Il decennio 1920-1930 segna un periodo fruttuoso del teatro pirandelliano, non tanto per la produzione che è ricca di per sé (dall’esordio poetico del 1889 all’anno della morte, avvenuta il 10 dicembre del 1936 a Roma, mentre era intento a completare il mito dei Giganti della montagna), quanto ai risultati a cui perviene.
Mi riferisco alle innovazioni teatrali, compendiate nella trilogia del «teatro nel teatro -, molto interessante sia per i contenuti che per la drammaturgia, destinata, a sua volta, a svecchiare – come dicevo altrove – il teatro in genere che, da ora in poi, si fa portatore delle istanze vive e pressanti dell’uomo del XX secolo, più attento al suo io profondo e non per questo meno insidiato e travagliato dalla quotidianità della vita.
Il teatro, con Pirandello, comincia a interessarsi, quindi, dell’uomo nel senso pieno della parola, coinvolgendo, così, un pubblico più vasto, e più che coprire il tempo libero dei suoi assidui frequentatori, rappresentando i fatti della vita, ora affronta problemi che ognuno si era posto e su cui, però, non si era soffermato abbastanza per la complessità che essi presentano o, magari, pur tenendoli nella dovuta considerazione, gelosamente fa proprie le conclusioni, non ritenendo di esternare agli altri quelle che sono solo sue convinzioni, anche perché la vita di società non può non esigere determinati comportamenti ben consolidati e difficili da demolire.
Pirandello baserà la sua ricerca su un doppio binario: da una parte, sull’introspezione psicologica (con la messa in dubbio di certe acquisizioni), dall’altra, sull’esigenza di aprire nuove vie allo stesso teatro, continuamente mortificato dalla rappresentazione falsificata della realtà. Per forza di cose, ne deriva che questo di Pirandello è un teatro che dà molto spazio alla dialettica, perché, appunto, c’è da parte del nostro autore lo sforzo di portare sulle scene il travaglio esistenziale dell’uomo del suo tempo, e non solo del suo. Questo modo di fare e di intendere il teatro rientra nel cosiddetto pirandellismo, caricandolo di significato negativo, come dire, cerebrale, aberrante, qualcosa di poco chiaro.
Certo, gli spettatori e i critici di allora si trovarono in gran difficoltà, non abituati, com’erano, alle innovazioni a cui stavano per essere sottoposti: ma, a distanza di più di mezzo secolo, e dopo gli ismi che hanno messo tutto in discussione e l’utilizzo dei più sofisticati congegni elettronici anche nel campo teatrale, non è più quello l’effetto, e la cosa non fa più impressione.
Pirandello è l’anticipatore e l’iniziatore del teatro contemporaneo. Egli non rappresenta la realtà, perché intende il teatro come finzione, illusione, cioè (ingrandita dall’immaginazione e dalla fantasia), della realtà che ognuno si porta dentro e che vuole venga rappresentata così com’è. Per questo motivo sia Il Padre che La Figliastra di Sei personaggi in cerca d’autore pretenderanno che siano essi stessi, e non gli altri, a rappresentare il loro dramma per timore di vederlo travisato. E in questo c’è la preoccupazione di Pirandello, e di ogni altro autore, che la sua opera venga male interpretata. Anche perché, in teatro, la realtà fantastica si carica di vita e diviene più vera e reale, in quanto è «realtà immutabile», mentre quella della vita è cangiante e soggetta a diventare illusione. Un esempio Pirandello lo porta nel saggio su L’umorismo, quando fa riferimento a don Abbondio e a Don Quijote. Questi due personaggi, creati dalla fantasia, continueranno a vivere eterna la loro vita, mentre i loro rispettivi autori sono destinati a vivere sempre nell’ombra(l).
Il rapporto arte e vita, attori e personaggi, attori e pubblico, è il motivo che sta alla base della trilogia del «teatro nel teatro», che include Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1923) e Questa sera si recita a soggetto (1929).
