L’arte in Sicilia alle porte della Seconda Guerra Mondiale  e i suoi protagonisti 

Nel 1934 la pittrice siciliana Lia Pasquali no Noto, in re lazione alla cultura figurativa isolana del proprio tempo, così scriveva su un noto quotidiano di Palermo: “Noi viaggiamo molto, ma non emigreremo’ poiché crediamo oggi di avere il diritto di lavorare nella nostra casa senza essere perciò dimenticati”’. 

La frase esemplificava con lucidità la particolare situazione delle arti in Sicilia nel terzo decennio del ventesimo secolo: a cavallo fra necessità di innovazione attraverso stimoli e intuizioni provenienti dall’Europa in fermento culturale e imperativa volontà di mantenere la propria originarietà. 

L’ originarietà, o meglio forse la sicilianità, cui alludeva la Pasqualino Noto, la casa dove si ha diritto di rimanere senza essere dimenticati , doveva, infatti , possiamo oggi dedurre, prevedere, al suo interno, la coabitazione di indigeno, storico e moderno attraverso un nuovo alfabeto artistico in grado di consolidare la cultura figurativa dell’isola e formulare una nuova identità creativa: siciliana, italiana, europea.2 

Al termine degli anni venti, infatti , sommariamente, questo era il contesto artistico siciliano con cui la giovane Pasquali no Noto si era nutrita: un terreno culturale in bilico fra forze creative centripete – qualche stridio folclorico, qualche filo di retorica filonazionale – e centifughe – le mode decorative europee del Liberty – cui si era aggiunta la meteora futuri sta3. 

Come infatti scrive Anna Maria Ruta, […] lazione e la produzione futurista ebbero il grande merito di ridestare anch ‘esse l’ambiente siciliano, pur senza quel felice connubio operativo tra industriali, artigiani e artisti della precedente generazione dei Florio, dei Basile, dei Ducrot4. 

Fu a Messina che precocemente il Futurismo si manifestò: Messina […] per la sua stessa condizione di città tragicamente terremotata e pertanto tutta tesa verso l’avvenire e la ricostruzione, sembrava il simbolo stesso del futuro e, per la sua posizione geo-culturale di città di punta dell’isola, naturalmente protesa verso lItalia e l‘Europa, avvertiva in modo più vivace e impellente lo stimolo allo scambio e al nuovo5. 

A Catania, inoltre, presso la redazione della Gazzetta della Sera, mosse i primi passi nelle vesti di giornalista il futuro celebre pittore Umberto Boccioni, adolescente, che proprio dalla città etnea, ignaro del suo talento, scrisse alla madre di avere appena intrapreso l’arte del disegno per diventare illustratore6. 

1. L. Pasqualino Noto, Arte Moderna in Sicilia, in L’Ora, Palermo, 20 Luglio 1934. 

2. AI riguardo S. Troisi, Arte in Sicilia negli anni Trenta, in AA.VV., Arte in Sicilia negli anni Trenta, Milano, 1996. 

3. S. Troisi, I Florio e la cultura artistica in Sicilia fra Ottocento e Novecento, in, (a cura di R. Giuffrida e R. Lentini) L’edei Florio, Palermo, 1986. 

4. A. M. Ruta, Palermo, Messina, Catania e Sicilia, in (a cura di E. Crispolti) Futurismo e Meridione, Napoli, 1996. 

5. A. M. Ruta, Palermo … op. cit, 1996. Pag. 416. 

6. G. Agnese, Gli anni di Catania nella formazione del giovane Boccioni, in (a cura di E. Crispolti) ibidem 

Da un esame formale notiamo che la pittura siciliana futurista nasce dalla rilettura della ricerca figurativa romana. A Roma infatti era cresciuto il suo protagonista, il corleonese Pippo Rizzo, grazie alla familiarità con Balla, Boccioni, Dottori, Bragaglia, Prampolini, e Depero. Quest’ultimo aveva pure lavorato, negli stessi anni, in Sicilia, a Terme Vigliatore, nella provincia di Messina, alla realizzazione, unica per la realtà locale, di una dimora privata signorile, Casa Jannelli7. 

Rientrato a Palermo Rizzo, portò con sé le novità figurative che gli erano più affini e che maggiormente finirono con lo stimolare la pittura futurista palermitana degli anni venti, i modelli di […] Balla e Dottori, l‘uno per le ricerche condotte sulla scomposizione della luce, per le compenetrazioni ottiche e per il nitido esercizio cromatico, nonché per un dinamismo meno accentuato e dirompente rispetto alle soluzioni esplosive di un Boccioni o di un Severini, l‘altro per la semplicità e liricità dei suoi paesaggi umbri, manipolati con colori tenui certi verdi intensi e smorzati insieme con certi caldi blu -, che richiamano scopertamente squarci della campagna siciliana, sempre presente in tutta la poetica del futurismo isolano, in stretta collusione con gli elementi metropolitani e tecnologico-industriali tipici del movimento8. 

La Casa d’arte di Balla costituì il modello della casa creata da Pippo Rjzzo a Palermo, che a ‘sua volta fu esempio per l’attività promossa da due artiste siciliane: Rosita Lo Jacono9 e Gigia Coronal0. 

Corona e Varvaro accompagnarono Rizzo nella sua avventura futurista palermitana. Gli stessi e Rizzo esposero nel giugno del 1927 insieme ai maggiori esponenti del movimento in Italia, alla Mostra d‘arte Futurista nazionale, grazie alla quale, come diceva Rizzo, Palermo finalmente entrò nel numero delle città moderne”. 

L’anno precedente Rizzo e Corona avevano esposto, su invito di Marinetti, nella sala futurista della Biennale di Venezia. Nel 1928 tutto il gruppo dei futuristi siciliani partecipò pure alla Biennale accolti dalla sua massima autorità, lo scultore Antonio Maraini. 

L’avventura futurista terminò il suo periodo di splendore nel 1929. Contemporaneamente Rizzo pubblicò Arte futurista italiana, numero unico della rivista che ebbe il pregio di tentare una presentazione complessiva delle tendenze pittoriche e letterarie futuriste della Sicilia occidentale e nel 1930, infatti, la componente dei futuristi che presero parte alla Biennale di Venezia fu molto esigua. 

7. A.M. Ruta, Casa Jannelli a Terme Vigliatore, in (a cura di E. Crispolti) ibidem. 

8. A. M. Ruta, Palermo op. cit., 1996. Pag. 411. 

In seguito, dal luglio del 1929 al luglio del 1930, Rizzo diresse il Bollettino dell arte, l’organo mensile del Sindacato fascista degli artisti siciliani, prima di 

riprendere la via diRoma, avvenuta nel 1933. L’ obiettivo era ora di proiettare, attraverso il nuovo prodotto editoriale, la funzione costruttiva dell’attività degli artisti siciliani nel contesto più vasto dell’arte nazionale ed europea contemporanea. 

La più pregevole pagina di storia dell ‘arte futurista che ancora oggi permane a Palermo è costituita dalla realizzazione del Palazzo delle Poste in via Roma. 

Il progetto del palazzo di Palermo, così come quello di Agrigento e Ragusa, era stato affidato a Angiolo Mazzonj, direttore della rivista Sant’Elia-Futurismo e firmatario, insieme a Somenzi e Marinetti del Manifesto dell Architettura Aerea. 

Il palazzo, monumento pubblico di regime, sembra ancora oggi affermare le coordinate artistiche affioranti sulla scena artistica italiana del tempo senza rinunciare alla qualità storica del territorio della Sicilia. 

Il prospetto, ad esempio, magniloquente e imponente, dalle grandi arcate, ricorda le città 

metafisiche di De Chirico. All’interno la varietà delle tecniche e dei materiali impiegati rammenta 

la sperimentazione operativa che dali art nouveau in poi ha attraversato l’Italia, Palermo in prima linea, nell’uso dei marmi colorati, della ceramica, il rame, e il vetro che evocano pure l’ attività feconda delle case d’ arte futuriste. Le possenti colonne dell’accesso inequivocabilmente conservano suggestioni provocate dai vicini resti antichj di Segesta e Selinunte. Dunque, come ricorda A. M. Ruta: Nel lavoro di Mazzoni emerge la complessa alternanza di elementi segnati da una indiscutibile vena inventiva e da una originalità di ricerca in linea con le più. sofisticate tendenze razionalistiche f. .. p>. 

