Antoine de Saint-Exupéry e Il Piccolo Principe 

«Le petit prince, qui assistait à l’installation d’un bouton enorme, sentait bien qu’il en sortirait une apparition miraculeuse, mais la fleur n’en finissait pas de se préparer à ètre belle. [ … ] Et puis voici qu’un matin, justement à l’heure du lever du soleil, elle s’était montrée. Et elle, qui avait travaillé avec tant de précision, dit en bàillant: – Ah! je me réveille à peine… Je vous demande pardon … Je suis encore toute décoiffée … 
Le petit prince, alors, ne put contenir son admiration: – Que vous 
ètes belle! 

– N’est-ce pas, répondit doucement la fleur. Et je suis née en mème temps que le solei!…” (*) 

Negli anni della fanciullezza avevo letto Il Piccolo Principe, ma non gli diedi, allora, il peso dovuto. Non avevo colto nel vivo il suo messaggio: lo avevo letto come un bel racconto e basta. Tutto era finito li, come tante altre letture. 

Ricordo di avere ammirato la semplicità, la dolcezza con cui il protagonista, un ragazzino biondo, si muove e agisce, ma, per il resto, non ero andato oltre. Ci sono dei momenti in cui non si dà spazio a cose che, magari, ripresentandosi, acquistano un significato cosi forte e pregnante da sentirne il fascino e da assaporarle. 

Diversi anni dopo la relazione deludente e dissacratoria sul Piccolo Principe, tenuta da una signora agli studenti stranieri di una scuola parigina, mi produsse una reazione contraria; accese in me il desiderio di rileggere il libro, se non altro, per constatarne di persona la validità e considerarlo per quello che effettivamente è. Per me fu come se lo leggessi per la prima volta, come se quel ragazzino biondo mi si rivelasse nella sua totalità e mi dicesse, da buon amico. le piccole grandi verità che fanno l’uomo e lo rendono degno della vita. 

Il Piccolo Principe è un libro stupendo, un monumento imponente della letteratura mondiale, che chiunque dovrebbe tenere caro e di tanto in tanto leggere, perché è patrimonio di tutti e parla la lingua semplice che va diretta al cuore per nobilitarlo e per rinsaldarlo nei valori, a cui l’uomo non può e non deve rinunciare. 

Esso trova la molla ispiratrice nell’infanzia: 

«Chiedo perdono ai bambini di aver dedicato questo libro ad una persona adulta. [… ] Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)…» 

In questa dedica a Léon Werth, che in sintesi preannuncia la dicotomia presente nel libro (il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, evidenziando cosi due livelli di lettura), è riflesso lo stato d’animo del suo autore, che nei momenti più tristi soleva rivedersi bambino, ricreando i fantasmi buoni di quell’età. 

*** 

Il piccolo principe, allora, non poté contenere la sua ammirazione: – Che sei bello! 

– Vero, rispose dolcemente il fiore, e sono nato insieme al sole…”

Antoine de Saint-Exupéry fu scienziato e pilota, pensatore profondo e scrittore, ma, soprattutto, poeta degno di essere chiamato tale, perché in ogni suo scritto c’è l’uomo, vivo, parlante, che agisce e si muove sempre in direzione dell’uomo e per l’uomo. 

Di famiglia aristocratica (nato a Lione il 29 giugno 1900, scomparso durante una ricognizione aerea sulla regione di Grenoble-Aubérieu-Annecy il 31 luglio 1944, per un guasto al motore del suo aereo, secondo alcuni, abbattuto dalla contraerea tedesca, secondo una fonte più accreditata), Antoine de Saint-Exupéry fu nella vita un signore, dedito al bene del suo Paese e del prossimo. Un signore come il suo piccolo principe, lui, piccolo grande principe alla corte dell’uomo. 

L’impegno che lo caratterizzò fu frutto di un’intima esigenza di partecipazione e di dedizione agli altri, mai un bisogno di emergere e di farsi notare. Era tanto schivo quanto grande per non curarsi di quello che si diceva sulla sua opera, motivo di spunti polemici per i detrattori, mossi da invidia di mestiere piuttosto che da argomentazioni serie e degne di essere considerate. Dapprima gli si rimproverò che la sua letteratura era esperienza 

vissuta (Courrier Sud, 1929; Vol de nuit, 1931; Terre des hommes, 1939; Pilote de guerre, 1942), ma quando cominciò a interessarsi più apertamente dell’uomo, come se ci fosse uno stacco tra le prime e le opere successive, non venne accettato nelle vesti di saggista e di pensatore. 

Nelle opere di Saint-Exupéry non c’è stacco alcuno, non c’è il passaggio da un argomento ad un altro; la tematica è la stessa, dalla prima all’ultima. Cambia, semmai, l’approccio, seppure gradatamente, perché lo scrittore darà più peso alla riflessione; ed essa non è dovuta al mero ragionamento, che avrebbe trovato il tempo che vuole, ma diviene più insistente, perché più ricca è l’esperienza acquisita. Altrimenti Antoine non ne sarebbe stato capace: in lui l’azione, il vissuto quotidiano, precedono la scrittura; e questo sempre, anche in quelle opere che meno lo fanno notare, come ne Le petit Prince. 

Écrits de guerre (1939-1944) ce lo conferma con molta evidenza: quando ha la possibilità di volare, per rendere un servizio al suo Paese, Antoine è allegro, dimentica i dolori delle tante cadute, giuoca, come a Napoli, librando aquiloni tra le grida festose dei bambini, si sente di avere «un cuore di vent’anni» (1); quando, invece, non gli si consente di volare per l’età avanzata, allora è triste, gli sembra avere «notte nella testa e freddo nel cuore», e non è capace di scrivere. Ecco cosa dice in un’intervista rilasciata a Dorothy Thompson di “The new York Tribune” e pubblicata il 7 giugno 1940: 

« – Vi sbagliate appieno, ha risposto. Nessuno, attualmente. ha il diritto di scrivere una sola parola se non partecipa personalmente alle sofferenze della società. Se non opponessi la mia stessa vita, non sarei capace di scrivere. E ciò che è vero per questa guerra deve essere vero per tutte le altre cose. Bisogna servire l’idea cristiana del Verbo che si fa Carne. Lo si deve scrivere, ma con i! proprio corpo (2)» 

Il mestiere di pilota, che Antoine de Saint-Exupéry esercitò dal 1927 fino all’anno della morte e che dà lo spunto ai libri sopraccitati, non lo chiuse agli uomini, come si sarebbe potuto verificare; anzi, operò in lui una metamorfosi rispetto al giovane aristocratico che era stato, L’altitudine lo avvicinò alla terra e all’uomo più di quanto si possa immaginare e gli fece amare la vita, con lo stesso entusiasmo e la commozione di quando si trovava dinanzi ai cartoni animati di Walt Disney. 

Antoine de Saint-Exupéry non è il narratore dei suoi voli, bensì il poeta innamorato degli uomini e delle sue cose. Il volo gli apre il cuore all’ascolto di milioni e milioni di altri battiti che, seppure a diecimila metri, negli agglomerati urbani, minuscoli e lontani, o nelle lanterne delle singole abitazioni, sono in stretta comunione con lui. 

«Ed ora, come un guardiano nel cuore della notte, scopre che la notte evidenzia l’uomo: i suoi richiami, le sue luci, questa inquietudine. Una semplice stella nell’ombra: l’isolamento di una casa. Essa si spegne: è una casa che si chiude sul suo amore. O sulla sua noia. È una casa che cessa di far segnali al resto del mondo. Non sanno cosa sperano quei contadini seduti attorno alla tavola dinanzi al loro lume: nella grande notte che li circonda non sanno che il loro desiderio va tanto lontano. […] Quegli uomini credono che la loro lampada splenda per l’umile tavola, ma a ottanta kilometri da loro, qualcuno è già toccato dal richiamo di quella luce, come se essi l’agitassero disperati, da un’isola deserta, davanti al mare (3)». 

Nelle opere successive il richiamo all’uomo diviene sempre più insistente. Già Terre des hommes inizia con una dichiarazione molto significativa: la terra ci insegna a conoscere noi stessi più che tutti i libri messi assieme (4). Vale a dire che basta guardare attorno per considerarci e apprezzarci per quelli che siamo, senza torcere mai l’occhio da questo che dovrebbe costituire il nostro vero interesse: conoscere e amare l’uomo. 

