Lo spettatore o il lettore, sulle prime, dinanzi ad un’opera di Ionesco, non sa se quello che gli viene prospettato è un sogno , o un insieme di sogni, oppure la trasposizione personalissima della realtà su un piano puramente surreale. Se ne renderà subito conto, però. È certo che in Ionesco c’è una dosata commistione di vita e di sogno, di realtà, quale essa è, e come gli si presenta, e di aspirazioni. Alla base di tutta l’opera ioneschiana c’è questo, e nel tendere verso l’altro va vista e spiegata la tensione che l’attraversa, magari manifestantesi sotto forma di contenuta comicità o di disarmante drammaticità.
Questo modo di vedere la vita e le cose Ionesco se lo è portato dietro per sempre ed è sintomatico di tutta la sua produzione. Sicuramente, però, le cause vanno ricercate nell’ambiente familiare della sua infanzia e nel clima socio-politico incerto caratterizzante quegli anni di guerra. Fatto sta che un momento veramente felice, che ricorderà con nostalgia, lo vivrà lontano dai suoi e lontano da Parigi, alla Chapelle-Anthenaise, in Maienna, quando verrà affidato, assieme alla sorella Marilena, ad una famiglia di contadini. Ionesco non dimenticherà mai quel soggiorno e questo luogo di sogno, anzi per lui costituirà un “paradiso perduto” a cui guarderà sempre con i suoi occhi adulti.
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Era nato a Slatina, in Romania, nel 1909, da Eugenio Ionesco, e da Teresa Ipcar, francese. Già, all’età di due anni fu portato a Parigi, dove il padre avrebbe dovuto preparare una tesi in diritto. Il piccolo Eugenio passò i primi anni, immerso nei suoi giuochi di bambino, con la madre e la sorella, anche se ben presto dovette conoscere le brutture della vita e affrontare tante difficoltà di ordine materiale e carenze di affetto, perché il padre nel 1916 ritornò a Bucarest, lasciando la famigliola, dove si risposò con la scusa di essere stato lasciato dalla moglie, incurante dei figli. È del 1917, nel bel mezzo della guerra, il soggiorno alla Chapelle-Anthenaise, nella fattoria chiamata “Il mulino”:
«A otto, nove, dieci anni, quando soggiornavo al Mulino tutto era gioia, tutto era presenza. Le stagioni sembravano dispiegarsi nello spazio. Il mondo era un decoro, con i colori ora scuri ora chiari, con i fiori e le erbe che apparivano e disparivano, venendo verso di noi, e poi allontanandosi, sciogliendosi sotto i nostri occhi, tanto che noi stessi restavamo al nostro posto, guardando passare il tempo, pur rimanendone fuori(1)».
Un mondo di sogno che gli rimarrà per sempre impresso – dicevamo e che ricorderà qua e là nei suoi scritti. A parte nel racconto La vase, da cui Heinz von’Cramer realizzò un film, girato sul posto e che ebbe come attore lo stesso lonesco, c’è l’aspirazione al mondo dell’infanzia nella Soif et la Faim, dove Jean, il protagonista, anela, ma invano, alla felicità.
Alla Chapelle-Anthenaise rimase due anni appena, fino al 1919, quando dovette fare ritorno a Parigi, città che avrebbe dovuto lasciare sul finire del 1922 per raggiungere il padre a Bucarest, dove il giovane avrebbe studiato il rumeno. Qui portò a termine i suoi studi medi e nel 1929 si iscrisse alla facoltà di lettere di Bucarest. Ben presto però i rapporti con il padre e la matrigna divennero tesi, tanto che andò ad abitare con la madre, che intanto era anche lei ritornata a Bucarest.
«Padre, non ci siamo mai capiti… Mi senti? lo ti ubbidirò, perdonaci, noi ti abbiamo già perdonato… Mostra il viso! (il Polizzotto rimane fermo.) Eri rigido, forse non eri nemmeno troppo cattivo. Può darsi, non per colpa tua. No. Odiavo la tua violenza, il tuo egoismo. Non ho avuto alcuna pietà per le tue debolezze. E mi picchiavi. Ma sono stato più duro di te. Il mio disprezzo ti ha colpito ancora più forte. È il mio disprezzo che ti ha ucciso. Vero? Ascolta… Dovevo vendicare mia madre… Dovevo farlo. In che cosa consisteva il mio dovere? Lo dovevo veramente? .. Ella ha perdonato, ma io ho continuato a vendicarla… A che serve la vendetta? È sempre il vendicatore che soffre…(2)».