Il palazzo costituisce un piccolo ma prezioso museo futurista, nel quale oltre al progetto di Mazzoni, sono visibili capolavori delle arti applicate prodotte nel territorio. Sono presenti nella stanza del Direttore tempere e tappeti di Paolo Bevilacqua13 cui si unisce la collaborazione di Manlio Giarrizzo, Leo Castro, Pippo Rizzo e Gino Morici. Cinque tempere ad encausto di Benedetta Cappa14 – Sintesi delle comunicazioni terrestri, marittime, aeree, telegrafiche e telefoniche, radio foniche – moglie di Marinetti arricchiscono la sala delle Conferenze, cui si aggiungono due tele di Tato facenti parte di un trittico esposto alla Quadriennale di Roma del 1931, Il lavoro e Giovinezza fascista15. 

9 – Sulla personalità eclettica di Rosita Lo Jacono, dedita alla promozione delle arti applicate all’inizio del secolo XX in Sicilia, vedere: A. M. Ruta, Arredifuturisti, Palermo, 1985. 

10 – Gigia Zamparo Corona, friulana, creò con il marito Vittorio Corona, nella loro casa di via Candelai 59 a Palermo, nel 1926, un rinomato laboratorio artistico. Vedere: E. Di Stefano, Il Futurismo in Sicilia, in, a cura di V. Fagone, Gli artisti siciliani 1925 – 1975, Capo d’ Orlando, 1976. 

11 – Le parole di Rizzo sono tratte da A. M. Ruta, Palermo .. . op. cit, 1996. Pag. 413 

12 – A. M. Ruta, Nel palazzo delle Poste, a Palermo, (a cura di E. Crispolti) ibidem. 

13 – A. M. Ruta, Nel palazzoop. cit. Pag. 229. [Bevilacqua] Direttore dell’Istituto d’Arte di Palermo, artista duttile, moderno, proiettato verso il rinnovamento, senza peccati di sicilitudine, ammiratore di Giò Ponti e allento a lUllO ciò che di illleressante si produceva in ambito internazionale, fu l’unico siciliano cui fu affidato l’incarico di realizzare un progetto completo, seppur limitato ad una stanza, nel palazzo. Bevilacqua progettò mobili dall impianto novecentista sobrio e lineare, eseguiti dalla ditta Ducrot, amalgamando qualità della materia, gusto pittorico-decorativo e funzionalità, e ravvivandoli con luso dell’intarsio, in cui è possibile che gli sia stata presente la lezione di Depero, che in quegli anni ideava mobili in bu.xus. 

14 – Le tele di Benedetta, Sintesi delle comunicazioni terrestri, marittime, aeree, telegrafiche e telefoniche, radiofoniche furono dipinte fra il 1933 e il 1934. 

15 – La terza tela del Trittico era Lo sport.

Alla fine degli anni venti il panorama artistico a Palermo, dunque, aveva assunto una poliedricità di forme grazie pure alla presenza in Sicilia, dal 1928, del Sindacato regionale delle belle arti. L’istituzione, voluta dallo stato fascista [...] ebbe almeno tre conseguenze immediate: J) il confluire del vivace drappello dei futuristi siciliani nei ranghi di un novecentismo più o meno di maniera; 2) un maggiore spazio dato dalla stampa locale alle questioni dell‘arte, mentre l’episodio futurista aveva incontrato sempre una certa ostilità; 3) l‘affermazione nel giro di pochi anni di una nuova generazione di artisti16. 

L’ istituzione fascista dei sindacati era nata con l’obiettivo di creare opportunità espositive omogenee per tutti gli artisti della penisola. 

Già nel decennio precedente era maturata in Italia una forma di familiarizzazione fra ambienti fascisti e futuristi. 

Infatti, come ricorda Perfetti: La contiguità tra futurismo e fascismo movimentista fu certo riscontrabile in tutta Italia proprio per una comunanza di sentimenti e atteggiamenti di fronte alla guerra, al dopoguerra, alla stessa concezione della vita, ma nel Meridione essa si rafforzò, probabilmente anche per altre motivazioni riconducibili al desiderio di abbandonare un’atavica situazione di marginalità territoriale e di arretratezza economicosociale proprio in virtù della combinazione di due movimenti, l‘uno politico l’altro culturale, caratterizzati da una proiezione verso la modernità e verso i suoi miti, da quello industrialista a quello della creazione di un uomo vero17. 

All’inizio degli anni trenta, l’istituzione dei sindacati si proponeva nel contesto siciliano come un tramite che avrebbe consentito di superare il limite della distanza rispetto agli epicentri culturali della nazione. I sindacati in cui si ramificava l’istituzione nazionale erano diciotto e costituivano una sorta di vivaio destinato alla selezione delle presenze da inviare alle mostre maggiori, quali erano le Quadriennali di Roma e le Biennali di Venezia. 

La strategia delle mostre, nell’Italia fascista, era fondata sull ‘ampia diffusione delle stesse nell’intero territorio nazionale e su di un ‘organizzazione espositiva gerarchica (Biennali, Quadriennali e Interregionali) non facente leva su norme iconografiche e stilistiche. 

All’atto della costituzione il sindacato siciliano si suddivideva in occidentale e orientale. Il sindacato occidentale era guidato il primo anno di attività da Rocco Lentini18, il successivo da Pippo Rizzo. Il nucleo iniziale del sindacato era composto dagli elementi che nel 1925 avevano esposto alla Mostra d’arte primaverile siciliana: un drappello di giovani determinati a svecchiare la pittura locale. 

La I mostra del Sindacato ebbe luogo a Villa Gallidoro il 23 aprile 1928 dove Rizzo e Corona esposero ancora tele futuriste; la II Mostra del Sindacato, nell’anno successivo, diversamente, testimoniò il mutato clima culturale: la mostra, infatti, era concepita in due sezioni: una retrospettiva dell’Ottocento siciliano cui si aggiungeva un’ampia panoramica di pittura moderna composta da circa settanta artisti presenti con più opere. 

16 – E. Di Stefano, Palermo anni ’30: Lia Pasqualino Noto e il Gruppo dei Quattro, in Lia Pasqualino Noto, Milano, 1984. Pag. 15. 

17 – F. Perfetti, Futurismo, fascismo e Meridione, (a cura di E. Crispolti) ibidem. 

18 -Rocco Lentini, palermitano, pittore della cerchia di Lo Jacono, fu prioritarimente paesaggista. 

La I mostra del Sindacato ebbe luogo a Villa Gallidoro il 23 aprile 1928 dove Rizzo e Corona esposero ancora tele futuriste; la II Mostra del Sindacato, nell’anno successivo, diversamente, testimoniò il mutato clima culturale: la mostra, infatti, era concepita in due sezioni: una retrospettiva dell’Ottocento siciliano cui si aggiungeva un’ampia panoramica di pittura moderna composta da circa settanta artisti presenti con più opere. 

La sezione antica aveva il compito di accreditare storicamente la più recente che era composta da un nutrito gruppo di “novecentisti”: Giarrizzo, Catalano, Schmiedt, Mimì Lazzaro, Bevilacqua e i giovanissimi Lia Noto e Renato Guttuso. Nel 1929, inoltre, un gruppo di diciotto artisti fra cui la Pasqualino Noto, Guttuso, Rizzo, Catalano, Castro e Giarrizzo esponeva a Roma presso la Camerata degli artisti, ovvero partecipava alla mostra che ancora oggi rappresenta la piena affermazione del novecentismo siciliano. 

