L’antifemminismo di Federico De Roberto in una recensione inedita per Anna Franchi

Il 20 gennaio del 1903 esce a Napoliil primo fascicolo della rivista di Benedetto Croce “La Critica”, alla quale
dà notevole apporto Giovanni Gentile. 

Come spesso avviene in questi casi, l’attenzione dei due filosofi è particolarmente desta a registrare commenti, consensi e reazioni che possano riguardare la neonata rivista. Sicchè da Marinella (presso Castelvetrano), dove si trova in vacanza, il 17 agosto 1903 Giovanni Gentile segnala a don Benedetto «Avete visto un giornale letterario di Catania, fondato ora, recante un articolo di De Roberto intitolato La Critica?».

Simona Giannantoni, curatrice delsecondo volume delle Lettere a Benedetto Croce (Firenze, Sansoni, 1974), nel quale si legge la lettera in parola, a questo punto crede opportuno rimandare il lettore alla consueta nota esplicativa:«Probabilmente Federico De Roberto (1866-1927)». Nient’altro, tranne l’errata data di nascita dell’autore dei Viceré (1861 e non 1866). Per cui tocca a noi aggiungere che si tratta del giornale “La Giostra”, rivista mensile di Lettere e d’Arte diretta da Guglielmo Policastro. Che la lettera gentiliana si riferisse a “La Giostra” non c’è alcun dubbio ma l’articolo di De Roberto sulla Critica crociana non c’è
proprio: è solo il frutto d’un equivoco L’antifemminismo di Federico De Roberto in una recensione inedita per Anna Franchi di Piero Meli o per meglio dire d’una intuizione pura del filosofo di Castelvetrano. La Critica è infatti il titolo d’una rubrichetta, dove, per l’occasione, Federico De Roberto recensisce brevemente nel primo numero della rivista (agosto 1903) un libro di Anna Franchi, Avanti il divorzio, prefazione di Agostino Berenini, ed. Sandron, 1902. Evidentemente Gentile non lesse neanche l’articolo, però ebbe cura di informarne frettolosamente Croce.

 

Il clamore suscitato dal romanzo della femminista ante litteram Anna Franchi fu tale e tanto da spingere De Roberto a scriverne una recensione, un anno dopo la sua pubblicazione. Ma, evidentemente all’oscuro delle vicende biografiche della scrittrice livornese, l’illustre autore dei Viceré non riuscirà a coglierne tutta la disperazione d’una dignità offesa che è all’origine del romanzo. In Avanti il divorzio Anna Franchi raccontava senza veli il suo burrascoso ménage matrimoniale col musicista Ettore Martini (Ettore Streno nel romanzo), uomo cinico, vizioso e depravato, dal quale aveva chiesto la separazione per via delle violenze e turpitudini subite. Una dolorosa esperienza autobiografica che spingerà la coraggiosa scrittrice a una battaglia, attorno al Partito Socialista, a favore d’una legge sul divorzio.

Federico De Roberto, soppesando il suo giudizio col bilancino del canone dell’obbiettivismo e dell’impersonalità, si dichiara alquanto deluso del lavoro della Franchi, trovando nel romanzo un intento propagandistico che soverchia l’intento artistico, tanto da nutrire addirittura seri dubbi sull’autenticità d’un personaggio come Ettore Streno. E perfino sul piano della finalità che il romanzo si prefiggeva, quello di scuotere la società sulla necessità di sciogliere le catene del vincolo matrimoniale, lo scrittore catanese si mostrerà scettico, attribuendo al romanzo della Franchi il solo merito di aver provocato appena un semplice dibattito nel quale trovano uguale cittadinanza i fautori del divorzio e gli antidivorzisti. Motivo? La protagonista del romanzo, la sedicenne Anna Mirello, anche se ancora
ragazzina aveva avuto per tempo qualche avvisaglia della «pessima indole» del fidanzato e tuttavia lo sposò lo stesso «in uno stato di mezza incoscienza e quasi d’automatismo». Ergo deve prendersela con se stessa, con la sua leggerezza, e «non con le leggi della famiglia». Per la stessa ragione i fautori del divorzio, «appunto perché gli uomini e particolarmente le donne, da giovani, possono essere incoscienti come Anna Mirello, appunto perciò la società deve dar loro la possibilità e il mezzo del rimedio». Sottolineiamo particolarmente le donne per evidenziare il sentimento antifemminista che è al fondo di questa partigiana recensione derobertiana che spiega anche la «delusione» dello scrittore catanese.

Delusione maggiore ebbe a provare sicuramente Anna Franchi, forse anche rabbia, nel leggere che il cultore di «documenti umani» aveva giudicato la sua dolorosa vicenda personale un’esposizione di un caso romanzesco («Ora, a provocare un dibattito utile è lecito credere più adatta l’esposizione dei casi reali e non dei romanzeschi»). Sono queste le ragioni che ci inducono a proporre qui integralmente la recensione finora inedita del De Roberto (la segnalammo per primi nell’articolo Capuana nella “Giostra” in “Biologia Culturale”, Roma, marzo 1976), per più di trent’anni sepolta tra appunti e scartoffie.

Piero Meli

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 31-33.




 Micha Van Hoecke:  «La danza scrive nell’aria la vita» 

La fiamma non fu uguale a un ‘altra fiamma, 
dicono, mai dall’aurora dei tempi 
di Anna Manna 

Mi vengono in mente i versi di Maria Luisa Spaziani, mentre aspetto nella hall di un albergo romano, vicino al circo Massimo, d’intervistare Micha, mito vivente della coreografia. L’aria è quella dei grandi incontri. Roma avvolta dalla sua bellezza. Come una signora, appena alzata, si scalda al sole della sua stessa bellezza, si rimira allo specchio, fa le fusa, prima di cominciare a danzare la danza della vita. C’è movimento attorno a me, ne avverto la leggiadria. Ma è un movimento discreto, come un ghirigoro nell’ aria. Quasi il volo impercettibile di una farfalla. Alzo gli occhi: forse ho avvertito il volo di una farfalla. Invece è una donna. E sono i suoi occhi che danzano nell’aria romana piena di primaverili promesse. È Carmela Piccione, specialista di teatro e di danza, biografa di Micha. Insieme a lui ha creato un libro che è un excursus nel mondo della danza, attraverso i ricordi di Micha. Una magnifica opera insieme che non riuscirei a definire bene, che hanno chiamata intervista, ma è molto di più. 

È uno scrigno prezioso, uno sguardo a ritroso nel mondo del movimento, forse anche un discreto e sotterraneo tratto di filosofia della danza. Di fatto il libro è un movimento vivente che ti prende mentre lo sfogli, mentre lo gusti. 

A Roma, in una giornata di avvento di primavera, un libro così si mescola con il risveglio della natura. E cominci a vedere i fiori, gli insetti, le nubi vaporose di aprile che occhieggiano, che promettono la danza della vita. Mi ricorderò di questo incontro di primavera con due artisti così diversi e così in sintonia. Micha, il grande Micha, che ancora non ho conosciuto ma che già ammiro attraverso la fama ed il libro che continuo a sfogliare. E Carmela, che di Micha ha saputo raccontare l’anima. 

Carmela è giornalista per eccellenza, ma in lei l’arte della scrittura è miscela di squisita femminilità e di forte tempra. Quando Micha compare, Carmela si fa da parte e diventa uno specchio. Un grande specchio dove il maestro può rispecchiarsi e trovare la sua dimensione fatta di musica, movimento, inventiva, fantasia. Micha è un artista vero, generoso, si spende per donare agli altri. La gioia dell’arte. Un presupposto questo che nel suo cuore è stabile, ferreo. Capisci che dietro la leggiadra persona che vivifica il mondo della danza si nasconde una ferrea disciplina di esercizi, di dedizione alla danza. 

«Quando si raggiunge il sublime nell’arte?» gli domando ammirata. E per sublime non intendo successo, ma molto di più. 

Risposta: «Il sublime? Che senso vogliamo dare a questa parola? Se vuol dire il massimo della perfezione, allora il sublime si raggiunge soltanto in un ripiegamento su se stesso, in un approccio narcisistico in qualunque forma d’arte. Ma per me il sublime vero si raggiunge nell’incontro con l’altro. Quando anche l’altro diventa, per esempio, danza, quando il movimento che ho dipinto nell’aria lo coinvolge e gli trasmette il messaggio di quella danza. Ecco, per me questo è il momento sublime.» 

Avevo intuito questa generosità della sua arte che supera e prescinde il momento della celebrazione per aprirsi agli altri in un abbraccio artistico, appunto sublime. Nei suoi spettacoli lo spettatore resta ammaliato, è come se riuscisse a dialogare con il grande coreografo. Intanto, in questi primi approcci dell’intervista, Carmela ci guarda, capisce che siamo entrati in contatto e silenziosamente si fa da parte, anche se i suoi grandi occhi neri continuano a danzare con noi. S’intrecciano ai nostri sguardi e cercano la domanda giusta, il momento della verità in questo incontro romano. 

«Io sono un poeta,» gli dico, «le mie domande sono un po’ diverse da quelle delle interviste che normalmente ti hanno fatto.» 

E Micha si avvicina col cuore, avverto che è compiaciuto di un’ intervista diversa. Le domande sulla sua vita, sulla sua arte, hanno già la risposta nel libro. «Un libro che ormai ci precede, arriva prima lui nei posti dove vado a danzare e poi noi. È diventato come un personaggio a parte, ha una vita staccata dalla nostra.» È sorpresa anche Carmela della vitalità della sua opera di paziente ricercatore delle verità di Micha. Ma Micha è movimento anche quando tace. 

Gli chiedo all’improvviso: «Le espressioni del viso sono una danza?» 

Risposta: «Nell’espressione del viso c’è lo sguardo che dona la dimensione della profondità. In funzione degli stati d’animo. Il viso fa parte dell’essere danzante. È la promessa, lo spartito musicale. Il corpo è una cassa di risonanza di questa melodia interiore. La musica vera è quella che entra dentro, quella capace di modificare lo stato d’animo, accenderlo di più. La vera musica crea movimento dentro di me e poi io lo porto fuori col mio corpo. Lo racconto agli altri con la mia danza. La vera cultura è andare verso l’altro. Anzi è proprio questo il senso della cultura. Ecco perché il nostro viso, il nostro sguardo, è un mezzo incredibile di comunicazione culturale. Il nostro corpo è una cassa di risonanza, culturale, psichica, è il pensiero, lo stato d’animo che diventa carne, gesto, vita nella realtà. Penso al grande Kazuo Ohno, ormai immobilizzato su una sedia a rotelle. Ho visto recentemente un suo video; il grande artista giapponese muoveva solo una mano. Eppure quanta intensità in quel semplice gesto. Assoluto, essenziale.» 

Domanda: «Come si fa ad educare veramente all’arte, a questa forma di comunicazione così vibrante?» 

Risposta: «lo non saprei come si possa fare rispetto a tutte le arti. Ma sono sicuro che si deve fare. Soprattutto per amore verso i giovani, verso un paese così ricco di tradizioni come l’Italia, è necessario rimboccarsi le maniche e lavorare sodo per riuscire ad educare la gioventù all’arte ed al rispetto per l’arte. Non possiamo lasciare i giovani in pasto ai falsi messaggi, ad una sottocultura che ci attanaglia, che ci distrugge dentro. La cultura dona solidità, l’amore è dedizione e rispetto. Verso la forma d’arte che sentiamo più vicina a noi! Questo deve essere il terreno in cui deve muoversi la gioventù. La danza della vita non può essere miseramente simile a pochi scialbi passi senza ascoltare le parole dell’ anima. La cultura deve darci respiro, deve renderci capaci di volare in un mondo di idee e di emozioni che raccontano i nostri progetti, le speranze. La comunicazione artistica vera può nascere soltanto in un terreno di rispetto e lavoro serio e consapevole. Non si può pretendere di chiamare arte lo scimmiottare questa o quella moda artistica, l’arte deve entrarti dentro, deve scoprire le parte migliore di te e portarla in superficie, deve riuscire a farti comunicare il meglio della tua anima. Non per te stesso, per una forma di autocelebrazione, ma per rendere un servizio agli altri, per educarli appunto.» 

«Ma non siamo tutti uguali. E di nuovo mi vengono in mente i versi di Maria Luisa Spaziani: E anche questo mare che ora senti / ruggire e sospirare, ha sempre suoni / diversi e altri fregi di correnti. Questa diversità, come può unirci, cosa può significare raccontarci gli uni agli altri?» 

Risposta: «È il fuoco dell’arte, questo vivificarci ogni giorno a nuovi messaggi, a nuove emozioni, ci rende vivi, rinnovati, nuovi sempre. Chiusi, ripiegati su di noi, anche nei nostri momenti migliori, anche nei risultati migliori… ebbene questa solitudine ci rende sterili. La comunicazione artistica scrive il futuro, la relazione artistica tra le persone apre spiragli insperati, rinnova la speranza e grida la volontà di esistere di nuovo. Io danzando scrivo nell’aria la vita, lo scrittore danza sui fogli le sue emozioni, il musicista fa danzare le note. Vede la relazione, il miscellarsi delle forme artistiche crea continuamente un lungo interminabile dialogo. Il dialogo per eccellenza, quello che muove l’umanità verso il continuo miglioramento. Non assaporare l’arte e l’espressione artistica ci allontana da noi stessi e dal futuro dell’uomo. L’importante è sentire ruggire questo mare, sentire i sospiri dell’ anima e comunicarci queste emozioni, questi ruggiti, questi sospiri. Per comprenderci, per accettarci, per migliorarci. Per amarci e per amare la vita.» 

«Lei quanto ama la danza?» 

