Un melanconico ottimismo
Una “svolta” nella produzione letteraria di Romano Cammarata segna il breve romanzo Violenza, oh cara, apparso nel 1986. Dalle pagine autobiografiche Dal buio della notte, dalla raccolta poetica Per dare colore al tempo, trascrizione lirica del primo libro, egli approda, così, alla narrativa.
La vicenda è collocata in una città anonima: Agostino Bertoni, un onesto pensionato, benché innocente, viene coinvolto in una vicenda giudiziaria, perché assurdamente accusato di essere stato complice di un sequestro di persona. Convinto di subire una violenza dalla giustizia (oltre a quella già subita dalla vita, con la morte della moglie che lo ha costretto a vivere in solitudine, con la compagnia di una cagnetta bastarda) rifiuta di difendersi e di collaborare col giudice che lo accusa; a costui, anzi, chiede di provare la sua innocenza. (Alla violenza del destino, che gli ha tolto la moglie, egli non ha saputo ribellarsi, si ribella, ora, alla violenza degli uomini, a suo modo.)
Nella narrazione si inseriscono, intanto, vari personaggi; i quali, attraverso un inquieto, imprevedibile dipanarsi di eventi, tutti legati alla violenza, contribuiscono a sciogliere l’intreccio dell’azione con una soluzione inattesa.
La trama del libro, quindi, è innestata sul motivo della “violenza” che si insinua in modo imprevedibile nelle cose degli uomini, e agisce su di esse, manovrandole e pilotandole oltre la difension di senni umani: sicché tutti i personaggi del romanzo sono costretti a subirne le conseguenze, da cui altrettanto impreviste, spuntano grossi risvolti positivi: è un incessante alternarsi di sfiducia, e fiducia, col susseguirsi di eventi lieti, che alla fine rendono più accettabile la violenza stessa, cara, che sia o che sembri tale.
Il racconto è, dunque, una variata e talvolta allucinante meditazione sulla collocazione esistenziale dell’uomo, esposto ai colpi della violenza, ma serpeggia nelle pieghe della narrazione un’intima sofferenza, sfuggente e inquietante, che consente tuttavia di cogliere bene il giudizio dell’autore, sospeso fra pessimismo e ottimismo, perché questi atteggiamenti, eterni in quanto appartengono all’uomo, coesistono nel libro, senza che l’uno prevalga sull’altro, determinando sfiducie e fiducia; sicché anche il “lieto fine” è avvolto da una malinconia – appena un’ombra – : quella “felicità”, raggiunta dopo tante dolorose esperienze, ha in fondo la sua radice nella “violenza”, che può sempre riprendersi quello che, attraverso l’intrecciarsi di tanti avvenimenti, ha elargito.
Le meditazioni di Agostino, dopo la raggiunta “felicità”, sono illuminanti: «… oggi comincia un giorno nuovo; quello tanto atteso; nascono altri interessi intessuti di motivi profondi.
Ma non può non ricordare gli avvenimenti che, indirettamente, ora, gli consentono di recuperare la vita, la gioia di vivere.
Eppure sono stati avvenimenti che avevano tutti la radice della violenza: il suo arresto, e il carcere; Carlo con le sue tristi e dolorose esperienze che lo avevano fatto criminale; l’uccisione della guardia, marito di Sofia, caduto per compiere il proprio dovere.
Ognuno di quegli episodi, per un misterioso gioco del destino, per un intrecciarsi di segreti disegni, si era congiunto con gli altri…»l.
La “filosofia” di Agostino non è problematica: egli parla a se stesso con confidente abbandono e si esprime con brevi riflessioni, con semplicità tranquilla, quasi rassegnato all’ordine immutabile dell’esistenza, che egli accetta per quello che essa è, ma che pure guarda con anima poetica, per concludere che in fondo “tutto questo è bello”.