Nel 1931 il sindacato dominava completamente la vita artistica palermitana; malgrado ciò, Rizzo, manager e promotore dell’attività, riuscì a inviare pochi nomi siciliani alla l Quadriennale: Amorelli , Giarrizzo, Bevilacqua, Casto e Guttuso. Quest’ultimo lo stesso anno esponeva a Palermo nella Mostra dei dieci giovani. 

La III mostra sindacale del 1932 rappresentò l’espressione del consolidamento della presenza del novecentismo a Palermo; nell’occasione il Municipio di Palermo, il Ministero dell’educazione nazionale e il Banco di Sicilia, realizzarono parecchi acquisti , indice che la manifestazione godette di un notevole riscontro nell’opinione pubblica. Lo stesso anno Rizzo inviò una selezione di opere da presentare prima a Milano alla Galleria del Milione, dunque a Roma presso la galleria diretta da Piermaria Bardi. Questi due eventi espositivi nella penisola furono definiti da Rizzo stesso una felice conseguenza dellopera di propaganda e valorizzazione che esso ha finora svolto a pro dell’Arte Siciliana19. 

Scrisse Guttuso a proposito dell’esposizione milanese: Questa esposizione vuole soprattutto dimostrare la presenza di un gruppo di siciliani nel movimento artistico nazionale: presenza tutt’altro che trascurabile. Se si pensa che cosa era fino a sette od otto anni fa la Sicilia artistica, se si guardano le ultime esposizioni del Sindacato regionale e la odierna al Milione si può vedere quale e quanto cammino s‘è fatto20. 

Il critico Raffaello Giolli, sul Giornale d’Italia, individuò all’interno della mostra promossa dal sindacato la prova di un ricco movimento nazionale che congiungeva idealmente Milano a Palermo, segnando ormai il declino dei provincialismi e degli accademismj regionali: […] è inutile avere la nostalgia, davanti a quest’acqua senza colore, davanti a questo mare di morte, quasi senza cielo, delle allegre marine cantanti di Lo Jacono. Soprattutto si intende che è ormai ozioso, di fronte ai nuovi stati d’animo sorgenti, incolpar questi giovani d’aver tradito Sciuti o Lo Jacono ... Siciliani senza folclore, li amiamo proprio perché parlano senza accento dialettale, come parlano schietto italiano i lombardi e i torinesi che amiamo [...] Sono uomini come noi: e leggono i nostri 

19 -P. Rizzo, Giornale di Sicilia, 2 Febbraio 1932. 

20 – R. Guttuso, Pittori siciliani a Milano, in Vecchio e nuovo, Lecce 19 giugno 1932, presente in E. Di Stefano, Palermo .. . , op. cit. Pag. 20.

stessi libri. Perché mai la loro dovrebbe essere pittura soltanto siciliana? La Sicilia che essi ci portano è tuttaltra: quella che essi stanno creando21. 

La mostra milanese ebbe grosso seguito di stampa, come del resto la stessa III sindacale. Il 1932 si rivelò un anno particolarmente vivace per la cultura palermitana. Rizzo, che aveva consapevolmente vinto la sua personale battaglia contro il provincialismo, – […] la nostra battaglia è rivolta soprattutto verso quelle città fuori di Sicilia dove la penetrazione è ancora tenace. Regionalismo? Campanilismo? Le difficoltà si presenteranno. Facendo un bilancio vedremo bene queste vittorie. Il movimento artistico siciliano moderno oggi ha vinto22 fondò una galleria sindacale, la Bottega dell arte, che aprì a giugno dello stesso anno, nel centro della città, in via Mariano Stabile23. 

La personalità di Rizzo rappresentò indubbiamente il traino più forte per l’attività culturale palermitana di quegli anni, al punto che, quando il pittore si trasferÌ a Roma, all’ inizio del 1933, le iniziative di carattere artistico diminuirono. 

La IV sindacale ebbe luogo a Catania e la V di nuovo a Palermo. Alla V sindacale fu abbinata la Prima mostra autonoma dell‘artigianato artistico. Le opere esposte nelle ultime due sindacali testimoniarono un’inversione di tendenza rispetto alla III. Si erano configurate infatti una nuova forma di routine espressiva nutrita da nuovi accademismi e una nuova retorica, cui si aggiungeva l’affievolita attenzione della stampa. 

In un articolo del 1932, il critico Giuseppe Pensabene, dopo avere sottolineato la funzione di rottura e rinnovamento che aveva rappresentato l’ istituzione del sindacato nello stato fascista, scriveva: Riapparve, così, il pericolo di una nuova accademia e di una nuova retorica: Era inevitabile quindi una crisi. Ne fu occasione una mostra di gruppo, tenutasi di recente a Milano, presso la Galleria del Milione; .e se ne ebbe come conseguenza la recessione degli elementi più intransigenti, che formarono un nuovo gruppo: il gruppo dei Quattro24. 

La mostra a Il Milione, cui Pensabene alludeva nel testo, era quella dei sei siciliani del maggio – giugno del 1932. I Quattro indicati nello stesso testo erano Renato Guttuso, che aveva già partecipato alla mostra de Il Milione del 193225, Lia Pasqualino Noto e gli scultori Giovanni Barbera e Nino Franchina, arti sti accomunati da una lettura antiretorica di Novecento. 

21 – R. Giolli, Sei pittori siciliani a Milano, in Giornale dItalia , Roma, 24 Giugno 1924. 

22 – P. Rizzo, La cultura artistica il! Sicilia, in (a cura di L. Pignato) Almanacco degli scrittori di Sicilia, 1932. 

23 – La cura [della bottega] è affidata a una commissione composta da Paolo Bevilacqua, direttore dell’Istituto statale d’arte, dal pittore Manlio Giarrizzo e dallo scultore Benedetto De Li si. La funzione è quella di destare interesse con mostre a periodicità quindicinale e faci litare gli acquisti offrendo le opere a prezzi relativamente bassi. E. Di Stefano, Palermo … , op. cit. Pag. 2 I. 

24 – G. Pensabene, L’arte nuova in Sicilia, in Il Secolo XIX, Genova, 19 Ottobre 1932. 

25 – Migliore, è in Sicilia, lo condizione della pittura: questo è stato un merito indubbio del Sindacato regionale degli artisti. L’opera sindacale è stata benefica e valida; ha spazzato via senza esitazione, tutto il vecchiume. In tre anni, dal ’27 al ‘30, lo situazione si è cambiata. A nulla è servita l’opera negativa di certi ambienti: prima di tutto l’Accademia di belle arti. Larte moderna è riuscita a penetrare in Palermo. Sotto l’unica insegna di novecento” si affermavano giovani di tendenze diverse, ma tuui con una impronta di modernità [. . .]. Questo movimento ha seguito tutte le vicende del novecento. Dopo le prime entusiastiche affermazioni è apparsa anche qui la necessità di un riesame. Si è intravisto il pericolo di una burocratizzazione, che un intervento troppo minuto e continuo del sindacato potrebbe apportare. La sua azione, utile in un primo momento, non può mutarsi in WIO specie di controllo della produzione avvenire. [ … ] Dobbiamo dunque abolire, in occasione delle grandi mostre, i consigli e i giudizi generosamente anticipati, secondo un presunto gusto ufficiale. Questo sistema, che cominciava già ad essere apertamente seguito, ha portato dei danni anche in Sicilia, distruggendo quella coesione che era nata in un primo momento tra artisti giovani, animati tutti dallo stesso desiderio del rinnovamento, e benlungi dal pensare a compromessi di questo genere. [ … ] G. Pensabene, op. cit.

A Milano, nel 1931, per la mostra dei sei al Milione, Guttuso aveva avuto modo di rendersi conto della crisi sindacale che si andava configurando in Italia e del ruolo ormai essenzialmente opaco del movimento novecentista. 

Nel 1933, fortificato dalla proficua esperienza milanese il gruppo irruppe sulla scena artistica nazionale con una clamorosa protesta: una lettera aperta, polemica, contro Maraini per l’esclusione delle nuove leve artistiche siciliane dalla Biennale, firmata pure dallo scultore Cuffaro e pubblicata da Il Tevere del l Settembre26. 