Risposta: «Quanto amo me stesso, quanto amo il mondo ed il mio peregrinare nel mondo. In fondo ognuno di noi nella nostra esistenza è un pellegrino, in viaggio verso la conoscenza, 

da “Spiragli”, 2009, Argomenti 

l’assoluto, certezze che a volte non arrivano, ci sfuggono. E il nostro peregrinare esterno a volte riproduce e manifesta il nostro viaggio interiore. Sono un uomo profondamente religioso nel senso vasto del termine. Cerco il sacro che è in ogni essere umano. Ed in ogni manifestazione dell’umano. Il senso del sacro, del mistero, quella scintilla impercettibile che si accende in ognuno di noi in momenti inaspettati: ecco forse sono da sempre alla ricerca dell’anima.» 

«Micha, cos’è l’amore?» 

Risposta: «A volte, nella mia vita sempre in movimento, mi fermo e mi sorprendo a guardare, anzi a contemplare mia moglie. Ecco questo momento di contemplazione, questo incantamento che si ripete, penso sia l’amore. Certo poi l’amore si manifesta in gesti, azioni, dedizione all’altro. Ma il momento più alto è questo attimo di contemplazione che è così forte da fermare anche un danzatore come me; anche Micha si ferma davanti alla contemplazione dell’amore. Questa è l’emozione per eccellenza! E somiglia alle emozioni della giovinezza … Sempre l’amore somiglia alla giovinezza. Bisogna custodire gli entusiasmi, le provocazioni della giovinezza, sono un bene prezioso. Lo scrigno che ci portiamo dietro nel mondo, dove custodire i momenti migliori.» 

«Cos’è la creazione artistica?» 

«La creazione non è un lavoro contemplativo, ma una ricerca complessa e dolorosa. Non bisogna essere superficiali, ogni piccolo passo nell’aria attinge ad un grande bagaglio di esperienza e di lavoro dentro di noi. Siamo il risultato di tanti incontri, di tanti problemi superati, di tante esperienze. Ecco nella creazione di un artista c’è tutto questo. È un cavallo bizzarro da domare. La creazione non è un momento di arrivo ma un continuo lavorio dentro e fuori di noi.» 

«Micha, se lei dovesse descriversi, cosa direbbe di se stesso?» 

Risposta: «Non possiedo nulla, non ho conti in banca, palazzi o Ferrari fiammeggianti. Il teatro è la mia casa. Il mio unico lusso? Lo stretto indispensabile, il denaro necessario … Ma quanti legami forti con le persone, con le donne! Sono ricco di contatti umani. Sono la mia ricchezza. Se dovessi descrivermi, mi dipingerei in un giro di danza libero nell’aria per raccontare la vita!» 

Anna Manna

NOTA: 

Alcune risposte di Micha sono arricchite da affermazioni dell’ artista riportate nel libro di Carmela Piccione. I versi citati sono tratti dalla poesia Parapsicologia di Maria Luisa Spaziani. (Poesie, Oscar Mondadori, Milano, 1996). 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 39-42.




 Pavese e il «Taccuino segreto» 

Nell’estate del ’90 il cielo della cultura letteraria è stato percorso dall’elettrizzante balenio della polemica intorno alle inopinate o presunte novità insite nel «Taccuino segreto» di Cesare Pavese pubblicato da Lorenzo Mondo su «La Stampa» di Mercoledì 8 agosto 1990. 

Per la verità, già il 22 Luglio 1990, Roberto Cotroneo aveva sentenziato sul settimanale «L’Europeo» che di Pavese è rimasto molto poco nella cultura italiana al punto da essere diventato personaggio d’archivio da «scrittore-simbolo» che sarebbe stato per diverse generazioni dalla Resistenza in poi. 

Con chiave problematica invece il quotidiano «La Repubblica» sul supplemento Mercurio del 10-3-90 gli aveva dedicato una serie d’interventi critici e di interviste di Giorgio Manacorda, di Alberto Moravia e di Edoardo Sanguineti. 

Il 1° Settembre ’90, ancora su «L’Europeo», Saverio Vertone accennava a una lecita demolizione che starebbero subendo i miti culturali e antifascisti della Casa Editrice Einaudi e quindi anche i miti di Pavese e di Vittorini. 

Si potrebbe obiettare che ciò può essere vero e può non stupire, se si pensa agli alti e bassi che la storia e la critica letterarie hanno riservato alternativamente ai grandi scrittori e poeti e se si tiene presente che il padre stesso della nostra lingua nazionale, l’Alighieri, per il lungo tempo in cui la nostra storia fu caratterizzata dal sonno e dalla sottomissione dell’Italia al resto d’Europa, rimase trascurato e qu~si dimenticato e se anche ai nostri giorni, forse per la sferzante moralità della Divina Commedia e per lo sconcerto da essa suscitato fra tanti idolatri dei miti della dissoluzione, aleggia la tendenza a tenerlo ben conservato negli archivi dei dimenticatoi. 

Quanto a Pavese si può asserire serenamente che il vasto interesse e i controversi commenti provocati dalla pubblicazione del suo «Taccuino segreto» sono sufficienti a dimostrare che l’intellettuale Pavese ha ancora, e lo avrà nel futuro, sia pure fra le carte d’archivio, qualcosa da dirci. 

Quanto all’utilità dell’iniziativa. della pubblicazione, come anche della annunciata (sempre da Lorenzo Mondo su «La Stampa» dell’I-9-90) stampa dell’inedito giovanile pavesiano «Frammenti della mia vita trascorsa» nella edizione integrale del «Mestiere di vivere», non dovrebbero sussistere dubbi, sebbene Fernanda Pivano, per comprensibili motivi di affettuosa stima da cui in qualità di sua fidata ex alunna era stata legata a Pavese, abbia dichiarato, con dolente rammarico, che «non è possibile, in alcun modo, varcare il muro della vita privata». 

Va, anzi, detto che se gli eredi dell’autore hanno consentito la pubblicazione dell’inedito e se è vero (e in ciò è da condividere la tesi esposta da Vittorio Strada su «La Stampa» del 14-8-90) che esso .riguarda una realtà intellettuale già di per sé significativa e, attraverso di essa, una realtà collettiva, di ancora più vasto significato», l’analisi del documento è provvidenziale per la cultura italiana e, se condotta con serenità immune da .intenzioni scandalistiche, può, pur non aggiungendo nulla – come dice Natalia Ginzburg – alla grandezza dello scrittore, servire a vederne i lineamenti con maggiore chiarezza e può indurre a una più rigorosa ripresa di ricerca e di rivalutazione non solo di Pavese, ma anche di tutta una grande stagione della cultura italiana. 

Il punto più esplosivamente stupefacente per molti lettori sembra essere stato e sia quello della presunta scoperta di una segreta simpatia, intorno al 1942/43, di 

Pavese per il fascismo e addirittura per i famosi punti del Manifesto di Verona e per la Repubblica Sociale. 

Da qualunque angolo visuale la questione venga osservata (da quello della Pivano, la quale negli appunti del Taccuino vede nient’altro che meditazioni per la definizione del personaggio Lucini de «La Casa in collina»; o da quello di Alessandro Galante Garrone che collega l’appunto relativo alla sterile litigiosità degli antifascisti al ricordo della discussione effettivamente avvenuta nel 1942 in casa del filosofo Geymonat e della veemente sfuriata di Pavese nei confronti dell’ex detenuto comunista Capriolo e di tutti gli altri presenti per il «loro almanaccare e brancolare incerti sul da farsi»), o si voglia riferire il detto appunto del Taccuino alle controversie politiche in seno alla Casa Editrice Einaudi, cui aveva fatto cenno Giaime Pintor nella lettera da Roma all’amico Pavese del 26 agosto 1943, una cosa balza evidente: che il Taccuino, oltre ad aiutarci a lumeggiarne l’autore nella sua interiorità, ci persuade, ancor più di prima, della emblematicità dolorosa ed ambiguamente radicata nell’humus del «vizio assurdo» di un intellettuale che riflette letterariamente e poeticamente il dramma collettivo di una generazione in traumatica crisi storica. 

Perché stupirsi di un Pavese che nel 1942/43 abbia nutrito, sia pure nel riservato laboratorio della fantasia di poeta, pensieri di eventuale adesione a un fascismo che, «avendo imparato molte cose dalla guerra», avesse «troncato gli indugi» e si fosse liberato dagli sfruttatori o stesse sul punto di «dare all’Italia l’unità repubblicana dopo averle dato quella nazionale»? 

Tutta una generazione di giovani intellettuali e, comunque, di giovani pensosi del loro destino vissero in bilico fin dalla fine degli anni ’30 tra le incerte prospettive dei cospiratori antifascisti con cui venivano sporadicamente o frequentemente a contatto e la routine della realtà quotidiana, oppure maturarono nella riflessione sui concetti di giustizia sociale proclamati dalle varie fronde germogliate all’interno dei G.U.F., dei Littoriali e dei Ludi Iuveniles le premesse della loro adesione all’antifascismo e soprattutto al PCI nel fuoco della lotta di liberazione al Nord e in Sicilia nel bel mezzo dello sbarco (o della sua imminenza) degli Anglo-Americani. 

A documentazione di tale travaglio generazionale c’è tutta una serie di testimonianze e di pubblicazioni fiorite intorno agli anni che vanno dal 1946 al 1960 e che probabilmente oggi danno fastidio a certa estesa tendenza alla superficialità. Per tutte basta ricordare «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» di Ruggero Zangrandi, edito da Feltrinelli nel marzo del 1963. Ognuno, poi, di coloro che hanno vissuto l’adolescenza o la prima giovinezza intorno agli anni 1937-47, avrebbe ricordi a mai finire da trasferire alla vita dell’arte poetica o narrativa, se avesse l’estro d’un artista come Pavese. 

Conosco non poche persone della mia città che, al pari del personaggio Pippo del racconto pavesiano «Il Capitano» scritto nel 1942/43, frequentavano in pieno fascismo un comunista (tale Cecé Azzaretti) reduce, in seguito a condanna del Tribunale Speciale, da cinque anni di carcere e che contemporaneamente frequentavano i campi DUX e partecipavano alle festose manifestazioni e adunate ginnico-sportive della G.I.L. Più d’uno di essi (che poi sono diventati e sono comunisti), condividendo le utopiche idealità di giustizia sociale trasudanti dalle letture del «Tallone di ferro» di Jack London e dei romanzi «La madre» e «La spia» di Massimo Godo, procurati loro clandestinamente, finivano spesso con il soggiungere nei colloqui con l’Azzaretti che la giustizia sociale, in fondo in fondo, se era tradita dai gerarchi fascisti, era tenacemente voluta da Mussolini e che ci sarebbe voluto un Mussolini per ogni città. Altri, ancora adolescenti, attraverso l’offerta insistentemente propinata dai libri di testo, dell’apologo di Menenio Agrippa o dell’esempio di vita dei Gracchi e di Cornelia loro madre virtuosa, avevano con angelica ingenuità creduto nel corporativismo come scudo protettivo della classe lavoratrice e degli oppressi. 

Tale credenza durò fino a quando la guerra e il mercato nero tolsero il velo alla verità e indussero molti a riporre o, meglio, a trasferire nella forza politica che più accanitamente aveva lottato contro il fascismo e da questo era stata altrettanto accanitamente combattuta e perseguitata, cioè nel P.C.I., l’ideale di giustizia dal fascismo solo a parole proclamato. 

Molti altri giovani, almeno in Sicilia, videro, proprio come il Pavese del Taccuino segreto, nella monarchia in fuga da Roma e poi da Pescara a Brindisi, la fonte del marciume del regime fascista e aderirono al P.RI. e stracciarono platealmente in piazza le cartoline rosa con cui erano stati chiamati dal governo ancora monarchico a combattere a fianco degli Alleati contro la Germania di Hitler. 

Perché Cesare Pavese avrebbe dovuto essere un eroe antifascista puro e senza eventuali simpatie per la parte, diciamo così, apparentemente sociale e salvifica del fascismo, ammesso che tali simpatie non siano da considerarsi frammenti, inconsciamente e distaccatamente contemplati, del canovaccio delle sue costruzioni poetico-narrative? 

Cesare Pavese, indubbiamente, non fu un eroe o un politico militante come Capriolo o Guaita di cui parla Alessandro Galante Garrone su «La Stampa» e nemmeno fu un partigiano della tempra di un Giancarlo Paietta; anzi ebbe la sorte, dovuta forse all’asma di cui soffriva, di non andare sotto le armi (benché lo desiderasse più per unirsi agli altri e vincere la sua anomala e morbosa solitudine che per adesione agli ideali guerrieri) e quindi di non essere coinvolto nel vortice della guerra come tanti altri suoi coetanei costretti a diventare martiri o carnefici per forza, come si arguisce dalla lettura del romanzo -Gioventù che muore» di Giovanni Comisso. 

Ma voler fare apparire l’infelice Pavese come un voltagabbana e un’ipocrita che, interiormente filofascista, al momento giusto e opportuno salta sulla tradotta vincente dell’antifascismo, sembra, oltre che improponibile, una sottile tentazione mirante subdolamente a svalutare una personalità eccelsa della nostra cultura del ‘900 e a svilire sull’altare di certe spregiudicate tendenze a deprimere ogni rigore morale e ad esaltare certo frivolo consumismo e facilismo letterario, la base culturale su cui si fonda la democrazia italiana rinata dalla catastrofe della 2a guerra mondiale. 

