1. Fantasticherie e fantasia
Accettata, per la sua parte, la proposizione di Heidegger che l’arte è una messa in opera della verità, non si negherà che la fantasia ne è non poche volte il battistrada a scoprirla.
Ma la verità è. Essa non è né passato né presente né futuro, ma è nel passato, nel presente, nel futuro dell’uomo e oltre il tempo dell’uomo. Nella sua sostanziale perennità, la verità, è senza tempo. I mutamenti che le girano intorno – e solo apparentemente sembrano riguardarla fino, a volta a volta, a smentirla – smentiscono, in effetti, credenze e vicende d’uomo.
Sono, in effetti, mutamenti fenomenici, legati alla dinamica dell’essere e del mutare chimico-fisico-astronomico nel cosmo; antropologico nella storia: logico e conoscitivo nella ricerca e nel cammino del pensiero ecc. Ritenere, perciò, datate e superate alcune verità per il solo fatto che appartengono al passato e, per questo, giudicarle scadute e da seppellire, è l’errore di ossessi avanguardismi sempre con la puzza sotto il naso del già visto, del già sentito e che, proprio in quanto si accaniscono ad abbattere verità per sola smania d’innovare, mostrano i loro presupposti o miopi o chiassosamente esibizionistici.
Ma altrettale è l’errore di chi vuole, in forza di una tradizione sacralizzata, tenere in vita nei miti del passato – e nei riti e nei modi del passato – come verità le suggestioni e le autosuggestioni, gli sprofondamenti logici in profondità mistico-magiche dell’inconscio, i tolomeismi di scrittura e di pensiero.
Così, infine, risulta presuntuosa ed anch’essa portatrice dello stesso errore quell’asserzione di verità che si pretende tale se ha il marchio di origine controllata nel riscontro positivistico – che può dare risposte ai come e mai agli ultimi perché – e nega che vi possa essere via alla verità in forza, talora, di una illuminante intuizione. Nella quale è il momento del più alto e teso impegno creativo dell’uomo nel campo dell’arte, della scrittura e, non raramente. anche in quello della scienza e dell’indagine sociale.
Ma farlo scadere, questo momento, a smania di futurismi senza futuro e a vezzo di fantasticare senza fantasia è vastamente rintracciabile e operante nei nostri tempi. E, insieme con le altre davvero non molte opere di effettiva trazione verso il futuro e il nuovo, manderemo al giudizio dei posteri questa fine di secolo, madre di tanta sconcertata e sconcertante produzione artistica e letteraria, in cui si vanno a nascondere nell’oscurità e nel bizzarro, portati a parodia di genio, false profondità e assenze. E non so prevedere se sarà maggiore lo stupore o la condanna dei posteri – prevedibilmente agganciati domani più che noi oggi da temi e problemi drammatici, in uno stesso contesto tecnico che si va facendo delirio tecnico – per la connivenza di certa azione critica, che conclama originali e creative le provocazioni e le vocazioni della stramberia e, consonante, vibra a ricavare gli assoluti dalle magie, l’insolito da un fantasticare pargoleggiante, trovato rifugio comodo dall’incapacità di scavo psicologico e di lettura al fondo dell’anima delle cose e degli uomini.
Così si chiama spesso inventiva l’uso spettinato e capovolto di frantumi del passato di seconda e terza mano; si accoglie e saluta come rigeneratrice rivoluzione il trionfo del grottesco come dissacratore di ogni tirannia di ordlne razionale; si dà credito al nonsenso, disertore da ogni umana verità o plausibilità, e disossato completamente della struttura portante delle idee e dei sentimenti; si irrompe nell’antico eccesso di una pulizia troppo agghindata e esornativa con l’altro eccesso della trasgressione di ogni norma della pulizia e del gusto, apponendogli la moda codificata di imbrattarsi di sterco e di trasandatezza, in un’accesa gara a chi trasgredisce di più. Si marcia, così, baldanzosamente contro regole e paradigmi, ingredienti necessari di un prodotto che in tanto è in quanto lo creano, lo reggono in vita e lo giustificano suoi elementi specifici e essenziali a connotarlo e lo verificano norme del giuoco e severe prove del fuoco dei veri talenti.