Pirandello, nella Premessa al I vol. di Tutto il teatro (Milano, Mondadori, 1933), scrive: «Ciascuno dei tre lavori raccolti in questo I volume del mio teatro rappresenta personaggi, casi, e passioni che gli son proprii e che non han nulla perciò da vedere con quelli dell’altro; ma tutti e tre uniti, quantunque diversissimi, formano come una «trilogia del teatro nel teatro», non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d’un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati, rappresentano ogni possibile conflitto».
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Sei personaggi in cerca d’autore è del 1921 e fu rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma, con la regia di Dario Niccodemi, il 10 maggio dello stesso anno. Fu un insuccesso, con pubblico e critica disorientati. L’autore dovette aspettare la rappresentazione del 27 settembre, al Teatro Manzoni di Milano, per cogliere il suo meritato successo.
Sulle prime, le reazioni del pubblico non potevano essere positive: non era abituato ad assistere a una messa in scena – evidentemente in apparenza – disordinata e caotica e, entrando, non poteva non rimanere deluso dinanzi a un palcoscenico in allestimento.
Alcuni attori stanno provando Il giuoco delle parti di Pirandello, quando entrano, uno accanto all’altro, Sei personaggi che chiedono di vedere rappresentato il loro dramma. Sono il Padre, la Madre, la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina e il Figlio, che rispettivamente impersonano il “rimorso”, il “dolore”, la “vendetta”, lo “smarrimento”, la “tenerezza”, lo “sdegno”. Il Giovinetto e la Bambina sono realizzati solo come presenze, il Padre, la Figliastra e il Figlio come spirito, la Madre come natura.
Tra lo sbalordimento del Capocomico e le contrastanti reazioni degli attori, il Padre, a nome di tutti, espone il motivo della loro venuta. «Nati vivi» dalla fantasia del loro autore, che poi si rifiutò di immetterli nel mondo dell’arte, essi sono lì in cerca di un autore che li faccia propri e li rappresenti. Non chiedono altro, anche perché una volta creati hanno diritto a vivere e nessuno può loro negare l’esistenza(2).
Il Capocomico è riluttante, ma l’insistenza del Padre e gli interventi della Figliastra, che fanno intravedere il dramma, lo spingono ad accettare e a ritirarsi coi Personaggi nel suo camerino, interrompendo così le prove e lasciando liberi gli attori.
Il primo tempo si conclude qui. Il palcoscenico resta vuoto, perché gli attori, meravigliati e anche risentiti per la decisione del Capocomico, usciranno a poco a poco tutti di scena.
Qual è il dramma intravisto e ritenuto interessante ai fini di una rappresentazione?
Un uomo, sposato con una donna di umili natali, un po’ per l’incomprensione che c’è tra i due, un po’ per una relazione tra la moglie e il suo segretario, che viene allontanato dal lavoro, non potendo più sopportare lo stato di pena in cui la donna si abbandona, dopo avere dato in balia il figlioletto, la costringe ad andare da quello. Ciò nonostante s’interessa di loro, segue e vede crescere la bambina nata da quella unione (la Figliastra), ma poi ne perderà le tracce, perché la famigliola, per sfuggire agli occhi indiscreti di lui, andrà ad abitare in un altro paese, e non saprà più niente fino a quando, morto il secondo marito, non se li vedrà tutt’e quattro, dato che nel frattempo erano nati altri due figli.
L’incontro sarà fortuito. Nella casa d’appuntamento di Madama Pace, il Padre, senza saperlo e all’ultimo momento, per intervento della Madre, viene a conoscere chi fosse veramente la ragazza con cui stava per andare a letto.
La miseria aveva spinto la Madre a lavorare per conto di Madama Pace che, sfruttando la situazione e, all’insaputa della Madre, lamentandosi del lavoro fatto male, garantiva alla Figlia la normale retribuzione, a patto che si prostituisse. E costei aveva accettato per amore della Madre.
La Figliastra, considerando l’uomo l’artefice dei mali della sua famiglia, sfrutta la nuova occasione, e gli chiede continuamente soldi, malvista dal Figlio, ora tornato a vivere col Padre. Ma l’uomo, impietositosi, accoglie in casa la Madre e gli altri figli.