Pavese non fu, certamente, negli anni 1942/43 – lo ripetiamo – uomo politico. Lo dichiara egli stesso nella lettera da Torino a Fernanda Pivano del 2-8-43: «Non ho niente da guadagnare dalla politica» e lo dichiarerà più tardi, a liberazione avvenuta, quando ad Einaudi che gli chiederà quale fosse il suo ideale partitico risponderà semplicemente di essere poeta. Lo si deduce dalla lettera a Giaime Pintor del 13-8-43 in cui l’impegno letterario sembra decisamente prevalere, pur in momenti tragici come quelli dei primi giorni dopo l’arresto di Mussolini, su quello politico. Egli infatti così scrive: 

«Caro Pintor, grazie del giornalino. Ma ormai ne escono tanti che io torno alla mia tradizionale indifferenza verso ogni periodico». Poi aggiunge (e l’allusione amara al discutere parlamentaristico degli antifascisti suoi amici sembra molto analoga a quella degli appunti del Taccuino segreto): «Qui echi di casino senatoriale. Prevedono lunga e sanguinosa guerra intestina e del resto me ne infischio. Se invece di far giornali, faceste libri, sarebbe un po’ meglio. Ciao». 

E allora come può spiegarsi la sua adesione al P.C.I. dopo 11 25-4-45? La domanda meriterebbe una approfondita ricerca, ma si può pensare che essa si può spiegare con l’individuazione della motivazione del suo distacco dal P.C.I. nel periodo della polemica di Togliatti con Vittorini e con altri per la questione dell’indirizzo del «Politecnico». 

Pavese, come sostiene Gianni D’Elia, fu travagliato da una disperata lotta tra desiderio e paura di desiderio, tra desiderio di solitudine e desiderio di unione. Nel P.C.I. egli in un certo momento della sua vita credette di trovare realizzato quel bisogno di confondersi e di unirsi con la parte più giusta e più valida (e per giunta vincente) della società e successivamente, affievolitosi il calore solidaristico dei primi mesi del dopoguerra, sentendo altrettanto prepotente il bisogno di appartarsi, di non essere intruppato, di non essere ridotto a semplice megafono degli altri, di salvaguardare la propria individuale autonomia di scrittore, si staccò dal P.C.I. Di lui, comunque, sono incontrovertibili alcune cose: 1) che non fu un intellettuale conformista e che profuse tutte le sue energie, con scrupoloso e puntiglioso lavoro presso la Casa Editrice Einaudi, nell’opera di sradicamento dell’Italia dalla autarchia culturale imperante sotto il fascismo e puntò alla rottura di quei vincoli che durante il fascismo avevano costretto all’isolamento «da torre d’avorio» gli intellettuali non contagiati dal fascino tentatore e travolgente dell’adulazione parolaia e retorica; 2) che per le amicizie che lo legarono costantemente agli amici antifascisti fu confinato a Brancaleone Calabro, per aver mostrato dignitosa fermezza davanti alla polizia fascista; 3) che fervidamente mai cessò di coltivare, pur tra i bagliori e i pericoli sempre più vicini della guerra, la sua azione di consigliere e di coordinatore culturale nei riguardi dell’avanguardia letteraria e culturale del suo tempo: Pintor, Muscetta, Bobbio, Vittorini, Alicata, Zancanaro e altri; 4) che, se intese la solitudine come pericolo di rottura dei ponti con la gente e anche come momento e occasione per immergersi nel mondo della fantasia e per rielaborare il frutto dei suoi contatti con la realtà, fu proteso a sentire e a soffrire, come l’Io narrante di «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini, il dolore del mondo e di conseguenza ad ipotizzare (ipotesi realizzata nei suoi capolavori) un linguaggio poetico e narrativo fatto per l’uomo. Si legge, infatti, in un suo saggio su «L’Unità» di Torino del 20-5-45: «Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di tristezza o d’ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nitida nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene… Sono uomini che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione… Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato». 

Qualcuno, fra i tanti assetati di facile successo con l’osanna al nuovo clima di mercificazione e sofisticazione culturale, potrebbe anche sospettare di propagandismo filocomunista il predetto saggio pavesiano. Ma questo tema del superamento della solitudine attraverso la comunione (che è anche intimamente connesso con la difficoltà di vivere derivata dalla sua ambiguità psico-sessuale) traspare in tempi non sospetti di propagandismo e precisamente in alcune lettere indirizzate alla Pivano. Basti, per tutte, quella del 30-5-43: «La solitudine si vince andando verso la gente e «donandosi» invece di «ricevere»… Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. È solo chi vuole esser solo. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire». 

Un messaggio culturale e morale quale è quello contenuto nella predetta lettera e nello stralcio precitato del saggio del ’45 sarebbe espressione di quella cultura di regime indicata da Saverio Vertone su «L’Europeo» dell’1-9-90? Sarebbe, quella di Pavese e di tanti altri, cultura di regime perché, pur non essendo mai stato (nemmeno quando aderì al P.C.I.) un intellettuale organico, come la gran parte della giovane intellettualità del suo tempo, partecipò all’empito delle speranze di rinnovamento e di rigenerazione umana sognata sulle macerie dei bombardamenti e sul sangue della Resistenza? No! Non fu cultura di regime quella di Pavese e degli altri intellettuali suoi contemporanei. Come non fu, per esempio, cultura di regime l’arte narrativa di un Domenico Rea che portò al massimo compimento nel suo capolavoro premiato a Viareggio «Gesù fate luce» la convivenza o, meglio, la sua connivenza umana e artistica con la gente della sua Nocera Inferiore e raggiunse così un verismo più vivo e più umano di quello verghiano e tuttavia non accettò né lo zdanovismo né la limitazione esogena della sua musa narrativa fino al punto che, allorquando durante una sosta di viaggio a Praga ne scoprì lo squallore nel 1954, coraggiosamente lo descrisse in un articolo di «Paese Sera» e poi preferì far parte per se stesso. 

Ma per Saverio Vertone quella di Pavese, di Rea e di Vittorini e di altri sarebbe cultura di regime o, meglio, il rovescio della cultura del regime fascista, del quale la politica antifascista sarebbe la continuazione alla rovescia. Se tutta la cultura antifascista ha avuto come precedente storico quella fascista o, se da essa si è, in parte, enucleata, non per questo può essere definita l’altra parte della stessa medaglia, quanto meno per lo stesso motivo per cui l’Innominato non può che considerarsi, dopo la conversione, un uomo nuovo. Se poi il nuovo nasce sempre dal vecchio, come un fiore da un altro fiore precedentemente diventato bulbo, non possiamo farci nulla, e non è giusto e corretto dire che il nuovo e il vecchio appartengono allo stesso regime. D’altronde nessuna cultura nasce dal vuoto o dal nulla e lo stesso cattolicesimo non si spiegherebbe senza la preesistenza del classicismo greco-romano e delle culture ebraica ed orientali. 

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 11-17.




 L’altra medicina e silenzio stampa 

Sabato 9 marzo ’91 si é tenuta, nell’antica sala del Comune di Tarquinia, una Conferenza-stampa sul tema della Pronoterapia. durante la quale é stata conferita alla Dott.ssa Simona Cola una laurea “honoris causa” per la sua opera nel campo specifico. 

Alla Conferenza, presieduta dall’ex Sindaco di Tarquinia, Sen. Roberto Meraviglia e dal Presidente dell’Albo Professionale Europeo dei Pranoterapeuti, erano presenti, oltre alle telecamere della RAI, numerosi giornalisti e medici. Ma ciò che più attirava l’attenzione era il fatto che la grande sala fosse letteralmente gremita di pazienti ed ex pazienti entusiasti, pronti a testimoniare, ma soprattutto – e questo é ciò che più conta – tutti guariti o in via di guarigione. Quello che mi ha toccata profondamente. era la loro dignità, la loro serietà e serenità di giudizio; non si respirava aria di corte dei miracoli, ma quello stupore riconoscente di chi, dopo una lunga e indicibile sofferenza, spesso dopo essere stato dato per spacciato dalla medicina ufficiale, si ritrova improvvisamente, inaspettatamente in gioco, guarito senza sapersi dare una spiegazione, poiché era ricorso alla pranoterapia l’antica imposizione delle mani citata nei Vangeli – come ultima spiaggia, non avendo più nulla da perdere se non la vita stessa. 

Indubbiamente il soggetto da trattare era spinoso. Si doveva lottare contro la mentalità materialistica, e persino contro i propri pregiudizi morali e culturali. Per fortuna, poi, hanno parlato i fatti. 

Il Presidente dell’Albo, Mario Davanzo, bersagliato dallo scetticismo dei giornalisti, veniva quasi immediatamente richiamato all’ordine da uno di questi, per aver osato sfiorare un attimo la questione religiosa. Questo falso moralismo religioso non spiana certo la strada alla ricerca della verità. Ma mi domando quale fede abbia da salvaguardare una persona che solo a sentir parlare di miracoli si scandalizza. Con ciò non voglio dire che ci troviamo di fronte a dei miracoli, probabilmente tutto ciò accade perché possa essere spiegato – non si muove foglia che Dio non voglia – ma mi domando – ripeto – che tipo di fede si possa avere se si considera “il miracolo” come unico retaggio di antiche popolazioni ignoranti, le quali non potendo supplire con la cultura e la conoscenza, affidavano a Dio il loro destino, la loro salute, la loro stessa vita. Bene. Visto che Cristo sembra per molti essere morto su una croce definitivamente, forse è giunto il momento in cui gli scienziati – novelli detentori della “verità” – ci diano una razionale e ragionevole spiegazione di quanto accade. In mancanza di “prove” – visto che i fatti non bastano – nessuno di noi può permettersi dei pregiudizi, ma solo ed esclusivamente delle opinioni personali che non fanno testo. 

Io ho intervistato molti pazienti della Dott.ssa Cola, e ad ognuno ho chiesto, oltre all’esito della ·cura, quale idea si fosse fatto della pranoterapia. Devo dire che la platea era divisa equamente tra i fautori di una tesi energetica, naturale e scientificamente spiegabile (tra i quali il più convinto sembrava proprio un religioso) e i sostenitori del dono carismatico divino. Per dovere di cronaca devo riferire che una religiosa affermava di aver visto una stimmata sulla fronte di Simona: che ad una anziana signora appariva durante il trattamento una figura vestita di bianco ai piedi del letto, mentre ad altri sembrava addirittura che la pranoterapeuta assumesse un diverso aspetto. Tra questi, alcuni bambini. Anche queste “curiosità”, è chiaro, sono tutte da studiare e verificare. 

D’altra parte, lo stesso Mario Davanzo, nel suo discorso introduttivo, si manteneva sulle generali, affermando, ad esempio, che la pranoterapia non è una panacea universale: che può apportare miglioramenti in alcuni casi di artrosi, risolvere alcuni problemi nervosi e liberare da sintomatologie dolorose, ma che, certamente, non è in grado di guarire i tumori. E qui veniamo al dunque. Simona Cola ha guarito dei tumori. Ho sentito le testimonianze ed ho potuto consultare le documentazioni, le TAC, le lastre dei pazienti prima e dopo la cura. 

Il Davanzo si batteva per un progetto di legge giacente in Parlamento, con il quale si vuole ottenere il riconoscimento ufficiale della figura professionale del pranoterapeuta. Ciò, affermava, per operare una separazione del grano dalla gramigna, ovvero per selezionare un serio gruppo di pranoterapeuti ed evitare alla gente di cadere nelle mani di individui senza scrupoli, venditori di fumo e di illusioni, avvoltoi che gravitano attorno a gente malata, pronta a rivoltarsi le tasche pur di vivere o sperare di vivere. Sarà possibile questo nell’Italia dei raccomandati e delle bustarelle? In ogni caso, varrebbe la pena tentare, visto che in alcuni casi è stato proibito ai pranoterapeuti l’ingresso negli ospedali, sebbene richiesto da pazienti senza alcuna speranza, proprio a causa – o con il pretesto – della mancata professionalità. In realtà, i medici non dovrebbero sentirsi minacciati da questi operatori, i quali, va detto, non mirano a sostituirsi ad essi, ma desiderano soltanto collaborare. 

Quindi, ben venga una strumentalizzazione del “caso Cola”, se può servire una causa utile. Ma torniamo alla discrepanza tra l’affermazione che ‘la pranoterapia non guarisce i tumori” e le dichiarazioni dei pazienti usciti proprio dal tunnel di questo orribile male. 

Interrogato a tale proposito, il Davanzo affermava che indubbiamente si stava trattando di un caso eclatante. Ed è questo che voglio ripetere” poiché è molto pericoloso creare illusioni sulla pelle degli altri, e, cioè, per dirla senza mezzi termini, che non tutti i pranoterapeuti hanno le qualità, sebbene molti di essi siano ottimi “professionisti” ed ottengano risultati assai positivi. Ho parlato con alcuni di essi e consultato numerose opere sulla materia. Indubbiamente dalla pranoterapia si possono ottenere notevoli vantaggi, ma nessun pranoterapeuta, per sua onestà, ha mai affermato di poter guarire un tumore, né di poter – e qui veniamo ad un altro punto dolente – cambiare le informazioni del DNA. 

Vediamo alcuni casi. Un paziente presente alla Conferenza, affetto da poliomelite, dall’età di 15 anni, mi ha confidato di vedere il suo muscolo, prima del tutto atrofizzato, riattivarsi e crescere giorno dopo giorno. Un bambino miope, con un forte astigmatismo, dichiarato non curabile e destinato a una vita di occhiali, risultava aver recuperato 6 diottrie in pochi mesi di cura settimanale. Numerosi pazienti, in cura per esaurimento nervoso, dichiaravano di avere visto crescere sulla loro testa capelli perduti da anni, e non del loro originale colore: capelli neri su teste canute; capelli neri su teste bionde. 

