«Un jour j’ai demandé à ma mère: “Nous allons tous mourir? Dis-moi la verité”. Elle m’a dit: “Oui”. Je devais avoir quattre ans, cinq ans, j’étais assis par terre, elle était debout devant moi. Je la vois encore. Elle tenait ses mains derrière son dos. Elle était appuyée contre le mur. Quand elle m’a vu sangloter – parce que tout d’un coup je me suis mis à pleurer – elle m’a regardé, désarmée, impuisante. J’ai eu très peur» (1).
Ionesco ha sempre tenuto in grande considerazione, fin dalle sue prime pièces, il tema della morte; anzi, esso ha costituito un elemento essenziale del suo discorso. Già ne La Cantatrice chauve, in mezzo a tanto conformismo piccolo-borghese, la notizia della morte di Bobby Watson vuole ricordare un ben altro conformismo: quello della morte livellatrice di tutto e di tutti, mentre ne La Leçon la morte è una conseguenza dei soprusi e delle violenze. Così, ne Les Chaises i due vecchi si uccidono per colmare il vuoto prodotto loro dalla solitudine e, per questo, raggiungere gli altri «invisibili». Jean di La Soif et la faim, con la morte tende verso una vita migliore. Da ciò si spiega il suo continuo sognare in cerca di un paradiso dove finalmente sia superata la morte. Ancora, troviamo una continua contrapposizione di vita e di morte in L’avenir est dans les oeufs ou Il faut de tout pour faire un monde. Più propriamente, Bérenger di Tueur sans gages si renderà conto che la morte incombe su ciascuno di noi, e un altro protagonista, Edouard, ricorderà la «verità elementare» che «noi dobbiamo tutti morire». In un’altra pièce del 1963, Le pieton de l’air, amore e morte sono ancora i temi contrastanti. Il sentimento dell’amore è ostacolato dalla consapevolezza che la morte annulla e cancella ogni cosa (2).
Le Roi se meurt è l’opera in cui Ionesco sviluppa più che in ogni altra sua pièce il tema della morte e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo dinanzi a questa realtà che spesso viene sottovalutata e, addirittura, dimenticata.
Questo re che muore è l’uomo resosi finalmente consapevole del proprio destino. Ma all’inizio insiste a non dare peso a tutto ciò, e solo quando comincia a impossessarsi di lui il senso della morte, e l’idea che tutto è effimero e passeggero, allora capirà che è inutile ribellarsi e che la morte, quando viene, non chiederà mai il permesso.
«MARGHERITE – Ce n’est pas la peine. Elle est irréversible»(3).
L’uomo che fino ad allora non aveva mostrato alcuna incertezza, adesso, tutto d’un tratto, vede crollare dinanzi a sé il mondo di cartapesta che s’era costruito, e vuole crearsi un varco per uscire da quella morsa che è l’idea ossessionante della morte, vicolo cieco faticoso per chi si accinge adimboccarlo. Alcuni uomini, magari, si arrenderanno sfiduciati a questa triste realtà, altri si rivolgeranno a Dio come ultima salvezza, altri ancora tenteranno di dare, a riprese, una ben più salutare soluzione ai loro problemi. Di questi ultimi è Eugenio Ionesco che con coraggio spinge in avanti la sua ricerca, tenendo presenti la condizione umana e la futilità del nostro destino.
Eugenio Ionesco, a partire dalle ultime pièces (Tueur sans gages, Rhinocéros), abbandona il teatro di scavo che poneva la sua riuscita esclusivamente nelle risorse del linguaggio, e si dà ad un teatro a messaggio, rivolto prima di tutto a se stesso e, di riflesso, agli altri in quanto suoi simili. Le Roi se meurt è l’amara constatazione della morte dell’uomo, di ogni uomo che erroneamente ha posto la sua speranza nella vita.
«MARGHERlTE – C’est du temps perdu. Espérer, espérer! (Elle hausse les épaules). Ils n’ont que ça à la bouche et la larme à l’oeil. Quelles moeurs» (4).
Ma è anche un inno alla vita, quella degna di essere vissuta nella piena consapevolezza delle nostre capacità, in vista di un bene che vada al di là della stessa morte. Perché, allora, Ionesco, ha scritto questa pièce?