Il Figlio si fa sempre più scontroso, ostinandosi a non riconoscere quella donna che lo aveva allontanato ancora bambino, mentre la Madre s’adopera per distoglierlo da un tale accanimento.
Ma un giorno, mentre lei è in camera del Figlio per attirarlo a sé, la Bambina annega in una vasca e il Giovinetto, avendo già meditato il suicidio, a quella vista, non superando l’angoscia, si uccide con un colpo di pistola. La Figliastra, non potendo in nessun modo perdonare il Figlio, e ritenendo insopportabile, dopo la duplice sciagura, vivere sotto lo stesso tetto di chi odia fortemente, «prenderà il volo», andandosene via di casa.
Questo è, in sintesi, il dramma che i Personaggi si portano dentro ed è questo che vogliono rappresentare. Il secondo tempo è incentrato nel tentativo di questa rappresentazione. Solo tentativo, però, perché suddivise le scene e attribuite le parti agli attori, i Personaggi non si riconoscono in essi, reali ma non veri, e insistono che siano loro stessi a rappresentare il dramma, senza niente togliere al lavoro degli attori(3). Ne viene fuori una serie di botte e risposte, finché il
Capocomico non richiami tutti al silenzio e alla prosecuzione della commedia con la scena di come siano andate le cose in casa di Madama Pace, un personaggio evocato dalla fantasia, di cui Pirandello andrà orgoglioso nella Prefazione chiarificatrice, pubblicata nell’edizione mondadoriana del 1925(4). Rivivere quella scena sarà una gran sofferenza per tutti, e spasimo per la Madre che, angosciata, rifarà lo stesso grido di allora, veramente soffrendo il dolore che impersona. Anche qui ognuno dei Personaggi tende a mettere in risalto il proprio sentimento, e tutti si troveranno d’accordo nel riconoscere negli attori l’impossibilità di rappresentarli.
Il dramma è ormai ben delineato e il Capocomico può ritenersi soddisfatto, tanto che griderà «Sipario! Sipario!», per dire che fissa a questo punto la fine del primo atto, ma è frainteso dal macchinista che calerà subito il sipario.
Pirandello, facendolo passare per un errore, chiude così il secondo tempo. È una delle tante trovate a cui ricorre per non fare pesare troppo il suo teatro che già si era distaccato molto da quello tradizionale. Comunque, è una novità che allora lasciava disorientato il pubblico e che veniva considerata virtuosismo scenico piuttosto che apertura a qualcosa di nuovo e di originale.
Il terzo tempo della commedia vede rappresentato nella sua interezza il dramma dei Sei personaggi che, sebbene delineatosi, era stato semplicemente intravisto. È concertato, però, col Capocomico che le scene vengano raggruppate, sicché, dopo una digressione, a proposito della parola illusione che, se per il Capocomico e per gli Attori non è che la rappresentazione della realtà, per i Personaggi è l’unica realtà, e per questo, immutabile, si passa a creare l’ambiente (di sera, un giardino con una piccola vasca da una parte, dove si vedranno la Bambina e la Figliastra, mentre il Giovinetto se ne sta in disparte, vicino allo spezzato d’alberi, dall’altra parte i rimanenti Personaggi e gli Attori) e l’interesse cade sulla scena della Madre con il Figlio, il quale, però, si ostina a non volerla fare, sia perché lui non ha fatto alcuna scena, sia perché rimarrà fedele alla volontà dell’autore che così ha voluto. Dietro insistenza del Padre, che vorrebbe costringerlo con la forza, e del Capocomico, il Figlio narra ciò che è avvenuto, passando dal registro dialogico a quello narrativo. E riferisce che, non volendo colloquiare con la Madre, uscito fuori dalla stanza, si accorge che la Bambina era annegata dinanzi agli occhi stupefatti del Giovinetto che, nella disperazione della sua solitudine, si uccide quasi all’istante con una pistola che si era procurata.
Nel trambusto di chi grida: «Finzione», e di altri, come il Padre («Ma che finzione! Realtà, realtà signori! Realtà!»), che la considerano realtà, il Capocomico grida al Macchinista di accendere le luci.