Potrei citare numerosissimi altri casi, ma per questo vi rimando al libro che sto scrivendo: “Chi sei? Inchiesta su una guaritrice”. Qui vorrei invece soffermarmi su alcune considerazioni: se appare sterile parlare di miracoli, così appare indispensabile domandarci come possa accadere che un DNA venga “ristrutturato”, poiché di questo si tratta. Nel caso congenito dell’astigmatismo – che è una conformazione ovoidale anziché sferica della cornea – sembravano non esserci possibilità di regresso, a meno che non si cambiasse la forma della cornea. Oggi – sebbene il caso non sia ancora completamente risolto – c’è stato un notevole miglioramento della vista, probalbilmente proprio grazie ad un intervento sul DNA, poiché, lo ricordo, si trattava di un difetto congenito, ovvero di nascita, per il quale il DNA dell’occhio era programmato per vedere “male”. 

Lo stesso dicasi per i casi di pazienti biondi che hanno ottenuto la ricrescita di capelli neri. Le mani di Simona hanno in qualche modo impartito al DNA di natura – che è una sorta di “programma biologico personalizzato” che prevedeva sia i capelli biondi, sia l’età della loro caduta, sia il loro incanutimento – un diverso ordine. 

Ma cos’è questa energia? Da dove proviene, dal mondo spirituale o da quello materiale? È indubbiamente una energia positiva se il suo scopo è la salute. È indubbiamente una energia intelligente. se è in grado di uccidere le cellule malate e far proliferare quelle sane, se è in grado di mummificare. ma anche di rigenerare. 

Non credo esista attualmente qualcuno in grado di darci una risposta, esauriente. Ed anche se ci fosse, sarebbe molto difficile ottenerla. Simona Cola parla poco. Durante la Conferenza non ha parlato mai. Come sapesse ma non potesse dire. Non vuole che si sappia, ma da anni il mondo della medicina le è ostile, a parte quei medici che hanno beneficiato delle sue cure. E cito il Dott. Mariani, chirurgo di Tarquinia, perché ha avuto il coraggio di dichiararlo in pubblico. Da anni Simona Cola chiede di essere analizzata perché si trovino le risposte. Se ognuno di noi possedesse in latenza queste capacità, perché non saperne di più per imparare ad usarle per autoguarirsi? Oppure, se ciò non risultasse possibile, perché non cercare di scoprire se le facoltà della Dott.ssa Cola siano causate da meccanismi fisici, chimici, elettrici o spirituali? Perché le sue mani guariscono? 

Ma nessuno, sembra, vuole sapere. Ed ecco il silenzio-stampa che titola il mio articolo. Alla Conferenza, come ho già detto, erano presenti le telecamere della RAI e i giornalisti dell’ANSA. È passata una settimana ed il silenzio è sceso come un avvoltoio su questa verità. Neppure due righe in ultima pagina, neppure la voce di un giornale di provincia. 

Che cosa c’è dietro questo silenzio? L’interesse dei rattoppatori di carne umana? La paura della verità? L’orgoglio del proprio sapere? La sfiducia nella mano che Dio tende sempre agli uomini, in un modo o nell’altro? 

I fautori del silenzio sono pregati di rivolgersi esclusivamente alla medicina ufficiale in caso di bisogno. Di non venirsi a curare con gli occhiali neri e un falso nome. Tarquinia grida, qualcuno ha risposto, ma ora il silenzio è calato di nuovo sulla necropoli etrusca, sulla verità, sulle mani di Simona Cola che continuano a: lavorare e a guarire. 

Credo che la medicina ufficiale non possa più sottrarsi e che debba affrontare anche questo problema. Se questo non accadesse, se tutti continuassero a tacere, non si scandalizzi più quel giornalista che senta citare la parola “miracolo”. Cos’altro resta all’uomo, se non la speranza che la Provvidenza invii ancora sulla terra dei nuovi apostoli che sappiano lenire i nostri mali fisici e spirituali? Altrimenti per noi non c’è speranza. Non c’è speranza di allontanare da noi la “vecchia con le forbici”, perché tagli quanti fili? – magari a vent’anni? Siamo tutti qui, lungo la strada che inevitabilmente conduce a Thanatos, con la sola possibilità di soffrire, per gli interessi di quegli uomini che hanno sputato sul “giuramento di Ippocrate”. In un mondo nel quale, ancora, Dio parla, ma non viene ascoltato. E tutto diventa Silenzio. Un silenzio di morte. 

Diana Garlant 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 11-15




 L’espressione e l’abitante 

La riscrittura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ad opera di Stefano Rodotà [L’Espresso, 1989, n. 4, supplemento “I diritti del Duemila”], si colloca nel massimo interesse fra le innumerevoli iniziative che celebrano il bicentenario. 

Duecento anni d’involuzione politica – e di regresso dentro la tecnologia – sono troppi, per non lasciare profonde rughe nel sorriso della Rivoluzione Francese. 

Bonapartismo, rinfocolamenti monarchici, disuguaglianze borghesi, fascismo, superomismo più o meno tragico (e più o meno consapevole), devianze dagli scopi della dichiarazione d’indipendenza americana ponendo una dottrina di tipo imperialistico, travisamenti della Rivoluzione d’Ottobre alla ricerca di quanti possano diventare “più uguali” degli altri, sembrerebbero avere svanito i sogni di Marianne in ogni direzione. 

Tuttavia, per fare un solo esempio, la carta costituzionale della Repubblica italiana direttamente ha linfa dalla Dichiarazione del 1789: a volte, usando parole di senso uguale a quello francese. 

Si capisce. Anche i decenni trascorsi dalla Costituzione italiana sono troppi; dunque sorgono esigenze nuove, da più acute riflessioni, mentre alcune regole sembrano decadere. 

Rodotà avvisa, ragionevolmente, che il “depotenziamento dei diritti” può anche essere determinato dalla proliferazione; sicché appare consigliabile incentivare concreti istituti di libertà, piuttosto che darsi alla proclamazione di altri diritti. 

Forse, il concetto può essere precisato in questo modo: nessuna dichiarazione di libertà assume reale valore se non viene messa in pratica; invece che estendere l’area dei diritti, a ciascuno dei quali peraltro corrisponde un dovere, bisogna approfondire la nozione dei diritti già dichiarati. 

Questo andare alle radici è, comunque, un buon metodo. Assai spesso, le devianze insorgono perché si è smarrito il senso delle origini. 

E quello che vale per la Dichiarazione [1789] ugualmente ha valore riguardo alla carta costituzionale, poiché essa si forma come una sorta di regolamento dei principi primari. 

Innanzitutto, guardiamo le nuove proposte di Rodotà: diritto “ad un patrimonio genetico non manipolato”; divieto di “ogni raccolta di informazioni che possa essere usata a fini” discriminanti: conoscenza delle “fonti di finanziamento di tutti i mezzi d’informazione”; lavoro “minimo garantito”: diritto “al riposo e alla sicurezza sociale”; partecipazione di tutti “alle decisioni che riguardano la pace e la guerra, la sopravvivenza di specie, ambienti e culture, la conservazione dei beni che costituiscono il patrimonio comune dell’umanità”. Ancora: possibilità che tutti agiscano “per l’attuazione del diritto all’ambiente e il pieno godimento dei beni collettivi”; diritto “di asilo nel caso di persecuzione”; diritto di tutti ad agire in giudizio per la tutela “degli interessi di rilevanza collettiva”: obbligo di pronunzia giudiziaria “in tempi ragionevoli”, e di motivazione degli atti che limitano la libertà personale: assenza di presunzioni, circa la responsabilità penale e la cosiddetta pericolosità: diritto di ognuno a “controllare l’uso delle risorse pubbliche”: pubblicità delle posizioni contributive; obbligo della “solidarietà politica, economica e sociale”: non sono ammesse “la pena di morte e la pena dell’ergastolo”. 

A chiusura, e in limpido ricalco della Dichiarazione 1789, “Tutti hanno diritto di cercare la felicità”. In buona sostanza, la riscrittura dà conto del vivo dibattito svolto negli ultimi anni. Ma l’attenzione si appunta sull’art. 11. 

Garantire “ogni forma di espressione artistica” sembra limitativo. Facciamo esempio dal caso dei Versetti satanici (o Versi satanici, come qualcuno traduce), sperabilmente ormai decaduto: pure se il Comitato internazionale per la difesa di Salman Rushdie, c/o Box 19 London SEI ILX, sembra tuttora – in modo anglosassone – battere cassa. 

Gli integralisti islamici hanno decretato che quel libro non appartiene a nessuno genere d’arte; hanno pure stabilito ch’è soltanto un testo blasfemo, sicché l’autore va senz’altro ucciso. Sicuramente ognuno (compresi gli integralisti di ciascuna religione) è legittimato ad avere, e trasmettere, opinioni sui lavori d’arte: questo campo – e così le considerazioni di carattere storico, o filosofico – non è una riserva di caccia, giacché non vi è motivo per precluderlo. 

A parte la faccenda occorsa a Flaubert con Madame Bovary (e a tanti altri, in momenti cruciali nello sviluppo della narrativa), mettiamo i Versetti vengano giudicati da un tribunale che non sentenzia uccisioni; ma che si permette decidere se quel libro appartenga all’arte; e, non ritenendolo di genere artistico, emetta condanna dell’autore sia pure al pagamento di un penny. Rushdie, ogni altro, rimarrebbe in balìa del giudizio incompetente – e inconferente – ma per legge valido. 

Se ognuno è legittimato ad avere proprie opinioni sull’arte, non si può consentire che possano averne i giudici quando scrivono sentenze: le opinioni trasfuse in un atto esecutivo prevalgono – senza alcuna ragione – sul pensiero di altri, magari più esperti e di migliore finezza nel valutare le cose artistiche. Ed è già inammissibile che prevalgano sull’opinione dell’autore; comunque non si può ammettere che vengano sancite in sentenza, pure se l’autore non abbia opinione alcuna del proprio lavoro. 

Bisogna, dunque, dire ch’è garantita – semplicemente – ogni forma di espressione: nessuno potrà mai negare che un’espressione esista, qualunque possa esserne il senso. 

In qualche parte bisognerebbe, poi, inserire il diritto dell’abitante: cioè il divieto di discriminazione in riferimento alla nazionalità; di modo che chiunque si trovi ad abitare in altro Stato possa usare le leggi che regolano la vita dei cittadini, anche se non ha la cittadinanza di quello Stato: in quanto persona (essere umano). 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 11-13.




 Giustizia, Decentramento, Servizio 

Lo Stato risulta dall’organizzazione finalizzata a regolare i rapporti, nella natura e con le persone giuridiche. I principi dello Stato, cioè del vivere sociale, sono fissati nella costituzione. Essa si applica attraverso le leggi; che si eseguono tramite i regolamenti. Il diritto è l’insieme di tutte le norme. 

Se ad alcune di esse si vuole dare unitariamente un senso, le si raggruppa in codici. In ogni caso, il senso primario risiede nell’intenzione recata dalla carta costituzionale. Stato di diritto è quello che abbia regole certe (inequivocabili, tali da non potere restare ignote, di assicurata eseguibilità). 

Nel linguaggio corrente, ch’è obbligatorio osservare vengono denominati – con locuzione sintetizzante – legge. Si vedeva nelle aule di giustizia (in qualcuna si vede ancora) la scritta La legge è uguale per tutti; per vari motivi – compresa la brevità, favorita dalle persistenti diseguaglianze – quella scritta è spesso raggrumata nella sue parole d’inizio: La legge. 

Come spiega Bourdeau, (nelle società democratiche) “La legge è la ragione umana resa manifesta dalla volontà generale, nella quale essa s’incarna, ed espressa dai rappresentanti del popoloK (Arch. phil. et soc. jur.,1939,12 ss.). Questa definizione d’impianto illuministico, comunque la si giri, indica l’elemento essenziale: la legge sia ragionevole; e il modo dell’espressione in legge: traduzione della volontà collettiva. L’irrogazione è prerogativa dei giudici. Affinché sia loro garantita la necessaria indipendenza, i giudici sono costituiti in un organismo autonoma: la magistratura. Chi giudica è magistrato, in quanto istituzionalmente sottoposto a una maggiore responsabilità – quella del giudicare – rispetto agli altri cittadini. 

Ancora più assillante la funzione degli avvocati, ai quali non è concesso di sostenere qualsiasi tesi (mistificare i fatti , o fraintendere il diritto) ma è dato almeno l’obbligo di vagliare le circostanze, imprimervi le norme del diritto, trovare i nessi giuridici, condurre il tutto dal cittadino al giudice; poi, dal giudice al cittadino. 

Montesquieu avverte che “le leggi non devono implicare sottigliezze: sono fatte per gente di mediocre intelletto” (Esprit. des lois, XXXIX, 16); le leggi, dunque, siano comprensibili da tutti. L’uguaglianza reclama la chiarezza. 

Fuori dall’uguaglianza vi è l’arbitrio. Il contrario di esso, il diritto, è invece la trama su cui pullula il vivere civile: che tende a un sempre più ampio sviluppo della libertà, nell’uguaglianza, per dare inveramento – realizzazione meglio compiuta – alle persone e alla collettività stessa. 

A un più esteso grado di civilizzazione corrisponde un adeguato decrescere del potere, il quale sgorga dal principio di autorità; questa si esplica in ciascuna delle sue fom1e: istituzionale (governo,ecc.), oppure di fatto (potentati economici). 

La funzione del principio di autorità si accresce mutandone l’impulso in dovere di rendere servizio. In questo modo, si raggiunge un concetto di fondata democrazia -e di verità costituzionale – con l’effetto, anche, di annullare le qualità negative (perché impositive) del potere: rinsaldando quelle di consenso, che derivano appunto dall’esecuzione del servizio. 