In tutto il racconto si coglie l’intricarsi del rapporto tra l’autore-narratore-personaggio, ma talvolta il rapporto si pone in maniera gerarchica, nel senso che l’autore prevale, come quando, nel carcere Agostino è colto da un sonno ristoratore, che “arriva ad acquietare quel fiume di pensieri, di meditazioni”, per riportarlo, mediante il rifluire dei sogni, “in un mondo innocente, lontano, intimistico, di ragazzo che amava la solitudine, in continuo rapporto-dialogo con la natura, le cose”. In quella circostanza l’autore si stacca, quasi con delicatezza, dal suo personaggio per annotare: «Un sorriso lieve si è posato sulle labbra dell’uomo che dorme in una cella di isolamento di un carcere sprofondato nel buio della notte e del tempo»2.
Oppure, quando, a fissare la monotonia logorante dei giorni trascorsi in cella, l’autore interviene direttamente nella narrazione, sostituendosi al personaggio: « Il tempo passa, i giorni si succedono ai giorni e tutti figli dello stesso padre, con gli stessi caratteri scontati, tanto che si poteva scommettere sul giorno dopo e sugli altri ancora»3.
Altre volte la presenza dell’autore si avverte in maniera meno evidente, come quando si sofferma o indugia su notazioni naturalistiche che, improvvise, qua e là, affiorano per dare alla narrazione il tocco lieve di un colore, o per insinuare un attimo di pace o di “straniamento”; «… il cielo sereno, limpido e luminoso che prometteva una giornata di sole, i cui primi raggi, ancora obliqui al di là delle case di fronte, indoravano le cime di alcuni abeti cresciuti alti in una villa vicina». «La primavera era inoltrata e la natura splendeva partecipando alla nuova stagione, ammantandosi di verde e di luce». «Allora il cielo sembrava vicino, sulla collina, nel silenzio bello della natura. Il vento, col cambiare d’umore recava ora la resina pungente dei pini, ora la salsedine del mare vicino … Ma allora in quel cielo azzurro oltre le nuvole bianche c’era Dio e a casa, vicino al mandorlo, l’amore della mamma». « Il riquadro del cielo è l’unico contatto con la natura, anche se il cielo sembra tanto alto e lontano. Almeno lo si può guardare a piacimento e perdersi a seguire le nuvole che mutano forma, libere come sono di sentire il vento “. « … corre ad aprire i battenti del balcone sul quale brilla il sole
e dove i pochi vasi di geranio hanno ripreso i colori»4.
L’autore si identifica e si diversifica al tempo stesso dal personaggio; in fondo, però, a dare respiro e colore alla pagina è sempre quell’inconfessato bisogno di Cammarata di ritornare alla terra e alle acque, ai venti e ai profumi della sua Sicilia. Ma nella conclusione del libro la presenza dell’autore è senza dubbio più scoperta perché in quelle ultime parole (“tutto questo è bello”) c’è lo stesso approdo delle altre due opere, sempre con quella melanconica consapevolezza del provvisorio, del transitorio, con lo stesso invito a continuare, a vivere, sia che siamo oppressi dal dolore e sia che siamo vittime della violenza5.
L’avvio della vicenda farebbe pensare a Kafka (Il processo); ma si tratta di un riferimento del tutto esteriore, senza alcun riscontro effettivo, in quanto l”‘ideologia” sottesa al romanzo di Cammarata è tramata da una inespressa fiducia, che, senza essere rigorosamente ancorata ad una concezione metafisica, opera e agisce nella vita umana, con la stessa forma del suo antagonista, la violenza; sicché il mondo di Agostino è un mondo in cui splende sempre la luce: un pezzo di cielo si apre anche sullo squallore del carcere; e la sua solitudine non è mai angosciosa o desolata, ma è riscaldata dal calore della memoria del passato: la casa, l’amore della mamma, il cielo azzurro, il mandorlo fiorito, immagini salde e reali che legano il personaggio-autore alla “sua” terra, da cui non si sente “sradicato”. E l’attesa di qualche cosa che deve accadere non resta mai delusa, perché c’è sempre quel “varco” montaliano che riesce a stabilire, nella imprevedibile trama dei gesti e delle vicende umane, una comunicazione con la vita.