Una storia triste, piccolo-borghese, come tante altre che erano state rappresentate, non interessante fino al punto da essere portata anch’essa sulle scene. Pirandello se n’era reso conto ed è per questo che lascia in abbozzo il dramma, preferendo scrivere solo la commedia dei Sei personaggi che lo vivono ciascuno a suo modo e col proprio sentimento.
La riuscita dei Sei personaggi in cerca d’autore non è tanto nella narrazione- rappresentazione del dramma, quanto nel sentimento che i personaggi vi infondono, vivendolo, sulla scena. La novità, a parte quella drammaturgica, sta qui ed è qui la sua importanza artistica. Finora si era rappresentato ciò che sta alla superficie della vita, l’apparenza della realtà, quale essa sembra (ed è quello che il Nostro si è rifiutato di rappresentare), ma con i Sei personaggi è la realtà stessa che viene alla ribalta, perché i suoi personaggi sono essi stessi la realtà, quella realtà che ciascuno di essi si porta dentro e li rende impazienti(5).
IL PADRE – Prostrato, ma nel pieno del suo vigore, si difende e al tempo stesso confessa la sua debolezza, appellandosi al buon senso degli altri, perché capiscano il suo stato d’animo. Così dice a un certo punto: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma non è vero; è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero,! non è vero!».
È il personaggio verso cui Pirandello nutre tanta simpatia, e di cui si serve per affermare il suo modo di intendere la vita (la concezione relativistica, le sue convinzioni artistiche, l’impossib11ità per l’uomo di comunicare). E, questa simpatia gli è stata rinfacciata dalla critica. Pirandello la rigetta, e se il Padre risulta al tempo stesso accetto e rifiutato, dice che una cosa è il suo pensiero che può essere affidato benissimo a un personaggio qualsiasi, un’altra cosa è il travaglio proprio del personaggio, in questo caso del Padre, appunto, che è – come gli altri – in cerca di un autore(6).
Il Padre è il personaggio travagliato dal “rimorso”, ma non si dà per vinto, perché sa che chiunque si tiene dentro le proprie colpe. e sa pure che ognuno – chi più chi meno – ha le sue pecche. anche se fa difficoltà a confessarle e fa di tutto per nasconderle. La sua è la debolezza propria della natura degli uomini, e per questo chiede comprensione e dispone, credo, col suo parlare accorato e concitato della simpatia non solo dell’autore, ma dei lettori e degli spettatori.
«IL PADRE – Tutti! Ma di nascosto! E perciò ci vuole
più coraggio a dirle! Perché basta che uno le dica è
fatta! – gli si appioppa la taccia di cinico. Mentre
non è vero, signore: è come tutti gli altri: migliore,
migliore anzi, perché non ha paura di scoprire col
lume dell’intelligenza il rosso della vergogna, là, nella
bestialità umana, che chiude sempre gli occhi per
non vederlo»(7).
Personaggio interiormente travagliato, dicevo. Ma, in fondo, ha una sua solidità logica e una capacità comunicativa non indifferenti che mettono ancora più in risalto il suo dramma che risulta veramente in lui connaturato e sofferto.
La FIGLIASTRA – Col Padre, è l’altro personaggio portante della commedia, nel senso che le è riservato molto spazio, e si fa portavoce anche lei di certe asserzioni pirandelliane. Rappresenta la “vendetta”, col compito non tanto di riscattare sé e gli altri, quanto di rendere più soffocante e oppresso dal rimorso quello, il Padre, che ritiene sia la causa di tutti i mali.
«LA FIGLIASTRA – Per chi cade nella colpa, signore,
il responsabile di tutte le colpe che seguono, non è
sempre chi, primo, determinò la caduta? E per me
è lui, anche da prima ch’io nascessi. Lo guardi: e
veda se non è vero!»(8)
Niente la ferma: la vita l’ha resa sfacciata e senza alcun pudore, e ogni
occasione è buona per lanciare frecciate al Padre e al Figlio. È legata di
amore filiale alla Madre, ma non ne accetta il comportamento rimessivo,
dimostrandosi dura anche con lei, quando vorrebbe sottacere l’amore per
il secondo marito.