Fra le caratteristiche meglio preziose della democrazia – nell’attuale storia postrivoluzionaria- è il presupposto secondo cui nelle leggi, tutto è già scritto. Ne segue che l’interpretazione si evolve tenendosi in aderenza ai tempi. Se interpretare non basti, le leggi (e la stessa costituzione) vengono modificate riscrivendo le frasi che non siano ancora in evidente sintonia con lo sviluppo, nell’epoca ch’esse devono reggere. 

Dal 1865, in Italia, per migliore chiarezza -e nell’intento di eversione del potere per adeguarlo alle aspettative allora presenti – l’organizzazione della giustizia è stata suddivisa non solo riconoscendo il naturale divario della giurisdizione civile da quella penale; ma sezionando quella civile in giustizia ordinaria (giurisdizione civile ‘propriamente detta’), amministrativa, di contabilità pubblica, tributaria. 

L’esigenza di fondo aveva creato una baruffa – per così dire – fra gli angeli: in quanto aveva indotto a separare i ‘diritti soggettivi perfetti’ ch’erano decaduti al cospetto della pubblica amministrazione, fulgente nei poteri del principio d’autorità, da quegli altri che rimanevano (tuttora rimangono) ben fermi perché non vengono a contatto con quei poteri. 

Lateralmente, vi era anche l’esigenza delle specializzazioni. Dunque, da una costola della giustizia amministrativa è stata presa la corte dei conti; tirando un’altra costola, si è formata la giustizia tributaria. 

Tutto questo sarebbe quasi accettabile se le giurisdizioni stessero vicine agli utenti (invece sono variamente accentrate), e se tutte dessero uguale accoglienza. Al contrario, quanto alla procedura, la gran madre giustizia civile ha le proprie regole; la figlia – amministrativa – un po’ ne prende da mamma e altre ne ha per conto suo; le nipoti (o cugine della figlia, non si è capito bene il rapporto abbiatico) ancora di più affievoliscono gli effetti dell’origine. 

Resta, intanto, ineludibile che la giustizia – e il diritto – deve offrire certezza: non sfugga, non si travesta, s’è pietra non si trasformi in acqua; ognuno, dunque, sia in grado di prenderla. 

La certezza del diritto consiste nella stabilità delle decisioni (per quanto possibile, le sentenze non si contraddicano) e nella limpidezza dello stile, ma innanzitutto nelle regole del procedimento: tali da mantenere i contendenti su un piano di parità. Le norme di procedura sono la vera sostanza del diritto chiesto in giudizio; questa proposizione non ha nulla d’iperbolico: infatti, senza il modo (di procedere) il diritto reclamato resterebbe una vescica inerte. 

Ma non vi è soltanto di unificare le procedure. Nel trascorrere del tempo, gli ‘interessi legittimi’ più o meno ‘occasionalmente protetti’) hanno riacquistato la forza – dalla quale erano decaduti – di diritti soggettivi: man mano che il potere ha perso essenza (distaccandosi dall’origine divina, poi regia, del principio d’autorità), e si è messa in procinto di farsi rendimento di servizio. 

Peraltro, in ogni caso, la pubblica amministrazione – anche quella che si articola nel ramo fiscale e negli organi del controllo contabile – è già diretta controparte del privato. Se lo è, la sua condizione processuale dev’essere assolutamente paritaria a quella del cittadino. Questo precetto rimane valido se vengono in contrasto enti pubblici, non anche persone fisiche. 

Vi è, dunque, da unificare gli organi giudicanti. S’è vero che, nella società civile, l’attività giudiziaria è sevizio primario -tanto meglio se, come adesso, la si chiama ‘azienda giustizia’- le sue ‘agenzie’ devono essere quanto più diffuse, tanto più facilmente accessibili. Non si offende nessuno facendo, a proposito della giurisdizione, un esempio di tipo sanitario (non di aziende sanitarie, ché quelle sono iscritte nell’orbita di un tipo di mafia probabilmente a parte rispetto alla mafia consueta) ma un esempio con le farmacie. 

Per prudenza, si è stabilito che si abbia una farmacia per ogni municipio; e, superandosi un certo numero di abitanti, si disponga di una fannacia per ogni detenninata quantità di persone. Si capisce, allora, ch’è giusto – in zone particolannente sofferenti, è del tutto indispensabile assegnare un giudice per ogni dato numero di abitanti. 

In teoria è già previsto; ma in una concezione accentratrice di preture, tribunali, corti, commissioni. Nell’animo costituzionale del decentramento, e nell’indicata necessità di unificare le giurisdizioni, in ogni luogo urbano dovrebbe esservi una pretura (competente per ogni processo civile di primo grado, qualunque ne sia il valore monetario) cui siano addetti giudici istruiti in diritto amministrativo, tributario, ecc. L’appello, rispetto ai pretori civili, resterebbe al tribunale. 

Svanirebbero le ansie campanilistiche. L’espressione ‘giustizia distributiva’ perderebbe ironia. Cercare giustizia non sarebbe – così l’icastico verso di Lorenzo Stecchetti – giocare al lotto. Ma andare dal giudice come recarsi al pronto soccorso, od entrare in farmacia. 

In ciascuna mansione, aumenterebbero i posti di lavoro. L’impatto ambientale sarebbe di estrema gradevolezza: ognuno troverebbe subito il proprio giudice naturale, come la costituzione pretende. Ma non se ne può fare nulla, perché è troppo facile. 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 9-12.




 Ester e San Calò 

di Antonino Cremona* 

Una premessa, su quel molto che oggi importa di Giuseppe Pitré. Non solo l’iniziatore degli studi folkloristici in Italia, ed il maestro cui gli esperti di questa e di affini materie usano costante riferimento. Non solo ebbe la capacità – intellettuale e fisica – di creare il corpus delle tradizioni popolari siciliane. 

La sua vita (fra l’iniziale propensione letteraria e l’arte medica e la diversa attivitàdi studi folklorici) intrama l’ansia di lavorare nell’ombra, per non perdere i clienti – cioè i mezzi di vita e le fonti economiche della ricerca folklorica – sovrapponendo l’identitàdel medico a quella dello studioso. Ancora oggi, chi ha un secondo mestiere è costretto a nascondere quanto possibile (per uguale necessità l’occupazione primaria: per non essere preso per filosofo, uguale a pazzo. E la serrata insistenza, nel proporre all’ambiente scientifico accademico ufficiale la piena dignità del folklore quale studio appartenente alla storiografia. 

L’assidua formulazione del Pitrè in tale senso, è anzi un insegnamento fondamentale. Se non gli altri, che pure ebbe, a lui va il merito di avere costantemente considerato la storia come sintesi ultima e immanente di ogni attività umana. Certo, era un pioniere; oggi maggiormente esposto a critiche profonde, e a correzioni talvolta sostanziali, per effetto del progresso filologico. Proprio dal lungo elenco di annotazioni, contestazioni (e rilievi) che Giuseppe Bonomo gli mosse [“Giuseppe Pitrè e la poesia popolare siciliana”, fra gli altri nel volume Pitrè e Salomone Marino contenente gli atti del convegno per il 50° anniversario della morte dei due studiosi, ed ivi anche Alberto Mario Cirese con il saggio su “Giuseppe Pitrè tra storia locale e antropologia”] in sede di ripensamento nella prospettiva storica – non senza l’ineliminabile devozione – emerge notevolmente la sua personalità tanti soccorsi correttivi gli si apportano, perché immenso è il suo contributo alla formazione della scienza folklorica. 

Non ultima (in questa travagliante attività la mostra etnografica siciliana, quando ritenne di lavorare in pubblico, per l’esposizione nazionale che si svolse a Palermo nel 1891-92; il catalogo – nell’edizione anastatica – reca un’amorosissima e stimolante introduzione di Antonino Uccello, poeta siciliano più che di ogni altro studioso rivisse ansie e vicissitudini di cui Giuseppe Pitrè dovette intessere la propria opera. L’avere potuto impiantare una tale mostra era, per quei tempi, affermazione massima della presenza dell’etnografia nei confronti della letteratura e della scienza ufficiale: quantunque oggi si sia, giustamente, disancorati da imbalsamazioni museologiche (ma solo nelle idee, non sempre negli allestimenti). 

Però sollecitazioni in questo senso, per quanto indirette, provengono dallo stesso Pitrè; come è chiaro da un libro di piacevole lettura che Bonomo ha composto insieme a lui, a distanza di decenni, Che cos’è il folklore: metodologicamente organizzato in introduzione, prelezione – è il testo del Pitrè, inaugurandosi il corso di demopsicologia nell’universitàdi Palermo (il primo, in Italia) -, commento, note all’introduzione e al commento; insieme, un aggiornamento bibliografico. Un libro ancora oggi utile alla meditazione sulle origini del folklore, e sui compiti attuali degli studi folklorici. Che non sono soltanto quelli del raccogliere, ma – più che mai adesso – dello spiegare. In proposito, Bonomo (il quale, anche stavolta, padroneggia con agile garbo la vasta materia) tiene insoluto un problema che non si può sciogliere, forse, nel giro di pochi anni: il continuo impoverimento dei canti popolari, già evidente a Benedetto Croce e già lamentato dal Pitrè infine il disuso. 

Estraneo a tali studi, non potrò certo risolvere il quesito. Probabilmente, i canti sono stati via via elisi dall’espandersi delle comunicazioni. In origine erano creati da anonimi, quasi in conversazione – quelli dei berberi tuareg ancora oggi – o in gare di rime; altri, di origine colta, venivano trasformati dal popolo che trovava in essi qualcosa di congeniale. Ma il ‘canto popolare’ è uno sfogo popolare. Quando si comunicano nuovi mezzi di sfogo (per esempio le organizzazioni sindacali, e questo non può valere astio ai sindacati), cominciano a perdere la propria funzione. Un caso è quello dei canti di protesta che, in certo senso, abbiamo visto riaffiorare – nel 1967, durante la marcia primaverile per la valle del Belice – con la musica di Tedo Madonia e le parole di Ignazio Buttitta: “La Sicilia cammina”. 

L’industria musicale (con i teatri, i dischi, la radio, ecc.) introduce, infatti, gusti e suggestioni nuovi. Il canto rinasce – miracolosamente, con il miracolo della poesia – quando si perde tutto (era in questa situazione la valle del Belice, già prima del terremoto, come tutti sappiamo) e il popolo si ritrova solo, in confidenza soltanto con se stesso. È il caso della guerra partigiana, dei lunghi giorni e delle notti insonni in montagna, e il fenomeno si ripete: creazioni spontanee, spontanee modificazioni di opere colte; in Italia, in Francia, dovunque vi sia lotta armata. 

A proposito dei canti popolari – nel folklore di oggi – si dovrà spiegarci, dunque, le ragioni e i modi del deperire e del riaffiorare delle composizioni: oltre che raccogliere le recenti e le nuove, popolareggianti, non del tutto popolari. Ma il folklore, diceva Pitrè si occupa anche della moda. E i canti popolareggianti, come le storpie e le buone canzonette che dai transistors e dai televisori si riversano nelle città e nelle campagne, anche per questa via rientrano nell’amplissimo cerchio di attivitàdella ricerca folklorica. 

Ho rammentato questi argomenti per aiutarmi a chiarire come il folklore sia diverso dalle tradizioni popolari: esse sono una sorta di cronaca (ancora, dunque, non è storia); ma, intanto, subiscano uguali azioni erosive. Più profonde nelle tradizioni popolari, in quanto storia; meglio: folklore, vorrei dire, storicizzatosi. 

Possiamo prendere due esempi. Quello delle ‘permanenze’ ebraiche in Girgenti, e quello – in qualche modo connesso – della festa di san Calogero. 

In Sicilia, per secoli, sin dall’occupazione romana della Palestina vi furono colonie di profughi; nella mite Girgenti gli ebrei convivevani pacificamente con gli arabi, con i cristiani. 

Cominciarono ad andare sottoposti alle restrizioni politiche e fiscali, applicate con vessatorio raziocinio dai dominanti, quantunque in Girgenti il quartiere ebraico (estesissimo) non fosse ancora un vero e proprio ghetto; nel quale, anzi medici famosi e savi mercanti lavoravano a favore della comunità locale sino al punto di mantenere una “università” – mediterranea – non discriminatoria. 

Poiché si trattava di casta non completamente chiusa, qualcosa dell’animo ebraico si trasmetteva agli altri abitanti. Come è naturale, dopo la cacciata (definitiva, e abbastanza crudele) degli ebrei dalla Sicilia, nella città di Girgenti rimase fama dei sapienti e dei grandi rabbini; persino il culto di Ester, non santa ma Ester moglie di re Assuero e nipote di Mordecai. 

Ancora oggi, qualcuno di noi dà il nome di Ester alle proprie figlie. Non è solo un gesto di fraterna egualità verso il popolo ebraico, quando non offende gli altri palestinesi; è pure, un modo spontaneo di restare nella tradizione. Dopo più di quattro secoli dalla scomparsa del quartiere giudeo, la chiesa di santa Marta e quella di san Francesco d’Assisi – sino agli infelici restauri postbellici – erano affrescate con la storia di Ester (che culmina con il purim, unica ricorrenza festosa delle popolazioni ebraiche). 

La letteratura sulle prime due domeniche di luglio, in Girgenti, è scarsa. Ma da essa, non più tanto dai ricordi, si può cogliere la ricchezza della festa di san Calogero: differente da quella che si celebra nell’Agrigento odierna. 