Ma per un esteso andazzo, travestite da avanguardia, vengono incoraggiate e trovano accredito una supponenza ciarlatana e un’anarchia donchisciottescamente dissacrante, in mezzo alle quali soltanto possono cantare numerosi e confusi anche i più stonati e gridare protervi quelli che, un tempo, l’incapacità di affrontare vere prove del fuoco costringeva al silenzio e, se non a questo, la spudoratezza al ridicolo.
Ma, oggi, si è non poco perduto di vista il limite oltre il quale c’è il ridicolo o il risibilmente velleitario. Di qui, col dilagare e l’imperare della moda, il dilagare della resa. Quanti nel nuovo regime culturale i trasformisti affannati a far sparire tessere di figurativismo o di realismo – quasi come dive che, pervenute al successo, si affannano a cancellare dal loro passato il trampolino di lancio del letto del regista o del produttore – e, ora, i più selvaggiamente impegnati a far saltare con le mine del «disordine creativo» e con mimesi del caos ogni struttura di progetto nelle opere e ad annebbiare, fino a uno stato confusionale e al nonsenso, di ambiguità polisemantiche e multipiani di lettura l’autenticità – sorrisa come ingenuità del tutto e chiaramente detto – della cristallina chiarezza, chiesta dall’urgenza del dire e del sentire e fatta necessaria dal proporsi della verità. Il risultato è che il significato (in tempi di disperata ricerca del dove consistere) è mandato in esilio e con esso il pensiero; l’autentico sentire è mandato in bocca ai clown; alla comunicazione si recide ogni filo, aumentando i sigilli alla bocca del silenzio. Ma soprattutto resta sconfitta la vera fantasia: non quella per turisti di evasione nel fantastico posticcio né quella della fuga e del rifiuto, ma quella che si impasta con la storia degli uomini e con la loro realtà a sventolarvi dentro gl’ideali del superamento del limite e a combattervi le battaglie delle sue utopie e, con ciò, a fare la storia e a far crescere la coscienza, forza motrice, pur in un contesto di contrasti violenti e di mortificazioni e di ritardi, della promozione umana.
2. I vestiti del buon senso
Sì, v’è un preteso buon senso, così battezzato in forza di tradizioni che lo hanno impastato col pregiudizio, con la paura del nuovo vestita da cautela, con la crassa autorità del potere, con i falsi valori arzigogolati dalle ipocrisie, dai sofismi e dalle furberie degli egoismi. Lo hanno poi sorretto, via via, e sacralizzato vassalli, valvassini e valvassori del pensiero altrui e, infine, tenuto in vita menti pigre spaventate dal solo pensiero di lasciare il comodo tradizionale giaciglio per un arduo e nuovo cammino.
Ma v’è un buon senso figlio della luce che ha indagato; nato dall’esperienza che si è scottata le mani al fuoco e ha imparato la fiamma; seguito al volo che si è ammaccato al suolo e ha, perciò, imparato i limiti del sognare e l’inaffidabilità della velleità; che si è chiuso spesso nel silenzio e lì ha avvertito l’inutilità del rumore; che ha portato e prestato le idee all’esperienza e l’esperienza alle idee.
È questo un buon senso da cui nessuno e niente, se non gli arruffamatasse e le loro astratte stupidaggini, possono prescindere.
3. Avanguardie senza passato, senza presente, senza futuro
A guardarvi in fondo, ogni movimento di avanguardia, mirando al rinnovamento, parte, pur in mezzo a dichiarazioni solenni di rivincita dell’irrazionale, da una profonda rivolta del razionale contro l’abuso delle forme, contro la maniera, contro la ripetitività, contro il pappagallismo delle mode contro l’insincerità melensa delle arcadie di ogni genere. Parte, ripeto, da una rivolta razionale, ma che, carica, come ogni ansia di abbattere e rinnovare, di una sua ebbrezza, si va, via via, sempre più euforizzando fino alla pesante ubriacatura e alla perdita di controllo ed esaspera le premesse radicalizzandole, le svia, le svuota delle ragioni, pure giuste, dell’originario progetto, tutto portando a cadere in braccio a un irrazionale astratto che per niente collima con quell’irrazionale della vita che, in quanto risponde a logica di vita, si scontra e si mescola col razionale e ne mantiene i segni della probabilità e della necessità.