Il risentimento di questa ragazza è comprensibile, e all’occasione scapperà via di casa. D’altronde, come poteva a lungo stare in quella casa, se era considerata un’intrusa dal Figlio, e richiamata a certa «sanità morale» dal Padre, proprio da lui a cui non poteva riconoscere alcuna autorità, mentre ne aveva sperimentata bene la doppiezza?
La Figliastra è un personaggio, anche lei, ben delineato, che impersona il suo dramma e insiste perché non venga sottaciuto, anzi è lei stessa a palesarlo e spinge il tutto, fino all’esasperazione del Capocomico, a suo favore. Sino a giustificarla di questo atteggiamento così intransigente e risoluto un po’ nei confronti di tutti, tranne della Bambina, che le ispira tanta dolcezza e di cui ammira l’innocenza, proprio quell’innocenza che ha dovuto perdere e per cui soffre, costretta a diventare anzitempo un’adulta disinibita.
LA MADRE – Una madre tutta protesa a riconquistare la fiducia e l’amore del Figlio, e soffre immensamente per l’indi1Jerenza di costui. Una donna chiusa nel suo dolore, perché non solo vive la sventura di non avere avuto un rapporto aperto e leale di moglie con il Padre, e di essere rimasta vedova del secondo marito, ma porta dentro di sé la scena straziante a cui dovette assistere in casa di Madama Pace. Scena di ribrezzo e di grande sconforto che non vorrebbe più rivivere e, perciò, si ribella e supplica perché non venga rappresentata, rimproverando («Vergogna, figlia, vergogna») aspramente la Figliastra.
La Madre, a differenza della Figliastra che non approva affatto il suo operato, tiene a giustificare il suo comportamento:
«LA MADRE – Mi crederà, signore, se le dico che non
mi passò neppur lontanamente per il capo il sospetto
che quella megara mi dava lavoro perché aveva (8) lvi, pag. 99.
adocchiato mia figlia…»(9),
e tiene sempre a precisare il suo dolore che suona come strazio e condanna:
«LA MADRE – No, avviene ora, avviene sempre! Il mio
strazio non è finito, signore! lo sono viva e presente,
sempre, in ogni momento del mio strazio, che si
rinnova, vivo e presente sempre. Ma quei due piccini
là, li ha sentiti parlare? Non possono più parlare,
signore! Se ne stanno aggrappati a me, ancora, per
tenermi vivo e presente lo strazio: ma essi, per sé,
non sono, non sono più!»(10).
Tutto concorre a rinnovarle questo dolore, tutto concorre a riversarlo su di lei e a ridestarglielo «vivo e presente sempre». Nella sua natura di madre condensa in sé il dramma che l’opprime come una cappa di piombo da cui non potrà mai liberarsi.
IL FIGLIO – Scontroso con tutti, risentito con il Padre per avere dato ospitalità a quelli che per lui sono soltanto degli intrusi, e non gli dicono niente. Nemmeno la Madre, che gli è un’estranea, rifiutandosi di riconoscerla.
Seppure spinto, come il Padre e la Figliastra, è restio a ogni rappresentazione e preferisce stare in disparte, intervenendo, quando non può fare a meno, bruscamente e lanciando frecciate ora contro questi ora contro quella. E c’è un momento in cui rompe il silenzio e si confida:
«IL FIGLIO – … Signore, quello che io provo, quello
che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei
al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me
stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a
nessuna azione da parte mia. Creda, creda, signore,
che io sono un personaggio non -realizzato. drammaticamente:
e che sto male. malissimo, in loro
compagnia! – Mi lascino stare!»(11).
Si dice non realizzato, ma per quello che egli rappresenta, lo sdegno, è un personaggio vivo e ben riuscito; il suo silenzio, il suo distacco, l’indifferenza che mostra, mentre il Padre e la Figliastra insistono perché il dramma si rappresenti, sottolineano e ingrandiscono di più questo sentimento di repulsa. Come gli altri, è egli stesso il dramma, e non può, per questo, andarsene, anche se, dietro istigazione, finge di farlo. D’altronde, il suo è un comportamento plausibile, e ce lo si potrebbe aspettare da chiunque si fosse venuto a trovare nella sua stessa condizione. Non essendo lì per rappresentare alcuna scena, si confida al capocomico, e narra, o meglio, rivive da vicino l’accaduto.