Antoine de Saint-Exupéry ama e considera l’uomo senza andare lontano, attorno a sé: nell’aereo che pilota, nei compagni di lavoro, nella solitudine del deserto. Non è facile, se si considera che spesso barriere invisibili e insormontabili si frappongono al nostro cammino, rendendoci ciechi sopraffattori di noi stessi. 

In Pilote de guerre, pubblicato nel 1942, c’è la consapevolezza di una guerra impari e assurda che, nonostante tutto, andava combattuta. 

«Noi lottiamo in nome di una causa che consideriamo causa comune. È in giuoco la libertà, non soltanto della Francia, ma del mondo: consideriamo troppo comodo il ruolo di arbitro. Ma siamo noi che giudichiamo gli arbitri (5)». 

Nel suo racconto Antoine affronta da uomo, prima che da soldato, l’amara realtà, andando indietro nel tempo, alla sua infanzia, quasi per crearsi un baluardo, un blocco di forza che lo faccia resistere e continuare. E qui non è più il pilota – scrittore con cui abbiamo a che fare, è il poeta che qua e là emerge con prepotenza e s’impone per dire delle verità molto elementari, che durano fatica ad essere prese in considerazione, eppure fanno parte di noi e per questo occorre reimpossessarcene per renderci degni della vita che, altrimenti, non avrebbe senso. 

A maggiore conferma di quanto abbiamo esposto, dobbiamo rifarci a Citadelle, l’opera postuma, di cui era geloso, e a cui affidò tutto se stesso. Il titolo, che tradotto significa “fortezza”, è molto indicativo, perché è una fortezza costituita da quei valori (l’amicizia, l’amore, la libertà, la giustizia, la famiglia, il senso di Dio, ecc.) a cui l’Autore è attaccato morbosamente e che difende a spada tratta, riprendendoli, sottolineandoli nella loro importanza, andando contro i pregiudizi, smussando i contrasti, dando ascolto ai sentimenti, perché l’uomo possa emergere nella sua totalità. 

Antoine de Saint-Exupéry, lontano da ogni ideologia, tende al recupero della parte più buona e sana dell’uomo («Se voglio giudicare il cammino, il cerimoniale O il poema, considero l’uomo che ne viene fuori. O meglio, ascolto il battito del suo cuore» (6)) in nome di un umanesimo integrale che lo veda finalmente all’unisono con gli altri per costruire un mondo migliore, dove, non esistendo più le velleità che rendono vani i nostri sforzi, egli possa volgere la sua attenzione a ciò che c’è di vero e di duraturo. 

*** 

Nel Piccolo Principe, come del resto in ogni altro suo libro, Antoine de Saint-Exupéry dichiara la sua professione di pilota e si presenta tale, pur trovandosi in una situazione poco piacevole di forzato riposo. Questa dichiarazione è importante, perché viene a confermare quanto abbiamo detto, che, cioè, l’azione precede ogni suo scritto, anche quelli – come in questo caso – che in parte sono frutto di inventiva e di immaginazione. 

Nella notte fra il 30 e il 31 dicembre del 1935, nel tentativo di stabilire con il suo aereo Simoun un primato nella trasvolata Parigi-Saigon, un guasto al motore lo costringe a fare un atterraggio di fortuna nel bel mezzo del deserto del Sahara, a 200 km. del Cairo. Verrà soccorso, assieme al suo meccanico André Prévot, da una carovana di nomadi, dopo una lunga ed estenuante marcia. 

A parte la permanenza in Africa, che gli fece apprezzare la pace e la solitudine del deserto, questa avaria gli procurò un’esperienza che non poté mai dimenticare e che qua e là affiora nella sua opera. 

«Ricordo il giorno in cui, essendomi smarrito in inviolate distese. mi sembrò dolce, quando ritrovai le tracce dell’uomo, poter morire tra i miei. Ora, niente distingueva un paesaggio da un altro, se non da lievi impronte nella sabbia. per metà cancellate dal vento. E tutto era trasfigurato.» (7) 

Di fronte alla tragica fine che si sarebbe potuta verificare di lì a qualche giorno, o a poche ore, in mancanza d’acqua, invece di chiudersi dinanzi al pericolo minacciante, si apriva alla comprensione e all’amore del suo simile, materialmente lontano, ma molto presente e vicino al suo cuore. 

Il Piccolo Principe maturò nel clima della comprensione e nella calma del silenzio, piano piano, come il bocciolo della rosa, in un momento particolare della vita dell’uomo e del poeta, che viveva in prima persona un’esperienza di guerra atroce e fratricida pronta a svuotare ogni nobile sentimento e a rendere vano il tentativo di quanti volevano fermarla. Di qui la tristezza che è del piccolo principe, ragazzino biondo con i capelli sciolti al vento, pensoso più di quanto non lo fossero gli adulti, capace di agire e di giudicare, perché lontano dai loro interessi e pregiudizi. Eppure, guardando gli uomini, li commisera per la loro stoltezza, ma li ama per il fondo buono che li accomuna. 

Già il titolo dice molto. Vero che ci troviamo dinanzi ad un piccolo principe, ma, a tutti gli effetti: egli ha l’autorità di un principe. Non appartenendo a questa terra, è come un angelo, proveniente da un asteroide lontano. Si è venuto a trovare cosi, senza volerlo, in quel regno grande, di cui fanno parte gli uomini che egli richiama con l’autorità disarmante dei piccoli, spesso capaci di mettere in difficoltà i grandi. In poche parole, è come un extraterrestre che s’avvicina agli umani, ma, nel momento che lo fa, trova molto strano il loro comportamento. 

Antoine de Saint-Exupéry inizia il libro (cap. I) con un ricordo della sua infanzia accompagnato da alcuni disegni che gli diedero l’opportunità di conoscere gli adulti e di diffidare di essi, visto che i loro interessi non corrispondevano ai suoi. 

Un colloquio, un vero rapporto di amicizia, lo avrà più tardi, per caso, con il piccolo principe, e il ricordo di quei disegni d’infanzia lo aiutò molto a comprendere il bambino biondo e le sue esigenze. Sicché la sosta nel deserto gli fu piacevole e salutare, più che stare con gli uomini, perché lo fece meglio accostare ad essi. Questo dominante senso del reale è il motivo per cui Antoine non iniziò la sua storia come di solito iniziano le fiabe; volle che fin dall’inizio venisse considerata come un racconto (<<Perché non voglio che il mio libro si legga con leggerezza» (8), con il rispetto e l’importanza che gli sono propri. 

Così, dopo i primi approcci (siamo ai capitoli II-VIII, e passeranno alcuni giorni perché Antoine ne venga a conoscenza), il piccolo principe paleserà i suoi sentimenti, i suoi timori, le apprensioni e l’insofferenza verso il complicato e il cervellotico propri degli adulti, l’amore per le cose a cui essi non danno tanto peso. 

I capitoli XI-XXIII raccontano il viaggio che il bambino biondo compie per arrivare nel pianeta Terra, mentre il XXN riprende il dialogo tra lui e l’autore ed ha il suo culmine nel XXVI capitolo, quando il piccolo protagonista muore per far ritorno nel suo asteroide. Solo allora Antoine si reimpossessa del racconto e nel XXVII capitolo vuole rendere consapevole l’uomo di ciò che ha importanza e che realmente resta. 

Antoine de Saint-Exupéry è uno scrittore che non schematizza ciò che sente di scrivere; ubbidisce solo agli stimoli che via via riceve e li struttura senza badare ad una vera e propria architettura del racconto. Sicché la struttura che abbiamo evidenziato è il risultato a cui l’autore è pervenuto, non il tracciato che si era prefisso. Ecco cosa scrive a proposito: 

«Se, prima di scrivere, delineo a tratti qualche piano della mia opera [… l. non sarà quello schema a condizionarla. Altro non è che l’espressione dell’opera da scrivere. Perché evidentemente l’essenziale si presenta per prima cosa come struttura.» (9) 

Uno scrittore non può essere condizionato dagli schematismi; guai se fosse così, tutto andrebbe a scapito della creatività, che altro non è se non la libertà di esporre e di esporsi, come hanno fatto da sempre i veri scrittori, come Antoine, in questo e negli altri suoi libri. 