Accade, così, che ineluttabilmente il movimento di avanguardia si confina e restringe, strada facendo, nella rivolta del gusto col naso arricciato. Nella ricerca ad ogni costo del cambiamento, scambia e non cambia, scambiando le allucinazioni per intuizioni, la droga per ispirazione. Scivola nello snobismo come stadio patologico dell’esclusivismo. Si va sempre più esaltando nell’esercizio della provocazione e della dissacrazione e, quando un certo tipo e una certa dose di provocazione non bastano più, ne inventa e adotta altri più vistosi e rumorosi: si fa chiasso per attrarre l’attenzione, meravigliare o scandalizzare; si va facendo sempre più enorme (nel senso di uscire sempre più dalla norma per ogni aspetto), infervorandosi in un imperialismo di poetica e in una perentorietà di giudizio, finendo a una costante e talora esagitata (quando scappa la pazienza falsa della sufficienza) opera di mortificazione e irrisione dell’equilibrio, del senso comune e, perciò, di una maggioranza – quasi totalità – di lettori, spettatori, uditori, al cui consenso, spregiato in parole, in effetti intimamente si aspira, ma a cui si vieta la partecipazione col cartello «Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori».
Eppure, proprio quando pare che la pretesa avanguardistica abbia schizzinosamente tenuto lontana la quasi totalità, è, invece, essa stessa che si è rinchiusa nei limiti e nella improbabilità del suo recinto, fuori della storia, fuori del respiro della verità umana, esaltandosi in ripetute dichiarazioni di guerra alla figura, al significato, al contenuto e, come quelli che pretendono di cambiare l’amplesso amoroso, tale nella sua essenziale, genuina, semplice e pure meravigliosamente creativa forza di natura con l’apporto lentamente suicida della cocaina, così la sindrome ossessiva del sempre più fuori dal banale del quotidiano porta arte e letteratura sempre più fuori dalla vita in un loro lento suicidio.
Non pochi avanguardisti già arrabbiati. facendo emergere un più avvertito senso autocritico da quegli angolini della riflessione, cui portano l’età e l’onestà intellettuale. hanno avvertito o vanno avvertendo l’esaurimento e la labilità delle ragioni del correre nel deserto di un futuro, che mai sarà. e rientrano nell’ordine non di codici paleoartistici né di anchilosate istituzioni che vi trovano ancora rifugio. ma in quello che ha costruito e va costruendo per modifiche e convalide la vita con le sue pulsioni e la sua mai stanca creatività nell’ancora illetto contesto delle sue leggi. Patetica, a fronte di ciò, risulta la resistenza ad oltranza degli ultimi e fanatici cecchini delle pseudorivoluzioni culturali sulle rocche sbrecciate delle loro astrattezze, rimanendo senza un passato, in quanto lo hanno distrutto, senza un presente in quanto, tenendo l’occhio a un futuro astratto, non vedono quel che vive e urge nel giorno che si svolge, senza futuro, in quanto straripano dal letto che vi porta per le vie dell’uomo e non dell’idea astratta di uomo.
Caravaggio, gli impressionisti, Pascoli, Einstein, per fare, fra gli altri, alcuni significativi esempi, operarono nel loro tempo, rimanendovi, una irriducibile, irricucibile, epocale rottura col passato che nel loro tempo permaneva, e, quindi col loro tempo, ma senza chiasso di manifesti né costituzione di gruppi scamiciati sulle barricate delle pseudorivoluzioni. E le loro opere e l’effetto di esse rimangono senza l’ausilio di revival a suffragio editoriale né mobilitazioni ad hoc di critici generosamente accomodanti e generosamente retribuiti.
4. Le gabbie
Ma arte e vita, non verità di vita filtrata per il crivello di zdanovismi di qualsiasi tipo, accomodata alle proprie chiese per inginocchiare opere e autori al Molock delle ideologie, ai catechismi delle estetiche di gruppo (niente è più soggettivo e isolato della reazione a un dato del pensare e del sentire che si fa ispirazione e creazione), ai sistemi onnicomprensivi, montati nei laboratori cerebrali, che pretendono di sostituirsi alla vita, anzi di ingabbiarla.
E niente è più fuorviante e devitalizzante del voler regolare la vita fuori delle sue insostituibili norme naturali, combattendone la flessibilità, la logica tramata di raziocinio e irrazionalismo, la fantasia, le emozioni, le gare e le trovate sempre nuove e creative dell’insopprimibile egoismo come difesa, affermazione e proiezione di sé per naturale espansione di forza vitale, i voli, i crolli, i fragili eroismi, la saggezza del cuore e lo scandaglio della mente nei suoi viaggi al nulla e ritorno, il gran libro della memoria, l’aspirazione che si leva dalla, sulla e per la vita e oltre, irrorata di sangue, di carne, di storia e delle alte utopie che la muovono.
