tanto da ripercorrerle con maggiore sicurezza e maestria. Il romanzo Dentro e fuori (1970) è apparentemente diverso dal precedente, perché ne continua il tema ma lo svolge con più consequenzialità. La Sicilia acquista una fisionomia diversa, a seconda se si guarda da dentro o da fuori. Unanime fu il riconoscimento; finalista al «Premio Strega», sempre nello stesso 1970, ottenne il «Premio Viareggio». 

Contemporaneamente alla narrativa, Sàito si diede anche al teatro. Già nel 1969 aveva scritto la commedia I cattedratici ed altre ne seguiranno. L’autore affronta il tema dell’Università in modo critico e accusatorio (Il maestro Pip, 1971), della morte (La speranza, 1978; Déjeuner sur l’erbe, 1980; Com’è bello morire, 1986), delle libertà negate (Copione, la rivoluzione è finita, 1971; Il Pinocchio studioso, 1991). Si tratta di temi attuali, svolti in modo distaccato, umoristico ma non cinico, perché la dolente umanità dell’autore si dipana e tende a nuovi approdi, all’utopia, sede di libertà e di piena realizzazione. 

Quattro guitti all’ Università, pubblicato da Bulzoni nel 1994, è un romanzo che riprende il tema della scuola e degli studi accademici. Ancora una volta, lo scrittore va contro quei cattedratici che si chiudono in sé e non pensano alla funzione educativa dell’insegnamento. Sàito, che conobbe bene il mondo dell’Università, usa parole dure e ritiene i professori responsabili di tanto degrado in fatto di cultura e di società. 

L’ultimo romanzo è Una voce, pubblicato da «Terzo Millennio» nel 2001 ed è, a parere nostro, il romanzo di una vita, perché c’è tutto Sàito, uomo e scrittore, fresco di inventiva, essenziale, profondo, convincente, sprizzante di utopistica anarchia e un sentito bisogno di rendere l’uomo più consapevole e responsabile, capace di puri sentimenti. 

Nello Sàito se n’è andato il pomeriggio del 16 ottobre 2006, in un silenzio nel quale lo accompagnava l’autunno romano, mentre le foglie degli alberi, stremate dalla lunga calura dell’estate, resistevano senza fare rumore. E per la cronaca, mentre, per suo vivo desiderio e per la disponibilità dell’editrice I.l.a. Palma, andava in macchina una nuova edizione della sua frizzante pièce teatrale Il Pinocchio studioso, col vivace monologo finale Il Pinocchio avventuroso. Egli se n’è andato con la parola «Gesù» sulle labbra e la mano nella mano della moglie, come aveva desiderato. Così cessava di vivere la sua vita terrena il fustigatore dei cattedratici e dei politici, l’utopista anarchico, lasciando i suoi scritti e l’esempio di una dirittura morale irreprensibile, vera, con un ‘idea alta dell’uomo e della sua dignità. 

Ora che Sàito non c’è più, venuta meno ogni remora, sarebbe il caso di rileggere le opere e di farle conoscere come una parte di noi che, emergendo, si accetta e si ama. La sua opera appartiene a tutti, per l’anelito di indipendenza e di libertà che trasuda, per l’aspirazione ad un bene condiviso, per il bisogno che è nell’uomo di farsi valere, al di là delle apparenze e delle mistificazioni che lo schiavizzano e rendono anonimo o insignificante. Essa tiene a precisare che la dignità è un bene da tutelare e difendere, a costo di fuggire o chiudersi nella solitudine, come fanno Enrico e Carla di Una voce, che fuggono da Roma cadente e decrepita, salvando sé stessi e la propria umanità, ritrovando il loro essere autentico e vivo. 

Ma, a parte la sua significativa presenza nella letteratura e le prese di posizione nel dibattito politico-sociale, Nello Sàito fu un siciliano rispettoso della sua terra, sempre orgoglioso delle sue origini, pronto a difendere in ogni occasione e, al momento opportuno, altrettanto pronto a denunciare le negatività che oscurano l’immagine della Sicilia e la rendono refrattaria ai cambiamenti; e la sognava autonoma, spiritualmente indipendente, sovrana come nell’antichità, al centro del Mediterraneo, un’altra Svizzera, gestita da uomini non condizionati da politiche centriste ma da siciliani veraci e intelligenti. Questa la sua sicilianità, bella, sinceramente sentita e apertamente dichiarata. 

Vorremmo che Nello Sàito venisse ricordato anche per questo, ma, prima di ogni cosa, che la sua opera fosse conosciuta, perché lo scrittore, il commediografo, il saggi sta, possano emergere nella vera luce e indicare ai lettori quei principi di indipendenza assoluta per cui valse (e vale) battersi una vita. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 3-5.