Per quanto riguarda il tempo in cui si svolge l’azione, Antoine de Sainte-Exupéry ci dà una precisa indicazione. Nel suo libro si rifà ad un guasto al motore del suo aereo e il riferimento risale alla fine di dicembre del 1935, anno della sosta forzata nel deserto del Sahara (101. Il Piccolo Principe verrà scritto nell’estate del 1942. 

Lontano dagli uomini e dal mondo, al secondo giorno di sosta, Antoine ebbe la visita o, meglio, si trovò dinanzi, con un’apparizione improvvisa, il piccolo principe e con lui colloquierà per otto giorni (nella realtà rimase tre giorni nel deserto prima che arrivassero gli aiuti), giusto il tempo per non morire di fame ed essere tratto in salvo, e anche il tempo perché il bambino biondo potesse ritornare nel suo asteroide. 

A parte il primo giorno, in cui Antoine fu veramente solo («Mi sentivo molto più isolato di un naufrago su una zattera in mezzo all’Oceano») (11), gliene bastarono sette perché potesse scoprire il mondo umano e spirituale del piccolo principe e innamorarsene fmo al punto di farsene banditore e amarlo. 

L’azione, quindi, si svolge nel bel mezzo del deserto, per quello che attiene al racconto dell’autore, mentre, per quanto riguarda quello del piccolo principe, in buona parte, nell’immensità dello spazio planetario, costellato da una miriade di asteroidi, alcuni dei quali visitati prima di scendere sul pianeta Terra. 

«La Terra non è un pianeta qualsiasi! Vi si contano centoundici re (non dimenticando. certo, i re negri), sette mila geografi, novecento mila uomini di affari, sette milioni e mezzo di ubriachi, trecentoundici milioni di vanitosi, vale a dire circa due miliardi di adulti.» {l2) 

Se circoscritta e limitata la vita negli asteroidi, immensa appare al piccolo principe la Terra, molto varia nei paesaggi e nei suoi abitanti, ma altrettanto aperta a tutte le aspettative e al bene. Sicché, lo spazio reale di Antoine e quello illusorio degli asteroidi del piccolo principe risultano integrati in un’unica concezione della vita che, a sua volta, lega i due in un’amicizia indissolubile molto costruttiva e offre loro l’opportunità di riflettere sulle cose e sugli uomini. Ne deriva che la narrazione è un misto di monologo, di forma indiretta e di dialogo, ma essa diviene via via più serrata verso l’ultimo, quando comincia ad essere più manifesto il messaggio del libro e il ruolo del piccolo protagonista. 

Il monologo smorza ed esplica il dialogo, come se l’io narrante prendesse coscienza delle verità che vanno emergendo dalle brevi battute e dalle secche domande dell’interlocutore, perché ogni domanda e ogni battuta non sono dette a caso e, più che un senso, hanno una motivazione ben precisa: mirano ad asserire qualcosa che già per lui è scontata, ma passata sotto silenzio e trascurata dagli adulti, che di ben altro si curano. Perciò, all’inizio, c’è una specie di incomprensione e solo dopo abbiamo la presa di coscienza e l’attaccamento al piccolo principe e al suo insegnamento. 

«Mi ci volle molto tempo a capire da dove venisse. Il piccolo principe, che mi poneva molte domande, sembrava che non sentisse le mie…»; 
«ogni giorno imparavo qualcosa sul suo pianeta, sulla partenza, sul viaggio. Aweniva pian piano, per via di riflessioni. ..». 
«Ah, piccolo principe! Ho capito cosi, a poco a poco, la tua piccola vita malinconica. Non avevi avuto tanto per distrarti se non la dolcezza dei tramonti. Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, quando mi hai detto: – Mi piacciono i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto… » (13) 

Così il distacco, con cui Antoine aveva accolto il piccolo principe, cede il posto ad una curiosità che va al di là del semplice voler conoscere. Tra i due comincia ad instaurarsi un’amicizia e una comunione d’intenti che difficilmente possono essere intaccate. 

L’io narrante dell’autore-pilota espone in prima persona, dal I al IX capitolo, le conoscenze acquisite sul piccolo principe e il suo mondo. Successivamente, a partire dal X fino al XXIII capitolo (il tempo necessario perché questi potesse esporre le tappe del suo viaggio e gli incontri avuti), la narrazione si serve della terza persona, Solo nella parte finale, dal XXIV al XXVII capitolo, il discorso riprende alla prima persona, quasi a voler sottolineare il ritorno alla Terra, alla realtà del guasto e del deserto o, forse, per dare meglio l’idea che ciò che viene detto interessa da vicino e tocca fino a scuotere l’io profondo. 

*** 

Proprio per questo, il vero protagonista del racconto è no, voce e silenzio della nostra esistenza; è no che non si riconosce tra le storture esistenti e vuole evadere; ma, nel momento in cui lo fa, prende consapevolezza, s’afferma e s’impone per quello che è: buono, desideroso di vivere in armonia con sé e con gli altri; e, per far questo, ha bisogno di confrontarsi e fare delle scelte. 

Chi sono, allora, gli altri personaggi? A ben guardare, è il mondo dei tanti io di quanti è effettivamente formato, ed è anche e soprattutto il mondo del poeta, frastagliato e ricco di nobili aperture. 

Ma Antoine de Saint-Exupéry rimane nell’ombra ed è di supporto al piccolo principe, a cui crede profondamente. Sicché, egli segue sul filo del racconto il piccolo amico; qua e là interviene, il più delle volte si mette dalla parte dell’uomo, subisce per dare spazio alle acquisizioni e per meglio evidenziare quei bisogni che, pur essendo dell’uomo, spesso non vengono apprezzati o, addirittura, ritenuti di altro tempo e di altro luogo, di un asteroide, anziché della Terra. Per questo, spesso si chiude in se stesso e riflette. C’è nella vita di un uomo un momento in cui si comincia a fare un bilancio, accorgendosi che si è realizzato ben poco di quanto si sarebbe potuto fare. Antoine, a 43 anni («Il giorno delle quarantatre volte eri dunque talmente triste?» (14)), avendo sentore della propria fine, guarda indietro nel tempo e si rivede, con i sogni belli che lo aprivano alla vita, nel mondo favoloso e puro dell’infanzia. Si rivede, magari, a giuocare al cavaliere Aklin, con accanto Paula, la cara governante e compagna di giuochi rievocata in Pilote de guerre (15). 

Ed ecco venir fuori come dal nulla il piccolo principe, il ragazzino biondo dai capelli al vento, che non si accontenta di una risposta e insiste nella sua semplicità di fanciullo. È l’irradiazione a 360 gradi dell’innocenza che stenta a capire (e non ammette) le banalità di cui è piena la vita e s’adopera perché si dia spazio ai sentimenti; è l’alter ego di Antoine che finora ha urtato contro gli interessi degli adulti, ed è anche la bontà che nel silenzio apre strade aperte da sempre e sempre trascurate per manie di grandezza e di superiorità, e gli uomini gli appaiono bizzarri e strani, poco affatto straordinari. 

«Che strano pianeta! pensò allora. È secco, pieno di punte e tutto rovinato. E gli uomini mancano d’immaginazione. Ripetono ciò che si è detto loro… Da me avevo un fiore: parlava sempre per primo… » (16) 

La malinconia del piccolo principe è data dal disagio di vivere e dalla constatazione che è difficile contrastare con le abitudini consolidate e ritenute buone. Sicché, a mano a mano che è preso da questa consapevolezza, diventa sempre più nostalgico per ciò che ha lasciato (per il suo fiore, per i tre vulcani, anche per la solitudine che gli permetteva di essere se stesso) e medita il ritorno nel suo asteroide incontaminato. 

Tutti gli altri personaggi (il re, il vanitoso, l’ubriacone, l’uomo d’affari, il geografo) sono delle comparse; rappresentano gli adulti con i loro interessi e le loro meschinità e, come tali, hanno un’azione limitata, quasi a dire che non bisogna loro dare tanta importanza. 

Un posto a parte occupano, invece, la volpe e la rosa. Contrariamente a quanto si possa pensare, esse avvicinano il piccolo principe agli uomini. “Addomesticata” prima la rosa, poi la volpe, sarà la volta di Antoine e di quanti accolgono il messaggio di amicizia e di amore di cui si fanno banditori. 