Se la Bambina e il Giovinetto sono «presenze», l’innocenza e la purezza d’animo l’una (quasi a sottolinearci quelle perdute dalla Figliastra), un succube del dramma l’altro, Madama Pace rappresenta la forza evocatrice dell’arte, grazie a cui niente è impossibile e la creazione rimane viva e immutabile in eterno.
Madama Pace è un magnaccia e tale è nel portamento e nel suo modo arrogante di parlare.
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Una commedia così strutturata non poteva non suscitare polemiche e incomprensioni. Pirandello sentì l’esigenza di apportare alcuni chiarimenti e pubblicò nel gennaio del 1925 in «Comoedia»: Come e perché ho scritto i Sei personaggi in cerca d’autore, saggio che nello stesso anno apparirà come prefazione nell’edizione mondadoriana.
«Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale», dice Pirandello. E spiega così la nascita dei suoi personaggi e dei Sei, in particolare, che un giorno, sul più bello, gli furono presentati dalla «servetta Fantasia» e da quel momento non lo lasciarono in pace.
«Posso soltanto dire che. senza sapere d’averli punto
cercati, mi trovai davanti. vivi da poterli toccare, vivi
da paterne udire perfino il respiro. quei sei personaggi
che ora si vedono sulla scena. E attendevano,
lì presenti. ciascuno col suo tormento segreto e tutti
uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche.
ch’io li facessi entrare nel mondo dell’arte.
componendo delle loro persone. delle loro passioni
e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno
una novella. Nati vivi, volevano vivere»(12)
Diciamo che Pirandello con questa Prefazione fa un bellissimo elogio dell’arte e, in particolare, difende a spada tratta la sua poetica. Una creazione, se è veramente artistica, vive autonoma, noncurante del suo autore. Come questi personaggi che insistono, in quanto «possono da soli muoversi e parlare».
Evidentemente, perché insistenti, verranno accettati come personaggi, col dramma che ciascuno di essi si porta dentro e vive, e non solo il dramma in sé che viene, pertanto, rifiutato e solo a tratti, qua e là, intravisto nella commedia.
Pirandello confessa di essere attratto da questi personaggi perché il loro travaglio interiore è tanto simile al suo:
«Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo
esagitato, ciascun d’essi, per difendersi dalle accuse
dell’altro, esprime come sua viva passione e suo
tormento quelli che per tanti anni sono stati travagli
del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca
fondato irrimediabilmente sulla vuota
astrazione delle parole; la molteplice personalità
d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si
trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto
immanente tra la vita che di continuo si muove e
cambia e la forma che la fissa, immutabile»(13).
A. Janner dice che la Prefazione sottolinea meglio la natura intellettuale, più che artistica, della commedia(14). Ma il ragionare di Pirandello niente toglie alla bellezza di Sei personaggi: tutto è connaturato e fatto proprio dai personaggi, tutto si svolge nel contesto della commedia con la naturalezza propria dell’arte, senza un minimo di appesantimento o di cedimento.
Eppure, verrà criticato il personaggio del Padre perché molto vicino al pensiero dell’autore che così ribatte: «… Voglio chiarire che una cosa è il travaglio immanente del mio spirito, travaglio che io posso legittimamente – purché gli torni organico – riflettere in un personaggio; altra cosa è l’attività del mio spirito svolta nella realizzazione di questo lavoro, l’attività cioè che riesce a formare il dramma di quei sei personaggi in cerca d’autore»(15). Ma è pure vero (ed è un appunto che è stato fatto dallo Janner) che sia il Padre che la Figliastra fanno intuire di conoscere la scena che il Figlio non vuole rappresentare. A parte qualche piccola caduta. che è comprensibile in qualsiasi opera, quello che conta è che Pirandello è riuscito veramente a essere originale e al tempo stesso lucido espositore dei principi che più gli stavano a cuore: l’incomunicabilità e la mutevolezza degli uomini e delle cose, l’immutabilità dell’arte.