Non c’è bisogno di uscire dai suoi territori per ricerche di altri linguaggi e cammini: nella vita c’è tutto: dai ghirigori estrosi del capriccio alla drammatica febbre dell’assoluto, dalle verità emerse nel tempo attraverso la più didatticamente efficace lezione dei sudori, degli errori, dei fervori, degli stupori e dei tremori dell’uomo alle verità ancora nascoste nelle pieghe dei suoi non ancora svelati misteri.
Perciò la vita resta il vero e materno utero dell’arte. Le opere nate da piatta ubbidienza a mode o a diktat ideologici, estetici, filosofici, proprio in quanto sono state concepite fuori dalla vita come luogo del sentire, agire, progettare dell’uomo, hanno, nascendo in rigide strutture obbligate, una, per così dire, già loro rigidità cadaverica.
5. Un conto aperto
Né è chiuso il conto tra sogno e realtà. Né, prevedibilmente, per destino di uomo, l’uno escluderà l’altra o viceversa. E, infatti, la ragione (necessità-onestà-orgoglio intellettuale di rigorosamente consequenziali partenze e approdi logici – che non si lascino sedurre e sviare dalla prepotenza del dato emotivo -) e sentimento (rimpianto di cose tempi eventi insaporiti di mito, bisogno di sogno, proporsi e riproporsi di tradizioni legate al cuore e, per esso, ai ricordi e agli affetti – che si oppongano all’inaridimento e alla desertificazione, cui spinge la ragione -) non riescono a stipulare una pace definitiva, per la quale l’una si riconosca vinta definitivamente dall’altro, e viceversa, e ne riconosca finalmente la sovranità.
Fanno delle tregue, alla cui base è il compromesso, nel quale si compenetrano delle temporanee necessità. più che delle ragioni, l’uno dell’altro. E su ciò soltanto poggiano le contingenti clausole delle loro precarie tregue. Per il resto l’una e l’altro, come superstiti di un’armata rotta e dispersa, che rifiutino tuttavia di alzare la bandiera bianca della resa, vanno ogni volta radunando i motivi – sia pure laceri di ferite, sporchi di polvere e di sudore, traballanti di dubbi – per un’eventuale vittoria. Non prevalgono ancora e sempre le ragioni di una pacifica convivenza, come pure tanto vastamente è nella natura e necessariamente deve essere della vita.
Accade perciò che spinti e puntigliosi illuminismi non riescano ad affrancarsi, nella loro demolizione dei miti, dallo scrivere Dio con la maiuscola e, dall’altra parte, che i sudditi più lealisti del dogma anelino a rivolte per evadere ai luoghi della libertà, del dubbio e della ragione.
Il più alto tasso di arte, le più folgoranti scariche di poeticità, i più alti contenuti di civiltà non sono nati e non nasceranno da una realtà non lievitata dal sogno, staccata e inerte, né, tanto meno, dal sogno solitario eremita, che si maceri e si dissolva nell’aeriforme impalpabilità dell’irreale, ma si registrano nella coabitazione e nello scontro tra sogno e realtà, tra storia e ideale, quando il pensiero si sanguifica e si avviva nell’emozione dell’utopia e l’utopia con le gambe tremanti per l’emozione chiede il sostegno del pensiero. Nel caos Si aprono spiragli all’armonia, nel nonsenso ammiccano lontane luci di significato e l’essere. proprio perché s’interroga a ricercare un suo fine, svela la sua ansia ad un’alta milizia nella vita. Sono i momenti in cui le pretese dell’intellettuale puro e dell’arte pura avvertono il segno del pudore e il sospetto e il timore dell’inutilità.
6. Le pseudoterapie
I gelosi guardiani dello splendido isolamento della letteratura, col pretesto della difesa della sua specificità e inappartenenza, spingono a fare della storia (e, quindi della vita, che di tutta la storia è matrice, nel bene e nel male) la, nemica dichiarata della letteratura, che essi vogliono fuori della storia e contro di essa sempre e indistintamente, come altro da essa. In questo prendere le distanze dalla storia. la letteratura è portata a una neutralità che di necessità la riduce a una schizzinosa lontananza dalla vita, a una corporativa letterarietà tutta chiusa in una vita da scaffale, a una incorporeità, in cui anche lo spirito si dissangua. E a siffatta letteratura, ormai, non molti – e pochi anche fra gli stessi addetti ai lavori – sono disponibili a concedere la giustificazione dell’essere e rimanere tale.