 Ricordo di Giovanni Salucci 

Giovanni Salucci, scrittore, poeta, nostro collaboratore (faceva parte del Comitato di redazione di «Spiragli»), è morto dopo un ricovero ospedaliero. Aveva 83 anni. Era nato nel 1925 a Scurcola Marsicana, frazione di Cappelle dei Marsi (L’ Aquila). 

Trasferitosi giovanissimo a Roma, dove, avendo avuto come maestri De Ruggiero e Sapegno, conseguì la laurea in Lettere e Filosofia, lavorò presso il Ministero dei Beni Culturali e ambientali, occupando la carica di dirigente superiore e ispettore generale. Scrisse vari romanzi e saggi (La lampada rossa, La mafia dietro la scrivania, Bibbia, Vangelo e Corano) e poesie, che denotano una fine sensibilità e un’aspirazione ad un mondo più giusto e umano. 

Donato Accodo scrive in un suo profilo critico: «Come in Silone, è viva in Salucci una profonda sete di giustizia, un’aspirazione non retorica ad un mondo, dove domini il rispetto per la creatura umana e sia posto al bando il sopruso, la prevaricazione, l’egoismo. È vivo in lui, come nell’altro, anche il senso dello Stato e di qualunque struttura sociale (sia essa laica o confessionale) come organizzazione al servizio effettivo dei bisogni, delle esigenze del cittadino e dell’uomo e non a sua rovina. I tempi diversi in cui si sono trovati ad operare i due scrittori abruzzesi hanno dato una sfaccettatura diversa, un timbro diverso alla medesima ansia di riscatto, alla medesima fede in un avvenire migliore per tutti gli uomini.» 

Al di là di ogni giudizio sulla sua figura di operatore culturale, che può essere suscettibile di variazione, nell’arte come nella vita, Giovanni Salucci fu soprattutto poeta e vide sempre la realtà con gli occhi del fanciullo che era in lui. Di qui l’esigenza di conciliare i contrasti per ricondurli ad un bene comune e salutare per la pacifica convivenza tra tutte le genti. 

Bibbia, Vangelo e Corano trae spunto dalla sentita esigenza di cogliere le positività proprie di queste religioni per scongiurare ogni forma di fanatismo che spesso degenera nell’odio e nella guerra. 

Ne era fermamente convinto, e a questa idea dedicò gli ultimi anni della sua laboriosa esistenza. 

Per questo, e per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico caro e disinteressato, Giovanni Salucci non è morto; egli vive in noi col suo sorriso, con le sue idee e il bisogno di condividerle. E, mentre siamo vicini al dolore della moglie Emma e dei due figli, esprimiamo l’auspicio di veder pubblicati i suoi inediti, perché possa essere conosciuto da un pubblico più vasto, e apprezzato, nei suoi valori ideali, come è giusto che sia.

Salvatore Vecchio

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 51.




 Ricordando Mario Caruso

Mario Caruso se n’è andato per sempre e forte è il rammarico per non averlo saputo prima! Era un bravo educatore, un politico serio, un uomo disinteressato, e un prolifico scrittore. Sono doti non comuni che rendono grande l’uomo e lo fanno vivere in coloro che lo hanno conosciuto vivere nel ricordo di chi lo conobbe pronto a dare una mano per risolvere i problemi della gente. 

Egli fu un uomo socialmente impegnato, nel senso che per lui la politica era un modo per essere accanto a chi ha veramente bisogno di aiuto per riuscire a divincolarsi da tutte le difficoltà di ogni giorno. La sua era una battaglia contro il mal affare di tanti che depredano la cosa pubblica, trascurando il bene comune che solo garantisce un vivere sereno. Per questo era infaticabile, e tu lo vedevi dibattere sui canali televisivi locali i problemi e le anomalie che spesso ricadono sui più deboli e i bisognosi. Ma lo vedevi anche affrontare gli argomenti più disparati nei giornali che lui stesso approntava perché tutti venissero a conoscenza di quanto stava avvenendo in campo locale o nazionale. 

Noi ricordiamo l’amico Mario per questo, sensibile come fu a tutto quanto poteva arrecare beneficio alla sua gente, che amò con dedizione, sperando un avvenire migliore. Lo scrittore, autore di una trilogia ben costruita (Il balcone del professar Vicoplato, L’ascensore di Cartesio, Il ladro di sogni), valorizza l’uomo per quello che è con le sue aspirazioni e, inoltre, mette in berlina le nudità dei peggiori, spesso loschi profittatori, come i personaggi negativi di questi romanzi. 

Lo scrittore Mario Caruso, rivolge la sua attenzione al sociale, mettendo in guardia contro l’arricchimento illecito e lo sfruttamento. Questo è il messaggio che ci viene dai suoi romanzi, ed è anche un messaggio di speranza, perché, pur nell’amara realtà, l’ottimismo si fa strada ed affiora nei suoi protagonisti, che, fiduciosi, perseverano per farsi valere e vincere. 