La chiesa del santo fu costruita fuori le mura, nel 1200. Dell’antica architettura resta una finestra occidentale, oblunga a sesto acuto; e rimane la statua del santo che, secondo Agatocle Politi, è arte gotica del XV secolo. La chiesa fu ingrandita e rifatta nel 1574 dal vescovo Giovanni Orosco de Leyva de Covarruvias, poi dal vicario capitolare Giacomo Sanfilippo; tuttora conserverebbe un’aria raccolta da chiesetta di campagna, se immancabili restauri non ne avessero rivestito l’esterno con marmi da bar. Le bolle di quei prelati sono i primi documenti sul culto reso a san Calogero. Fu costituita, allora, una confraternita di soli popolani: saio bianco, cordone nero a cinta, cappuccio nero; ai nobili era vietato farne parte. La borghesia non esisteva. 

Secondo la tradizione popolare, il santo è nero perché viene da Costantinopoli; o, genericamente, dall’Africa: riassumendo nell’Africa l’Asia Minore. Ha barba bianca e il bastone, per veneranda età È un eremita: porta l’abito dei monaci basiliani, e gli sta accanto una cerva. È dotto: reca un libro. Medico: lo si vede dalla cassetta delle erbe; taumaturgo, anche in vita. Il nome – greco, letteralmente ‘bel vecchio’ – significa padre venerando, eremita. Il suo culto è antecedente a quello ecclesiastico, più volte contrastato anche in epoca a noi vicina. 

Il santo è adorato pure a Naro, a Canicattì porto Empedocle, a Sciacca, Salemi, Corleone, Palermo, Termini Imerese, San Filippo di Fragalà o come ora si chiama, Agnone in Sicilia (altro nome disperso), Lipari, Racalmuto; ma si tratta di diversi santi, onorati sotto lo stesso nome. 

E, chi sa come, San Calogero è una collina di vigne in provincia di Cuneo: a Govone; richiesto di notizie meglio precise, il sindaco spiega il 29 novembre 1976: «dopo aver provveduto ad effettuare apposite informazioni presso Parroco, insegnanti, ecc. che nel territorio di questo Comune esiste un pilone intestato a “San Calogero”. / La località ove è situato detto pilone viene denominata San Calogero. / Il pilone si trova fuori dal centro abitato in aperta campagna ed a distanza di circa 1500 metri esiste un cascinale che viene denominato “Cascina di San Calogero”. / Il piccolo pilone risale a data remota. / Il Parroco ha riferito, per averlo sentito dire, che il Santo durante la sua vita passò da Govone come pure dimorò nella città di Asti distante da Govone circa Km. 18». Si sa che i nostri berberi erano giunti in Liguria e in Piemonte, non pareva che li avessero seguiti i monaci ortodossi. Ma, ad Albenga, suore clarisse hanno il ‘Monastero di San Calogero’. Questa circostanza rafforza il convincimento che davvero i calogeri affiorino, come una germinazione sostitutiva però analoga, nei luoghi in cui siano stati dei marabut. 

Secondo la tradizione, i calogeri erano sette fratelli che occupavano altrettanti sedi diverse; fratelli di sangue, o di congregazione; e sette, nella Càala, è numero infinito. Le grotte del santo girgentano erano probabilmente situate nell spiazzo antistante la chiesa, nella parete rocciosa ora occupata da un palazzotto; è più probabile che il santuario sia stato costruito proprio dov’era la grotta principale, poiché esso sta sopra un groviglio di vani incavati nella roccia. Questi potevano costituire un eremo arcaico; cui si sovrappose l’eremo medievale, formato con l’edificio a oriente della chiesa da tempo usata come abitazione. 

Nella circostanziata tesi del sacerdote Salvatore La Rocca, storico eccellente ed ignoto, si tratterebbe di un culto bizantino dedicato a monaci basiliani guaritori. Un culto simile a quello dei marabut, dei santoni arabi – anche quelli, medici dell’anima e del corpo – venerati e amati in vita, e in morte, nei loro paesi tuttora. Non è probabile, ritengo, si sia definita con un solo nome (Calogero, come Marabut) l’attività di quanti si dedicavano a quel tipo di opere: i monaci basiliani guaritori abbiano risposto, dunque, alle aspettative della popolazione abituata ai marabut; e quindi si venera l’idea del monaco, del santone, e non di un particolare eremita. 

Questo fatto, insieme ad altri motivi, fa chiare le ragioni della resistenza – più volte acuminata – della chiesa latina a vedersi imporre, dal popolo, un santo che ha una consistenza spirituale sostanzialmente avversa a quello per cui la stessa chiesa latina ha lottato: qui, addirittura con le armi. Ciò vale, e sono questi gli altri motivi, almeno per i riflessi dell’epoca in cui la chiesa latina si trovava in lotta armata contro quella greca; e per la commistura, panica, di elementi derivati dai riti solari (arcaici ed ellenici) e dalle abitudini arabe che stanno tra l’utilitarismo e il misticismo. 

Rimangono della vecchia festa una tumultuosa processione, ricche offerte di doni; il molteplice rullo dei tamburi: la diana; la variopinta fiaccolata, il lancio dei pani sul santo durante la processione. San Calò è il protettore dell’agricoltura. Il suo mese è quello che va dalla prima domenica di giugno alla prima di luglio: il tempo della mietitura e della trebbia, durante le quali è invocato e pregato; la processione della prima domenica di luglio è ripetuta la seconda domenica, a “l’ottava”. A san Calò si fanno i “viaggi” a piedi scalzi; le offerte in denaro, in candele, forme di pane fine: a riproduzione di qualunque parte del corpo sia stata miracolata; ex voto dipinti su tavola, da qualche tempo fotomontaggi. 

Le preghiere non hanno formule fisse; sono spontanee ed entusiastiche. Il santo è amato dai contadini come un parente stretto, benefico, tenuto in casa. 

Il suono dei tamburi – qualcuno ha pensato riproducesse ritmi della prosodia greca – è un intero concerto dalle caratteristiche arabe, poco variato, che si conduce dal venerdi sino alla definitiva chiusura della festa. La mattina della prima domenica (“San Calò dei forestieri”) inizia con le grida. Si porta il frumento, alla chiesa, con la mula “parata”; tutta la mula è adorna di nappe, sonagli e nastri, riluce di specchietti, e le bisacce sono coperte con gualdrappe di seta dai vivaci colori villerecci. Seguono i carretti, anch’essi parati. 

Finita la messa solenne, i contadini si lanciano sull’altare, e calano giù il santo – che aspetta appoggiato al bastone, libro in mano e la cassetta delle erbe medicinali che gli pende dal polso – quieto nella grande serenità dei suoi occhi e della barba fluente. Resta il fervore contadino, diminuito nell’estensione man mano che la classe contadina si assottigli. 

Quando il simulacro compare nello spiazzo, la folla esplode in acclamazioni; e il santo è baciato, lisciato coi fazzoletti che saranno imposti ai malati, implorato con pianti sinceri e con lamenti. Il male che più guarisce, poiché questo è il momento dei miracoli, è l’ernia dei bimbi. Senza sacerdoti (forse in collegamento col divieto a suo tempo opposto ai nobili di fare parte della confraternita) la processione avanza nella città con numerose fermate, ondeggiando, battendo la bara – nella foga – sui muri delle case, fra strepiti ed evviva, fra gli spari dei mortaretti e la musica, e la diana, sotto la pioggia dei pani e la gara della gente per accaparrarsene. 

Il lancio dei pani è da riconnettere alla raccolta di vettovaglie fatta dal Calogero, cioè dagli eremiti, durante una pestilenza: sicché il pane non veniva porto, ma lanciato. Poi il simulacro giunge all’Addolorata, nell’altra parte della città e vi rimane cinque ore guardato dalle donne e dai ragazzi. Gente prezzolata – e così all’ottava – lo riporterà nel suo eremo, e i portatori della mattina (i “devoti”) faranno da spettatori. Ma il santo rimane fra la sua gente e starà molto tempo, avanti e indietro sulla soglia, prima di tornare in chiesa; avvolto nel suo manto decorato con un gran numero di stelle di Davide, ripetuto simbolo – s’intende – della sapienza: nessun riferimento ai successivi Calòpugliesi, hasidici kalonymos. 

Senza dubbio, i monaci basiliani svolgono un’intensa attività in favore delle popolazioni locali; tanto da essere considerati tuttora, attraverso il Calogero, al di sopra di qualunque altra protezione e di qualsiasi altra entità da venerare. Molto, però dei riti si è perduto. Si facevano salire sulla bara i medici affinché sottoponessero alla pressione dell’ernia i bambini, cui un sacerdote imponeva la stola, sotto gli occhi del santo. A volte i bimbi, monachelli di san Calò, venivano spogliati in pubblico del saio che avevano indossato per devozione. 

Da tempo, e fortunatamente, sono scomparsi i “viaggi” con la lingua per terra (dalla soglia della chiesa sino all’altare) per ringraziamento. Si facevano ex voto d’argento o di cera, oltre quelli dipinti. Due giorni prima della domenica – il venerdi della cera – ragazzi portavano in testa canestri di candele ornati di foglie, preceduti dalla diana e seguiti da gente festosa. 

Per qualche tempo una vecchia barca, pavesata di festoni e di fiaccole, fu trascinata dai buoi avanti la chiesa e lì lasciata bruciare nel tripudio della folla: per simboleggiare un arrivo senza ritorno. La processione iniziava con il portatore della cerva accovacciata; spesso gridava l’annunzio: “Il santo delle grazie, devoti”, “Viva viva Sancalò”. Ma l’arte della diana va deperendo, poiché vi si dedicano gruppi sempre più sparuti (fatto che non sembra diverso da quello che riguarda i suonatori di tamburo di Casteltermini). 

Esiste, dunque, un problema di conservazione; che non può essere risolto, alla maniera romantica ottocentesca, in modo semplicemente iconografico: in una staticità museografica. La soluzione – peraltro non nuova – è quella di una conservazione dinamica, revivificante. Non certo nel senso di fingere, oggi, una tradizione estinta: mediante rappresentazioni da teatro gelido. Nel senso, invece, di uno studio accurato (demopsicologico, sociologico, storiografico) di queste tradizioni perdute. 

Una collezione – in costante arricchimento – di documenti, di pitture e di stampe; l’esegesi e il commento dei testi; l’insegnamento del tamburo e del modellamento delle figure del santo (in terracotta e in cartapesta): nella serie di istituti di specializzazione – anche postuniversitaria, a carattere mediterraneo – che potrebbero essere collocati nelle ville ottocentesche della valle dei templi (forse, meglio, nell’eventuale parco archeologico della valle dei templi). Intanto, alla festa calogerina, Sergio Campailla ha elevato un monumento: Il paradiso terrestre [ed. Rusconi], 1988, romanzo che potrebbe assumere il ruolo attribuito a I promessi sposi nel secolo scorso. 

Antonino Cremona

* Nel giugno 1992 Antonino Cremona ci inviava un plico contenente parecchi inediti, e scriveva: «Forse ho dato fondo agli inediti. Vedano, un po’, Loro. Mi avverta circa quanto non sarà pubblicato». 
Una breve lettera, quasi un saluto di commiato, presagendo la sua scomparsa che sarebbe avvenuta nel 2004. Così noi continuiamo a 
pubblicare quegli scritti, ricordando lo scrittore che fu anche un validissimo poeta e ripromettendoci di leggerlo e dedicargli successivamente qualche nostro scritto. 
Intanto, finora, di lui “Spiragli” ha pubblicato: 

•Giustizia e decentramento 
•L’espressione e l’abitante 
•Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 
•Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel». 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 41-46.




Il mistero dell’ultima guglia 

La nostra società si sta rendendo conto come l’espressione del pensiero sia esso stesso il miracolo Spazio-Tempo nella sua accezione scientifica. Di fronte all’infinito del mondo, oggi gli scienziati sono anche filosofi e solo nella fede ravvisano la catarsi dell’inquietudine: l’umanesimo del Duemila sarà la continua convergenza tra scienza e filosofia. 

Michele Federico Sciacca in Atto ed Essere sviluppò una ricerca con una ricca speculazione impegnata a testimoniare le possibilità della ragione in un orizzonte di fede, con un ritorno all’interiorizzazione che trascenda i valori e riconduca l’uomo al rispetto di sé. per sé e per gli altri. Einstein ha avuto un atteggiamento di reverenza verso la Natura, di cui si sono svelate solo alcune cose, ma non il mistero che l’avvolge. 

Oggi ogni scienziato sa bene che l’ultima guglia sarà sempre avvolta nella nuvola dell’insondabile: al mistero ci riconduce la fede per non esserne schiacciati. Battista Mondin afferma che solo un umanesimo così intenso potrà contrapporsi ai feroci tradimenti perpetrati contro l’uomo. Con l’abolizione dei riferimenti tra cielo e terra, tra materia e spirito, si è instaurata l’infelicità umana con tutte le reazioni di violenza e di degradazione come sistema di vita. eludendo le aspettative iniziali. Ci conforta solo la saggezza di Confucio che per primo intuì la verità della massima evangelica – non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te – che è poi il modo pratico per combattere il male sulla terra. Il progetto è nella meditazione, nella parola che parli alla luce dello spirito, nella decifrazione del mistero vita-energia, morte-energia, energia-cosmo. L’universo irradiato da radiazioni fotoniche si offre oggi come atto finale della ricerca verso un cammino verticale per approdare ad un atteggiamento pensoso per la salvezza. 

Il libro della psicologa americana ShenyThurkle, Il secondo Io, sottotitolato: Il computer e l’uomo: convivere capirsi amarsi. è un programma d’amore che lascia perplessi in quanto scaturisce da quella che sembrava una ricerca positivistica del tutto materialista alla quale era conformata la mentalità della gente, e ci pone una domanda inquietante: il computer sta cambiando il cervello dell’uomo? La scienza, evidenziando la nostra dimensione dualistica, corpo-mente, materia e spirito, fusi in un unico circuito di energia, ci farà assistere al miracolo di un cambiamento radicale che salverà tutti dalle secche unidirezionali? 