Sentiamolo:
«Je suis parti d’une angoisse… Cette angoisse était très simple,
très claire. Elle a été ressentie d’une façon moins irrationelle,
moins viscérale, c’est-à-dire plus logique, plus à la surface de
la conscience [ … I Je venais d’etre malade et j’avais eu très
peur» (5).
Ionesco esprime il timore e lo stato d’animo di chi sta male e si trova fra la vita e la morte. Il tempo che passa, inawertito e impassibile, acuisce ancor più il disagio e travolge a poco a poco ogni speranza e ogni desiderio. È allora che l’uomo riconosce i suoi linliti e cade nell’angoscia. A ragione, G. Dumar dice: -C’est cette angoisse fondamentale, existentielle, qui fait tout les sujet du “Roi se meurt”. Jamais Ionesco n’est allé si loin dans la description de l’ètre – par – la – mort, tel qu’il haute la philosophie pessimiste de Schopenhauer à Sartre» (6). Ed è questa, in effetti, la constatazione che un lettore attento farebbe, se tenesse in considerazione soltanto “Le Roi se meurt”: una conclusione sconsolante e logica che è di chi arbitrariamente fa scadere tutto l’essere dell’uomo nell’ “essere – per – il – mondo” che è “essere – per – la – morte”. Non così è per Ionesco che – come abbiamo detto – non solo non ha cessato mai di ricercare Dio, ma fa pensare nei suoi ultimi scritti (La quete intermittente, Maxmilian Kolbe) ad una concezione più rasserenante della vita.
Il protagonista di Le roi se meurt è un esemplare dell’uomo contemporaneo. Se nel passato poteva contare su certi valori che serenamente gli facevano accettare persino la morte, ora l’uomo da un canto sa che non può contrastarla, dall’altro non vorrebbe staccarsi dal mondo perché in esso ha riposto ogni bene. Perciò si divincola e piange come un fanciullo che non vuole staccarsi dalla madre.
«LE ROI – Un enfant ! Un enfant ! Alors, je recommence ! Je veux
recommencer. (A Marie.) Je veux etre un bébé, tu seras ma mère. Alors,
on ne viendra pas me chercher. Je ne sais pas lire, je ne sais pas écrire, je
ne sais pas compter. Qu’on me mène à l’école avec des petits camarades.
Combien font deux et deux? (7).
La consapevolezza della morte fa scoprire la vera essenza della vita. La scopre, avanti negli anni, Bérenger I, ma può capitare a qualsiasi uomo che arriva alla vecchiaia senza essersi ancora rassegnato all’idea della morte. Bérenger si paragonerà ad uno scolaro che ha dimenticato di fare i compiti. E solo prossimo alla morte è portato a meditare sulla sua condizione e a ricercare il bene che gli dia la pace sperata anche dopo la morte. Il “malessere spirituale” di Bérenger è quello stesso di Ionesco che col passare degli anni accentuerà ancora di più il bisogno di una certezza propria di chi non ha paura di niente. nemmeno della morte.
A) La struttura di Le roi se meurt – A ben guardare, la pièce è tutto un insieme lineare che si svolge dinanzi allo spettatore senza divisione alcuna in atti e in scene. Per di più, il tempo e il luogo sono imprecisati. Si tratta di un regno di cui non sappiamo niente o, meglio, sappiamo solo che è in decadenza e al suo re, Bérenger I, è stata decretata la morte.
Così come stanno le cose, sembrerebbe a prima vista un teatro senza teatro, dove tutto è previsto, persino la morte che avverrà a fine spettacolo.
«MARGHERITE – Tu vas mourir dans une heure et demie, tu vas mourir à la fin du spectacle» (8).
Il tempo della morte coincide con la durata dello spettacolo, e questo agli occhi dello spettatore sa di una “cerimonia” (9), che consiste nel denudamento fisico e spirituale di Bérenger, dalla sua entrata in palcoscenico fino alla calata del sipario. Una cerimonia ben preparata e anticipata dai segni del degrado: polvere e mozziconi di sigarette dappertutto, mancanza di generi di prima necessità (la mucca non dà più latte), non funzionano i termosifoni, le pareti sono crepate, e il sole non vuole più scaldare.