Mario Caruso fu anche un educatore irreprensibile, perché credeva nella scuola educatrice. Alla base di tutto poneva l’educazione, sulla scia di Lambruschini e altri pedagogisti, mettendo sullo stesso piano l’istruzione, e dava importanza al rapporto docente-discente. La scuola, scriveva, «rimane il luogo ideale ove lo studente e il docente s’incontrano in un rapporto dialettico, un rapporto nel quale le posizioni devono essere chiare e trasparenti. Quello dello studente è uno status, non una professione; non ha una controparte nel docente, ma un esperto conoscitore del cammino che egli deve ancora imparare a percorrere. Lo faranno entrambi assieme, ed entrambi usciranno arricchiti da quell’ esperienza. 

Si delinea una scuola che deve puntare solo su ciò che le compete, scrollati di dosso gli orpelli, da cui viene aggravata, che la snaturano e la rendono distante a docenti e discenti. 

Ora Mario non c’è più e si sente la sua mancanza, nella scuola come nella vita, e grande è il vuoto che ha lasciato. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 32.




 Pirandello 

La rappresentazione, in tutti i teatri del mondo, che da più di un trentennio a ora, ininterrottamente, si fa delle commedie di Pirandello, è la riprova di una creatività e di una originalità fuori del comune proprie di questo autore che ha saputo rompere i ponti con la tradizione, col grande rischio dell’incomprensione dei critici – a partire da Croce(1), il cui giudizio per diversi decenni ne ha condizionato la fortuna – e degli spettatori che spesso rimanevano disorientati. 

Oggi la critica, unanime, riconosce la grandezza di Pirandello, considerandolo uno dei maggiori interpreti della società del suo tempo, e non solo italiana. Era il vecchio mondo ottocentesco che, frantumandosi, lasciava lacerazioni profonde che non andavano più nascoste sotto false apparenze e ipocrisie. Le contraddizioni fra il vecchio e il nuovo erano tali che non scuotevano solo la vita sociale, ma disorientavano l’uomo nella sua interiorità, scoprendolo meno stabile di quanto si era creduto. 

Pirandello, con le innumerevoli opere di narrativa e di teatro, traduce quello che era stato l’animo degli uomini di allora, specie quelli della piccola e media borghesia che vedevano deluse le loro aspettative, in vere situazioni di conflitto interiore tese a rafforzare l’idea del dubbio (in noi e negli altri) e l’incertezza del vivere, a sua volta, dominato da un impenetrabile assurdo. 

Interessante, sotto questo aspetto, è Il fu Mattia Pascal (1904), in cui il protagonista, Mattia Pascal, appunto, illudendosi di farsi una vita tutta per sé, incurante dei pregiudizi e delle convenzioni sociali, va a stabilirsi a Roma, prendendo il nuovo nome di Adriano Meis. Ma per poco, perché s’accorgerà subito che gli è impossibile inserirsi in un nuovo tessuto sociale senza i documenti che comprovano la sua identità. Inscenato un suicidio, rientra nelle vesti di Mattia e ritorna al proprio paese, dove nessuno lo accetterà, perché ritenuto morto. Tanto più la moglie che nel frattempo si era risposata. 

All’uomo, come avvenne a Mattia Pascal, non è facile svincolarsi dalle norme sociali, sicché egli non può essere mai se stesso, quale effettivamente sente di essere, ed è sempre quello che gli altri vogliono che sia, anche contro sua voglia, e senza riconoscervisi, perché non è né l’uno né l’altro per quale è ritenuto, bensì nessuno. 

Il grottesco pirandelliano, di cui Il fu Mattia Pascal è un mirabile esempio, consiste nel cogliere le contraddizioni proprie dei personaggi, nello scomporli, mostrandoli quali sono, al di là di ogni apparenza. E questo li porta a volersi rifare una vita tutta per sé, contro i conformismi e le convenzioni profondamente radicati nella società, a qualsiasi livello, anche se prima o poi dovranno fare i conti proprio con queste convenzioni e con questi conformismi, e l’uomo si troverà sempre più solo con se stesso. 

Quattro anni dopo Il fu Mattia Pascal, Pirandello pubblicò il saggio su L’umorismo, dove raccoglie le idee che poi verranno espresse qua e là nei suoi scritti e che costituiscono la sua concezione della vita e la sua poetica. 

«Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua»(2). Così dice Pirandello. Sicché ne deriva che noi non sappiamo chi siamo veramente. 

La verità ci sfugge perché spesso non poniamo l’attenzione su ciò che siamo, ma quali vorremmo che fossimo. Siamo tentati a vederci in una probabile identità, e non in quella che ci appartiene. Quest’aspirazione ci rende insoddisfatti e diversi a secondo le circostanze. Ed è a questo punto che ricorriamo alla finzione, sia con noi stessi che con gli altri: perciò apparentemente siamo uno, ma ogni uomo si fa un’idea, ciascuno a suo modo, riferita a come ci vede. Il risultato è che siamo tanti (e non più uno) quanti sono gli altri, per cui, in quanto uno, siamo nessuno. Ci troviamo già dinanzi al cosiddetto relativismo pirandelliano su cui avremo modo di ritornare spesso, perché condiziona non solo la vita, ma anche il regno dell’arte. 