Dopo tanti anni (siamo press’a poco nel ’52, anche se Victimes du devoir porta la data del ’53), Ionesco rivive questi stati d’animo a tu per tu con i fantasmi rivisitati, seppure irriconoscibili, del padre e della madre. Così, per Ionesco, è la rilettura di un reale che ha segnato la sua vita e che riaffiora qua e là in una trasposizione scenica dai toni e dai colori diversi. Quasi una liberazione dai sensi repressi, una confessione – come lui stesso la chiama – sulla scena del profondo che solo ora emerge e che a lungo si è portato dietro.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1950 sono anni di formazione letteraria e di fervida attesa. Fa molti incontri, a cominciare da quelli con Tristan Tzara e i poeti surrealisti che lo invoglieranno a scrivere poesie (Elégies pour étres minuscules (Elegie per esseri minuscoli), 1931, e a interessarsi di letteratura. Sono gli anni delle sue prime collaborazioni a giornali e riviste: “Azi” (Oggi), “Critica” (La critica), “Floarea de foc” (Il fiore di fuoco), “Idea Romàneascà” (L’idea rumena), “Vremea” (Il tempo), “Viata literarà” (La vita letteraria), “Zodiac” (Lo zodiaco), “Facla” (La fiaccola). Ma questi, specialmente i primi, sono anche gli anni di maggiori scontri con il padre che lo avrebbe voluto indirizzare a studi scientifici. C’è, a proposito di quegli alterchi, una bella pagina in cui Ionesco, per bocca di Jean, protagonista suo alter ego di Voyages chez les morts (Viaggi tra i morti), rivive come in un susseguirsi di quadri quei divieti e soprusi paterni:
«Quando ero studente, entravi nella mia stanzetta. Cercavi nei miei cassetti. Mi controllavi i quaderni e non vi trovavi che caricature al posto dei compiti assegnatimi dai maestri, dai professori. Mi facevi ripetere le lezioni, me le facevi recitare, senza che sapessi una parola […].
Tu me frappais. Mais j’ai été plus dur que toi. Mon mépris t’a frappé beaucoup plus fort. C’est mon mépris qui t’a tué. N’est-ce pas? Écoute… Je devais venger ma mère… Je le devais… OÙ était mon devoir? Le devais-je vraiment?… Elle a pardonné, mais moi j’ai continué d’assumer sa vengeance… À quoi sert la vengeance? C’est toujours le vengeur qui souffre…
Mi schiaffeggiavi, mi picchiavi, ma essi, i miei professori, non tenevano affatto conto dei miei zeri in matematica, essi, avevano fiducia (…).
Ora sto regolando i miei conti con te e ti rinfaccio tutto ciò che hai voluto impedirmi di fare, tu, pater familias cieco(3)
Nel 1938 lo troviamo di ritorno a Parigi per svolgere una tesi su “Il peccato e la morte nella poesia francese da Baudelaire in poi”. Intanto si era già sposato nel 1936 con Rodica Burileanu, da cui nel ’44 ebbe la figlia Marie-France. Per vivere dovette esercitare diversi :r;nestieri, il più consono quello di correttore di bozze presso una casa editrice.
In questo periodo tradusse diversi autori rumeni in francese (Povel Don, Urmuz) e scrisse Frammenti di diario (1946). Se da un lato, questo, per Ionesco, è un periodo di ristrettezze economiche, dall’altro, è denso di arricchimenti culturali e di nuove amicizie (Jean Gabriel Gros, Jean Torte!’ Nicolas Bataille). Il lavoro di correttore di bozze gli fece acquisire una maggiore dimestichezza lessicale e lo aprì a nuovi modi espressivi. È certo, comunque, che la ricerca formale e il giuoco lessicale lo indussero tra il 1948 e il 1949 ad avvicinarsi al teatro con una bozza (L’Anglais sans proJessew1 di quella che sarà La Cantatrice chauve, rappresentata n l maggio del 1950, tra molta disapprovazione e pochi consensi, fra cui quello di André Breton che la considerò un’opera surrealista. Da questo momento in poi, voler delineare la vita di Ionesco è percorrere le tappe della sua produzione teatrale.
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Alla Cantatrice chauve, sempre dello stesso anno, affianca La Leçon e Jacques ou la Soumission. Sia l’una che l’altra, all’inizio, non ebbero tanto successo e ci volle qualche anno prima che il grande pubblico le apprezzasse fino ad essere ininterrottamente rappresentate in tutto il mondo. Era il totale distacco dalla tradizione, ed esse costituivano l’anticipazione del nuovo, il linguaggio dissacrante e strambo, il vario impasto, ricco di allusioni, del narrato, ma era, soprattutto, la mancanza di dimestichezza che si aveva con questo “nuovo teatro” che teneva lontano il pubblico. Pubblico che in quegli anni era costituito prevalentemente dal ceto medio borghese, quella classe sociale scopertamente attaccata dall’Autore perché certo gli riportava davanti la figura patema e quella di uomini come lui.