Tutti i personaggi sono al corrente di ciò che sta avvenendo, solo il Re ha tutta l’aria di non voler capire, e insiste. Più tardi si renderà conto che deve rassegnarsi, perché la morte è «irreversibile» e non guarda in faccia a nessuno. A guisa di un condannato, la cui esecuzione è stata già annunciata, entra in scena a piedi nudi.
«MARGHERITE – Qu’ il attrape froid ou non, cela n’a pas
d’importance. C’est tout simplement une mauvaise habitude» (10).
Per un verso, Bérenger non vuole accettare la realtà delle cose, e si ribella, dando ordini ora al Medico ora alla Guardia, per un altro, vero che è sostenuto nella sua intransigenza dalla Regina Maria, ma è anche vero che fa difficoltà a seguire nel suo parlare Margherita, perché sa che dice una verità che vorrebbe taciuta. Bérenger non ha il coraggio di riconoscere la sua condizione perchè la vanità glielo impedisce. Ma la morte non sta al gioco e al pettegolezzo, e la Regina Margherita rompe ogni indugio: «Ju vas mourir dans une heure vingt -cinq minutes» (11).
La “cerimonia” è nel pieno del suo svolgimento. Bérenger, impotente, vorrebbe reagire, ma la sua detronizzazione è già in atto. Egli urla e chiede aiuto: nessuno lo soccorre. Solo in lontananza sente reco delle sue grida, il vuoto della solitudine lo circonda. Vorrebbe ancora tempo, come se quello vissuto non gli fosse bastato.
«LE ROI – Je suis comme un écolier qui se présente à l’examen
sans avair fait ses devoirs. Sans avoir préparé sa leçon … » (12).
Finalmente, dopo tanto dibattersi, riconosce che nessuna medicina può lenirgli il dolore. E niente più gli dice la Regina Maria. Nonostante tutto, si rifiuta ancora, ha dei ripensamenti, poi comincia a rassegnarsi. Allora, metterà da parte il suo egoismo, e guarderà agli altri: s’interesserà, cosa che non aveva fatto mai, di Giulietta, e scoprirà gli affetti più nobili.
Luci ed ombre si addensano nella mente di Bérenger I: il ricordo dei giorni belli, quelli dell’amore e del potere, l’ossessionante presenza della morte che annulla e accomuna a tutti i morti nel tempo. E, ancora, il ricordo di un gatto tutto rosso che gli fa dimenticare la solennità del momento. Per gli altri, oramai, Bérenger è morto e, pertanto, parlano di lui al passato, mentre il cuore lo tiene ancora legato a questa terra, quasi a non volersene staccare.
«LE MÉDECIN – En effet. Un coeur fou. Vous entendez?
(On entend les battements affolés du coeur du Roi). ça part, ça
va très vite, ça ralentit, ça part de nouveau à toute allure» (13).
Ma Bérenger non riconosce nessuno, è come se fosse fuori di sé, vorrebbe accanto tutti gli altri che intanto ad uno ad uno escono di scena. Gli rimarrà vicino Margherita che lo guiderà là dove «il cuore non ha più bisogno di battere».
L’uomo, il re che muore, è qui, con tutta la sua misera umanità, in questo graduale spogliarsi che lo stesso Ionesco così riassume: «Peur, désir de survivre, tristesse, nostalgie, souvenirs, et puis résignation» (14). Strutturalmente lo svolgersi dell’azione è lineare, ma Bérenger è colto da un rivolgimento interiore così repentino, anche se segue diverse fasi prima di arrivare al culmine, che lascia disorientati. Questa di Le roi se meurt è una drammaticità che non è affidata – come nelle tragedie tradizionali all’evolversi delle azioni, secondo cui lo spettatore o il lettore poteva prefigurarsi un finale più o meno imminente o, per lo meno, quello che sarebbe potuto verificarsi. Qui non c’è niente da prevedere, perché – come dice il titolo – tutto è previsto: Bérenger ci vuole poco e muore. la drammaticità è affidata al linguaggio, alle botte e risposte dei personaggi che in un modo o in un altro concorrono tutti al denudamento del Re (15).
E, poi, negli alti e bassi di questo Re, ora tormentato ma risoluto, ora più disponibile e non per questo meno accanito di prima a non voler cedere il trono.
«LE MÉDECIN, regardant sa montre – Il se met en retard . . .
Il retoume.