L’artista umorista (stando alla concezione della vita e, quindi, dell’umorismo di Pirandello) è consapevole del suo lavoro e non si affida all’estro, ma alla riflessione e al sentimento che, pure in contrasto, rivestono un ruolo di pari importanza, in quanto «la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice: lo analizza, spassionandosene: ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario»(3). 

L’artista umorista, in altri termini, non tiene conto dell’apparenza, e va ben al di là, mettendo a nudo la mutevolezza degli uomini, evidenziandone la caducità e le miserie. E l’uomo, così come nella vita, altrettanto mutevole risulta nella creazione artistica, che rende meglio questa mutevolezza con la discontinuità, senza seguire apparentemente un ordine prestabilito, dove tutto sembra affidato al caso. Da una siffatta concezione dell’arte come ricreatrice della vita deriva la drammaturgia di Pirandello che, rompendo con la tradizione teatrale, all’inizio disorientò i critici e gli spettatori, dando vita a quello che doveva essere il teatro contemporaneo. 

Se consideriamo che i due Colloqui coi personaggi (che poi Pirandello utilizzerà per i Sei personaggi in cerca d’autore) risalgono al 1915, a parte tutte le novelle, scritte, addirittura, prima di questa data, e che costituiranno la materia delle altre commedie, oltre il romanzo sopracitato, va detto che Pirandello è anche l’iniziatore del teatro “grottesco”, contro quanti, invece, indicano L. Chiarelli che nel 1916 rappresentava i tre atti de La maschera e il volto(4). 

Per l’occasione, cfr. L. Ferrante, Teatro italiano grottesco, Bologna, Cappelli, 1964, pagg. 26 e sgg. Non sono affatto d’accordo con Ferrante, quando afferma che «Pirandello non può essere considerato la matrice della drammaturgia italiana, ma deve, secondo la definizione di Luigi Russo, essere considerato il caposcuola del decadentismo (mentre D’Annunzio ne fu, ricorda il Russo, il “grande attore”. Spesso la critica italiana e straniera ha adottato il criterio inverso attribuendo a Pirandello un ruolo specifico di leader del nostro teatro, ed ha fatto del “pirandellismo” un genere». Evidentemente, il Decadentismo, per la portata di movimento qual è, dalla fine del XIX sec. a ora, ha condizionato gli uomini e le cose, e nessuno, chi più chi meno, ne rimane esente. Non vedo motivo per cui si debba etichettare così Pirandello, quando tutti viviamo le stesse crisi. Certo, se ci riferiamo all’aspetto culturale, per le sue opere, il Nostro si fa portatore delle istanze del suo tempo con maggiore conseguenzialità di tanti altri, proprio per il rapporto spontaneo che istituisce tra l’arte e la vita. Ma questo non esclude che il grande siciliano non sia al tempo stesso il commediografo che darà un’impronta personale e decisiva al teatro italiano e straniero. E, come la mettiamo col teatro detto dell’«assurdo»? La grande riforma dell’arte scenica, senza Pirandello, sarebbe stata inconcepibile, così come impensabili, tutto d’un colpo, un Ionesco, un Beckett o un Adamov, per citarne soltanto alcuni. 

L’umorismo è suddiviso in due parti diseguali. Nella prima, la più lunga, Pirandello, prendendo spunto da A. D’Ancona che definisce Cecco Angiolieri, in un saggio a lui dedicato, “un umorista”, parte dall’etimologia della parola “umore” per spiegare a sé e agli altri cos’è veramente l’umorismo. 

Innanzitutto, sgombera il campo alla confusione che si fa a proposito, distinguendo tra ironia e umorismo , e chiamando in causa Federico Schlegel, secondo cui «l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza dell’irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di se stesso che la propria vita consacra a giocare»(5). 

Pirandello rigetta una tale definizione, così come è pronto a dire che l’umorismo è sempre esistito ed è presente in ogni letteratura. Per quanto riguarda l’ironia retorica, dice che essa è «una contraddizione fittizia» che non ha niente a che vedere con l’altra che non si discosta affatto dal reale. In base a questo tipo di contraddizione «il Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge, rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del suo transigere: il che, come vedremo, è proprio dell’umorismo»(6). 

Ironia, più o meno manifesta, riscontra Pirandello nei nostri poeti cavallereschi, soffermandosi con giudizi ben riusciti e tuttora validi sul Pulci, il Boiardo e l’Ariosto. Vero umorismo, secondo lui, è nel Don Quijote di Cervantes, dove «il comico è anche superato, non più dal tragico, ma attraverso il comico stesso. Noi commiseriamo ridendo. o ridiamo commiserando»(7). 