È incontrovertibile, invece, che la letteratura, come ogni altra manifestazione di arte. è una delle tante esigenze ed espressioni del vivere dell’uomo in società (chi scrive sempre e in ogni caso. anche quando recita solitudini, si pone di fronte dei lettori o a dei lettori) e, come tale, una delle componenti della vita nel suo farsi storia e civiltà. concorrendovi e promanandone.
Da qui la necessità che la letteratura tenga o riporti i piedi nella vita, la narrativa, a narrare, non distorta dalle sue motivazioni e dai suoi fini, la poesia, a rifarsi interprete di quel mondo inesaurito e inesauribile che è dentro l’uomo e, perciò, nella sua vita e nella sua storia. È qui che la letteratura deve operare a portarvi sì il suo sentore di esilio ma anche i suoi progetti di alternativa e il suo grido, sì i capogiri delle sue altezze, ma anche lo sgomento e la rottura e, al tempo stesso, i materiali della ricostruzione e della pacificazione, ma, in ogni caso vivendoci e vivendone e ravvivando, nel ruolo di cervello che riceve e pensa e di cuore che lo nutre e irrora di sangue e di sentire.
A così operare, senza ruoli di servizio permanente effettivo agli ordini di niente e di nessuno, è necessario il coraggio dell’uscire da certo conformismo gregale che acriticamente piega il capo alle mode e, non meno negativo, alle consegne dell’abitudine e dei giudizi passati di bocca in bocca, e aggiungere senza la paura che il proprio dire si senta e noti più nel generale silenzio, la propria voce a quella dei pochi coraggiosi, che, ad esempio, dicono che Picasso non è poi stato quell’inarrivabile genio che si dice in coro; che, sempre ad esempio, i Zanzotto. i Manganelli, i Sanguineti e succedanei, nel proposito validissimo di sconfiggere rancidume e ristagno, sono soltanto pervenuti allo stravolgimento, punendo, peraltro, la loro stessa spiccata vocazione e autenticità e togliendo alle loro opere. essi che pure ne hanno capacità e mezzi notevolissimi. il respiro che vincesse la contingenza e con essa i limiti del tempo e dello spazio per farsi attuale sempre e ovunque, che è il presupposto dell’universalità. E si sa che ciò non è se non si riesce a cavarsi fuori dalla smania dell’inusuale che scivola alla soglia del dandismo letterario e dello snobismo o anche se non ci si porta fuori da quella troppo risentita reattività che spinge a esasperare poetiche dell’opposto con i loro eccessi del contrario fino alle distruzioni con solo rovine e solo babeliche summe di rifondazioni.
Perciò, diciamole queste cose prima dei forse necessari cinquanta anni per dirle poi in pentimenti, getto di tessere e rivisitazioni critiche e autocritiche.
Altrimenti? Sì, altrimenti, avversata dai suoi nemici e screditata, per la via della estenuazione o per quella della esasperazione, da non pochi dei suoi stessi cultori; spinta dai grandi e incalzanti rivolgimenti di valori e mutamenti dei costumi in angoli sempre più piccoli e remoti del vivere; sconfitta, di fatto, da mezzi più tecnicamente aggiornati, più rapidi e, perciò, più mediatori di informazioni e formazione dell’opinione; tenuta in uggia dalle sedi e dai criteri della programmazione del tempo libero; aggiogata dalle mode e dal profitto editoriale, la letteratura, si troverà in sempre maggiore difficoltà a giocare la sua carta decisiva: o a dare quello che il cinema non può dare, la televisione non mediare fino alle segretezze del sentire e del pensare, la sfilata delle mode non riempire, lo stadio, il sesso, il partito politico, la discoteca, l’oratorio, il bar, il club, i jeans non tacitare né ogni sforzo di vacanze più o meno intelligenti sostituire, oppure finire nella preagonia, che si crede ancora vita, degli enti inutili a sovvenzione statale.