Vero e originalissimo è il movimento, considerato disordine e caos dai primi critici, e invece risponde alle nuove esigenze del teatro. oltre che a sottolineare ancora meglio la complessità della natura umana e il continuo cangiare degli stati d’animo: il Padre che si difende benissimo dagli attacchi altrui e nasconde contemporaneamente la sua mortificazione, e più che giustificarsi confessa la miseria della carne; la Madre, personaggio umanissimo di madre che soffre e piange fino a gridare in modo straziante il suo dolore; la Figliastra che dichiara aperta vendetta per un bene che non
potrà mai recuperare; e il Figlio, mortificato come tale nel periodo in cui avrebbe dovuto essere maggiormente curato e amato, cresciuto senza affetto, ora sordo a ogni affetto; tutti, indistintamente tutti, concorrono a creare all’interno dell’opera un piacere che non è soltanto estetico, e il loro procedere (apparentemente disordinato e caotico) altro non è che un ascendere armonico verso i gradi più alti dell’arte.
Salvatore Vecchio
* Questo scritto integra il mio precedente saggio su Pirandello, pubblicato in «Spiragli», IV, n. 2-3 – 1992.
(1) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Milano, Mondadori, 1990, pagg. 37-38: «… chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità».
(2) Ivi, pag. 35: «IL PADRE (Interrompendo e incalzando con foga. Ecco! benissimo! a esser vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse: ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!».
(3) Ivi, rispettivamente, pagg, 73, 75: «LA FIGLIASTRA – Ma non dicevo per lei, creda! dicevo per me, che non mi vedo affatto in lei, ecco. Non so , non… non m’assomiglia per nulla!».; «IL PADRE – Eh, dico, la rappresentazione che farà – anche sforzandosi col trucco a somigliarmi… – dico, con quella statura… (tutti gli attori rideranno) difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. Sarà piuttosto com’egli interpreterà ch’io sia, com’egli mi sentirà -se mi sentirà- e non com’io dentro di me mi sento. E mi pare che di questo, chi sia chiamato a giudicare di noi, dovrebbe tener conto». E ancora: «Appunto, gli attori! E fanno bene, tutti e due, le nostre parti. Ma creda che a noi pare un’altra cosa, che vorrebbe esser la stessa, e intanto non è!».
(4) «Quando io concepii di far nascere lì per lì Madama Pace su quel palcoscenico, sentii che potevo farlo e lo feci; se avessi avvertito che questa nascita mi scardinava e mi riformava, silenziosamente e quasi inavvertitamente. in un attimo, il piano di realtà della scena, non lo avrei fatto di sicuro, agge1ato dalla sua apparente illogicità. E avrei commesso una malagurata mortificazione della bellezza della mia opera, da cui mi salvò il fervore del mio spirito: perché, contro una bugiarda apparenza logica. quella fantastica nascita è sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione con tutta la vita dell’opera». Ivi, pag. 18.
(5) Ivi, pag. 39: «IL PADRE -Il dramma è in noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!».
(6) Dice Pirandello nella Prefazione cit., pag, 13: «Se il Padre fosse partecipe di questa attività, se concorresse a formare il dramma dell’essere quei personaggi senza autore, allora sì, e soltanto allora, sarebbe giustificato il dire che esso sia a volte l’autore stesso, e perciò non sia quello che dovrebbe essere. Ma il Padre, questo suo essere «personaggio in cerca d’autore», lo soffre e non lo crea, lo soffre come una fatalità inesplicabile e come una situazione a cui cerca con tutte le forze di ribellarsi e di rimediare: proprio dunque «personaggio in cerca d’autore» e niente di più, anche se esprima come suo il travaglio del mio spirito».
(7) lvi, pag. 16.
(9) Ivi, pag. 57.
(10) Ivi, pag. 100.
(11) Ivi, pag. 61.
(12) Ivi, pag. 6.
(l3) Ivi, pag. 10.
(14) A. Janner, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia, 1948, pag. 314.
(15) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., pag. 13.
Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 7-19.