A differenza di tutta la favolistica antica e moderna, che presenta la volpe furba, pronta a rubare e a scappare, mettendo nel sacco i suoi antagonisti, la volpe del Piccolo Principe è solo guardinga, agisce per spirito di conservazione, ma è fondamentalmente buona e tende ad addomesticare, come farà con il piccolo principe, e si rivela saggia. 

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] – Gli uomini hanno dimenticato questa verità, disse la volpe. Ma tu non devi dimenticarla. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile per sempre della tua rosa… » (17) 

Questa della volpe è una toccante umanità che, se coglie sulle prime di sorpresa, rende consapevoli e fa molto apprezzare ciò che ci appartiene: la vita e, con essa, l’amore in ogni sua manifestazione. 

La rosa è una protagonista silenziosa. Sicura della sua bellezza, degna di ogni attenzione, più che parlare, fa parlare. Antoine la descrive sul nascere, e il piccolo principe la vede gonfiarsi di giorno in giorno e aprirsi. La sua semplicità, il mostrarsi cosi com’è («Il piccolo principe, allora, non poté contenere la sua ammirazione: – Che sei bello! – Vero, rispose dolcemente il fiore, e sono nato insieme al sole…»), potrebbero irritare ed invece conquistano e la fanno amare, perché niente può contrastare con la purezza che di per sé rende molto docili e arrendevoli. 

Antoine de Saint-Exupéry, sempre puntuale persino nei dettagli, scrive e descrive ciò che vede e, d’altronde, non poteva essere cosi per uno, come lui, abituato all’osservazione. Pertanto, come abbiamo già notato, il vedere e l’osservare, per lui, vengono prima dello scrivere (l8). 

Nel Piccolo Principe ne costituiscono anche una prova i disegni che lo corredano e che sono di supporto a tutto il discorso. 

«Quando avevo sei anni, vidi, una volta, un magnifico disegno in un libro sulla Foresta Vergine intitolato “Storie vissute”. Rappresentava un serpente boa che mangiava una belva. Ecco la copia del disegno.» (19) 

Il racconto del piccolo principe è una trasposizione del vissuto, e l’affabulazione si serve dei dati oggettivi dell’esperienza: il volo, il guasto, la presunzione che è negli adulti e il bisogno di ridimensionamento. 

*** 

Nel Piccolo Principe è compendiata la tematica sviluppata negli altri scritti, siano essi racconti, romanzi o saggi. Il volo o l’aeroplano in Antoine de Saint-Exupéry non sono motivo di esaltazione o di spinte nazionalistiche, bensì occasione di incontro con il piccolo principe; non evasione, ma avvicinamento all’uomo, un modo per comprendere meglio il finito e ciò che lo circonda. Per questo, ricorre spesso alla figura del giardiniere, e lo vorrebbe essere lui stesso («Ero fatto per essere giardiniere») (20), ma di buoni propositi e di valori; di quei valori e di quei propositi che elevano, allo stesso modo dell’aereo, l’uomo e lo rendono umanamente accettabile, e solo così la vita gli sorride. 

La solitudine e l’ascolto del deserto riportano Antoine nel mondo o, meglio, nei tanti mondi in cui si frastaglia: quello degli adulti, che offre lo spunto (spesso in negativo) a tanta riflessione, e quello dei bambini e delle creature, come la volpe e la rosa, più bello, più umano e sicuramente degno di tanta considerazione. Se nei primi, però, la descrizione tende all’ironia, negli altri al sentimento, che viene recuperato senza peraltro cadere nel sentimentalismo, cosa che alcuni gli rimproverano (21). 

Il deserto stesso non lo apre alla solitudine, ma costituisce motivo di ascensione e di arricchimento; esso non è chiusura con il mondo, è bisogno di ricerca: chi insiste troverà l’acqua dissetante per sopravvivere. 

«- Il deserto è bello, aggiunse. Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia e non si vede niente, non si sente niente. E tuttavia qualcosa splende in silenzio… 

– Ciò che rende bello il deserto, disse il piccolo principe, è che nasconde un pozzo in qualche parte… » (22) 

Un pozzo è la speranza della vita, e la distesa ondulata di sabbia è capace di far «germinare e crescere come un sole»(23), L’incontro fortuito di Antoine con il bambino biondo nel bel mezzo del deserto fa nascere un’amicizia destinata a consolidarsi e offre lo spunto per una presa di coscienza contro il male, che affonda le radici dovunque (i baobab), e contro ogni pretesa degli adulti che danno peso al caduco («Gli uomini s’infilano nei rapidi, ma non sanno più cosa cercano. Allora s’agitano e girano attorno…»)(24), trascurando la semplicità del vivere nel rapporto disinteressato con gli altri. Così gli adulti, incapaci di svincolarsi dai loro interessi, sono oggetto di ironia. 

La solitudine nel Piccolo Principe, come negli altri libri di Antoine de Saint-Exupéry, è soprattutto riflessione, bisogno di silenzio per favorire l’ascolto di quanto c’è di buono. Essa apre ai contatti, e se non propriamente a quei rumorosi che poi non dicono niente, di sicuro a quelli che sanno crescere e ingrandire come il bocciolo della rosa. Sicché la volpe, dopo essere stata addomesticata può dire: «Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». Questo “essenziale” differisce la volpe e la rosa dalle altre simili a loro, e avvicina e lega Antoine al piccolo principe. 

Ecco cosa dice il piccolo principe a proposito della rosa: 

« – Voi non siete affatto simili alla mia rosa, voi non siete niente. Nessuno vi ha addomesticato e voi non avete addomesticato nessuno. [… ] Voi siete belle, ma vuote. Non si può morire per voi. Certo, un passante qualsiasi crederebbe che la mia rosavi rassomigli. Ma lei sola, lei è più importante di tutte voi, poiché è lei che ho innaffiata. Poiché è lei che ho messa al riparo. Poiché è lei che ho tutelata con il paravento. Poiché le ho uccisi i bruchi (eccetto due o tre per le farfalle). Poiché è lei che ho ascoltato lamentarsi, o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Poiché è la mia rosa» (25) 

– Ce qui embellit le désert, dit le petit prince, c’est qu’il cache un puits quelque part…» 

L’amicizia e l’amore vengono presentati nella loro luce migliore ed acquistano un effetto particolare perché è un bambino a farli riscoprire, nella semplicità dei suoi incontri, nell’attaccamento e nella dedizione con cui si dà agli altri, dando un esempio di come l’uomo può vivere a sua misura e a contatto con il prossimo. 

*** 

Antoine vuole riportare l’uomo (lui che s’ostinava a scrivere questo termine a caratteri maiuscoli) nella condizione di riappropriarsi ciò che gli appartiene (l’amicizia, l’amore, la gioia di vivere nella libertà e nell’espletamento dei propri sentimenti, l’attaccamento alle piccole cose), ma vuole anche sia bandito il male che si manifesta con il vizio o dando troppa importanza alla materialità, che rende seriosi, facendo uscire dall’umana dimensione. 

Ricorrendo ad un’immagine un po’ forzata, ma pregnante, Antoine è l’amante tradito che finge di non sapere niente pur di riconquistare l’amata e, per far ciò, ripercorre con la mente e con il cuore i tempi belli e i luoghi che lo videro felice. Di qui la forte malinconia che è alla base del libro, non dettata, comunque, dal pessimismo, bensì dal sincero bisogno di recuperare ciò che è suo e che, purtroppo, sente lontano, perché altri interessi, altre motivazioni lo distolgono e lo assorbono. 

«Era veramente molto irritato, e scuoteva al vento i suoi capelli dorati: – Conosco un pianeta dove c’è un signor chermisi. Non ha mai odorato un fiore, non ha mai guardato una stella, non ha mai amato nessuno. Non ha mai fatto altro che addizioni. E tutto Il giorno ripete come te: “Sono un uomo serio! Sono un uomo serio'” …» (26) 

Antoine de Saint-Exupéry piccolo principe vorrebbe che non fosse così e che si desse, invece, più ascolto alla natura e al cuore, ingentilito, quest’ultimo, da un amore forte che renda simultanei i battiti. 

Il Piccolo Principe è questo: un atto d’amore verso l’uomo e il mondo. 