MARGHERITE – Ce n’est rien. Ne vous inquiétez pas, monsieur le
Docteur, monsieur le Bourreau. Ces retours, ces tours et ces
détours… c’était prévu, c’est dans le programme. […]
LE ROI – Je pourrais décider de ne pas mourir » (16).
Sono gli alti e bassi di una coscienza sconvolta, di stati d’animo che non hanno ancora trovato un equilibrio interiore capace di dargli quella serenità propria di chi è consapevole di ciò che lo attende. E questo modo di procedere fatto di rallentamenti e di accelerazioni – dicevo sopra – affida ogni teatralità al linguaggio che utilizza tutte le sue risorse possibili (17).
Bérenger vive un momento particolarmente patetico della sua vita; Ionesco lo sa bene, e per questo ora ricorre all’ironia, ora ai livelli alti della poesia, ora al comico, con una forte carica di umorismo, anche se si tratta di una comicità disarmata, perché è nella stessa natura dell’uomo. Questi registri fanno comodo a Ionesco per un doppio motivo: per un verso gli consentono di verificare e mettere in atto la sua drammaturgia, per un altro gli permettono di esprimere tutto ciò che si porta dentro e di calarsi nell’uomo. Dice a proposito: «Je déshabille l’homme de l’inhumanité de sa classe, de sa race, de sa condition bourgeoise ou autre […] Je suis tous les autres dans ce qu’ils ont d’humain» (18). Per Ionesco, fare teatro non è stendere al sole i panni degli altri, innanzitutto è stendere quelli suoi che, poi, coincidono con quelli degli altri. Bérenger è Ionesco, è l’uomo in genere che prima o dopo si viene a trovare dinanzi all’ineluttabilità della morte.
Uno dei tanti pregi del teatro dell’assurdo è quello di avere riscoperto il tema della morte che ora sta divenendo di moda un po’ in tutte le letterature. Basti pensare, in Italia, a Leonardo Sciascia (Il Cavaliere e la morte) o a Nello Sàito (Com’è bello morire). Ma, mentre Beckett, ossessionato com’è dall’idea della morte, si limita ad affermare solo il non-essere (19), Ionesco va sino in fondo nella sua ricerca,
MARGHERITA – Non è niente. Non vi inquietate, signor dottore, signor Carnefice. Questi ritorni, questi giri e rigiri … Era previsto, è nel programma.
IL RE – Potrei decidere di non morire».
arrivando, a dire che la vita è bella e vale veramente la pena di viverla, da uomini, si capisce, dando importanza a tutto ciò che ci circonda. Vivendo la vita a misura d’uomo, il mondo apparirà ancora più bello, e la morte non farà più paura.
B) I personaggi – Il teatro moderno si serve di pochi personaggi. E, ancora, più che dei veri e propri personaggi, utilizza dei tipi capaci di rappresentare l’uomo nel suo universale piuttosto che nel suo particolare.
Ionesco, dovendosi interessare di un re e di un regno in rovina, limita i personaggi a sei: il Re Bérenger I, la Regina Margherita, la Regina Maria, il Medico, Giulietta (la donna delle pulizie e infermiera) la Guardia. Nell’economia di Le roi se meurt (il tutto si svolge, su una scena che rimane invariata per tutta la durata dello spettacolo), i personaggi menzionati costituiscono la corte, ma anche – come è stato già detto da altri (20) – la vita privata e pubblica di Bérenger, di questo Re che è l’uomo qualunque,
mentre gli altri protagonisti sono gli uomini in generale che esplicano le diverse attività della vita sociale.
Bérenger è un uomo dei nostri giorni che, preso dalla materialità della vita, ha dimenticato che col passare del tempo passiamo anche noi e moriamo. E, nonostante gli venga ricordato, fa finta che tutto sia nella normalità, come se niente fosse («Bonjour, Marie, Bonjour, Margherite. Toujours là? Je veux dire, tu es déjà là! Comment ça va? Moi, ça ne va pas! Je ne sais pas très bien ce que j’ai, mes membres sont un peu engourdis, j’ai eu du mal à me lever, j’ai mal aux pieds! Je vais changer de pantoufles. J’ai peut – étre grandi! J’ai mal dormi …» (21). Mentre, imperterrito, il tempo opera sulle cose e sulle persone. Bérenger è l’uomo del nostro tempo che si vede crollare il mondo addosso perché non vuole riconoscere i suoi limiti e insiste a riporre su di sé ogni speranza. L’edonismo crea un grande vuoto che solo in extremis viene avvertito: allora l’uomo scopre di essere miserevole, e grida, invoca aiuto, palesa a tutti la sua angoscia. Per questo, Le Roi se meurt (22) è un’opera umanissima, degna di grande rispetto. Come vada la cosa, – è inutile dirlo – Bérenger rimane morbosamente attaccato a questa esistenza terrena, e lui, egocentrico ed egoista, ha sciolto un bell’inno alla vita.