Ma ciò che trovo interessante in questa prima parte, anche in vista della produzione che Pirandello da lì a poco farà seguire, è la sua concezione dell’arte. A proposito dell’Ariosto, dice che ogni rappresentazione «che tutti ci facciamo di noi stessi e degli altri e della vita» è illusione, anche se riteniamo “finta” quella artistica e “vera” quella che deriva dalle sensazioni. Ma la differenza tra le due illusioni è dovuta alla volontà. 

La rappresentazione artistica è “voluta”, cioè desiderata e, quindi, cercata, senza niente pretendere, mentre l’altra non costa alcuna fatica e la si possiede in rapporto a quelli che sono i sentimenti di ciascun individuo, venendo così incontro a particolari interessi. Ne risulta che «la differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l’una e non comune l’altra): che quella è interessata e questa disinteressata, il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in se stessa; l’una è voluta per qualche cosa; l’altra si vuole per se stessa». 

La poetica di Pirandello è bene delineata e difesa a spada tratta, e il suo allontanarsi dal verismo è più che manifesto. Le illusioni che ci facciamo vengono ritenute vere, ma esse cozzano con la realtà, sicché il contrasto fra le immagini che sono in noi e il reale è grande, e lo stato d’animo che ne viene fuori è quello del sentimento del contrario, a cui abbiamo accennato e che costituisce la materia della seconda parte del saggio.  

Qui Pirandello, in polemica col Croce, difende le sue idee sull’umorismo e, quindi, la sua poetica. Come si può negare l’umorismo quando ci sono scrittori che diciamo umoristi? E, dando una definizione dell’umorismo, da lui chiamato «sentimento del contrario», distingue il comico dall’umoristico che, tutto sommato, costituiscono il rovescio di una medaglia, di cui il comico (l’esempio della vecchia signora che s’imbelletta e vuole apparire quella che più non è) è l’avvertimento del contrario che, col subentrare della riflessione, diviene sentimento del contrario. 

Gli esempi e gli autori citati (Giusti, Lipps, Croce, Manzoni) consentono al Pirandello di ribadire le idee, in parte già esposte, che, poi, costituiscono la sua poetica. Quella che più gli sta a cuore è la difesa dell’«attività della riflessione», nel contesto di una estetica in generale, trasferendovi, così, ciò che costituisce l’aspetto più saliente della sua arte e giustificandola. Ed era ciò che gli premeva di più, visto che lo si criticava per il continuo ricorrere alla riflessione in tutte le sue opere. 

Pirandello è ben lontano, ormai, dai canoni veristici. L’artista è portato non solo a vedere per descrivere, ma a vedere per pensare ed esprimere, affidando a se stesso o ad altri il compito di riferire la sua riflessione. E il lettore o lo spettatore è messo subito al corrente del pensiero dell’autore, cosa a cui non era abituato e, per questo, spesso si trova disorientato e fa difficoltà, sulle prime, a seguirlo. 

Adesso, il reale, quale esso ci si presenta, non è che il punto di partenza per un discorso sulla vita e sull’uomo che coinvolge e differenzia, perché ciascuno non solo ha un suo mondo interiore da esternare, ma è anche in continuo conflitto con sé e con gli altri, per cui fa difficoltà a trovare una propria identità, costretto com’è a camuffarsi ora in questa ora in un’altra maschera. 

Così egli dice: «Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d’animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad esser un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione che egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce».(8) 

Evidentemente Pirandello, nell’affermare questo, e con una certa amarezza, dice tutto il suo scontento per la vita e per l’uomo, svuotati, come se li rappresenta, da ogni ideale che possa risollevarli per guardare verso l’alto. Ne deriva che l’uomo pirandelliano è attirato esclusivamente dal suo simile e a lui solo guarda per trovarvi quasi la giustificazione del suo esistere. 

Continuando il discorso, Pirandello ribadisce la differenza che passa tra il comico e l’umorista e, prendendo come esempi Don Abbondio e Don Quijote, dice che nel comico manca il sentimento del contrario, per cui siamo portati a simpatizzare per Don Abbondio, e a provare tenerezza per l’altro. Ma, in sostanza, sia nel comico quanto nell’umorista è sempre la riflessione a giuocare un ruolo importante, sicché se «il comico ne riderà solamente, contentandosi di sgonfiar questa metafora di noi stessi messa su dall’illusione spontanea: il satirico se ne sdegnerà: l’umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato serio e doloroso: smonterà questa costruzione, ma non per riderne solamente: e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo, compatirà» (9). 

Le ultime pagine del saggio sembrano una summa di esperienza di vita vissuta, quasi un voler accostare la teoria alla pratica per dare più consistenza alle sue convinzioni. Leggiamo, a esempio: «La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato non cessi». 0, ancora: «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna» (10). 