Salvatore Vecchio 

(*) A. de Saint-Exupéry, Le Petit Prince, Paris, Gallimard, 1996, pag. 31: «Il piccolo principe, che assisteva al formarsi d’un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe venuta fuori una visione miracolosa, ma il fiore non la finiva di prepararsi ad essere bello. [… ]E poi ecco che un mattino, proprio all’ora del levar del sole, si era mostrato. E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, cominciò sbadigliando: – Ah! mi risveglio adesso… Ti chiedo scusa… Sono ancora tutto spettinato… 
l) A. de Saint-Exupéry, Écrits de guerre (Prefazione di R. Aron), Paris, Gallimard, 1994, pag. 395. 
2) Ivi, pag. 97: «- Vous vous trompez tout à fait, a-t-il répondu. Nul, actuellement, n’est en droit d’écrire un seuI mot s’il ne participe complètement aux souffrances de ces camarades humains. Si je ne résistais pas avec ma propre vie, je serais incapable d’écrire. Et ce qui est vrai pour cette guerre doit rester vrai en toutes choses. Il faut servir l’idée chrétienne du Verbe qui se fait Chair. L’on doit écrire, mais avec son corps.»
3) A. de Saint-Exupéry, VoI de nuit, Paris, Gallimard, 1931, pag.19: «Et maintenant, au coeur de la nuit comme un veilleur, il découvre que la nuit montre l’homme: ces appels, ces lumières, cette inquiétude. Cette simple étoHe dans l’ombre: l’isolement d’une maison. L’une s’éteint: c’est une maison qui se ferme sur son amour. Ou sur son ennui. C’est une maison qui cesse de faire son signal au reste du monde. lls ne savent pas ce qu’Hs espèrent ces paysans accoudés à la table devant leur lampe: Hs ne savent pas gue leur désir porte si loin, dans la grande nuit qui les enferme.[ … ] Ces hommes croient que leur lampe luit pour l’humble table, mais à quatre-Vingts kilomètres d’eux, on est déJà touché par l’appel de cette lumière, comme s’ils la balançaint désespérés, d’une ile déserte, devant la mer.» 
4) Id.. Terre des hommes, Paris, Gallimard, 1939, pag. 9: «La terre nous en apprend plus long sur nous gue tous les livres.» 
5) Id., Pilote de guerre, Paris, Gallimard, 1942, pag. 130: «Nous luttons au nom d’une cause dont nous estimons qu’elle est cause commune. La liberté, non seulement de la France, mais du monde, est en jeu: nous estimons trop confortable le poste d’arbitre. C’est nous qui jugeons les arbitres.»
6) Id., Citadelle, Paris, Gallimard, 1996, pag. 409: «Sije veuxjuger le chemin, le cérémonial ou le poème, je regarde l’homme qui en vient. Ou bien j’écoute battre son coeur.» 
7) lvi, pagg. 551-552: «Je me souviens du jour où m’étant égaré sur des plateaux inviolés, me parut tendre, quand je retrouvai les traces de l’homme, de mourir parmi les miens. Or, rien ne distinguait un paysage de l’autre, sinon, de faibles marques dans le sable à demi effacées par le vent. Et tout était transfiguré.»
8) Id., Le petit Prince, cit., pag. 20: «Car je n’aime pas qu’on lise mon livre à la légère.»
9) Id., Oeuvres complèts, in “Carnets V’. Paris, Gallimard. Bibliothèque de la Pléiade, 1959, pagg. 642-643: «Si, avant d’écrire, j’énonce en gros quelques mouvements de mon oeuvre […], ce n’est point ce plan-là qui conditionne mon oeuvre. Il n’est que l’expression de ce que j’ai une oeuvre à écrire. Car évidemment l’essentiel se présente d’abord en tant que structure.» 
10) Id., Le petit prince, cit. pag. 11. 
Il) lvi. 
12) lvi, pag. 13: «La Terre n’est pas une planète quelconque! On y compte cent onze rois (en n’oubliant pas, bien sur les rois nègres), sept mille géographes, neuf cent mille businessmen, sept millions et demi d’ivrognes, trois cent onze millions de vaniteux, c’est-à-dire environ deux milliards de grandes personnes.»
13) Ivi, rispettivamente, pagg. 15, 21, 26: «Il me fallut longtemps pour comprendre d’où il venait. Le petit prince, qui me posait beaucoup de questions, ne semblait jamais entendre les miennes… »; «Qhaque jour j’apprenais quelque chose sur la planète, sur le départ, sur le voyage. ça venait tout doucement, au hasard des réflessions… »; «Ah! petit prince, j’ai compris, peu à peu, ainsi, ta petite vie mélanconique. Tu n’avais eu longtemp pour distraction que la douceur des couchers de soleil. J’ai appris ce détail nouveau, le quatrième jour au matin, quand tu m’as dit: – J’aime bien les couchers de soleil. Allons voir un coucher de soleil… » 
14) lvi.
pag. 27: « – Le jour des quarante trois fois tu était donc tellement triste?» 
15) Id.. Pilote de guerre, cit.. pagg. 134-141. 
16) Ivi, pag. 64: «Quelle dròle de planète! pensa-t-il alors, Elle est toute sèche, et toute pointue et toute salée. Et les hommes manquent d’imagination, Ils répètent ce qu’on leur dit… Chez moi j’avais une fleur: elle parlait toujours la première… “ 
17) Ivi, pagg. 72-74: «Voici mon secret. Il est très simple: on ne voit bien qu’avec le coeur. L’essentiel est invisible pour le yeux. (… ) – Les hommes ont oublié cette vérité, dit le renard. Mais tu ne dois pas l’oublier. Tu deviens responsable pour toujours de ce que tu as apprivoisé. Tu est responsable de ta rose…
18) «Il ne faut pas apprendre à écrire mais à voir. Écrire est une consequence» (A. de Saint-Exupéry, “Lettre à Rinette”, in Oeuvres complètes, cit. pag. 787. 
19) Id., Le Petit Prince, cit pag.: «Lorque j’avais six ans fai vu, une fois, une magnifique image, dans un livre sur la Forèt Vierge qui s’appelait “Histoire Vécues”. ça représentait un serpent boa qui avalait un fauve. Voilà la copie du dessin.» 
20) A. de Saint-Exupéry, Écrits de guerre (1939-1944), cit. pag. 429: «Moi, j’étais fait pour ètre jardinier.» Cfr., Id., Citadelle, cit., pagg. 612-15. 
21) B. Placido, KaJka contro il principino, «La Repubblica», Roma, 30 maggio, 1992.
22) A. de Saint-Exupéry, Le petit prince, cit., pag. 77: « – Le désert est beau, ajouta-t-il. Et c’était vrai. J’ai toujours aimé le désert. On s’assoit sur une dune de sable. On ne voit rien. On n’entend rien. Et cependant quelque chose rayonne en silence… 
23) Id., Citadelle, cit., pag. 374: «Et si je me suis borné à te faire parteciper de son langage, car l’essentiel n’est point des choses mais du sens des choses, le désert t’aura fait germer et croitre comme un soleil.» 
24) Id., Le petit prince, cit., pago 80: « – Les hommes, dit le petit prince, Hs s’enfoument dans les rapides, mais ils ne savent plus ce qu’Hs cherchent. Alors ils s’agitent et tournent en rond…» 
25) «- Vous ètes belles, mais vous ètes vides, leur dit-H encore. On ne peut mourir pour vous. Bien stir, ma rose à mo!, un passant ordinaire croirait qu’elle vous ressemble. Mais à elle seule elle est plus importante que vous toutes, puisque c’est elle que j’ai arrosée. Puisque c’est elle que j’ai mise sous globe. PUisque c’est elle que fai abritée par le paravent. Puisque c’est elle dont fai tué les chenilles (sauf les deux ou trois pour les papillons). Puisque c’est elle que fai écoutée se plaindre, ou se vanter, ou meme quelquefois se taire. Puisque c’est ma rose».
26) Ivi, pagg. 28-29: «Il était vraiment très irrité. Il secouait au vent des cheveux tout dorés: – Je connais une planète où il est un Monsieur cramoisi. Il n’a jamais respiré un fleur. Il n’a jamais regardé une étoile. Il n’a jamais aimé personne. Il n’a jamais rien fait d’autre que additions. Et toute la journée il répète comme toi: “Je suis un homme serieux! Je suis un homme serieux”’… ».

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 12-27.




A proposito di referendum 

 Spesso mi sono chiesto se erano proprio inevitabili questi referendum che avrebbero dovuto impegnare gli Italiani, se la maggior parte, per vari e discutibili motivi, non avesse deciso di astenersi. 