Al centro dell’attenzione e dell’elaborazione si fa strada il pensiero psicologico superando la linea di demarcazione sin qui perseguita, per cui bisogna arguire che se la macchina intelligente non può amare né odiare, per accedere ad una differenziazione gratificante (dato il suo deserto interiore che lo accomuna ad un robot) l’uomo si deve riappropriare di tutto il suo bagaglio emozionale, del suo essere uomo, identificandosi con l’alter ego misconosciuto. Per questa profonda esigenza va ripigliando fiato il respiro degli uomini giusti. La ragione rinasce sperimentale nella rifondazione di un umanesimo consono ai tempi, ravvede la necessità di riguadagnare il tempo perduto, reintegra il linguaggio letterario e filosofico nel linguaggio scientifico per dissolvere con invenzione le scienze dell’uomo nelle scienze della natura. 

L’uomo nuovo oggi è chiamato a questa responsabilità: scendere e mordere la radice della vita in tutta la sua so1Terenza alla ricerca della creatività indagante negli orizzonti interiori per appropriarsi di ciò che è più antico tra le cose antiche. Se gli dei non ci sono più perché sopraggiungiamo troppo tardi e siamo soli (Heidegger), è ancora possibile il riconoscimento dell’io profondo invocato come evento di armonia nell’orizzonte disponibile all’ascolto. 

Il linguaggio dello scienziato diventa filosofia, e la filosofia poesia perché ormai il pensiero è l’acrobata senza rete che si esibisce negli spazi immensi da esplorare: dall’estremo arretramento delle origini fino all’ultimo atto che lo attende nel seno dell’unità, in un percorso convinto del senso del sacro con tutta l’umiltà di cui sarà capace.

Rosa Barbieri

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 5-6.




 Popolo e Cultura 

Il popolo è una comunità umana caratterizzata dalla volontà degli individui che la compongono di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico, e più propriamente, come dice Cicerone (Rep. 1, 25, 39), non è un qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riuniti, ma di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una comunanza d’interesse. Ciò premesso consegue che, allorquando proprio per mancanza di interesse il consenso a questo diritto viene a cessare, per diffidenza verso abili e inveterati approfittatori del bene comune, che operano per loro esclusivo tornaconto, ai cittadini defraudati dal loro Stato altro non resta che privarli del mandato, non rinnovando loro la propria fiducia e nulla concedendo per sostenerli in vita. 

E intanto si continua a governare male, senza seguire uno schema prestabilito. Nel contempo il popolo, in nome del quale il sommo Arpinate si appellava nelle sue ardenti requisitorie per rilevarne la sovranità, ha meno titolo che mai senza una guida che dia finalmente fiducia e lo sproni alla ricerca di quegli ideali propri degli uomini liberi. Siamo ancora a più di duemila anni fa, quando Plutarco, nelle sue Vite parallele, volendo denunciare certi comportamenti dei mortali, lamentava che molti uomini sono come le pecore: laddove si dirige una, tutte vi convergono le altre. Epperò i motivi di simili comportamenti sono sempre gli stessi, da ricercarsi nei problemi rimasti irrisolti per fini esclusivamente speculativi e per imperdonabile mania di dissacrare i miti al fine di indebolire le istituzioni di ogni civile progresso. 

Si è detto altrove che senza una famiglia e una scuola sana, senza una politica oculata, che non soggiaccia a favoritismi, senza una giustizia ben funzionante, qualsiasi nazione sarà travolta dallo squallore morale e materiale, indi dall’anarchia, fonte di sciacallaggio e di ogni scelleratezza, di ogni turpidine. 

È urgente rivisitare le fonti del passato culturale, riprodurre testi e studi accettati e tesaurizzati da milioni di uomini non certamente da meno di noi, se pensiamo che sulla credenza dell’infinità dei mondi e dell’affascinante concezione atomistica già parlava, con felice e sorprendente intuito di scienziato, Tito Lucrezio Caro. Occorre nutrirsi di opere concettose, dense di esperienza vitale, tirarle fuori del dimenticatoio della dissennatezza di noi moderni, chè, ammesso e non concesso che fossimo tutti concordi nel ritenere operetta l’Institutio oratoria di Quintiliano, non otterremmo niente di concreto. Nemmeno l’irriverenza di altri venti secoli di storia potrebbe minimamente offuscare la gloria del tarraconese. Ma noi siamo superiori, non stiamo a rispolverare le mummie del passato, viviamo di ben altro, noi, disponiamo di alta tecnologia, siamo arrivati sulla luna, approderemo su altri pianeti, che ce ne facciamo della scienza infusa di tempi remoti, oggi le cose sono cambiate, a distanza di millenni il nostro cervello si è sviluppato (in peius) e poi siamo presi dal flagello dell’AIDS, dall’amica droga, dai sequestri di persona, dalla lupara, dalla ‘ndrangheta, dai buchi neri cosmici e bancari, dagli ammanchi, dagli scandali di vaste proporzioni, dai febbrili connubi delle multinazionali sostenute da correnti collettivistiche con tendenze iugulatorie e di esasperante egoismo. 

D’accordo: si scelga pure il libertinaggio, ognuno è artefice della propria fortuna, con tutti i rischi e le conseguenze possibili e immaginabili, però non deve mettersi a disquisire, chè senza l’assimilazione di certe anticaglie si fa presto a farsi notare per leggerezza di contenuto speculativo e, di riflesso, per cortezza d’ingegno. È inutile provare a camminare se si hanno i piedi bruciati, a volare se le ali sono tarpate, a dare di penna se si è digiuni persino delle regole più elementari della grammatica. È vero che i soldi fanno parlare le bestie e che, per ibridi connubi politici ci sono delle eccezioni che culminano in un’infiorata di oltraggi alla nostra lingua, come quelli di una deputatessa con funzioni nel Dicastero degli esteri e, perché no?, di un ex direttore di un noto quotidiano romano, i quali facevano a gara a chi più commetteva errori, ma è un’eccezione, anche se ricorrente altrove, in personalità di cotanto senno! 

A voler essere obiettivi, ci sono varie cause che inducono a non sperare che gli Italiani siano in maggior parte determinati a scuotersi dal torpore in cui vivono. L’accentramento delle testate gionalistiche, l’informazione televisiva … Altro che pluralismo! L’Italia della televisione può essere paragonata ad un immenso stadio moderno dove però si svolgono antichi baccanali tra aneddoti e scipitaggini, approcci, lamenti e contorsioni di cantanti osannati sino al parossismo, anche se il più delle volte crocidano o ragliano – absit iniuria verbo. 

Questa miopia mentale, questa arroganza distruttiva di credere inarrestabile il processo di industrializzazione al servizio di un selvaggio progresso che non è più tale perché sta portandoci alla rovina. Lo Stato, bonificato, deve subito provvedere a bonificare. Diversamente non ci sarà niente da fare. 

Il progresso, il benessere seguono la cultura e non viceversa, per quanto attiene allo scopo di migliorarsi e raffinarsi, dacché non vi potrà essere progresso se non prima questo abbia progredito culturalmente, onde, secondo Kant: «La produzione di un essere ragionevole, della capacità di scegliere i propri fini (e quindi di essere libero) è la cultura. Perciò la cultura soltanto può essere l’ultimo fine che la natura ha ragione di porre al genere umano» (Crit. del Giud., 83). Ma non di una cultura ridotta a puro addestramento tecnico in un campo limitato di cognizioni professionali, altrimenti non è più cultura, dovendo questa occuparsi di tutti i gradi e le forme dell’educazione, sino a quella più specializzata, tralasciando nozioni vacue e superficiali che non arricchirebbero la personalità dell’individuo e la sua capacità di comunicare con gli altri. 

L’uomo colto ha lo spirito libero, aperto a comprendere idee e credenze altrui, egli è per una cultura formativa, volta al futuro e saldamente ancorata al passato, mettendone in evidenza luci e ombre, somiglianze e divergenze, ben guardandosi dal disprezzare le glorie dei nostri precedessori. Senza di loro oggi saremmo ancora all’età della pietra e non avremmo capacità di predire e formare progetti di vita a lunga scadenza. Ma cultura è soprattutto civiltà, e questa, come spiega Spengler, è il destino inevitabile di una cultura. Le civiltà sono gli stati estremi e più raffinati ai quali possa giungere una specie umana superiore. «Esse sono una fine: sono il divenuto che succede al divenire, la morte che succede alla vita, la cristallizzazione che succede all’evoluzione. Sono un termine irreversibile al quale si giunge per una necessità interna» (Untergang des Abendlandes, l pag. 147). 

Ora, dopo questa parentesi, dopo aver cercato di spiegare che colto è colui che ha lo spirito aperto e libero, che sa comprendere le idee e le credenze altrui, anche quando non può accettarle né riconoscerne la validità, dopo aver tentato di dare, per sommi capi, un’idea della connessione tra civiltà, cultura, conduzione della cosa pubblica, non resta che affidarci al buon senso dei nostri politici, i quali, tralasciando gli interessi di parte e quelli privati, devono far di tutto per espletare con correttezza il mandato che è stato loro accordato, tenendo conto del saggio consiglio di Democrito, secondo il quale «non si deve aver rispetto per gli altri uomini più che per se stessi né agir male quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo sappiano, ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare» (Fr., 264, Diels). 

Imperativo di alto significato morale, questo, ma ai nostri giorni, nell’imperversare delle lotte per opposti interessi, sembra utopistico obbedirvi, e ciò a causa della rottura delle due culture: quella tradizionale e quella moderna. Se non si è rispettosi neppure di se stessi, come si può esigere rispetto dagli altri, imbevuti di idee balzane, disorientati nell’aria cimiteriale di un subdolo progresso, in gran parte travaglio e dannazione del ventesimo secolo? Bisogna far di tutto per scuotere le coscienze sopite, è doveroso denunciare ibridi connubi tra multinazionali e gruppi di potere, compresa la mafia e il collettivismo librario, quasi che i frutti dell’uomo colto non abbiano altra irridente fortuna che quella di essere venduti deprezzati da impietosi opportunisti. 

È soprattutto, più specificatamente, una questione morale oltre che culturale in senso lato, chè la cultura senza la morale non può dare buoni risultati. Un qualsiasi uomo dotto, un qualsiasi scienziato, se non è mosso dall’assenso o dal rimprovero della propria coscienza, se disprezza la sacralità della vita del suo simile e non ha alcun terrore di attentarvi, i misfatti, le sovversioni, le congiure, le guerre, le stragi aumenteranno a dismisura, e la possibilità che l’uomo si sostituisca alla belva anche nel comportamento, un giorno diverrà realtà. In tal senso si è già fatto un gran passo avanti. 

Senza morale non c’è diritto, non c’è amore, non c’è prossimo, non c’è commiserazione né pietà. E allora siano pure chiuse le scuole, i tribunali, le chiese, tanto sono inutili. A che vale tenere in vita queste istituzioni? Forse che si è degni di vivere trascurando il culto della morale nelle scuole, e che senza giustizia dettata dal profondo della retta coscienza possa esservi uomo di legge? E che le chiese, da sole, possano convertire la canaglia del nostro secolo? 

Solo una giustizia libera e indipendente, imparziale e irreprensibile, potrà salvare la nostra democrazia dai morsi tenaci di tanti falsi amministratori che vogliono ridurci alla bancarotta. 

In una sua recente opera1 l’economista Umberto Villari fa rilevare che «la crescita e lo sviluppo della democrazia moderna saranno caratterizzati dall’abbandono dell’ambiguità nel cui senso spesso la politica viene ad agire nei confronti delle relazioni interne e degli altri Stati». E continua: «Nessuno deve potersi porre al di sopra delle stesse leggi. In primo luogo coloro che hanno ricevuto il mandato di fiducia dei cittadini elettori. Certo, se si vuole rinnovare la società occorre ristabilire il diritto. Bisogna risanare lo Stato e, quindi, in primo luogo, chi amministra le istituzioni dello Stato, la politica che emana dall’alto». 

Soltanto allora, quando tutte queste invocate e auspicate trasformazioni avverranno, l’umanità potrà dirsi finalmente al sicuro da una possibile catastrofe che l’imperscrutabile prodiga Natura, nella sua infinita creatività sta già ritorcendo a sua difesa contro di noi, per disfarsi, forse, di una stirpe che ha scelto la strada dell’autodistruzione, dopo che nella mente degli uomini si sono moltiplicati i germi della follia criminale. 

Donato Accodo 

1 U. Villari, L’economia. nella partitocrazia, Roma, E.I.L.E.S., 1989, pagg. 314-315. 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 11-15.




 Mala tempora currunt et peiora premunt 

A questa espressione ricorrevano gli antichi romani per esprimere difficoltà in tempi presenti, prevedendone in futuro altre peggiori, e cioè nella traduzione: corron cattivi tempi e peggiori incalzano. 

C’è in quel premunt il precipitare di eventi connessi all’ineluttabile e all’indeterminato, ma anche dovuti alla volontà degli uomini ed al loro comportamento nel prevenire e quindi evitare i mali, quando non inclini a darsi ferocemente battaglia per fini utilitaristici. per libidine di potere, il più delle volte con ostentazione di falsi ideali, spinti da risentimenti se non addirittura da vendetta e quindi da propositi criminali. 

C’è in quel detto una malsopportata arrendevolezza al ripetersi di eventi inevitabili, una sorta di rassegnazione per ciò che si teme che accada nell’ora fuggente, in cui tutto si compie col ritmo dei ricorrenti cataclismi nel ciclo dell’eterno divenire. Ma i nostri antenati, quei casci Latini sapevano reagire alle avversità, con fortezza d’animo e, all’occorrenza, con biblico furore: noi, invece, abbiamo perduto l’orgoglio, tralignando dalle loro virtù, e ci siamo lasciati andare per le tortuose strade del malcostume. 