Margherita e il Medico rappresentano quei tipi che dinanzi alla realtà non solo non la nascondono, ma fanno di tutto perché venga dagli altri riconosciuta e accettata. Essi sono quelli che obiettivamente avvertono per primi le reali condizioni di salute del Re e le accettano senza alcuna tergiversazione, assumendosi l’incarico di guidare fino alle soglie della morte Bérenger.
Margherita è dotata di una forte carica di intuito ed è psicologicamente ferrata: rappresenta la ragione e, perciò, rimane inflessibile dinanzi alle incertezze e alle debolezze sentimentali della Regina Maria. Anzi è risoluta, e vuole che gli altri non la disturbino nella sua azione di persuasione.
«MARGHERITE – Rire ou pleurer: c’est tout ce qu’elle sait faire. (A JULIETTE) Qu’elle vienne tout de suite. Allez me la chercher» (23).
È la prima sposa del re Bérenger I, ci sottolinea Ionesco: e, in effetti, è un personaggio intransigente che ubbidisce aUe leggi eterne, giustizia che niente affida al caso, incorruttibile e leale con se stessa e con gli altri. Essa, che potrebbe apparire come una fredda annunciatrice della morte, incarna l’amore spirituale ed è colei che apre alla vita Bérenger, impersonando la voce della coscienza che bussa con insistenza, quella voce che spesso è lasciata inascoltata, presi come si è dalle lordure e dalle miserie umane.
Maria, al contrario, rappresenta l’amore carnale e l’attaccamento alla vita, perciò, non vuole accettare l’idea che il Re deve morire, e farebbe di tutto se lo potesse. Sicché Margherita la mette a tacere e se ne serve per raggiungere il suo scopo.
«MARIE – Pardonne – moi, Majesté, ce ne pas ma faute»(24).
In fondo, Maria è l’alter ego di Bérenger; ama pienamente questa esistenza e la vorrebbe vivere intensamente, ma l’amore carnale è effimero e non regge al denudamento del Re. «Ce ne fut qu’une courte promenade dans une allée fleurie,
une promesse non tenue, un sourire qui s’est refermé» (25).
Ciò la rende patetica, e la sua bellezza Ci dice ben poco, non essendo ravvivata da nobili sentimenti. per questo c’è in lei un’intima sofferenza, una commozione rappresa che diviene anch’essa un inno alla vita.
Il Medico, che è anche chirurgo, boia, batteriologo e astrologo, è un personaggio che, per le sue attività, occupa un posto di rilievo nella vita privata del Re. È il sapiente della corte e, come tutti i maghi e gli astrologi dei tempi passati, è tenuto in grande considerazione nella corte. Egli legge nel gran libro della natura, ma la scienza lo rende freddo e calcolatore, sicché laddove Margherita agisce per convinzione e secondo ragione, egli opera con distacco professionale, insensibile ai sentimenti e alla morte, visto che per il momento :~on è lui l’interessato. Perciò, è un personaggio ridicolo, caricaturale e rispecchia quanti goffamenti, e per tornaconto, si appoggiano al potere emergente. Sarà Margherita a spingerlo perchè segna una linea di condotta adeguata al caso. Ionesco lo tratta male. In effetti, è uno di quelli che viene considerato esclusivamente per la carica che occupa, ma non sarà mai stimato. Nemmeno dagli umili che rimangono indifferenti dinanzi a lui.
Giulietta, “donna di servizio e infermiera”, è una di questi. Affabile e servizievole fin dalla sua entrata in scena, tale rimane sino all’ultimo dinanzi al Re. Come tutte le persone semplici, non si renderà bene conto di ciò che sta avvenendo, e agirà e parlerà sempre in funzione degli altri, anche se con umiltà rinfaccia gli abusi e i soprusi, e rivendica giustizia. Non si ribella, anzi segue con palese commozione lo sfogliamento di Bérenger.