Lo stesso anno Guttuso prese le di stanze, definitivamente, dal novecentismo e affermò l’attualità della pittura murale, così come pure fece Lia Pasqualino Noto, dichiarando, contemporaneamente, la necessità di un’arte antiretorica ma immersa con naturalezza nella contemporaneità27. 

Le opere esposte dalla Pasquali no Noto e Guttuso nella IV sindacale siciliana, però, del marzo – aprile, così come nella I Mostra del Sindacato a Firenze, nel maggio dello stesso anno, non lasciarono trapelare alcuna mutazione sostanziale del loro percorso artistico quanto piuttosto una maturazione del linguaggio creativo finora espresso. 

Nel 1933, infine, la Mostra dei venti artisti di Sicilia, al teatro Massimo di Palermo, promossa con gli auspici del sindacato, organizzata dallo scultore Barbera, dalla pittrice Topazia Alliata, e da tre artisti – Biancorosso, Buscio e Li Muli- assunse un significato antinovecentista e antiaccademico. Lo scultore Barbera, nell’articolo di presentazione, scrisse così: «II movimento artistico cosiddetto “novecento” ormai fortunatamente sorpassato è stato una vera disgrazia per alcuni che si iniziarono all’arte cinque anni fa. Ancora fino ad oggi i nostri occhi debbono girarsi in colli tubolari e mani a palette in composizioni in maniera dove l’artificio non è più una trovata geniale28». 

26 – […] Quaggiù non si dorme e c’è qualche pittore che non fa cartoline illustrate di Monte Pellegrino, e qualche scultore che non fa leste di bambini col bavaglino ... malgrado il fallo che nessuno mostri di accorgersi della nostra vitalità: né il sindacato, né le commissioni ufficiali delle grandi esposizioni. 

27 – Lia Pasqualino Noto, La “composizione” nella pil/ura Moderna, in LOra, Palermo 14 – 15 Novembre 1933. 

Sembra che la pittura moderna si orienti realmente verso la grande composizione. E così deve essere. Se vogliamo rimanere nella linea della nostra tradizione. Tale orientamento, riguardante sia lo concezione, sia l’esecuzione dell‘opera darte destinata a decorare la casa, ci fa subito pensare alla necessità di ritornare alla pittura murale, che si intona magnificamente alla sobriedell‘ambiente moderno e che ricollega lo nuova tendenza architettonica alla più schietta tradizione pittorica italiana. A tal fine però è necessario conservare alla composizione pittorica nobiltà e grandiosità, sia nella scelta del soggetto che nella distribuzione delle masse, nobiltà e grandiosità che fu base di tutta la pittura murale dei nostri antichi pittori. 

Non si dovrebbe più parlare di pil/ura decorativa nel senso corrente della parola, quasi ad indicare unarte a ben distinta dalla pittura di cavalletto, che al contrario viene chiamata arte pura. Tale distinzione è utile soltanto per mascherare lo meschinità di certe opere murali; fra pittura decorativa ed arte pura non esiste sostanziale differenza poiché ogni genere d‘arte ha funzione decorativa, e lo buona pittura murale deve essere tanto perfetta quanto si richiede alla pittura pura. [ … ] 

Il carattere costruttivo della nostra epoca, per la stessa ragione per cui ha falla risorgere la tendenza della pittura murale, anche nel quadro di cavalletto tende a farci ritrovare il senso della composizione, senso che può esistere 

in qualunque genere di piI/LIra ma che certamente raggiunge maggiore nobiltà nel quadro di figura. f..] 

Enecessario quindi che i pillori di oggi guardino alla composizione come al mezzo migliore per creare opera duratura. f. .. ] 

28 – G. Barbera, LOra, Palermo, 1933.

Non venne messa in discussione allora, almeno pubblicamente, per questo gruppo di artisti l’identificazione tra arte moderna di qualità e ideologia fascista, anzi , come un po’ dappertutto in Italia, la battaglia per il rinnovamento del linguaggio venne combattuta proprio in nome di una più rigorosa fedeltà alla rivoluzione del fascio29. 

La sindacale regionale del 1934 fu scadente: gli artisti, anche i migliori, non tendevano più a presentare i lavori più riusciti e l’esposizione iniziò a perdere il suo ruolo guida. 

Differentemente, lo stesso anno a Milano, i Quattro esposero al Milione, rivelando un linguaggio artistico di qualità, nuovo, scabro, privo di concessioni idealizzanti, che, come dice Eva di Stefano, sottomette forma e schemi compositivi tradizionali all’urgenza espressiva30. 

L’esposizione fu oggetto di critiche lusinghiere31 e persino Carlo Carrà dedicò alla manifestazione un lungo articolo su L’Ambrosiano, il 14 giugno del 193432 

Il critico Edoardo Persico33, in occasione dell’inaugurazione, pronunziò un discorso introduttivo, salutando l’esposizione come la prova più evidente di una problematica moderna nella giovane arte italiana, indispensabile per riaffermare, a suo avviso, la necessità di una mistica europea da opporre alla mistica fascista34 

La mostra e il discorso segnarono un punto di arrivo per i Quattro: i riconoscimenti di critica e di pubblico maturati consentirono al gruppo di riconoscersi come parte attiva di un più vasto movimento d’avanguardia. 

29 – L. Pasqualino Noto, La “composizione” op. cit. Larte segue da vicino lo storia dei popoli: noi che per sorte viviamo in un‘epoca di resurrezione dovremo necessariamente vedere e godere il frutto della nostra fatica e quello di coloro che ci hanno preceduti. Le scuole passate, le tendenze sorpassate, feconde per tutti noi, attraverso il misterioso lavorio della natura, costituiscono certamente lo base di una sempre maggiore elevazione spirituale, necessaria allo sforzo che ci siamo imposto per ritrovare il nostro equilibrio artistico.” 

30 -E. Di Stefano, Palermo , op. cit. Pag. 25. 

31 – Una mostra clamorosa ed esplosiva nei giudizi dei critici del tempo che idealmente congiungeva i giovani artisti di Palermo alla nuova linea degli anni ’30 dell‘arte italiana: una linea nella quale si possono ricordare il lavoro del Gruppo dei Sei a Torino, di Sassu, Birolli, Manzù a Milano, di Mafai e di Scipione a Roma, per citare solo i nomi più rappresentativi. [...] Il Gruppo dei Quattro artisti siciliani che esponeva al Milione settanta opere (dal 26 maggio al 15 giugno 1934) agiva in una posizione periferica ma certo non provinciale come nota Guttuso nel suo testo di presentazione a questa mostra rispetto alla operatività che già andava delineando a Roma o a Milano. 

V. Fagone, I quattro artisti siciliani, in Gli artisti siciliani 1925/1975, Capo d’Orlando, 1976. 

32 – La natura e il vero sono termini metafisici ai quali ciascuna epoca dà un particolare significato. Così, ad esempio, per gli artisti siciliani predecessori a questi giovani, la natura non ebbe che un attributo pseudoromantico e il vero fu un espediente folcloristico; mentre ora lo natura e il vero si sono trasformati e unificati in un concetto unitario e ordinato dalla personalità estetica dell‘artista. Tale assunto è, a dir il vero, ancora per lo più vagante nella produzione offerta dai quattro siciliani, ma per quanto non ancora ben determinato, appare già balenante realtà della loro arte. 

Anche di questo si deve tener calcolo, dovendo noi giudicare artisti in piena evoluzione. 

Epperò il sentimento artistico che si può notare in questi loro lavori, se talvolta appare come sommerso sotto schemi che ne infirmano in parte l’intima sostanza, già preannuncia lo sbocco in forme sensibili e unitarie. 