E il problema tocca più da vicino e con più urgenza la poesia. Proponendosi, infatti, nell’urto dei tempi e nella sospensione dei giudizi l’interrogativo se ancora poesia e, se sì, con quali motivazioni, per quali vie, con quali strumenti e con quali riferimenti, la pseudoterapia proposta dai costruttori di bare poetiche e cioè che la poesia, per esser tale, debba tenere sempre e necessariamente almeno un piede – tanto meglio, poi, se ce li tiene tutti e due – nel surriscaldamento del delirio lirico, nella allucinazione onirico-visionaria, nel furore della eversione linguistica fine a se stessa, nel congedo illimitato da ogni ordine mentale, negli eremitaggi della incomunicazione, nell’autoghettizzazione dell’afasia – tuttavia piena di presuntuosi ammicchi per dare ad intendere che ha in corpo cose troppo grosse da poter dire con le possibili parole dell’uomo -, nella boscaglia intricata delle metafore che si rincorrono sempre più impervie e oscure, perché il buio più buio del buio fa tanto ambiguità e intelligenza, questa terapia, diciamo, è l’esatto contrario del rimedio necessario, perché, lo ripetiamo, propone messaggi in profezie senza futuri. Il diritto del poeta a sognare irragionevolmente? Sì. anche questo diritto, contro ogni possibile censura. Ma, volerlo, il poeta, sempre e soltanto consacrato e sfinito in questo ruolo? Come ci svoglia, questa idea, e immalinconisce e spinge al sorriso, non cattivo, che è più irrimediabile!
Né meno esiziale, per portata di effetti primari e collaterali, è quella pretesa terapia d’urto che volendo combattere e sconfiggere il pateticume va a deragliare nella caccia all’ultimo sentimento. Con la conseguenza di una poesia prosciugata fino alla disidratazione di ogni umore vitale, alla scomparsa dalla letteratura dei figli, dei padri, delle madri (uccidendo le madri per uccidere il mammismo), di ogni pur piccola traccia di pathos, ignorando, o fingendo di ignorare vergognandosene, i visceri, le molecole, gli ormoni, le scariche elettriche che passano per i neuroni al cuore, fisiologicamente presenti nell’uomo con la stessa necessità e, perciò, inestirpabilità, dei sentimenti, cui danno vita. E l’elogio di certa geometrica impotenza di fuoco poetico di un poetare androgino, le cotte di scapigliati ex seminaristi per i Céline, gli esibiti (in pubblico) distacchi dalla debolezza del sentimento in recita di forza d’animo e di intelletto, le poetiche della flemma (Poesia e Flemma!). ogni principio di ardere spento con gli estintori della ragione. E poi in casa? Togliersi la maschera, svestire i paludamenti degli eroi di carta per una febbre di figlio, per un venir meno di vecchio padre o di vecchia madre, per un affacciarsi cupo di futuro. E il tragico pathos dell’esistere se appena l’intelligenza vi scruta dentro?
È anche questa della guerra al sentimento una conseguenza di sessantottesche deviazioni (dal buono, dal nuovo, dal veramente vitale e dirompente che pure il sessantotto propose). Pensiamo al radicalismo di certo femminismo ammazzasesso, rancoroso e punitivo e autopunitivo, alla figura posticcia del rivoluzionario tutto Mao e rivoluzione, che si atteggiò a trascurare e disprezzare, come mollezze del vivere borghese, impulsi sacrosanti in natura, alle pseudofilosofie che ignorano che niente inizia a filosofare che non inizi dalla vita, ai socialismi scientifici che ignorano che niente c’è di meno scientifico nell’operare a tradurre in atti idee del non tenere in conto ciò che di individuale non è estirpabile dall’individuo per costante testimonianza antropologica, alle strategie che non seppero essere se non impastate di sangue come il tragico donchisciottismo dei partiti armati.
Un rivolere, allora, i prati sempre fioriti di speranze o innaffiati delle lacrime del pathos? No. Fare anche entrare nei sentimenti, com’è nella vita, il soffio freddo della verità e della ragione, la misura, ma non l’astinenza, perché i sentimenti non siano vaneggiamenti né pretendano di trascinare anche il logos nei manifesti di vitalismi miopi e ottusi o nella sfrenata sarabanda dei loro inni e nelle lunghe e inconsolabili loro trenodie del perduto e del rimpianto, ma, ciò, entro i limiti che neghino anche alla ragione ogni pretesa di razionalizzare gli impulsi e snaturare la natura.
Mario Ortu
Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 11-21.