«JULIETTE – Nous sommes là. près de vous, nous resterons là» (26).
Ma non così è la Guardia, portavoce della corte, grossolana e superficiale. È semplicemente un ripetitore degli ordini altrui e non palesa un minimo di umanità. Come il Medico, viene trattata in malo modo dalI’autore; impersona l’ufficialità fredda e ridicola, certi organi di informazione che dicono e si contraddicono, secondo l’aria che tira. E come alcuni cronisti, il cui compito finisce col vendere fumo, la Guardia è la cassa di risonanza della corte e fa da tramite fra questa e il popolo, risultando veramente banale.
Questi i personaggi. Se consideriamo che rappresentano un regno, diciamo che sono pochi. Vero che si chiamano in causa ministri. ingegneri, l’armata, il popolo, a cui si rivolgerà sempre la Guardia. «spécialistes du gouvemement», bambini, ma è anche vero che nessuno di questi entrerà mai in scena. A Ionesco, e in generale ai drammaturghi moderni non interessano i fatti di questi o di quell’altro, non ha più alcuna importanza il particolare. a cui si ispirava il teatro tradizionale, dove la scena si riempiva di personaggi piccoli e grandi e si dava l’impressione di un gran movimento(27). Adesso, quello che conta è rappresentare l’universale, come il tema della morte; che poi si tratti di Bérenger o di un altro, non cambia nulla (28).
I personaggi, una volta che Bérenger è entrato nell’ordine di idee inculcategli da Margherita e il Medico. scompariranno ad uno ad uno. È il dominio della morte che stavolta ha reciso il filo della vita del Re: gli altri potranno continuare pure i propri lavori, con la consapevolezza, però, che la presa di coscienza di Bérenger abbia lasciato in tutti un solco profondo.
Salvatore Vecchio
1) C. Bonnefoy, Entratiens avec Ionesco, Paris, Belfond, 1966, pag. 12: «Domandai un giorno a mia madre: “Moriremo tutti? Dimmi la verità”. Mi rispose: “sì”. Dovevo avere quattro, cinque anni, ero seduto a terra, lei era in piedi, davanti a me. La vedo ancora. Teneva le mani dietro la schiena ed era appoggiata al muro. Vedendomi singhiozzare – perché d’un tratto mi misi a piangere – perplessa, mi guardò, senza poter fare altro. Ebbi molta paura».
2) Ionesco precisa: «Tout est permis au théatre: incarner des personnages, mais aussi materialiser des angoisses, des présences intérieures» (E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallimard, 1966, pag. 63).
3) E. lonesco, Le Roi se meurt (a cura di C. Audry), Paris, N.C.L., 1968, pag. 32: «MARGHERITA – È inutile darsi da fare, essa, [la morte] è irreversibile».
4) lvi, pag. 34: «MARGHERITA – È tempo perduto. Sperare, sperare! (Alza le spalle). Non hanno che questo in bocca e la lacrima all’occhio, che abitudine!».
5) C. Bonnefoy, op. cit., pag. 90: .Sono partito da un’angoscia. Quest’angoscia era molto semplice e chiara. Essa era scaturita da qualcosa di meno irrazionale, di meno viscerale, cioè, di più logico, qualcosa più alla superficie della coscienza […] Ero stato ammalato ed avevo avuto molta paura».
6) G. Dumar, Frère, il faut mourir – Le Roi se meurt – Odéon, in “Le Nouvel Observateur”, 6 Dic. 1976, pag. 103: «È quest’angoscia fondamentale, esistenziale, che fa da soggetto al “Le roi se meurt”. Mai come adesso Ionesco è andato così lontano nella descrizione dell’essere – per – la morte, come la descrive la filosofia pessimista, da Schopenhauer a Sartre».
7) E. Ionesco, Le Roi se meurt, ed. cit. pag.: 96 «IL RE – Un fanciullo! Un fanciullo! Allora ricomincio. Voglio ricominciare.(A Maria) Voglio essere un bebè tu sarai mia madre. Allora, non verranno mica a prendermi. Non so leggere. non so scrivere, non so contare. Mi si porti a scuola tra compagnetti. Quanto fanno due e due?»
8) Ivi, pag. 58: «Morirai tra un’ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo».