C. Carrà, L’Ambrosiano, Milano, 15 Giugno 1934. Pubblicato in E. Di Stefano, Palermo , op. cit. 

33 – Edoardo Persico fu storico e critico d’ alte. Sostenne con visione cosmopolita, il legame fra avanguardie figurative e architettura moderna e avversò sia la retorica del regime fascista sia l’ involuzione classicistica di Novecento. A Torino promosse l’attività del Gruppo dei Sei, a Milano fondò e diresse la galleria del Milione e partecipò con Giuseppe Pagano alla redazione di Casabella. 

34 – Le parole di Persico appaiono in E. Di Stefano, Palermo ... , op. cito Pago 25. Vedere inoltre: E. Persico, Tul/e le opere, a cura di G. Veronesi, Milano, 1964

La partenza di Guttuso e Franchina per il servizio militare costituì il motivo di una brusca frattura per i Quattro, proprio nel momento in cui il gruppo aveva raggiunto una maggiore coesione poetica e figurativa e ottenuto i primi risultati di critica. 

Negli anni successivi Guttuso consolidò i contatti già avviati a Milano, rientrò a Palermo solo per brevi periodi e si allontanò dalla città siciliana definitivamente nel 1938, quando si congiunse al gruppo Corrente. 

Franchina fu pure a Milano, dunque a Roma, infine a Parigi e sposò la figlia di Severini. Barbera morì precocemente nel 1936. 

L’ultima mostra comune ebbe luogo nel 1937 a Roma alla Galleria della Cometa. 

Nel 1935 la Pasqualino Noto fondò il primo spazio espositivo privato dedicato all’arte contemporanea a Palermo, nei locali di Palazzo De Seta, la Galleria Mediterranea. 

L’attività della galleria durata circa due anni costituì una significativa novità per la circolazione delle idee artistiche a Palermo perché consentì che opere provenienti da più aree geografiche potessero essere viste in Sicilia. 

Nel 1938 aprì qui i battenti la Rassegna di sessanta artisti italiani che si rivelò l’avvenimento che meglio esemplificò la qualità dell’attività artistica nell’isola e la considerazione che le era realmente destinata da parte del pubblico e de i media. 

Infatti, la manifestazione, malgrado la grande risonanza nella vita cittadina e il suo significato culturale non godette dell’attenzione dei media. 

L’ottava mostra sindacale, ne l 1938, s i tenne nei locali di Palazzo De Seta e lo scultore Franchina fu membro della commissione giudicatrice. 

Altre due mostre ebbero luogo quello stesso anno alla Mediterranea: una di architettura dedicata ai rilievi di edili zia minore siciliana e una personale di Enrico Paulucci. 

Nel 1939, a causa del trasferimento dei marchesi De Seta a Roma, la galleria chiuse. 

L’attività riprese nel 1940 presso la Libreria Flaccovio per un breve periodo, quando la Pasqualino Noto organizzò mostre personali di Tamburi, Mucchi, Afro, Natili e Guttuso. 

La guerra e la permanenza in Sicilia35 penalizzeranno la Pasqualino Noto, artista, pensatrice e infaticabile organizzatrice di eventi d’arte, che continuò a lavorare – come dice Maurizio Calvesi – tenace ma flessibile e tutta introversa, che l‘attesa non logora ma anzi sostanzia, e quel gestire è una sorta di ginnastica della speranza, per tenerla giovane e viva36. 

La nona mostra sindacale, del 1939, denominata Il ritratto e la scultura al Teatro Massimo di Palermo chiuse un’epoca: il 10 giugno dell’anno successivo l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania e una nuova età si apriva anche per le arti figurative. 

35 – L. Pasqualino Noto, Una testimonianza … op. cit. Pago 42: lo comprendevo che restando a Palermo sarei rimasta isolata 

e, senza l’entusiasmo che tutti insieme eravamo riusc iti a creare, mi veniva a mancare qualcosa di molto impattante 

e vitale. 

36 – M. Calves i, I Ginnasti della speranza, in Lia Pasqualino Noto, Milano, 1984. Pago 9. 

I dieci anni che precedono la seconda guerra mondiale furono, sostanzialmente, in Sicilia, anni operosi: anni di riflessione destinati alla partecipazione e al confronto con le idee del territorio nazionale. Questi furono, però, soprattutto, per l’arte, sotto il profilo critico, anni in cui la consapevolezza del ritardo formale rispetto al resto dell’Italia fu piena e a tratti sofferta, tanto quanto il tentativo di assorbimento di nuove forme, rinnovati e autentici contenuti. 

Questi furono anni in cui si riaprì con irruenza e mai si richiuse il dibattito sul futuro della propria identità isolana. 

La guerra, come tutte le guerre, sottrarrà linfa a questo dibattito, di sperderà le risorse intellettuali e soprattutto piegherà le forme delle città, convertendo in penosi accumuli di macerie quei luoghi , quei palazzi, quei giardini che negli anni immediatamente precedenti avevano lasciato segni preziosi di arte siciliana. 

Francesca Pellegrino




Insieme nella pittura, la qualità nell’arte 

Vogliamo dunque, cortese amico che leggi «Spiragli» e queste note del pittore, tentare «insieme» di capire – una buona volta – il significato della parola «qualità» nell’arte (dal quale può scaturire quello della «qualità» nella vita, di così arduo impervio discernimento) in maniera che davanti a un dipinto o scultura o monumento o architettura – a qualunque epoca o livello appartenga – ci si possa fare un’idea, anche approssimativa, della sua «entità» positiva o negativa? Evitando almeno in parte quel deprimente dubbio che ci passa per la testa: «È bello, non è bello» e quel meschino azzardato «mi piace, non mi piace»? I miei più fedeli amici, lo sanno ormai da tempo, e si astengono dal pronunciarsi così. Ho dimostrato loro più volte che essi dicevano «mi piace» davanti a una crosta, e «non mi piace» davanti a un capolavoro. 

Di fronte a un disastro morale del genere, c’è da compiere un «karakiri». Ed allora, quale è il consiglio? Vogliamo trovare – insieme – la strada giusta per non sbagliare così miseramente, con riflessi inquietanti sulla nostra psiche e sul nostro orgoglio? È chiaro che nel cercare di spiegare la «qualità» il pittore non può e non deve atteggiarsi a letterato o sociologo o filosofo (professionisti a cui spetta il compito di trovare le parole ed i concetti giusti, anche se spesso tortuosi ed incomprensibili), Cercherò, dunque, da semplice pittore, di darti una mano, con le frasi che mi vengono in mente, alla buona, e chissà che, una volta chiarita la «qualità» in arte, non si possa estendere, come già accennavo, il ragionamento ad altre qualità, di cui si sente parlare, Quella della vita, ad esempio. Oppure cosa significhi essere un uomo o una donna «di qualità», e così via. 

Riprendendo il nostro tema che riguarda l’opera d’arte in particolare, immaginiamo che tu sia né cieco, né sordo. né insensibile, né muto e stai passando spensìerato e di buon umore (per avvicinarsi all’arte la nostra predisposizione dell’animo è importante) davanti a una galleria d’arte dove sono esposti i quadri e le sculture di un artista. Ti colpiscono i colori e le forme ed entri per vedere meglio. Attenzione. Da quel momento il tuo nemico – non ci crederai – è quella parte, pur così importante, della creatura umana che chiamiamo istinto. 