Nel libro autobiografico Dal buio della notte il “varco”, attraverso cui Andrea riemerge alla vita dalle sofferenze del male, è l’amore per il prossimo; nella raccolta poetica Per dare colore al tempo il protagonista del male di vivere approda all’isola della poesia, con la voglia di resistere, di continuare; nel romanzo Agostino, senza essere mai abbandonato dalla sua coscienza critica, pur nella condizione di passività, scelta come estremo rimedio contro le “ragioni” del mondo, che con i suoi ingranaggi stritola ed umilia l’uomo onesto e dignitoso, trova la via d’uscita attraverso il “varco” dei vari risvolti positivi, che, anche se scaturiscono dalla violenza, sono stati sempre intravisti dalla coscienza critica del personaggio, che rafforza la sua fiducia nelle qualità positive dell’uomo, facendo appello alle potenti risorse spirituali che ciascuno porta in sé.
Il rigore stilistico, a cui Cammarata ci ha abituato con le due opere precedenti, trova nel romanzo un’ulteriore conferma: il linguaggio semplice, scarno, lucido e nitido, da cui traspare la tensione intellettuale e morale dello scrittore, attento anche agli effetti di un’accorta punteggiatura, conferisce alla pagina una pulizia formale e sottende un significato profondo, straordinariamente intenso: il dramma dell’uomo sconfitto dai perversi meccanismi della realtà sociale, ma anche il suo anelito di speranza, di un ottimismo sano, capace di trovare nelle vicende della vita spazi sempre più ampi, dimensioni più durature e meno precarie.
Altre caratteristiche emergono, però, dalla prosa del romanzo. Se le pagine dell’autobiografia (Dal buio della notte) si leggono tutto d’un fiato, come un diario, le pagine di Violenza, oh cara, precise, levigate, dal sapore talvolta realistico, o delicatamente liriche, rivelano non poche novità, che rinviano a frequentazioni di scrittori assai diversi, ma sempre impegnati sul versante formale e stilistico. Per prima cosa il ritmo della narrazione, che si attesta sulla cadenza, talvolta persino ossessiva, dei “ritorni verbali”, che si individuano nella coppia presente/futuro o presente/condizionale. Certo, il tempo presente domina l’azione del libro: l’ordine del vissuto e quello della parola scandiscono il medesimo ritmo; la vita, in fondo, è scrittura, e la «grammatica del vivere» (Svevo), diventa anche la grammatica del testo.
La fissità rigida dei tempi storici (in particolare dell’imperfetto) è rispettata solo nelle prime pagine del libro e in quelle – brevi – che riproducono il “flusso della memoria”, e sono parti di racconto, operato dal personaggio-narratore, che parla o racconta o interpreta muovendo dal nunc: subito dopo, ricompare il tempo presente, con una persistente coerenza, nel “monologo interiore”, in cui Agostino si rifugia (ma Carlo, il giudice, e, in tono minore, un po’ tutti gli altri personaggi del romanzo), per esercitare al meglio le capacità di riflessione e di osservazione e per esplicare il massimo dell’immaginazione psicologica garantito dal massimo di verosimiglianza, la quale è verità fantastica – è bene avvertirlo -, lontano, quindi, dalla verità empirica e documentaria della cronaca6 . Proprio il “monologo interiore” immette il lettore, fin dalle prime pagine, nel pensiero del personaggio principale e di quelli secondari, i quali nello svolgimento ininterrotto del proprio pensiero allineano i dati della coscienza di quanto loro accade, attivamente o passivamente, come soggetto e come oggetto.
Il ricorso, dunque, alla forma del “discorso vissuto” spiega l’uso dominante del tempo presente, che dà la connotazione del “non-essere” del futuro, ma spiega anche l’uso del passato, nei momenti in cui la memoria rifluisce al tempo andato7. E ciò rende anche ragione del modesto spazio riservato nel romanzo alle battute dialogiche: il dialogo, per lo più, tende a risolversi in monologo, in cui il personaggio, quasi collocato fuori della dinamica narrativa del racconto, segue il corso del proprio ragionare e riflettere, cioè dei suoi reali processi mentali attraverso l’invisibile intrico dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti8.