9) Non a caso, inizialmente, Le Roi se meurt era stato intitolato: «La Cérémonie».
10) Ivi, pag. 50: «Che prenda freddo o no, non ha importanza. È semplicemente una cattiva abitudine».
11) Ivi, pag. 74: «Morirai tra un’ora e venticinque minuti».
12) Ivi, pag. 81: «IL RE – Sono come uno scolaro che si presenta all’esame senza aver fatto i compiti. Senza aver preparato la lezione “…».
13) Ivi, pag. 146: «IL MEDICO – Infatti. Un cuore folle. Sentite? (Si sentono i battiti impazziti del cuore del Re). Parte, va molto forte, rallenta, va di nuovo a tutta velocità».
14) “Le Monde”, 19 dico 1962, pag. 14. Proprio qualche giorno dopo la prima rappresentazione al Théàtre de l’Alliance française di Parigi 15 dic. 1962, conversando con Claude Sarraute.
15) Cfr. M. Esslin, Le Théàtre de l’Absurde, Paris, éd. Buchet – Chastel, 1963. Vedi anche AA.VV., Les critiques de notre temps et lonesco, Paris, éd. Garnier, 1973, pagg. 149-153.
16) E. Ionesco, Le Roi se meurt, ed. cit., pag. 133: «IL MEDICO, guardando il suo orologio. Sta tardando . .. Ritorna.
17) B. Gros, Le Roi se meurt – Ionesco, Paris, Hatier, 1976, pagg. 60-62.
18) E. lonesco, Journal en miettes, Paris, Mercure de France, 1967, pagg. 26-27: «Io spoglio l’uomo dell’inumanità della sua classe, della sua razza, della sua condizione borghese o d’altro (…) lo sono tutti gli altri in ciò che hanno d’umano».
19) S. Beckett, Fin de partie, Paris, Les Editions de Minuit, 1957, pag. 109: «Je me dis que la terre s’est éteinte, quoique je ne l’aie jamais vue allumée. (Un temps.) ça va tout seuI. (Un temps.) Quand je tomberai je pleurerai de bonheur».
20) Cfr. C. Audry nella Notice premessa a Le roi se meurt (testo che abbiamo utilizzato per le citazioni). pagg. 23-25. Vedi anche B. Gros, cit.
21) Ivi, pag. 50-51: «Buongiorno, Maria, Buongiorno, Margherita. Ancora qui? Voglio dire, tu sei già qui! Come va? lo, niente affattol Non so perfettamente bene cosa ho, i miei arti sono un po’ intorpiditi, faccio fatica ad alzarmi, ho male ai piedi! Vado a cambiare le pantofole. Può darsi che sia cresciuto! Ho dormito male …».
22) J. J. Goutier in un articolo sul “Figaro· del 16 ottobre 1955 aveva definito Ionesco ‘un burbone, un mistificatore, pertanto un fumista., ma poco dopo la replica di Le roi se meurt del 1966, così scrisse sempre sul “Figaro” del 7 dicembre 1966: «Sì, lo dico e lo ripeto, Le Roi se meurt è un dramma umano, denso, composito, scritto, di una grande poesia; è un’opera straziante. E anche buffa. È una tragicommedia scespiriana».
23) E. Ionesco, Le Roi se meurt. op. cit., pag. 33: «MARGHERITA – Ridere o piangere: è tutto ciò che [Maria] sa fare. (A Giulietta.) Che venga subito. Andatemela a chiamare».
24) lvi, pag. 73: «Perdonami, Maiestà, non è colpa mia».
25) Ivi, pag. 91: «Non fu che una breve passeggiata in un viale fiorito, una promessa non mantenuta, un sorriso che si è richiuso».
26) lvi, pag. 155: «Sono qui, vicino a voi, non vi abbandonerò».
27) S. Doubrovsky, Le rire de Ionesco, in “Nouvelle Revue Française”, 10 febbraio 1960.
28) E. Ionesco, Notes et contre-notes, op. cit. pag. 305: «Aspetto che la bellezza venga un giorno ad illuminare, a rendere trasparenti i muri sordidi della mia prigione quotidiana. Le mie catene sono la bruttura, la tristezza, la miseria, la vecchiaia e la morte. Quale rivolgimento potrebbe liberarmene?».
Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 41-53.