Se è vero, come è facile constatare e come lo stesso Ionesco afferma nei suoi scritti, che la fonte primaria della sua ispirazione sta nel proiettarsi verso il passato, l’autoritarismo esacerbato, l’accanimento del Professore di La Leçon, la sua ripetitività, e l’insistere oltre la volontà dell’Allieva, riportano sulla scena il passato dell’autore, il padre sempre in attrito, in contrasto con il giovane Ionesco, portato verso le lettere, piuttosto che verso le scienze e le pratiche attività. In Jacques ou la Soumission c’è, invece, la presa di coscienza del personaggio Jacques, il portavoce di Ionesco, che, rimasto stordito dall’invadente materialità, vuole chiudersi in sé e rifiuta ogni cosa, a differenza degli altri, incoerenti e sordi ad ogni richiamo che possa prospettare loro una vita più umana. Jacques, per la verità, vi tenta, sotto il segno della propria libertà e dando corpo al suo sentimento di amore per Roberta, ma tutt’intorno è l’incomprensione, la chiusura.
Il teatro è, per Ionesco, la proiezione sulla scena di una realtà molto sofferta, rivissuta e, perciò, resa più vera dalla spoliazione che il tempo ha operato di ogni risentimento personale. Tutto è presentato come se si svolgesse fuori dalla realtà, come sogno che, però, di tanto in tanto riaffiora, mettendo in dubbio le nostre certezze.
Tra le opere scritte nel ’51, oltre alle Chaises, ci sono Le Salon de l’automobile e L’avenir est dans les oeuJs, mentre del ’52 è Victimes du devoir. Se L’avenir est dans les oeuJs è la continuazione caricaturale e conformistica di Jacques ou la Soumission, Les Chaises è la rappresentazione dell’assenza, del vuoto, della proliferazione degli oggetti e, pessimisticamente, dal punto di vista umano, del nulla.
Ionesco confessa di avere inizialmente immaginato un vecchio in mezzo a tante sedie, senza pensare né a ciò che avrebbe potuto significare, né ad un’eventuale prosecuzione della scena. A pensarei, gli venne in mente l’idea del vuoto, della solitudine, e su quella prima immagine scrisse la “farsa tragica” (così è il sottotitolo) dei due vecchi che, delusi dell’attesa di un Oratore, si uccidono. La proliferazione degli oggetti (le sedie), il linguaggio ricco di contraddizioni, la finzione scenica dei due che parlano con altri invisibili, le frequenti volute ripetizioni, i suoni e le voci onomatopeiche, tendono ad accelerare l’azione, fino all’esasperazione e al suicidio.
Les Chaises, che fu rappresentata al Teatro Lancry da Sylvain Dhomme il 22 aprile del 1952, ebbe una fredda accoglienza di pubblico e di critica, ma non mancarono gli apprezzamenti, quelli di Adamov, Beckett, Anouilh, Queneau, che sottolineavano la novità e le doti dell’autore.
Il decennio degli anni Cinquanta vedrà moltiplicarsi le rappresentazioni delle opere ioneschiane che cominciano a uscire dal circuito parigino e francese per inserirsi in uno più vasto, europeo. Di questi anni, a parte quelle ricordate, sono: Amedée ou Comment s’en débarasser, L’Impromptu de l’Alma, Le Nouveau Locataire, Theur sans gages, Rhinocéros. Se in Amedée ou Comment s’en débarasser, scritta nell’agosto del 1953, si assiste ancora alla proliferazione degli oggetti (i funghi, un cadavere che s’ingrandisce fuori misura), se alla base di questa pièce c’è l’aspirazione alla libertà, nel senso pieno della parola, e se nel Nouveau Locataire, a parte i mobili che vanno occupando quasi tutta la stanza, limitando l’azione del nuovo inquilino, c’è l’esigenza di salvaguardare l’uomo dall’invadente materialità, ciò vuol dire che Ionesco non ha mai perso di mira la realtà con cui si è chiamati a confrontarsi, e da questo momento s’interesserà di più a tutto quanto ci riguarda da vicino: il rapporto con gli altri, oltre che con se stessi.
Il suo modo di procedere sarà sempre lo stesso: prenderà spunto da un sogno (Ionesco stesso racconta di avere sognato un cadavere che s’ingrandiva a dismisura) o partirà da una realtà per denunciare a se stesso e agli altri i mali della società. È il caso di Theur sans gages, scritta nel 1957. Vi incontriamo per la prima volta il nome di Bérenger che ritroveremo in molte altre pièces. È l’alter ego dell’autore, un cittadino che vuole scoprire l’assassino, chi semina il “male” nella “Città radiosa”, quale era il mondo in origine e quale potrebbe ancora essere. Bérenger, da solo e nell’indifferenza degli altri, vuole anche capire il perché dell’uccisione, vuole rendersi conto di quel gesto insulso.
La pace, lontano dai rumori della città, gli anni passati alla ChapelleAnthenaise, tornano alla mente di Ionesco, e vorrebbe (invano!) riviverli, ma a niente valgono i buoni propositi, se il sicario («n crimine non paga. Non commettete altri crimini, e sarete pagato») rimane nell’ostinazione.