Da anni si parla di caccia sì o no, di regolamentazione e controllo dell’uso dei pesticidi in agricoltura, e se n’è parlato in lungo e in largo, in difesa o contro, in dibattiti e in tavole rotonde, per mezzo stampa o per televisione; se n’è parlato a Palazzo, non recependo, però, i nostri onorevoli rappresentanti quelle che sono le aspettative dei cittadini e non facendo propria l’urgenza di dare loro leggi adeguate a passo coi tempi. 

Rischiare l’impopolarità è un azzardo e nessuno è disposto a giocare a proprie spese. Eppure, vuoi o no, il governo è caduto lo stesso nell’impopolarità, perché il cittadino taccia di incapacità chi di competenza è delegato a legiferare. E non ha tutti i torti a pensare questo, dal momento che s’è vista rigettare la patata bollente tra le mani. È possibile che, sentita l’opinione pubblica, lo Stato non sia nelle condizioni di tutelare i suoi cittadini, di trovare una via di mezzo (non un compromesso) che soddisfi gli ambientalisti e i venatori, l’esigenze di tutela della salute di tutti e dell’ambiente e gli interessi economici di altri? 

I referendum chiedevano al cittadino il sì e il no, mentre i partiti politici, tranne pochi che tuttora fanno propria la battaglia, sembravano guardare da lontano, come se niente li toccasse, ritenendo, forse, questa consultazione marginale o di poca importanza, o forse per timore di perdere adesioni – come s’è detto – facendo indirettamente il gioco di chi invitava la gente ad un’astensione in massa. 

Mancando l’impegno politico, non era già prevedibile che questi referendum passassero sotto silenzio, facendo sfumare nel nulla 600 miliardi? È stata garantita una informazione corretta? 

Il cittadino deve sapere. Deve sapere, per esempio, che è suo dovere votare e che, in ogni caso, bisognava andare a votare. Anzitutto per gratificare i promotori dei referendum – che si fosse votato sì o no, ognuno era libero di esprimersi secondo coscienza – il cui obiettivo era il nobile intento di migliorare il rapporto dell’uomo con l’ambiente e gli altri esseri che hanno pur essi il diritto alla vita. E poi bisognava votare perché dal risultato i nostri rappresentanti potessero trarre precise indicazioni di governo dalle quali sarebbero emerse le reali esigenze di tutti che non sono solo di carattere materiale. 

A che vale che l’uomo progredisce in ogni campo, se le sue condizioni di vita sono pessime? Sinora non ha operato se non per tornaconto e sempre nell’ottica del proprio interesse? A che vale questo smodato benessere pagato a caro prezzo e col rischio di rompere in modo irreparabile un equilibrio così ingegnosamente perfetto? 

L’uomo, guardando solo all’utilità, distrugge con la sua azione ogni cosa. In tempi non molto lontani si provava piacere a stare nella tranquillità della campagna con le sue varietà di coltivazione e al canto degli uccelli. Pettirossi e cardellini nidificavano dovunque, e le tortorelle svolazzavano in cerca di frescura da un albero d’ulivo secolare ad un altro… Era troppo bello avere la natura veramente a portata d’uomo! 

Ricordo, bambino, le lunghe passeggiate nelle campagne di Montesole, un’altura che sovrasta Licata e guarda il mare, allora contaminata dal cemento, roccaforti di lepri e di conigli, ora deturpata e resa irriconoscibile da un abusivismo e da una speculazione che non rispettano regola alcuna. Ricordo che in primavera la natura sembrava veramente svegliarsi da un lungo sonno, rinnovata nei colori e nelle voci. Voci di uccelli vari, cardellini che gareggiavano nel canto tra gli ulivi, a quattro passi dalla pineta. Di tanto in tanto sentivi un rumore di piccoli passi, quasi in punta di piedi: mamma coniglia sbucava fuori di qualche cespuglio con tutta la sua nidiata: incurante della presenza dell’uomo, sicura di rimanere indisturbata. Di rado si vedeva un cacciatore: c’era ben altro a cui pensare! E l’aria… che aria ossigenava il corpo e ti rendeva leggero… 

Vai a vederlo adesso, Montesole! Non è più quello, e nemmeno l’aria è pulita e leggera come una volta. Gli uccelli, i conigli, tutti gli animali che lo popolavano sembra si siano trasferiti altrove. La piana sottostante, caratteristica allora per la varietà dei colori che andavano dal verde denso allo sfumato o, a seconda la stagione, dal giallo oro del grano da falciare al rosso papavero, ora è ridotta ad un mare cinereo di plastica e avvolta nel tanfo nauseante di pesticidi. 

Lo chiamate progresso questo. È evoluzione? E i morti per i mali oscuri del secolo dove li mettiamo? Quando ogni cosa è immangiabile, imbottita com’è di ormoni e di dosaggio esagerato e irresponsabile di veri e propri veleni, e non sei affatto tutelato come consumatore nella salute, non credi che sia proprio tempo di chiedere al governo una giusta regolamentazione dell’uso dei pesticidi? 

È da ignoranti aver pensato e fatto capire agli altri che pronunciarsi contro la caccia o i pesticidi ne avrebbero decretato la loro abrogazione. Nessuno avrebbe voluto questo e tuttora ne chiede solo un’intervento immediato dello Stato che prenda seri provvedimenti per il bene di tutti. Il cittadino chiede leggi adeguate, a misura d’uomo, che facciano rispettare l’ambiente in cui vive, gli animali, la sua salute, mai come ora minacciata e così incessantemente bombardata dagli agenti negativi prodotti dalla stessa azione umana. 

Chi ha detto che i prodotti usati nell’agricoltura moderna debbano essere venduti a casaccio e a chiunque li richieda? È possibile che debbano essere utilizzati senza alcun discernimento e senza alcuna cautela a rispetto dei consumatori? Il contadino pensa solo a se stesso, riservandosi magari, un piccolo angolo della serra per gli usi propri, non sapendo che i pesticidi in un ambiente chiuso infestano ogni cosa. E lui in prima persona maneggia quei prodotti senza alcuna prevenzione. Perché non affidarne le vendite ai tanti laureati in chimica· o in agraria in cerca di una prima occupazione? Veri e propri farmacisti con norme da osservare e far rispettare. Da parte di tutti si sente l’esigenza d’un immediato riparo a questi guasti che interessano la vita nel suo insieme. 

La caccia? Perché non creare riserve pubbliche e private, permettendo agli appassionati della doppietta di sparare a loro piacimento? In un momento come questo, dove alta è la disoccupazione, ci sarebbe lavoro per tanta gente. E chiunque sarebbe contento, persino le fabbriche di armi continuerebbero nella loro produzione. Stabilite le modalità di accesso a queste riserve (in ogni caso a pagamento), lo Stato dovrebbe intensificare i controlli, servendosi di personale qualificato, in nessun modo ricorrendo – come spesso e tuttora avviene – a guardacaccia. volontari, i veri bracconieri che niente risparmiano e a cui tutto torna lecito, controllori incontrollati come sono. 

Gli animali vanno tutelati e rispettati, perché anch’essi hanno diritto alla vita e fanno parte integrante di questo mondo. Ma, continuando di questo passo, noi decretiamo ogni giorno di più la totale estinzione delle varie specie. E intanto si spera all’innocuo e utile passerotto, si spara per il semplice gusto di sparare in qualsiasi stagione e momento dell’anno. 

L’irresponsabilità dei cittadini è il riflesso di ben più altre e più gravi irresponsabilità che portano al disorientamento e, quindi, all’apatia verso le istituzioni. Perciò lo Stato non può rimanere impassibile dinanzi a queste storture e deve reagire energicamente, seIVendosi degli strumenti a sua disposizione, se vuole operare per il bene dell’intera collettività, per un mondo più sano e più giusto nel rispetto dell’ambiente e della vita in ogni sua manifestazione. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 11-14.




A ROMANO CAMMARATA 

 Chi poteva immaginare che di lì a qualche giorno te ne saresti andato per sempre? Come crederci, se prima di lasciarci, c’eravamo detti di ritrovarci a Velletri nei primi di settembre per discutere e portare avanti i nostri progetti? 

Ma di lì a poco te ne sei andato in silenzio e senza alcun commiato! 