Queste e altre affermazioni si richiamano direttamente alla concezione di vita di Pirandello e costituiscono i motivi principali della sua arte. 

 

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Con il saggio L’umorismo Pirandello enuncia la sua poetica, e già in esso vi cogliamo alcuni spunti di quel relativismo che sarà facile scorgere nelle opere di narrativa e di teatro. 

La stessa definizione di umorismo, e il ritornarvi con argomentazioni diverse, ma per chiarire lo stesso concetto, ha in sé la convinzione che relega l’uomo in una condizione di continua mobilità psicologica, per cui egli è portato a riconoscersi, a seconda le circostanze, ora in una ora in un’altra personalità. 

Pirandello si rivela innanzitutto un abile conoscitore dell’animo umano, essendo dotato di un grande spirito di osservazione e, soprattutto, un uomo, prima che artista, che ha sperimentato in proprio le difficoltà e le amarezze del vivere. Ora, queste qualità e la concezione amara che s’era fatta della vita trasferisce nel mondo dell’arte. Così operando, s’allontana dal verismo dell’inizio e insegue una forma d’arte che nasce spontanea, senza niente di predisposto, e rimane immutata, mentre cangianti sono gli aspetti della vita. 

Vediamo in che cosa consiste la sua concezione amara della vita e da dove scaturisce. Dice Pirandello in una delle tante asserzioni: «In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inqUietante: ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che norma1mente percepiamo, una realtà vivente oltre la vita umana, fuori delle forme dell’umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. […] La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? Come portarle rispetto?»(11). 

Secondo Pirandello, le illusioni che l’uomo via via si crea, lo distolgono dal suo vero essere, senza nemmeno rendersene conto. Ma se per un momento egli rientra in sé, mettendo da parte il velo delle illusioni, allora si scoprirà fragilissimo e senza alcuna certezza. In sostanza, ciò che ha un ruolo importante anche in questa fase è la riflessione, la quale lascerà un segno profondo nell’animo del singolo che, nonostante il ritornare alle sue abitudinarie illusioni, né ora né mai riuscirà più a cancellare. 

Certamente, dietro questo pensiero desolato e desolante di Pirandello, ci sono l’interesse all’introspezione e le influenze che le dottrine scientifico-filosofico- letterarie del tempo esercitarono su di lui, e queste idee successivamente svilupperà, quando lo scrittore sarà ancora più provato dalle vicende familiari. Ma c’è anche in questa introspezione così acuta tutto il relativismo di cui la sua opera è piena(l2). Appena qualche pagina prima, aveva scritto: «È appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno si che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e persino opposte, più e opposte personalità?»(l3). 

Rosario Chiàrchiaro, ne La patente (1911, trasformata in atto unico nel 1918), chiederà al giudice D’Andrea non che venga assolto, cosa su cui si dibatteva il povero giudice, ma riconosciuto effettivamente jettatore, visto che l’opinione pubblica lo ritiene tale. Nell’impossibilità di rigettare l’etichetta che gli hanno applicato, vuole dal giudice la patente, perché solo così potrà, nonostante tutto, vivere e sfamare la famiglia. 

Il Chiàrchiaro si adegua alla nuova realtà, perché sa che non può fare diversamente. Ha capito l’ingranaggio della vita, e ha capito anche che reagendo avrebbe ottenuto un effetto ancor più disastroso. La realtà è che la maschera è indispensabile, anzi diviene un’imposizione sociale a cui non si può sfuggire. Il vivere in società impone dei pedaggi a cui l’uomo, per forza di cose, deve sottostare(14). Una realtà, perciò, amara, senza dubbio, che toglie la libertà di agire come si vorrebbe, innescando certi meccanismi di convenienza a cui, per il proprio bene, non si può rinunciare. È il caso del protagonista dell’Enrico IV e di tanti altri che, come lui, o il Chiàrchiaro, sono costretti a vivere nella finzione. 

Questo modo di concepire la vita e gli uomini è una costante pirandelliana che non farà registrare alcuna variazione; cambierà, magari, il movente, ma nessuna certezza rischiarirà il cammino dell’uomo che spingerà l’umorista Pirandello prima al riso e, poi, alla pietà. E questo atteggiamento risoluto nei confronti dell’umana condizione farebbe di lui un beffardo, se non si andasse un po’ al di là di una semplice lettura. Ma, dietro la prima impressione che un lettore attento trae, c’è una compassionevole comprensione che accomuna tutti e porta gli uni e gli altri, comunque, a compatirsi. 