Penso che l’istinto si debba usare a tempo e a luogo; e che spesso, se non è controllato dalla ragione e dalla consapevolezza, può dar luogo a micidiali errori di valutazione, specialmente nel campo artistico. Per esempio. Tu (mi consenti la familiarità?) sei entrato a visitare una mostra e sei attratto da un quadro che ha i colori che prediligi e rappresenta un paesaggio o una marina o una natura morta. Ti viene voglia di acquistarlo, chiedi il prezzo, ti sembra accessibile per le tue tasche (diffida sempre, comunque, di un oggetto d’arte che costi poco), lo compri e lo porti a casa (o te lo fai mandare, le gallerie fasulle e i mercanti d’accatto che pullulano anche in TV sono molto solerti in questo). Metti il dipinto al posto d’onore (accanto alla tua scrivania di avvocato o medico o ingegnere) affinché lo possano vedere tutti. Poi mi inviti a farti visita, siamo amici da tempo. Ci tieni che io lo veda prima degli altri. Conosci la mia carriera di pittore nazionale, la mia competenza, la professionalità. Una volta davanti al quadro che hai acquistato, io non ho incertezze (e come potrei, dopo una vita di esperienza in pittura?) e ti dico subito chiaro e tondo che si tratta di una vera e propria «crosta», una pessima esercitazione di chissà quale mediocre artista (non si legge bene la firma che già delinea quella di un dilettante) capitato nella Galleria dove sei entrato per caso. Deploro che tu non mi abbia chiesto un consiglio prima di buttare via il denaro per acquistare quella brutta tela. A questo punto, che fai? Ti tiene la «crosta»? o la fai sparire in cantina o addirittura la distruggi (successe con un caro amico di Prato, durante una festa bruciammo in giardino, con un bel falò, una trentina di «croste» orrende…)! È questo il caso in cui l’istinto ti ha giocato un brutto tiro. D’ora in poi starai più attento e ti atterrai alle indicazioni e ai consigli del tuo amico pittore che ti vuol bene ed ammira la tua intelligenza professionale, la tua obbiettiva maniera di pensare e di comportarti. 

Ed allora? Quali sono gli elementi che compongono «la qualità» di un oggetto d’arte e, una volta individuati, consentono di non sbagliare nella valutazione? Esaminiamoli uno per uno, almeno i principali. Vedrai che taluni (quelli che si riferiscono al fenomeno artistico) sono gli stessi che occorre approfondire per comprendere – come già detto – «la qualità» a tutti i livelli dell’uomo e del lavoro dell’uomo. Per facilitare il discorso, te li indico perché tutti sono ugualmente importanti: «la singolarità dell’immagine» (mai vista prima); «la tecnica particolare» (e la sua inimitabilità): la «reiterazione del gesto del dipingere o dello scolpire» (che sia un modo tutto proprio, al limite della mania); «lo stile» (che diviene immutabile nel tempo); «la chiarezza dell’intenzione»; «l’eleganza della forma e la vocazione del colore»; «la sicurezza dell’ispirazione»: «la poesia del concetto». 

Di ognuno di questi elementi che compongono .la qualità» occorrerebbe parlare a lungo. Mi propongo di farlo, a voce, in tutte le occasioni di incontro che – con un gruppo già costituito di amici – abbiamo in mente di effettuare o nel mio studio vesuviano o in quello di Roma. La parola, .la voce-, spesso producono effetti applicativi inimmaginabili! Tutti quelli che vogliono intervenire, se di passaggio, sono ben accetti. Intanto, spero di aver aperto ‘spiragli- per avvicinarci sempre più all’oggetto d’arte e coglierne con amore l’alta e nobile qualità o con severo disprezzo l’approssimazione e la mediocrità. 

Dalla prossima nota potrai leggere, caro amico lettore, come le componenti essenziali della qualità risplendano chiare e inequivocabili, nei grandi artisti del nostro tempo. Intendo farteli conoscere a fondo, scegliendo fra i più geniali e complessi. Te li presenterò, come fossero vecchi amici indispensabili. E incomincerò dal mago delle bottiglie, Giorgio Morandi, il più grande pittore nostro del secolo. L’ho invitato. Verrà, stanne certo. 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 36-38.




 Insieme nella pittura  L’importanza d’un quadro 

Caro direttore, 

dopo la parentesi «lirica» della Lettera da Motya (potevo non inviartela? Quella piccola isola contiene tali misteri umani e disumani, tali effluvi primaverili in ogni stagione…!), vorrei e dovrei – secondo quanto indicai nel precedente articolo – riprendere il discorso sul significato della «qualità» nella pittura e nell’arte. Sono più che mai sicuro che «afferrare» questo concetto, significa procurarsi quella magica chiave per aprire la «stanza della luce» dove avviene l’«iridescenza dell’intelletto», quella indicata da Apollinaire, appunto. E però, se me lo consenti, vorrei prima «preparare» il lettore al discorso sulla «qualità», soffermandomi più a lungo sull’«oggetto d’arte », in definitiva sul «quadro». 

Che cos’è un quadro? A quale età ed in quale momento della nostra vita ci accorgiamo per la prima volta della presenza davanti a noi di un oggetto, piccolo o grande, con una superficie contornata da quella che chiamiamo «cornice»? Forse, già nell’adolescenza, quando ci dissero di «non toccare» il dipinto (si chiama anche così?) sul muro dietro la scrivania di papà, o quell’altro sistemato bene in alto sul comò. O forse, all’Istituto tecnico, quando sbirciavamo – dal corridoio – la grande tela che sovrastava la temuta scrivania del preside: o in quel primo appuntamento in una galleria d’arte; o più in là (già maturi e professionisti e pur distratti dal contatto consapevole con un quadro), quando il caso ci portò nello studio di un pittore o a visitare la casa di un personaggio famoso. Certo è che l’incontro con il quadro, prima o poi, avviene. E ci dà una vaga e subito sopita emozione, una sorta di curiosità breve ma intensa: esso sprigiona una forza magnetica che induce quasi a volerlo toccare e a trovar l’angolo di visuale migliore per osservarlo. 

Cosa pensiamo di vedere o di intravedere su quella superficie incorniciata, che possa interessarci e piacerci: una figura, un paesaggio? Oppure soltanto una forma, un ritmo, un colore? Può darsi che proprio in codesta istintiva «ricerca» di un quid che ci appaghi guardando un quadro, noi misuriamo inconsapevolmente la nostra «sensibilità artistica», vale a dire la capacità innata di saper «fruire» della luce, piccola o grande che sia, di bellezza e di intelligenza, accesa sulla superficie di una tela o di una tavola o di un semplice cartone. 

Ma quando e perché il quadro, questa «cosa» immobile ed inanimata, diventa importante, acquista valore; e, se collocato nella nostra casa, si eleva a muto e inflessibile indice della nostra sensibilità, del nostro spirito e perfino del nostro carattere? Quando e perché una superficie colorata, rinchiusa in una cornice, cessa di essere tale e diventa «opera»? È il difficile ed affascinante momento in cui la materia inerte del colore, mediante il pennello o la spatola o altro mezzo di applicazione, incomincia a vivere, a palpitare, a cantare, a urlare, a risplendere. Capire l’attimo magico di questa straordinaria metamorfosi, significa capire molto di più della nostra 

stessa vita quotidiana: tutti i rapporti in cui le cose del mondo – i gesti, le parole, i fatti – si trasformano da futili in utili (a sé stessi e agli altri), da effimeri in convincenti e confortevoli, da banali in valori morali e materiali, ci appariranno, quei rapporti, più chiari e benefici. Potremmo trovare, con l’aiuto del piccolo o immenso canto che proviene da un bel quadro, una misura nuova e più giusta della nostra stessa coscienza. 

Mi domando spesso come sia possibile che professionisti emeriti nei vari campi del sapere, dalla medicina al diritto, dall’insegnamento nelle scuole e nelle università all’imprenditoria e all’industria, uomini di dottrina e di scienza, e perfino funzionari pubblici e politici, nella stragrande maggioranza non posseggano nelle loro case e nei loro studi, una piccola raccolta di quadri di pittori moderni! 

Ho spiegato, in un precedente articolo, come fare a distinguere un bravo pittore, oggi, dal mediocre o dal dilettante. Purtroppo, durante la mia lunga carriera dedicata alla pittura, più volte mi è capitato di trovare in case ed ambienti professionali di prestigio, appesi maldestramente ai muri, pessimi esemplari di quadri senza alcun valore, le cosiddette «croste». Certo, non tutti sono in grado, anche tra i professionisti, di acquisire un quadro di «qualità». E però, come vedremo quando affronteremo insieme questo specifico argomento, c’è una gamma molto vasta di «qualità» nell’arte in genere e nella pittura. Non potendo attingere all’alta qualità per il «prezzo» si può scegliere nella buona «qualità» di pittori già maturi o che ancor giovani abbiano dato prova di serietà ed impegno. In questa fascia i quadri sono piuttosto accessibili: basta entrare nell’ordine delle idee sopra esposte. E cioè che una casa o uno studio senza un buon quadro di medio o di alto valore che sia, è freddo e vuoto della nozione, culturale, e di buon gusto, più sicura ed evidente. 