«Ascoltate. Voglio farvi una confessione lacerante. Spesso, io stesso dubito di tutto. Non ditelo a nessuno. Dubito dell’utilità della vita, dei valori di tutte le dialettiche. Non so più come regolarmi, può darsi che non ci sia né verità né carità. In questo caso, siate filosofo: se tutto è vanità, se la carità è vanità, anche il crimine è vanità… Sareste stupido se, sapendo che tutto è polvere, valorizzaste il crimine, perché sarebbe come dare un prezzo alla vita… Prendere tutto sul serio… ed essere in piena contraddizione con voi stesso(4)»
Il “male”, impossibile da estirpare, è di ostacolo alla realizzazione di una vita migliore e condiziona qualsiasi attività. Sicché il clima della guerra fredda che si respirava in quegli anni e la brutta esperienza di quella da poco cessata, piena di nefandezze e di atrocità, ispirano al drammaturgo un’altra opera. RhinDcéros (1958), in cui, attaccando ogni forma di dittatura, va contro la massificazione dilagante che annulla lo slancio individuale e pianifica le coscienze.
Siamo nel 1958, anno della “controversia londinese(5)”. Si rimprovera a Ionesco. con opere come questa. e le altre che seguiranno subito dopo (Le Roi se meurt, Le Piéton de l’atT. scritte nel 1962. La Soif et la Fatm.1964. Jeux de massacre. 1969). il fatto di essersi dato al teatro éngagé. lui che aveva rimproverato questo a Brecht. a Sartre. a Camus. allo stesso Adamov e ad altri. E l’accusa gli viene mossa sia da quelli che fin dal suo esordio lo avevano sostenuto. e che ora si sentivano come “traditi” (è il caso della Tynan). sia dai detrattOri. abituati a vedere Ionesco nella prospettiva di antiteatro.
Ionesco si allontanava dal suo modo di fare teatro, ma non per fare politica, da cui si guardò bene, bensì illuso di potere in qualche modo essere utile agli altri, visto che l’uomo, pur travagliato da forti crisi interiori, è portato a trascurare certe verità che sono sotto gli occhi di tutti: la morte, dall’indifferenza, prospettandosi un mondo umano più giusto, migliore. Ma si è nell’ambito del tentativo, perché l’uomo, nonostante tutto, è attaccato alla terra, a questa sua esistenza terrena, e anche se anela a qualcosa che lo sollevi spiritualmente, difficile è poterne uscire. Ed ecco la delusione, quella dei protagonisti di Le Piéton de l’air e di La So!! et la Faim e, quindi, dello stesso Ionesco che si vedrà costretto a riprendere il teatro degli inizi.
La giustificazione al titolo che abbiamo dato a queste pagine è nel continuo oscillare tra la realtà e la mancata realizzazione di una aspirazione, seppure nobilissima, che non permette a Ionesco una pur minima tranquillità. Il sogno gli si infrange d’un colpo e il suo voler uscire dal pessimismo, che è insito nell’uomo, diviene impossibile e quasi fa difficoltà a riconoscervisi. Ne Le Piéton de l’air, che prende origine da un sogno(61, e che è l’aspirazione icaria al volo, Bérenger perde ogni speranza e non vuole più insistere, perché nessuno lo segue, nessuno gli dà retta e, quindi, anche a volere, è nell’impossibilità di agire. Così, ne La So!! et la Faim(7) , dove Jean, il protagonista è proteso verso la felicità.
Gli anni Sessanta portarono Ionesco alla notorietà di pubblico e di critica. Le sue pièces venivano rappresentate e riproposte senza sosta un po’ dovunque, in Europa e nel mondo, e ormai Ionesco, divenuto un personaggio di rilievo, cominciava a partecipare con più assiduità al dibattito culturale con inteIVenti su giornali e riviste. Più frequenti divenivano anche i suoi viaggi all’estero che gli fruttarono tante conferenze e dibattiti. Ora, alla produzione teatrale, abbina pure quella critica (Notes et contre-notes, 1962; Joumal en miettes, 1967; Présent passé. Passé présent 1968; Découvertes, 1969) e si accosta sempre più alla pittura, ritenendola idonea, più che la parola, già molto abusata, a portare avanti la ricerca intrapresa con la sua opera drammatica, e tracciando la stessa parobola, perviene al figurativo, essendo partito prima con l’astratto.
È il colore, la luce esplodente, la certezza che squarcia il buio, il bisogno
di pace interiore che lo spinge a trovare nuove forme, a continuare la ricerca,
che è, per Ionesco, “intermittente”, come titolerà un suo libro del 1987, ed
è un uscire allo scoperto per dire le ragioni che lo hanno spinto ad operare
nella vita e nell’arte, per difendere ancora una volta il suo teatro.
Ionesco continuò, nonostante tutto, a pubblicare. Macbett è del 1972;
segue Ce jonnidable bordeU, tratto dal romanzo Le Silitaire (1973) e pubblicato
da Gallimard nel 1975, lo stesso anno di L’homme aux valices. Tra
queste opere e Voyages chez les morts del 1981 vanno collocate due raccolte
di articoli vari: Antitotes (1977) e Un homme en questiofl. (1979).