Pirandello non denuncia, come avevano fatto i veristi, uno status sociale, non si chiede cosa sarà dell’uomo o come potrà migliorare il suo essere, e non si pone nemmeno il problema di quale sarà stata la causa (come farà Svevo) che ha portato l’uomo alla crisi d’identità e al crollo dei valori tradizionali. Pirandello ritrae l’uomo nel suo travaglio interiore, nell’urto e nel contrasto fra l’essere, qual è nell’intimo, e il fittizio, tra l’aspirare ciascuno a un qualcosa, nobile o no che sia, e l’impossibilità di realizzarlo, perché forze opposte, per niente controllabili, lo ostacolano e frenano. E Pirandello è maestro nella descrizione di questo contrasto e di quest’ urto interiori, perché nessuno – meglio e prima di lui – aveva scavato tanto in profondità nell’animo umano, scoprendolo miseramente debole e indifeso. 

Il mondo pirandelliano non è popolato da uomini fuori del comune, non ha posto per gli eroi, per il semplice fatto che l’uomo nel suo intimo non differisce affatto dagli altri e lamenta le stesse pene. Ma la piccola e media borghesia è quella che meglio degli altri ceti scopre se stessa. Ed è proprio questa l’oggetto dell’attenzione del Nostro: essa è la più emergente e, come tale, la più esposta e incline a esternare i propri travagli esistenziali. 

Canta l’Epistola, scritta anch’essa nel 1911, è una tra le più belle novelle dove il dramma del personaggio trova il suo epilogo nella morte. Venutagli meno la fede, Tommasino Unzio si vede tagliato ogni legame con la vita associata, e il mondo gli cade addosso ogni giorno di più. Indifeso e debole, cerca rifugio nella natura e con essa colloquia dando ascolto alle piccole cose. L’incomunicabilità tra gli uomini viene marcata ancor più dall’abbandonarsi da parte di Tommasino alla riflessione e alla contemplazione del mistero che tutto e tutti coinvolge. 

Il non determinato, l’incerto e, quindi, il senso dell’umana provvisorietà e dell’effimero, vengono intercalati qua e là dalla voce del narratore che, usando l’infinito, traduce così lo stato d’animo del protagonista: «Non aver più coscienza di esser, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome: vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante: senza più affetti né desiderii, né memorie, né pensieri; senza· più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardar nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole: udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita»(15). 

Pirandello non descrive o, se lo fa, la descrizione non è fine a se stessa, perché il centro della narrazione è il capovolgimento psicologico che il personaggio fa registrare, fino alla morte che il materialismo invadente non può spiegarsi e, perciò, assurda agli occhi dei tanti che non possono immaginare, e tantomeno accettare, che Tommasino Unzio è morto per un filo d’erba. 

L’attenzione dell’autore, in questa come nelle altre sue opere, è rivolta all’uomo, ma più che all’uomo che in sé è identico a tanti altri, al personaggio o ai personaggi che egli impersona. E non gli interessano, quindi, i fatti che servono solo da pretesto, quanto la problematica che ne viene fuori. Certo, la psicanalisi avrà giuocato un ruolo determinante in questo cambio di ottica, così come il crollo dell’ideologia positivistica, e non solo in Pirandello, o nel campo della letteratura, ma nelle arti in genere; sicuramente, però, ha contribuito moltissimo il disorientamento prodotto negli uomini di quel tempo dai cambiamenti morali e sociali che la vecchia Europa stava registrando. e furono questi cambiamenti ad acuire di più i dissidi esistenziali. Ma come non si voleva accettare. e si faceva fatica anche a riconoscere, questa crisi, allo stesso modo non si tenevano in considerazione i tentativi di quelli che la condizione dell’uomo denunciavano coi loro scritti. Pirandello fu uno di questi e, cosa risaputa, venne stimato e ammirato più altrove che in Italia. Tutto questo, però, servì a svecchiare la letteratura e il teatro italiani che, con Pirandello, diedero il via a un’apertura e a un’innovazione di respiro mondiale. 

Va detto anche che la gente, uscita fortemente provata dalla Grande Guerra, aveva bisogno di tutt’altro che delle conclusioni pirandelliane. Eppure, ecco cosa dice Diego, personaggio di Ciascuno a suo modo (1924): «Niente. Che vuoi concludere. se è così? Per toccare qualche cosa e tenerti fermo, ricaschi nell’affiizione e nella noja della tua piccola certezza d’oggi, di quel poco che, a buon conto, riesci a sapere di te […]» (16). 

Ma la gente, in quel periodo, sentiva la necessità di evadere, e di ricorrere ai “sogni”, era presa dalle smanie del vivere e non poteva stare là a immalinconirsi pensando alla fragilità e alla mutevolezza del suo essere(17). Intanto la dialettica pirandelliana porta alle estreme conseguenzialità situazioni che apparentemente riguardano questo o quello, e coinvolge, ciascuno nella propria solitudine e pur volendone rimanere al di fuori, tutti nel vortice sfaccettato che è la vita. 