C’è poi da dire che i quadri si tramandano ai figli se di qualità e di valore, rappresentano il retaggio più duraturo e poetico, spesso una vera e propria eredità sostanziale e insieme qualificante. I figli, se ben nati e riusciti, ricordano i genitori non certo per i terreni o gli appartamenti o i gioielli che lasciano, bensì per la cultura e la bellezza che emana un bel quadro peraltro inalienabile e non deteriorabile nel tempo. 

E così, caro direttore, posso concludere queste note sull’importanza del quadro. Esse si aggiungono a quelle sulla «lettura» con le quali iniziai «Insieme nella pittura». 

Vorrei ritornare all’importanza che può avere l’incontro con un vero pittore. Giuseppe Marotta, l’autore dell’Oro di Napoli, dopo una visita di tanti anni fa, nel mio studio vesuviano, scrisse in un suo libro dal titolo Visti e perduti: «…E se volete non andare al cinema dove i personaggi svaniscono come fantasmi…. se volete attaccarvi a qualcosa di utile e duraturo, con una luce costante di buon gusto e cultura, fatevela con i bravi pittori…». Sembra un’esortazione esagerata o di parte, eppure forse è l’unico modo per capire cosa è il quadro, come e perché nasce, come e perché è importante. E come imparare a leggerlo, appunto; ne abbiamo già parlato. 

Ma, a parte queste considerazioni di ordine sociale e morale, gli amici che mi seguono sanno quanto mi stia a cuore la comunicazione e la spiegazione «tecnica» di come viene eseguito un quadro o come valutare la sua «qualità». 

Nel prossimo articolo riprenderò senza più indugi questo discorso. E poi ci inoltreremo nel magico mondo delle «correnti» della grande pittura moderna, partendo dagli «Impressionisti» e da Paul Cézanne fino a Braque e Picasso. Insieme, naturalmente, alla ricerca di quella «dignità conoscitiva dell’arte» come tensione a percepire il mistero della vita. 

Carlo Montarsolo 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 55-57.




 Insieme nella pittura, Giorgio Morandi.  Una sera, nell’aria vesuviana. 

Alla confusione spirituale dei nostri giorni, alle vuote parole dei vari pulpiti e ribalte, alla sfrenata retorica di chi si illude di praticare l’arte ed occuparsene seriamente, Giorgio Morandi continua ad apporre ancor oggi il suo riserbo, il suo silenzio e la straordinaria «qualità» della sua pittura che ormai da molti anni è un mito dell’arte mondiale. 

Cerchiamo di capire «insieme» – come è nell’intendimento di queste note – il perché di questo mito, il perché della consacrazione nel più alto livello espressivo della storia artistica moderna di umili desolate inutili bottiglie dipinte dall’incomparabile pittore che possiamo definire – con Amedeo Modigliani – il più importante dell’arte italiana nel secolo. 

Di Morandi e delle sue opere sono stati scritti saggi e commenti dei più qualificati critici e letterati da riempire intere biblioteche. I grandi musei e le più famose pinacoteche si contendono le sue «nature morte» come pietre preziose di inestimabile valore intrinseco e morale. Eppure, nell’opinione della gente comune, anche se di buon livello culturale e rinomanza professionale, Morandi è conosciuto come «quello delle bottiglie», spesso nel senso dispregiativo. Vuol dire che, anche per lui, le indicazioni ed i riferimenti di innumerevoli scritti in testi e monografie delle firme più illustri della critica italiana e mondiale, non sono riusciti a «persuadere» con sufficiente chiarezza sulla grandezza e sui valori di questo pittore e delle sue famigerate bottiglie. 

Ed allora, più che leggere e guardare le riproduzioni nei libri, o visitare le mostre che si organizzano (peraltro non sempre efficaci in qualità e numero di opere, essendo assai difficile metterle insieme), penso che occorra, per capire i grandi pittori, specialmente quelli moderni, riunirsi e creare un’atmosfera di fiducia amichevole verso chi quel mito e quella bellezza espressiva ha capito ed è in grado di raccontare e spiegare il senso e la luce. 

Così, in una dolce e azzurra mattina di settembre, decidemmo un bel gruppo di amici vesuviani ed io di andare a cercare la verità e la poesia delle bottiglie di Morandi su per le lave brune del Vesuvio. Avevo promesso la rivelazione del mistero di quelle bottiglie e del balsamo che poteva derivarne nel cogliere, appunto, la poesia delle piccole cose. Una difesa, aggiungevo, contro la minaccia del ridondante e del rumoroso, dello spettacolare e del falso grandioso che ogni giorno sempre più ci opprimono. 

Ci fermammo in uno spazio di una tenuta vinicola famosa per il «Lacrima Christi». Poi ci inoltrammo in sentieri di sabbia ricolmi di pigne, fra pinastri e vigne in rigoglio. Nello spazio vuoto di pregiate cornici appoggiate ai fusti, avevo fatto radunare varie forme di bottiglie e recipienti «a perdere », cioè quelli che non servivano più e buttati via per essere poi raccolti nella spazzatura. 

Le bottiglie vuote, di ogni forma e dimensione (di vino, con il tipico collo allungato, ma anche di birra, d’aranciata, d’acqua minerale), apparivano dentro le cornici portate apposta lassù come protagoniste. Ad una prima indifferenza da parte degli amici, per quei gruppi c;li inutili recipienti, subentrarono curiosità ed attenzione. Dalle cornici ricolme di bottiglie, si sprigionava una misteriosa indicazione di forme e colori; ogni cornice aveva una composizione diversa una dall’altra e mai vista prima. I quadri di Morandi, appunto: la serena scarna inedita sequenza di bottiglie sporche di fango, senza etichetta o contrassegno… desolate, inutili, e pure, pittoricamente «belle» come spazi nuovi, inesplorate stelle… 

Entrammo in una vasta cantina odorosa di mosto, dove erano accostate le bottiglie vuote in un angolo. Feci scegliere agli amici le più polverose ed imbrattate: ed insieme incominciammo a sistemarle, di varia misura e forma, sopra un vecchio tavolo appoggiato ad un muro di tufo. Attorno al gruppo di bottiglie misi una splendida cornice «a guantiera» (tipica dell’artigiano napoletano e fiorentino). 

Nella cantina si era fatto buio. L’odore del mosto si alternava al profumo delicato ed arcano delle ginestre tenaci che veniva dalle balze laviche accanto. Accovacciati sulle cassette gialle che avevano contenuto le bottiglie piene di vino. gli amici sono ora silenziosi e seguono attoniti lo strano cerimoniale. Ad un tratto. un proiettore illumina le bottiglie incorniciate. Dal fondo buio della cantina. sale la musica struggente di un tema dei Pink Floyd. Ed allora il sortilegio si compie. puntuale e suadente. Evocato dalla mia voce commossa, il Maestro viene verso di noi, abbagliato lui stesso ed anche un po’ sorpreso dalla «natura morta con bottiglie», che è li davanti reale ed organica. di rara eleganza formale e di colore, proprio come quelle che lui dipingeva. 