Siamo, in modo diverso, dinanzi agli stessi temi. La lotta per il potere,
in Macbett. messi da parte i nobili sentimenti, non fa che seminare la morte
e la distruzione, mentre l’incomunicabilità chiude ancor più nella solitudine,
in cui trova rifugio il Personaggio di Ce jonnidable bordel! Di là della
solitudine, la distruzione e la morte, niente. Allo stesso modo dei personaggi
di Sartre e di Camus, al Personaggio – così Ionesco chiama· il protagonista
della pièce – non rimane altro che asserragliarsi in casa e starsene lontano
da tutto e da tutti, perché impossibile vivere in condizioni esistenziali così
miserevoli ed è veramente triste vivere questa vita, che è un “incredibile
bordello!” Eppure, l’attaccamento alla vita permane ed è irresistibile:
«11 Personaggio: Mascalzoni! Lasciatemi in pace!
Si alza e getta loro un barattolo di conseroa e una
bottiglia in testa. I personaggi scompaiono.
Lasciatemi in pace! Luce! Luce!
La luce del mattino inonda il palcoscenico. Non si
sente più alcun rumore che viene da juori. I muri sono
scomparsi, non c’è che un’intensa luce. Solo la poltrona
resta sulla scena.
l…1
Ch’è? Non c’è nessuno! Ohe! Ohe!
Si precipita, afferra una bottiglia di cognac, e la getta.
Sto morendo di fame! Sto morendo di sete!
Si guarda ancora attorno, lo spazio è vuoto, non c’è
che la luce che viene un po’ da ogni parte.
Cosa vuoI dire! Non vale più la pena, non c’è nessuno. Non ho capito
un accidente, non capisco niente. Nessuno potrebbe comprendere. Tuttavia
non sono meravigliato. È anche da meravigliarsi che non sia meravigliato.
Molto strano(8)»
La solitudine, la paura che essa incute, spinge ad amare la vita un po’
prima detestata. Siamo in presenza di due stati d’animo contrastanti che
costituiscono la base di tutto il teatro ioneschiano: il contrasto fra ombra
e luce, tra senso di vuoto (l’autore spesso ricorre al termine “cave” per indicare
più propriamente il vuoto esistenziale) e presa di coscienza, tra la propensione
ad agire e l’impossibilità a operare(9), per cui Ionesco, tramite il Personaggio,
nella battuta finale (.Bello davvero questo scherzo, miei cari! Bello scherzo,
signori e signore. Andatevi a immaginare uno scherzo simile! Uno scherzo
simile! Che bordello! Ah là là, che incredibile bordello!1101.), spinge alla
derisione.
(. .. )
Que se passe-t-il? Il n’y a plus personnel Ohél Ohél
n se précipite, prend une bouteille de cognac, il jette la bouteille.
Je vais crever de faiml Je vais crever de soifl n regarde encore autour de lu~ l’espace est vide, il n’y a que cette lumière qui
vient de toutes parts.
Qu’est-ce que ça veut direi C’est p1us la peine, il n’y a personne. Je n’y ai rien com~ris. j.e
ne comprends rien. Personne ne pourrait comprendre. Et cependant je ne sois pas etonne.
C’est meme étonnant que je ne sois pas étonné. Bien étonnant•.
Nel 1975 Jacques Mauclair rappresentò al Thèé1tre de l”Atelier L’homme
aux valiges, e Berrnan, nel 1980, al Guggenheim Theater di New York,
Voyages chez les morts. In entrambe le opere sono molto evidenti e
accentuati gli elementi autobiografici, ombre che riaffiorano, indistinte,
quasi come in un sogno: i ricordi dell’infanzia, le persone che la popolavano
e che non ci sono più, i luoghi cari che gli rimasero impressi, nonostante
i cambiamenti operati dal tempo e l”eté1. Se in Voyages chez les morts Ionesco
proietta sul palcoscenico tanti quadri (diciannove, quante sono le scene in
cui si svolge l”opera) che fanno rivivere il suo dramma familiare -il padre
che abbandona la famigliola, le preoccupazioni finanziarie, i suoi rapporti
con il padre e la matrigna -, ne L’homme aux valiges ripropone se stesso
con il bagaglio della vita passata da cui è difficile distaccarsi. Anche qui
gli elementi autobiografici ed onirici(1l) sono così bene miscelati che si
confondono, e un senso di melanconica tristezza, carico di umorismo,
attraversa la pièce, dall’inizio alla fine, per arrivare ad una dichiarata
insoddisfazione:
«PRIMO UOMO: Grazie per avermi portato le valigie. Da quando ho perso
l”altra, non ho più la mia terza dimensione. Qualcosa mi manca, di intimo.
Sono malato. Non si vede, chiaramente, come se non mi riguardasse(l2)».