Salvatore Vecchio 

(1) B. Croce, L. Pirandello, in <<La Critica>>, Bari, 1935, ora in Letteratura della nuova Italia, VI, Bari, Laterza, 1957. 
(2) L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, Poesie, Scritti varii (a cura di M. Lo Vecchio-Musti), Milano, Mondadori, 1973, pag. 146. 
(3) Ivi, pag. 127. 
(4) Si veda, anche, M. Lo Vecchio Musti, L’opera di Luigi Pirandello, Torino, Paravia, 1939, pag.175. (5) L. Pirandello, L’umorismo, cit., pag. 24. 
(6) lvi. 
(7) lvi, pag. 98.
(8) Ivi, pag. 138. 
(9) lui, pag. 146. 
(10) Ivi, rispettivamente. pagg. 151 e 154. 
(11) Ivi, pagg. 152-153. 
(12) Aveva esercitato un fascino particolare su Pirandello il libro di A. Binet, Les altérations de la personnalité, più volte citato nei suoi scritti. Nei Sei personaggi in cerca d’autore il Padre dirà: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi[…]». 
(13) Ivi, pag. 150. 
(14) Croce, in Etica e politica (Bari, Laterza, 1973, pag. 103), parlando di responsabilità, scrive che: «… la società […] impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio; se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai». 
(15) L. Pirandello, Novelle per un anno (a c. di C. Alvaro), vol. I, Milano, Mondadori, 198012. (16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, voI. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172. 
(16) L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in “Maschere nude” (a cura di M. Lo Vecchio Mustil, vol. I, Milano, Mondadori, 1985, pag. 172.
(17) Vedi il discorso commemorativo di M. BontempeIli del 17 gennaio 1937, ora in Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1945.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 7-18.




 Perché questa Rivista 

Ancora una rivista, qualcuno dirà! E, in verità, le riviste sono così tante che è difficile farne una sommaria enumerazione. 

Eppure ognuna di esse ha la sua importanza per il fatto stesso che si viene a garantire la pluralità dell’informazione ed ognuna, nel rispetto delle idee e nel campo che le compete, dà alla società un apporto di crescita culturale. 

Non è nostra intenzione soffermarci sulle tante argomentazioni che si potrebbero, a tal proposito, affrontare. Ci preme solo dire che la cultura è elemento indispensabile della vita democratica di una società e, perciò, va incrementata e sostenuta, perché il pullulare delle idee è apertura, dibattito, continua educazione al sociale. 

Spiragli vuole contribuire anch’essa al miglioramento della società. Il titolo è sintomatico sotto questo aspetto: e non ci chiudiamo egoisticamente nel nostro io, aspettando che siano gli altri a salvare il salvabile, e nemmeno critichiamo, addossando ad alcuni gli errori commessi. Come dice un poeta a noi tanto caro, tutti dobbiamo avere, invece, il coraggio di guardare. 

In un periodo in cui tutto sembra correre verso uno sfascio senza alternative, e la materialità è dilagante, si sente il bisogno di ripristinare quei sani valori di una volta che davano fiducia nella vita e la facevano amare. 

Nostra convinzione, e di quanti la pensano come noi, è che se l’uomo guardasse un po’ più dentro di sé, certamente ritroverebbe tante di quelle risorse positive, che ora sembrano del tutto assopite, e necessarie per cambiare in meglio lo stato in cui si trova. 

Consapevoli che bisogna adoperarsi, oggi più che mai, per perseguire il bene, non rimane che rimboccarci le maniche per recuperare il senso vero della vita: la famiglia, l’amicizia, il rispetto del prossimo… 

Questo è l’intento che anima i promotori e i sostenitori della Rivista, e per questo intento guardano fiduciosi alla letteratura, alle arti, alla scienza, alla scuola, ai problemi che li circondano, sicuri della loro importanza formativa e costruttiva insieme. 

Per questo diciamo che Spiragli è una rivista libera, fuori da ogni condizionamento di parte e da interessi di lucro. La motivazione che ci sostiene è prettamente culturale, e nasce dall’esigenza di voler dire la nostra nel rispetto delle opinioni altrui. È, dunque, una rivista aperta a quanti sono animati da questi intenti che crediamo – nessuno escluso, operando nella buona fede – siano condivisi da tutti. 

Con questi propositi, ringraziamo la Casa Editrice E.I.L.E.S. per il suo fattivo sostegno e rivolgiamo un caloroso saluto ai nostri Lettori che, come destinatari, invitiamo a collaborare con suggerimenti e con scritti, e a contribuire con abbonamenti, dando così segno tangibile della loro adesione. 

Ancora un sentito grazie e un saluto rivolgiamo a tutti i Collaboratori per aver accolto con tanto slancio l’iniziativa sicuramente interessante, ma irta di ostacoli e difficoltà, che possono essere rimossi soltanto dalla perseveranza nella schietta motivazione e dalla ferma volontà di riuscita. 

Il Direttore Responsabile 

Salvatore Vecchio 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg. 3-4.