Il sole d’agosto con le sue impennate ha voluto farci questo brutto scherzo! 

Ora capisco perché, salutandomi non volevi che me ne andassi e, stringendomi forte nella morsa del tuo abbraccio di padre di fratello e di amico, m’intrattenevi con altri discorsi, con la tua parola calda, convinta, sincera. 

Ora so perché, proprio quel giorno, hai voluto affidarmi quella registrazione, dove ci sei tu, vivo, parlante, vero! Ora so che ho sbagliato ad andarmene, nonostante l’invito della signora Caterina e le tue insistenze! 

* * * 

La fredda morte lava in profondità le umane miserie, ma restituisce e mette in risalto quanto ci appartiene. Romano Cammarata ci viene restituito così com’era, integro, diamantino, nella bontà e nell’umiltà che gli erano proprie e che lo distinguevano dovunque, nella vita privata e in quella pubblica, al Ministero della P. I. o tra gli amici. Dovunque egli s’imponeva con l’autorità della sua persona, equilibrata, formata da un’esperienza di vita di dolore e di studio intenso, nobilitata dall’arte, e non mai con l’autorità della carica che rivestiva: suo motto era privilegiare l’uomo, ridargli la dignità, smussare i contrasti. 

Di qui il grande amore per i giovani e per la scuola, per cui spese le energie migliori. Romano Cammarata viveva la scuola: e guai a parlargliene male, guai a chi non mostrava un minimo di apertura ai problemi di cui essa oggi si fa carico. Agli uomini politici e di governo rimproverava l’averla gettata allo sbaraglio, a quelli di scuola l’inadeguata preparazione, la demotivazione, l’assuefazione ai luoghi comuni, l’attesa di magiche soluzioni venenti dall’alto, quando nella libertà delle scelte si può lo stesso operare e trovare soluzioni fattive e utili al bene comune. 

Le indicazioni – era solito dire – vengono dall’alto, ma devono essere i presidi, gli insegnanti a gestirle e calarle nella realtà dei vari istituti. E biasimava la chiusura mentale di tanta gente chiamata a gestire la scuola! 

Così sfogava la sua rabbia: ma era solo nei momenti di sfogo, perché trovava sempre le parole più inoffensive per dire le cose senza pesare, senza aggredire. E in questo era un gigante buono, un uomo forte, temprato dalla sofferenza, che comprendeva gli uomini e li amava di un amore profondo e, potendolo, li aiutava, rivolgendo, magari, una parola buona, di quelle che si dicono con il cuore e rimangono impresse per sempre. 

Il dolore gli aveva acceso il fuoco della poesia: e poesia è anche la sua prosa, dove le parole sono misurate e dense di significato, tanto che molte pagine vengono aformare lo splendido volume di poesie che è Per dare colore al tempo. E Romano Cammarata ha dato colore al suo e al nostro tempo, andando sul filo della memoria a rintracciare «i fantasmi buoni-, a rincorrerli, nel tentativo ben riuscito di catturarli per sempre, e restituirli alla terra, alla sua terra a cui tanto era legato e per cui soffri nei momenti di maggiore tensione e, di più, quando tristi eventi la martoriavano, facendola apparire agli occhi del mondo come una terra dove esiste e si coltiva soltanto il male. 

Romano Cammarata amava di un amore filiale immenso la sua Isola e dedicò tutto se stesso per contribuire insieme ai tanti a riscattarla e presentarla al mondo per quella che è: terra generosa, ricca di colore e di sole, aperta ai contatti come è aperta al mare. E inveiva persino contro i pitoni nostrani, i quali spesso, allontanatisi dalla Sicilia, s’atteggiano a vati sproloquianti, dimentichi della realtà e della storia millenaria, che è freno ed è anche condizione per lo sviluppo sociale e per l’integrazione con il resto della Penisola. 

* * * 

Il nostro augurio è che il tuo ricordo, Romano, rimanga impresso nella mente di quanti ti conobbero e ti stimarono per quello che sei stato, per i tuoi scritti, per la tua poesia, per la tua arte, inconsueti e densi di umanità vera, senza fronzoli, bella. Che il tuo insegnamento abbia un séguito e sia di sprone a quanti vogliono che il bene predomini in una società più giusta e più umana, come speravi e volevi che fosse. E, per tutto questo, che tu rimanga sempre vivo in noi, a guidarci, a consigliarci, a volerci bene, perché possiamo con il tuo aiuto continuare i lavori intrapresi, a cui tenevi molto, e che speriamo vengano al più presto alla luce e onorare cosi la Sicilia che tanto amavi. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 3-4.




 A Jerry Essan Masslo 

Jerry, amico mio, 

perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità, come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità, i giornali se ne sono occupati per un po’, a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre. 

Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano. che venga fuori a dir la tua? 

E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? Tu che eri desideroso solo di un po’ di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’odio fratricida … 

Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al paese d’origine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’ostinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità. 

Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa. 

L’Europa che nel corso dei secoli ha dettato leggi in materia di civiltà, ora ha da fare i conti con insorgenti forme di razzismo che fanno veramente pensare. Per non andare troppo lontano, l’Italia, a più di cent’anni dalla sua unificazione territoriale, assiste a «lighe» politicamente organizate contro i «terroni», segno che l’unificazione vera e propria ancora non si è avuta, ea niente è valso lo sforzo dei tanti uomini che vi hanno lavorato. Quando in una città come Torino si legge «Non si loca a siciliani», o in una Milano esiste ancora il «Vietato l’ingresso ai meridionali», città dove – lo sanno bene tutti i settentrionali – enorme è stato ed è l’apporto degli Italiani del Sud, i commenti vengono da sé. 

Amico, come vedi, la discriminazione s’annida dappertutto; nelle scuole, per le strade, nei bar, e noi, presi come siamo dai nostri interessi, non ce ne accorgiamo o, meglio, non ci rendiamo conto che, così agendo, coltiviamo un terreno che a lungo andare potrebbe franare. L’Italia – mi si dice – non è stata, poi, tanto razzista. Vero. Durante il ventennio, grazie anche all’influenza della Chiesa, non si ebbero quegli eccessi che in Germania culminarono nell’uccisione di una gran moltitudine di Ebrei e di zingari. Eppure da noi 

c’è un’insofferenza che via via s’è manifestata e si è accentuata negli ultimi decenni, da quando, insomma, nelle piccole città o nelle metropoli, sono sorti grandi complessi popolari – con tutti i problemi che si portano dietro – privi dei servizi più elementari, spesso incontrollabili e, perciò, facili preda di delinquenti e uomini senza scrupoli che vogliono ad ogni costo arricchirsi alle spalle degli altri. In ambienti del genere, viene praticata ogni sorta di violenza, e non solo gli scippi e le rapine sono di casa, ma sono anche frequenti le aggressioni ai deboli, agli handicappati e alla gente di colore. A parte il tuo, che ha toccato veramente il fondo della vigliaccheria più spietata, è recente il caso di quella giovane madre negra che, tornando dal lavoro da uno dei quartieri periferici di Roma, viene malmenata e costretta a scendere dal mezzo pubblico proprio perché negra. Aberrazioni isolate, senza dubbio, ma non per questo meno pericolose. Ad esse già sul sorgere, vanno trovati i rimedi, e solo così si potrà evitare il peggio. 

Lo Stato con le sue istituzioni e i mass-media devono adoperarsi perché si crei nel cittadino una coscienza di fraterna solidarietà fra tutti gli individui, senza alcuna distinzione di razza o di religione. È quanto di più umano si possa sperare. Messa da parte, e per sempre, la famigerata superiorità dell’uomo bianco. che non è nemmeno il caso di prendere in considerazione, il problema va posto entro i termini della fortuna: questi nostri fratelli, vicini di casa, tra l’altro, per questioni storiche e ambientali, sono stati meno fortunati di noi ed ora, più che mai, ci chiedono aiuto, stanchi come sono di vivere nella miseria e nello sfruttamento. 

Un giovane africano, l’altra sera, per televisione, parlava della situazione di disagio in cui si vengono a trovare gli immigrati di colore in Italia e non riusciva a spiegarsi questo trattamento di distacco proprio da un paese che ha sempre allacciato rapporti di amicizia e di commercio con l’Africa e tuttora trae vantaggi dall’emigrazione di tanta sua gente all’estero. Ed è anche vero. I Paesi industrializzati e l’Italia devono accettare i lavoratori di colore, così come dai Paesi europei e d’oltremare vennero accolti e accettati i nostri emigranti per accudire ad umili e faticosi lavori, proprio quei lavori che ora fanno da noi gli Africani. 