*
* *
«Afin de calmer mon angoisse a’aije déjà dit?), afm de calmer mon
angoisse, pour m’endormiTplus tranquille, la nuit, dans mon lit,je me rappelle
les noms de tous ceux qui sont morts… de tous mes parents et wnis, et
ennemis, qui sont morts, qui sont morts… fls sont des centaines… Je mejoue,
à moi-méme, ma propre pièce, Le roi se meurt, dans le rol principali (13) ••
Il 28 marw del 1994 l’autore di Le Roi se meurt moriva realmente, Quel
pomeriggio di marzo, Ionesco se ne andava come se ne va Bérenger I, con
la speranza nel cuore, anche se tutto gli crollava addosso, lasciando come
testamendo spirituale La quete intermittente, il libro a cui affida le sue
speranze, la ricerca del vero, i dubbi, l’idea della morte. E come Bérenger,
consapevole che l’ineluttabile passo dovrà pure compiersi, egli si rivolge
indietro negli anni, intravvedendovi la gioventù, i parenti, i tanti amici cari,
ohimè!, passati per sempre, le fedi incrollabili che ora non gli dicono niente,
il dubbio ritornante, forse l’unico che non l’ha mai lasciato per assillarlo
ancora di più, il pensiero della morte e la presenza-assenza di Dio,
Un libro, questo, in cui Ionesco si delinea come uomo e come artista,
con i suoi affetti più cari, ma anche con i suoi timori causati dai detrattori
della sua opera, i quali fanno Beckett promotore del «teatro dell’assurdo»,
che Ionesco preferisce chiamare semplicemente «teatro nuovo», o «teatro
d’avanguardia»
«D’ailleurs, Beckett n’est pas ce qu’on appelle un “membre” de lajamille
de “l’absurde”: son humour provient d’ailleurs, appartient à une autre
tradition, un autrejolckore, irlandais. En disant que Beckett est le promoteur
du Thédtre de l”Absurde, en cachant que c’était moi. les joumalistes et les
historiens littémires amateurs commettent une désinjormatiDn dont je suis
victime, et qui est calculée. Parce que je ne leur plais pas! Pourquoi? Parce
queje n’était pas communiste, au temps où il était malséant de ne pas l’etre.
Ils ne m’ont pas pardonné d’avoir été antiçommuniste avant eux. C’était une
impertinence. Ceci m’a été conft.rmé par Marcabru, Arrabal, et d’autres…(l4)»
Ionesco porta le sue pezze d’appoggio, citando nomi di autori e opere,
rivendicando a sé, con La cantatrice chauve del 1950, il ruolo di iniziatore
di questo teatro d’avanguardia, .une avant-guarde toujours vivante, puisque
depuis les années 1950, ce théé1tre, très caractéristiques, n’a pas eu de
relève., e fa i nomi di Adamov, Tardieu, Weingarten e altri, mentre Enattenda11t
Godo~ è del 1953. Ionesco crede nel teatro e, come tale, non può sopportare
le meschinità degli arrampicatori di specchi. Per questo motivo, non
risparmia nessuno, critici e impresari teatrali che fanno il bello e il cattivo
tempo, a scapito del teatro e dell’arte.
Tali amarezze, che sicuramente attutivano quello slancio proprio di
Ionesco, già da tempo avevano spinto il Nostro a chiudersi in un dignitoso
riserbo, anzi lo avevano indotto a darsi alla pittura, preferendo alle parole
i colori. Così dice: «Per esistere, dunque, non mi resta altro che la pittura.
Se cessassi di dipingere, sarei del tutto un disperato. I colori, e niente altro
che i colori, sono il solo linguaggio che possa parlare, i colori mi dicono
qualcosa. Essi sono ancora viventi, da quando per me le parole hanno
perduto senso, valore, ogni espressione. I colori sono per me ancora di
questo mondo: essi cantano, sono di questo mondo e sembra che mi
congiungano all’Altro Mondo. Ritrovo in essi ciò che la parola ha perduto.
Essi sono la parola: il disegno si, ma soprattutto il colore è parola,
linguaggio, comunicazione, vita, ciò che mi può congiungere al resto,
all’universo(15)».
Déeouvertes (1969) e Le Blane et le Noir (1981), che si compongono di
testi e di litografie di Ionesco, e le varie esposizioni fatte un po’ dovunque
(Svizzera, Germania, Belgio) testimoniano l’interesse e la dedizione verso
quest’arte che potrebbe apparire come un suo nuovo apprendistato, mentre,
invece, è il mezzo con cui d’ora in poi porta avanti la sua ricerca dettata
dal bisogno di comunicazione profonda tra sé e il mondo, tra il finito e
l’infinito, di avvicinarsi a Dio. Come nel teatro, egli acuisce la tensione
esistenziale, servendosi dell’astratto e utilizzando colori forti che dicono
prepotente il bisogno di luce, che è calma interiore, amore verso gli altri
e verso Dio.
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* *
Come Pirandello. Ionesco era pervenuto al teatro in modo casuale. E se
Pirandello se ne era servito per criticare il mondo borghese. mettendo sulla
scena il dissidio esistente tra l’uomo e la società. tra quello che vorrebbe
essere e quello che agli altri appare. Ionesco mette in discussione l’umana
esistenza. dando più risalto a motivi e a – verità elementari. che fino ad allora
erano apparsi marginali tanto da non interessare la letteratura.