Non è certamente motivo di consolazione il non voler rimediare ai conflitti che travagliano l’umanità, e se le cose non vanno come dovrebbero andare, la non mai morta speranza di poterle in qualche modo renderle accettabili nel migliore dei modi non dovrebbe farci desistere dalle buone azioni e dalla determinazione di opporci, con ogni mezzo, alle forze del male. 

Di queste, in casa nostra e in ogni angolo della terra, se vuol essere di conforto il detto “mal comune mezzo gaudio”, ce ne sono tante e così perniciose da far pensare che non ve ne siano altre peggiori, se non fosse che il peggio, si sa, non è mai morto né morirà, forse perché rientra nella logica di un disegno arcano riservato ai mortali che con i loro strani comportamenti interrompono vecchi equilibri di usi e costumi per ricominciare in seguito un nuovo ciclo che, almeno nelle speranze dei più, agli inizi dovrebbe essere diverso dal precedente. In effetti, però, sin da principio si ripete l’eterno copione di fatti e misfatti che si moltiplicano in un clima di squallida ipocrisia, all’insegna dell’irrazionale e dell’incomprensibile. 

Gli è che l’uomo è uno strano animale, tanto strano che non lo si è ancora potuto definire, sia pure per sommi capi, nei confini del suo complesso mondo di luci ed ombre, di forze oscure, generatore di vita e di morte col mutare le sue forme attraverso cataclismi e indefiniti periodi di stasi, un mondo a tutt’oggi pur esso altrettanto strano, insensibile alle lamentose disperazioni di chi vuole vivere una vita intensamente operosa. Sta di fatto, d’altro canto, ch’egli, se andasse sempre avanti per fede prima che per religione, agirebbe diversamente perché la sua secolare esperienza, accumulata per quanto si voglia con discutibili teoremi, non è sufficiente a dargli assoluta certezza nemmeno del movimento degli astri, se cioè si muovano in maniera uguale e la stessa velocità. Nulla è definito in questo nostro pianeta, nulla è certo nell’esperienza, tutto è mutabile quando meno ce l’aspettiamo nel periodo della nostra esistenza, forse equivalente neppure a un miliardesimo di secondo del tempo universale. Come ci si potrebbe fidare, quindi, dell’esperienza di ciò che accade all’uomo nello spazio infinitesimale di una frazione di tempo e dargli credibilità di esperienza, quasi se la fosse portata dietro da millenni? Solo la fede può sorreggerci, la fede che ci rende credibili e ci eleva a superare altezze, la fede che dentro di noi non è esclusivamente nostra, invisibile leva possente delle nostre azioni, dalle più umili alle più esaltanti. 

Ma la fede, questa potenza vitale e polivalente implica anche una coscienza di sé, una morale che ci guidi nell’incerto andare della vita, ci distingua nelle nostre azioni, anche se a volte ci è causa di tormento, specie nel dubbio di non aver fatto appieno il nostro dovere, o di esaltazione se riteniamo di averlo fatto bene. 

Da questo stato d’incertezza della nostra coscienza, da questo interrogarci nel profondo del nostro io consegue un disagio, un travaglio che condiziona la certezza della nostra dignità. Da questa lotta interiore, da questo anelito di ricerca della verità, da questa incessante aspirazione ad essere soprattutto noi stessi ha origine la moralità e l’umanità, i soli tesori che non hanno prezzo. 

Questi concetti di kantiana memoria ritornano negli scritti di F. Schiller, Grazia e Dignità (1973): la denominazione degli istinti mediante la forza morale è la libertà dello spirito e l’espressione della libertà dello spirito nel fenomeno si chiama dignitàl. 

Sono pensieri e valutazioni che nel mondo di noi moderni hanno un fondamento di non poca incertezza rafforzato dall’irrefrenabile libidine di velleitario protagonismo di uomini che con le loro vuote ideologie. manifeste o implicite. stravolgono il significato primario di questi principi basilari, dimostrandosi rovinosi per sé e per gli altri con l’imporre una conduzione dissennata della cosa pubblica, culminante nella negazione dei diritti e della morale. in barba alla scienza o all’arte del governare. con evidente trascuratezza dei comportamenti intersoggettivi in seno alla comunità. 

Sicché l’onestà che in teoria dovrebbe essere la suprema virtù della sana politica, in pratica finisce per irridere alla rettitudine e ai buoni propositi quando non più in grado di determinare la forma del migliore stato possibile. 

E difatti tutti parlano di doveri da e per ogni dove attraverso i mezzi di divulgazione, accampando diritti che uno Stato che si rispetti dovrebbe riconoscere sì a tutti, purché dietro comprova che ognuno possegga alto il concetto morale di obiettività nel giudicare il proprio e l’altrui operato. 

Invece l’ambizione, l’arrivismo, la spregiudicatezza, l’equilibrismo di intriganti faccendieri offuscano gradatamente il prestigio delle istituzioni senza che la parola “Stato” sia sostituita da nulla di più ragionevole, che potrebbe essere, ad esempio, il risultato di un’azione compiuta non tanto per rispetto della legge, quanto per richiamo spontaneo di una retta coscienza. Altrimenti, che dovere è quello che ci si sforza di addimostrare soltanto perché costretti da condizionamenti legali quasi sempre illegali e da contratti sociali? Laddove il dovere non è spontaneo ivi viene a mancare la nobiltà dell’azione stessa e quindi l’essenza altamente morale in essa implicita. Ne consegue che allorché la dottrina del dovere è collegata a quella di un ordine nazionale necessario, di norme o di leggi, tendente a dirimere il comportamento umano, ponendo la felicità a fondamento etico, ad incremento della vita individuale e collettiva, la nozione di dovere non trova più posto. E maggiormente se consideriamo che l’etica non è un insieme di immotivati desideri o di preferenze senza costrutto, bensì dignitosa coscienza primigenia che distingue – o almeno dovrebbe distinguere – l’uomo da tutti gli altri esseri e lo eleva a quelle altezze dello spirito cui egli incessantemente anela. 

Purtroppo, ai nostri giorni, si è stravolto anche il concetto di Stato che, come ordinamento giuridico dovrebbe avere limiti di azione, non potendo raggiungere particolari fini se non coi soli mezzi di cui dispone, col ricorso, cioè, alla tecnica della coercizione, pur di mantenere in vita un sistema di strutture frananti, anche quando nel limaccioso pelago della corruzione languono i cittadini alla deriva. Ma uno Stato che si prefigge una stabile governabilità con l’impiego della forza aumentata tempo per tempo con sempre nuovi e massicci arruolamenti che ne consolidino l’efficacia repressiva, è già in declino e potrebbe rivelarsi rovinoso e quindi funesto per la società. E c’è di più grave nel nostro mastodontico Paese, non costituisce garanzia d’imparzialità, se è vero che tra loro, della stessa famiglia, non si mordono, specie quando di essa fanno parte corrotti e avallanti dei corruttori. 

Nella storia repubblicana italiana, ad esempio, non è bastato più di mezzo secolo per far capire ai governanti di turno che l’ordine è basato sul rispetto reciproco derivante da una sana cultura che determina il buon andamento delle istituzioni, non già sulla forza di una imposizione perversa, generatrice di gravi lutti e tanto meno su una giustizia che, come nella maggior parte dei casi corrotta e corruttrice, è sempre causa di numerosi mali. 

Non si può parlare di giustizia in uno Stato che mentre da una parte promette imparzialità a tutti i cittadini, dall’altro difende l’autogoverno della Magistratura, conferendo ai magistrati uno strapotere che è fuori della più elementare logica di un governo che si rispetti. Altra regolamentazione dovrebbe avere il Consiglio Superiore della Magistratura, ben altro il suo ruolo nell’applicare o fare applicare la legge che sia emanazione della volontà del popolo sovrano. Uno solo il criterio nel sentenziare uguale per tutti: che anche i giudici siano sottoposti a giudizio collegiale di altrettanti giurati scelti tra cittadini di accertata onorabilità. Meglio ancora che i giudici vengano eletti direttamente dal popolo. 

Tutti i mali di una società – lo dicemmo altre volte dalle pagine di questa rivista – derivano da una democrazia malgovernata particolarmente nella scuola e nella famiglia, basilari istituzioni dell’apparato equilibratore di una politica illuminata, non condizionata da scelte programmatiche di proprio tornaconto. 

Finché si farà politica di mirati e perversi accomodamenti per ingannare il prossimo con spergiurate promesse mai mantenute, l’ansia di non subire più le indiscriminate vessazioni un giorno o l’altro spingerà le folle alla disobbedienza civile: l’arma più micidiale di cui si è a conoscenza ed alla quale si ricorre come ad estrema ragione, se è vero, come è altrettanto sacrosanto, che non è permesso ad alcuno di calpestare i diritti altrui. E finché riterremo indispensabili metodi del genere per risolvere i mali che ci affliggono, senza piuttosto lasciarci guidare dalla tenace volontà di sfatare l’ineluttabilità del male contrapposto al bene, quando è d’obbligo invece rilevarne a gran voce l’abissale differenza del loro significato per farci meglio capire, senza nulla nascondere, il subdolo comportamento di chi trama per proprio tornaconto, le cose dell’umano stato continueranno a peggiorare in quel ciclico alternarsi dell’eterno divenire di cui abbiamo scritto all’inizio, tra poche luci e ombre secolari riproponendo trascorsi nelle spire materialistiche dell’esasperato egoismo che un giorno, non si sa quando, ci spingerà prematuramente nel buio che mai più cederà alla luce. 

Sulla infinita strada dell’ignoto il cammino del progresso subirà allora interruzioni e vuoti di tempo spaventosi e la progenie degli uomini subirà contraccolpi e scompensi per disarmonie dell’ordine universale delle cose. 

Il mondo è in fermento, non sappiamo più che cosa vogliamo né dove andare 

perché abbiamo dimenticato la nostra origine, ci siamo lasciati adescare dal culto dell’effimero, sperperiamo miliardi per fini goderecci: per follia di sterile esibizionismo orgiastico a suon di musica· dopo esserci sfibrati al ritmo forsennato di motivi assordanti e, al colmo dell’indifferenza, nemmeno ci curiamo di aiutare chi muore sotto i nostri occhi, povero e alienato, abbandonato e solo nel grigiore di un gelido mattino, con sul petto il muso di un fido dagli occhi pensosi e pieni di malinconia! Questo è il nostro mondo. Questa è anche una cattiva parte della nostra Italia nel pantano della corruzione e nella farsa di un diritto grottesco. 

Siamo certi che i governi che contano sono quelli impersonati da autorità forgiate nella fucina dell’imparzialità e dell’onestà, capaci di imprimere carattere alla compagine che rappresentano e scongiurare interruzioni e, peggio ancora, disfacimenti. Sappiamo pure che questi governi sono possibili solo a condizione che i componenti siano determinati ad interrompere ogni legame, qualora ci fosse stato, coi loro predecessori implicati in malaffari e ad instaurare un clima di fiducia che affranchi i giusti dalle ingiustizie subite e diano prova di ricercare la strada del vero diritto uguale per tutti libero da vincoli di privilegio, quale l’odiata immunità parlamentare – tuttora prevista anche se condizionata, causa di scontento e motivo di provocazione alla dignità altrui. Compito arduo per realizzare tanto ardite conquiste, ce ne rendiamo conto, specialmente se consideriamo che la giustizia, intesa come severa e imparziale giudicatrice, non è mai esistita, ma almeno la si applichi il più approssimativamente possibile, nei limiti raggiungibili da una retta coscienza. E non ci sfugge nemmeno il pericolo di una giustizia troppo punitiva che escluderebbe persino indulgenze che fanno parte della morale cristiana quando il perdono deve subentrare alla vendetta e l’espiazione diventa balsamo nell’esacerbato cuore dei mortali. Ma se manca la voce della virtù primaria, quale appunto è la coscienza che durante la vita di ciascuno di noi si evolve, si rafforza e ci guida sulla strada dell’amore e della comprensione, non ci potrà essere giustizia né rispetto per i propri simili, né istituzioni volte al bene dei cittadini né iniziative di pace e di salutare progresso tra le nazioni; non ci saranno aneliti religiosi puri e tanto meno consultazioni dal cui esito si possa bene sperare. A noi moderni quel che manca è la luce che viene sempre dall’alto, mitigatrice degli umani affanni, fonte di vita serena e di divine armonie. 

Ma la coscienza non si sviluppa nei parlamenti o nelle fredde aule dei tribunali, va invece protetta sin dall’esordio della persona alla quale integralmente appartiene, coltivata come una pianta che viene affastellata per rinforzarla, alimentata – non ci stancheremo mai di ripeterlo – nelle famiglie e nelle scuole per poi sentirne e goderne i benefici da grandi, una volta al servizio della comunità. A tal fine, per un sereno e soddisfacente insegnamento, è saggio non far mancare mai i mezzi sufficienti per raggiungere traguardi di vita operosa e di sia pur sofferto appagamento. 

Qualcuno di noi o dei nostri posteri, se un giorno gli capiterà di leggere questo scritto, forse scoprirà che coloro i quali furono ritenuti paranoici perché dissenzienti dal pensiero dei più furono invece i veri saggi, se è vero, secondo la logica di Portoreale, che anche qualche pazzo dice a volte la verità e che chiunque dice la verità merita di essere seguito, per cui, in conclusione, meritano di essere seguiti alcuni che non cessano di essere ritenuti pazzi2. E quanti saggi sono stati ritenuti pazzi! 

Donato Accodo

1. Werke, ed. Karpeles, XI, pag. 202.
2. Arnauld, Logique, III, 8

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 11-16.