Sono d’accordo con te, Jerry, quando dici che gli uomini del Continente nero non tolgono lavoro a nessuno. Per la maggior parte dei casi, questi immigrati vengono utilizzati o in fatiche ove si richiede tanta manodopera o in altre prettamente tradizionali che i nostri lavoratori non vogliono più praticare. Il benessere, per la maggior parte, – perché in Italia c’è ancora gente che vive nella miseria e tra gli stenti – ha portato anche questo: il rifiuto di quelli che vengono considerati. da che il mondo è mondo, lavori umili, umilissimi. La corsa verso la città ha spopolato, come mai in passato, le campagne, ed è qui che vengono maggiormente utilizzati i lavoratori di colore. Portano al pascolo greggi, raccolgono frutta, vendemmiano. Di tutto fanno questi poveri diavoli! Basta inizialmente guidarli, e allora trovi il manovale, il giardiniere, il marinaio, il tutto fare insomma, e il commerciante che va in lungo e in largo dappertutto: il «vu’ cumprà». A negri è affidata la cura dei boulevards parigini, Negri trovi a Londra e un po’ dappertutto. Si accontentano di poco, con la sola sacrosanta richiesta di vivere anch’essi umanamente la loro vita. 

E così noi bianchi ce ne serviamo e poi li ghettizziamo. senza per niente curarci della loro presenza. Li mettiamo da parte come oggetti da riutilizzare alla bisogna, mentre – più degli altri – necessitano di comprensione e di amore. Se non altro, consideriamoli per quelli che sono, uomini che cercano, senza togliere niente a nessuno, un po’ di spazio per acquisire anch’essi una loro dignità. 

Se facessimo almeno questo, Jerry, certamente ci troveremmo sulla buona strada e tu, per lo meno, non saresti morto invano! Sì, se accettassimo questa gente con quel tanto di umanità che è dovuta agli uomini, non assisteremmo a certe escandescenze, frutto di eccessiva birra, o a litigi che tra essa si verificano a volte per futili motivi. Ma è sempre un modo, come un altro, per reagire ai soprusi, allo sfruttamento, alle meschinità che spesso deve subire. In ogni caso, non c’è in essa certa spavalderia di Italiani all’estero che non sempre si sono mostrati riconoscenti presso i Paesi ospitali. 

Caro amico, male, veramente male ci rimasi quel mattino di marzo del ’75 quando, trovandomi nel bar della stazione ferroviaria di Karlsruhe, un gruppo di Italiani, ultimato il turno di lavoro e consumata la colazione, cominciò a schiamazzare. gettando a destra e a manca tazze e piattini, imprecando «bastardi» ai Tedeschi. A niente valsero le proteste del gestore che, ad un certo punto, fintosi indifferente, diceva tra sé parole di biasimo e di riscontro in un gergo incomprensibile. Fu la polizia a disperdere in malo modo quell’ingrata gentaglia. Me lo ricordo ancora quel mattino – la primavera era già alle porte, la temperatura mite – me lo ricordo. 

Eppoi, da più parti si predica un nuovo umanesimo. Ma quale? L’uomo nella corsa verso il benessere è impazzito, non domina più se stesso, ha messo da parte gli antichi valori, dandosene altri, inumani ed effimeri. 

Scusami, Jerry, se mi sto dilungando. Non vorrei tediarti con le mie chiacchiere. Ma tu mi guardi con indifferenza, come se la discussione non t’interessasse. Mi agito. A volte non trovo le parole: è il mio io che, sconvolto, non mi dà pace. Spesso mi chiedo: perché nascondere la realtà delle cose? A fatti avvenuti, c’è la falsa pretesa di volersi dare delle risposte risolutorie, come se si volesse far tacere la coscienza. Non si ricercano nemmeno le cause e, nel caso tuo, c’è stata la volontà di addossare ad altri uomini di colore il tuo assassinio. 

Gli abitanti di Villa Literno avrebbero voluto uscirne indenni: si preoccupavano della rispettabilità della cittadina. Lo stesso parroco del paese non ha fatto un discorso coerente, e le sue parole palesano un certo disagio. Il fatto è che ci si ostina tanto a nasconderci dietro ad un perbenismo che non regge ai primi scossoni e ci riveliamo spesso vuoti e inconcludenti. 

Vorresti, caro amico, che per lo meno il tuo sangue servisse a qualcosa, a far capire agli uomini che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia, dove il rispetto e l’amore verso il prossimo, al di là delle razze e del colore, devono star di casa. So che non chiedi vendetta; ma, purtroppo, non ci sarà uguaglianza e giustizia sino a quando permarranno nell’uomo sentimenti di odio e di prevaricazione, rimanendo così indifferente ai problemi degli altri. 

La strada da seguire non è poi tanto semplice, Jerry! Non per questo bisogna desistere: occorre adoperarsi perché i governanti prendano seriamente in considerazione il problema – di problema qui si tratta – la cui soluzione rimuoverebbe tanti ostacoli e dissolverebbe molte perplessità. 

L’estate scorsa, in Italia, per esempio, si sono inscenate manifestazioni contro i «vu’ cumprà» e tanti commercianti sono caduti veramente nel ridicolo. Ebbene, per il momento assisteremo a proteste e tafferugli del genere, ma cosa si verificherà nel giro di qualche anno quando – statistiche alla mano – la popolazione diminuirà e gli immigrati aumenteranno a dismisura? A questo punto non rimane che affidarci al buon senso dei nostri governanti e a quanti operano disinteressatamente per il bene e la pace sociale. 

Il rammarico per la tua triste fine è stato grande, Jerry. La buona e brava gente – ce n’è tanta ancora – è rimasta scioccata e non si spiega come fatti del genere possano ancora verificarsi. Eppure non c’è che rassegnarsi; vuol dire che doveva andare proprio così perché le cose potessero veramente cambiare, in meglio s’intende. E i primi frutti credo si stiano raccogliendo. Il fatto che si parla più insistentemente che non nel passato dei Negri in Italia, fa pensare che qualcosa già si sta muovendo in favore e che il tuo sangue non è stato versato invano. Me lo auguro di cuore, amico mio. Allora la tua anima potrà finalmente trovare pace e il sorriso ritornerà sui volti abbrutiti dalle fatiche: sarà come se non fossi mai morto, e noi ti ravviseremo nei tuoi che sono anche nostri fratelli. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 39-43.




G. Trainito, Le mani degli angeli

In versi liberi, lontani da ogni pretesa, ma classicamente armoniosi e sentiti, è la poesia di questa silloge di Gaetano Trainito. 

Il poeta, che tale è, a onta di quanti si atteggiano a frequentatori del Parnaso, affida alla parola concisa ed essenziale il suo senso dell’umano e l’ansia esistenziale, e tende allo scavo interiore che spesso diviene ricerca e comunicazione. 

Ben vengano altri libri di Trainito, ma abbiano anche maggiore diffusione per essere letti e apprezzati da un più vasto pubblico di lettori che ancora crede nella poesia e nella sua opera di promozione umana e sociale. 

Salvatore Vecchio

 




F. Centonze, Al di là della siepe di bosso (Romanzo), Firenze, 1995.

Dalla Prefazione al romanzo dell’amico Antonino De Rosalia pubblichiamo questo breve stralcio che sintetizza la portata umana e letteraria di Ferruccio Centonze: 

-Anche questa volta l’opera del Nostro nasce sotto il segno della pietà umana, ma si tratta di una pietà più sofferta, perché la penosità dei fatti narrati coinvolge l’autore più direttamente […]. La materia, insomma, ha un fondo autobiografico molto spesso, e non nel senso in cui ogni scrittura di poeta è, inevitabilmente, autobiografica, bensì in quello, più proprio di trasfigurazione di esperienze in gran parte realmente “partecipate”. La pietà, allora, non è più rivolta verso taluni soggetti o ambienti esterni, che peraltro l’umana considerazione salva dal rischio del nudo colore realistico, ma appartiene in uguale misura al narrato e al narrante, si tramuta quindi in sincera tristezza e pervade uomini e cose: sunt lacrimae rerum, con quel che segue». 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 31-32.