Il tema della solitudine. l’incomunicabilità. il rapporto di coppia. certa
banalità che è nel linguaggio e, ancora. il conformismo e la materialità. la
violenza. la morte (e. quindi. il bisogno di una certezza che faccia accettare
la vita) è quanto sta alla base del teatro di Ionesco, e a questo va ascritta
tutta la sua ricerca di uomo e di artista. che non può certo essere definita
assurda. perché ci tocca da vicino ed è parte di noi, la più interessante.
la più vera. la più umana.
«On a dit quej’était un écrivain de l’absurde; il y a des mots comme ça
qui courent les rues, c’est un mot à la mode qui ne le sera plus. En tout
cas, il est dès maintenant assez vague pour ne plus rien vouloir dire et pour
tout définir facilement. Si je ne suis pas oublié, dans quelque temps, il y
aura un autre mat courant les rues, un autre mot reçu, pour me défmir moi
et d’autres, sans nous définir (16)»
Il teatro di Ionesco fu oggetto di incomprensione. e si parlò subito di
assurdo. cosa che lo stesso drammaturgo rigettò. come lo conferma il passo
riportato. chiamandolo. semmai. -sorprendente». In effetti, è vero che il
suo teatro. già dalle prime pièces, disorientava per la tematica piuttosto
inconsueta. perché tende fino all’inverosimile allo scavo interiore. ma
sbalordiva anche per la novità con cui veniva posta. Perciò, il termine
“assurdo” poteva essere giustificato dal punto di vista della drammaturgia
(le sedie e gli oggetti che si moltiplicano, il dialogo che diviene insignificante
e banale). non per ciò che vuole rappresentare (la materialità dilagante,
l’incomunicabilità), considerato che è l’uomo al centro dell·interesse. l’uomo
e i mali odierni che gli rendono difficile la vita.
(16) E. Ionesco. Notes et contre-notes. cito pago 297: «È stato detto che ero uno scrtttore dell’assurdo;
ci sono parole come questa che sono frequenti, una parola alla moda che non lo sarà più. In
ogni caso. di primo acchito. è molto vaga per non voler dire niente e per definire tutto con facilità.
se non sarò dimenticato. tra non molto. ci sarà un altro termine abusato. una parola confezionata.
per designare me e gli altri. senza designarci».
Ionesco, con il suo teatro, si è fatto paladino di un umanesimo da tanti
reclamato, ma mai portato come lui alle estreme conseguenze. Le Roi se
meurt, La Soif et la Faim sono le più aperte a questa intima esigenza
dell’Autore, ma anche le altre, pur deridendo certi comportamenti, perseguono
lo stesso obiettivo: è sempre l’uomo al centro del suo discorso, è l’uomo il
suo interlocutore, ed è lui stesso, Ionesco che, in quanto tale, risente del
disorientamento proprio dell’uomo di oggi e ricerca degli agganci, delle
certezze che lo rendano più sereno e gli facciano accettare la vita.
Il teatro di Ionesco tende alla realizzazione di un mondo migliore, lontano
dai convenzionalismi, dalla materialità, dall’incomunicabilità che chiude e
reprime. Sarà un sogno, un’utopia irrangiungibile: se non altro, da
anticonformista amato e biasimato, Ionesco ha sfidato e ci sfida, volgendo
tante volte lo sguardo nostalgico alla sua infanzia, alla Chapelle-Anthenaise,
che, seppure lontana, per lui rappresentava ancora il mondo felice e vero
verso cui spinse fino all’ultimo la sua ricerca.
Salvatore Vecchio.
(1) Molti ricordi e annotazioni biografiche sono riportati in E. Ionesco, Journal en miettes, Paris, Gallimard, coll.”Idées”, 1973.
(2) E. Ionesco, Victimes du devoir, in “Théàtre complet”, Paris, Gallimard, 1991, pag. 222: «Père, nous ne nous sommes jamais compris… Peux-tu encore m’entendre? Je t’obéirai, pardonne-nous, nous t’avons pardonné… Montre ton visagel (Le Policier ne bouge pas.) Tu étais dur, tu n’étais peut-etre pas trop méchant. Ce n’est peut-étre pas ta faute. Ce n’est pas toi. Je haissais ta violence, ton égoisme. Je n’ai pas eu de pitié pour tes faiblesses.
(3) lvi. pag. 1310: «Quand j’étais écol1er, tu entrals dans ma petite chambre. Tu cherchais dans mes tiroirs. Tu contròlais mes cahiers, tu n’y trouvais que des caricatures à la place des devoirs que m’imposaient mes maitres, mes professeurs. Tu me faisais répéter mes leçons, tu me les faisais réciter, je n’en savais pas un mot […] Tu me giflais, tu me battais, mais eux, mes professeurs, ne tenaient pas compte de mes zéros en mathématiques, eux, me faisaient confiance[…] Maintenant. je règle mes comptes avec toi et je te reproche tout ce que tu as voulu m’empècher de faire, toi, pater familias aveugle.