Quale la collocazione storica del romanzo di Cammarata? Il lettore che si fermasse su alcuni elementi che, pur essendo i più appariscenti, sono senz’altro esteriori e poco determinanti per inquadrare l’autore in una precisa linea di tendenza, sarebbe senza dubbio indotto in errate valutazioni.
Il “lieto fine” e la fluidità della narrazione potrebbero, infatti, indurre a definire il romanzo Violenza, oh cara, come un libro di stampo ottocentesco: ma un esame attento, o meno sbrigativo, della pagina e del libro complessivo non giustifica e non autorizza una siffatta definizione, Perché non poche sono le caratteristiche che conferiscono al libro un’indubbia attualità. L’architettura del romanzo, cioè l’organizzazione razionale degli eventi, colti nella loro successione logico-cronologica9 , l’ideologia sottesa ai fatti con la inquietudine per la condizione dell’uomo, legano intimamente il libro a problemi della realtà di oggi; ma è soprattutto lo stile, con le caratteristiche individuate e messe in risalto, che porta decisamente il romanzo di Cammarata fuori di certi schemi ottocenteschi. Senza dire che il continuo “interscambio” o intreccio di autore-narratore-personaggio, anche in quei momenti di sopra-impressione o gerarchia dell’autore sugli altri due, toglie alla realtà del libro i caratteri dell”‘oggettività” o della “rappresentazione scientifica”, per conferirle, invece, non solo quelli più propri e più personali dell’interiorità del singolo, della coscienza, soggetto-oggetto, che svela se stessa, ma anche i segni del desiderio del puro gusto del “raccontare”, di muoversi con originalità, appunto, nel mondo del linguaggio.
Walter Tommasino
l. R. Cammarata, Violenza, oh cara, Caltanissetta-Roma, Sciascia Ed., 1986. pag. 192.
2. Op. cit., pag. 64.
3. Op. cit., pag. 84.
4. Op. cit., pagg. Il, 18, 61, 92, 174.
5. Cfr. i nostri due interventi: Vivere attraverso il dolore, ovvero “Dal buio della notte”, in “Il Corriere del giorno”, 26-2-1984; La poesia di Romano Cammarata, tra sogno e realtà, in “Istruzione tecnica e professionale”, n. s., Roma, Palombi Ed., n. 84, 1985, pagg. 222-227.6. Per il “monologo interiore”, che i tedeschi chiamano erlebte Rede (“discorso vissuto”) e i francesi le style indirecte fibre, cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, pagg. 593-600: il volume, pubblicato postumo con presentazione di E. Montale, raccoglie le lezioni universitarie degli anni Sessanta (dal ’60-61 fino al ’65-66). Sul discorso critico che si è sviluppato sulla nascita in ltalia del romanzo antinaturalistico, cfr. anche, M. Guglieminetti, Strutture e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964, ora, in nuova edizione, col titolo lievemente diverso, Il romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986.
7. L’autore introduce i monologhi con l’uso delle “virgolette”, come veri discorsi diretti che i personaggi stabiliscono con la propria interiorità; cfr. Op. cit., pagg. 11-12; 19-20; 39-46; 70-74; 91-92; 107-108; 186-187.
8. Cfr. Op. cit., pagg. 28; 55-57; 75-76; 94-95; 98-106; 116-117; 129-130; 156-158; 176177.
9. La separazione tra ordo artifteialis dell’intreccio e quello criticamente formalizzato dalla fabula consente di cogliere la dinamica del racconto. le intenzioni espressive del narratore, il suo modo di porsi nei confronti del lettore. Per un discorso critico più approfondito sulla narratologia si rinvia a T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino. Einaudi. 1968: C. Segre. Semiotica filologica, Torino. Einaudi, 1979: S. Chatman. Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981.
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 63-68.