(4) lui, pagg. 533-534: «Écoutez, je vais’vous faire un aveu déchirant. Moi-meme, souvent, je doute de
tout. Ne le répétez à personne. Je doute de l’utilité de la vie, du sens de la vie, de mes valeurs, et de
toutes les dialectiques. Je ne sais plus à quoi m’en tenir, il n’y a ni vérité ni charité, peut-étre. Mais
dans ce cas, soyez philosophe: si tout est vanité, si la charité est vanité, le crime aussi n’est que
vanité…Vous ser1ez stupide si, en sachant que tout n’est que poussiére, vous donniez du prix au crime,
car ce serait donner du prix à la vie… Ce serait prendre tout au sérieux… ainsi, vous voilà en pleine
contradiction avec vous-méme».
(5)Viene riportata, con i vari interventi, in E. lonesco, Notes et contre-rwtes, Parts, Gallimard, 1966, pagg. 137-164. che interessa tutti lLe Roi se meurt), e semina anche stragi nella collettività lJeux de massacre). E poco o niente può fare l’amore. Di qui l’aspirazione a uscire
(6) C. Bonnefoy, Entretien avec Eugène Ionesco. Paris. Belfond. 1966, pago 74.
(7) E. Jacquart, “Notice” in E. Ionesco. Théatre complet, cito pago 1763: «La fonction du symbole est ici d’ordre exploratoire. Ionesco cherchant à exprimer le sens de l’aventure spirituelle. filigrane de la condition humaine. En lui confluent des éléments réputés inconciliables – le réel et le réve, l’angoisse et l’espoir, le conscient et l’inconscient – bref. l’expérience globale de l’induvidu».
(8) E. lonesco, Theàtre completo cit., pagg. 1200-1201:
«Le Personnage: Sa1autsl Foutez-moi la paixl n se lève et leur Jette une boite de conserve et une bouteille à la tete. Les personnages disparaissent. Foutez-moi la paixl De la lumièrel De la lumièrel La lumière du matin se Jait sur le plateau. On n’endend plus aucun bruit venant du dehors. Les murs ont disparu, il n’y a plus qu’une grande lumière. SeuI le Jauteuil reste sur la scène.
(9) Cfr. “Mes pièces et moi”, in Notes et contre notes, cito pagg. 230-232.
(lO) Iv~ pago 1201: -Quelle bonne blague, mes enfantsl Quelle blague m~ss~eurs-dames. A-ton
pu imaginer une blague pareillel Une blague pareillel Quel bordell Ah la la, quel formidab1e bordell»
(11) Un riscontro puntuale al racconto autobiografico e ai riferimenti dei tanti sogni ripqrtati nella pièce si ha in lonesco, Journal en miettes, cito
(12) Iv~ pag. 1282: «PREMIER HOMME: Merci de m’avoir apporté mes valiges. Depuis que j’ai perdu l’autre, je n’ai plus ma troisième dimensiono Quelque chose me manque, de l’intérieur. Je suis infirme. ça ne se voit pas, évidemment, comme cela, à me regarder”
(13) E. lonesco, La quete intennittente, Paris, Gallimard, 1987, pagg. 57-58: «Per tranquillizzarmi O’ho già detto?), per attutire la mia angoscia, per addormentarmi più sereno, la notte, nel letto, mi ricordo i nomi di coloro che sono morti… dei parenti e amici, e nemici, che sono morti… morti. .. Nell’ordine di centinaia… lo rappresento, per me stesso, la mia stessa pièce, n re muore, nel ruolo principalel•.
(l4)Ivi. pag. 46: «Pertanto. Beckett non è uno che può dirsi “membro” della famiglia dell'”assurdo”: il suo humour proviene d’altrove, appartiene a un’altra tradizione. un altro folckore. irlandese. Dicendo che Beckett è l’tniziatore del Teatro dell’Assurdo. nascondendo che sono stato io, i giornalisti e gli storici letterari dilettanti fanno una disinformazione di cui sono vittima. di proposito. Perché non piaccio lorol Perché? Perché non ero comunista quando era da screanzati non esserlo. Non mi hanno perdonato di essere stato anticomunista prima di loro. Un’assurdità. Ciò mi è stato confermato da Marcabru, Arrabal. e altri …»
(15) lui. pag. 13: «Il ne me reste donc encore pour exister que la peinture. Si je cessais de peindre. je serais totalement désespéré. Les couleurs. et rien encore que les couleurs. sont le seui langage que je puisse parler. les couleurs me disent quelque chose. Elle sont encore vivantes. tandis que les mots oot perdu pour moi senso valeur. toute expression. Les couleurs sont de ce monde. encore. pour moi; e11es chantent, elles sont de ce monde et 11 me semble qu’elles me relient à l’Autre Monde. Je retrouve en elles ce que la parole a perdu. Elles sont la parole: le dessin oui. mais surtout la couleur est parole. langage. communication. vie, tout ce qui peut me relier au reste, à l’uruvers».
Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 9-23.