Il «pittore delle bottiglie» ci racconta incredibili inedite storie di poesia delle «piccole cose» e parla della tecnica difficile e raffinata per dipingerle. Perché, ci spiega, i contenuti, il tema di un’opera d’arte, sono sì importanti, ma determinante è l’atto esecutivo del ricoprire la tela con un metodo proprio ed inimitabile: il gesto della mano, la scelta dei pennelli, la loro pressione nell’applicare il colore. E l’impasto: il combinare le tinte nella dovuta dose e manipolazione. Quale mirabile equilibrio occorre nel ricercare i toni giusti ed armonizzarli! Ce ne parla come fossero note di un pentagramma infinito. Bianco di zinco, nero avorio, le «terre» (di Pozzuoli, di Cassel, di Siena, d’ombra naturale e bruciata) e le «ocre» (chiara, scura, dorata, di Napoli) e i «bleu» (oltremare, di Prussia, indaco, celeste chiaro, cinabro…). Mentre il Maestro parla, noi ci vediamo quei colori, mirabilmente impastati ed applicati nelle forme delle bottiglie che abbiamo davanti, inimitabili ed eleganti, visibili e pur astratte… In esse sembrano raccogliersi i misteri e i sortilegi di tutte le piccole smarrite cose. la squisita finezza di un timbro, la magia del poco nel tutto, il significato stesso della quantità impalpabile che ognuno di noi rappresenta nel divenire della vita… 

L’incantesimo si stempera nell’aria vesuviana della sera, odorosa di mare e di carrube. Ritorniamo. Giorgio Morandi ci accompagna con lo struggente ricordo della sua lezione e delle sue bottiglie ritrovate. Abbiamo «insieme» conosciuto un genio ombroso e isolato, che ci ha insegnato – con semplici bottiglie mirabilmente dipinte – l’elegia del tutto nel niente, ed una verità essenziale che può aiutarci a vivere: la concentrazione sui temi più semplici, la consapevolezza che l’esistenza non ha nulla a che vedere con ciò che è appariscente, ridondante e facilmente spettacoloso. I suoi quadri, anche se soltanto riprodotti, dovrebbero ornare le case, gli uffici, e specialmente le aule delle scuole. 

In realtà molti ancora non lo conoscono, tanto meno i giovani, ahimé! Ma l’insegnamento che emana dalle sue bottiglie ha in sé il prodigio della rivelazione per chi vuole fruirne e goderne. Anche per questo l’arte di Morandi ha un incomparabile «peso» morale e risulta – coi tempi che corrono – il più semplice e maestoso rappel à l’ordre che si possa immaginare. Francesco Arcangeli, studioso e saggista di primo livello, ebbe a scrivere di lui: «Due occhi che garantiscono silenziosamente, per tutti, la perennità di una confidenza col mondo, da non perdere mai; di un equilibrio fra lo spirito e le cose, che sembra rotto alla radice: due occhi che non rifiutano l’infinito respiro del cosmo anche nelle piccole cose. ma lo concentrano, segretamente, entro la misura di un tono e di una luce su una bottiglia». 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 45-48.




 Antonello da Messina.  In un giorno di pioggia, al Prado. 

Quel giorno, a Madrid, c’era lo sciopero dei ristoranti e dei bar. Con il mio vecchio amico De Rosa, famoso storico, varcai per la prima volta la sede angusta del grande Prado. Lui, docente all’università, ed io pittore, avevamo appuntamento fin dai banchi di scuola, da una vita: visitare il Prado, insieme. 

Eravamo inquieti e già un po’ affamati (forse per via dello sciopero…). A mano a mano che ci inoltravamo nelle sale della Pinacoteca più vasta e più completa del mondo, tutto mi appariva come al buio, in un’atmosfera quasi lugubre. Fuori pioveva, l’aria era umida e scura. Ma io mi ero immaginato quel luogo sapientemente illuminato, da poter “leggere” tutti quei capolavori in maniera esauriente, tale da erudire il mio amico sulle particolari qualità di forme e colori dei Rubens, dei Velasquez, del Greco, di Goya. Ed invece, attraversammo in silenzio quelle sale. Non mi veniva di dire niente. Mi sembrava di non aver occhi, di essere proprio al buio. Lo stesso amatissimo Goya mi appariva scuro, fumoso; persino le ombre dei personaggi vedevo come dipinte all’incontrario rispetto alla fonte di luce… un disastro. Che tristezza, e quale delusione! (Alla fine della visita lasciai, nell’apposito registro, una violenta critica alla direzione del Museo, per !’inefficienza delle luci, !’impossibilità di una “lettura” conveniente delle opere, nell’aria tetra ed umida delle sale. Forse la mia protesta ebbe un effetto, se, mi dicono, la situazione è alquanto migliorata). 

Eravamo, dunque, delusi, inappagati; e l’eventualità di non poter fare colazione ci rendeva stizziti e desiderosi di guadagnare l’uscita. Ricordo che per avere un’idea generale della straordinaria raccolta di opere nel Prado, mi misi a scorrere l’elenco degli autori, nel catalogo: decine e decine dei più grandi pittori spagnoli e italiani del Rinascimento e del formidabile Seicento. In questa sfilza di nomi celeberrimi e con le loro opere migliori. il mio indice si posò su un nome che appariva solo, unico. in mezzo a quel ben di Dio: Antonello da Messina. 

Presi il mio amico per un braccio e subito cercammo il quadro. Era in una piccola sala, fra due Botticelli. Da una finestra vicina arrivava, anche se fioca. la luce del giorno. accarezzando il dipinto. Eccolo lì il Cristo muerto sostenido par un àngel di Antonello. In effetti quel Cristo è morto o sta per morire? 

Credo che la magica fantasia del pittore di Messina lo abbia immaginato che “esala l’ultimo respiro” e non sulla croce – come nella consuetudine – in un qualsiasi giardino, tra vecchie mura, fuori città. L’uomo si accascia, colpito a morte. Dalla ferita sul costato, sgorga sangue. e così dalla mano sinistra (un sangue vero, agghiacciante). Con l’altro braccio, quello destro, il condannato non fa a tempo a sostenersi; e la mano, anziché poggiare con il palmo sul piano della pietra su cui è adagiato, appare rivolta all’indietro, in una immaturale e penosissima torsione del polso. che rende più straziante la fine repentina. 

La luce diafana che arriva sul dipinto, esalta e rivela il color verde-rosato del corpo ed i lineamenti del volto di un uomo qualsiasi, come Antonello amava ritrarre i suoi Cristi: forse il suo autoritratto, oppure la faccia di un contadino, di un notaro, di un uomo onesto o di un gaglioffo, o di un pittore, un sicario, un poeta? 

Un piccolo angelo con ali di madreperla viene in soccorso di quell’uomo morente. Gli abbranca il braccio destro per tirarlo su e fare in modo che la mano destra poggi in posizione normale. Non ci riesce. Già la rigidità della morte è scesa nelle membra del Cristo. Ed allora l’angelo incomincia a piangere, con quel 

pianto sommesso dei bin1bi ai quali si sottrae un giocattolo: due lacrimucce sgorgano dagli occhi senza pupille, di infinita espressiva dolcezza. 

Antonello da Messina è tutto qui, in questa mirabile inarrivabile tela, unica nel Prado. Nei testi e nei saggi – innumerevoli – sull’artista di Sicilia, si trova menzione di altri quadri, pur famosi e avvincenti. Ma il Cristo del Prado ha in sé la suggestione e l’emozione del miracolo artistico in terra. Basta, per capire e ammirare l’arte di questo maestro “pictor egregius et unicus” che Leonardo Sciascia, nella stupenda presentazione di una monografia. così descrive: «… un uomo irreversibilmente siciliano, come personaggio e come artista. Nella sua pittura. il rapporto tra figure sacre e quelle umane è uno dei più perfetti che siano mai stati perseguiti in arte. L’esecuzione tecnica una delle più magistrali e inimitabili mai concepite. Nel suo testamento si legge come un siciliano intenda “oggettivamente” la vita e la morte, e sappia descrivere – nel più alto grado espressivo – con la magia della pittura, “la cosa oggettiva quanto più oggettiva possibile” e cioè l’anima». E conclude: «…Un uomo straordinariamente oggettivo, che si trova a vivere e ad esprimere compiutamente, in maniera impareggiabile, dipingendo, il momento più oggettivo che la storia della pittura abbia mai toccato…». 

Usciamo dal Prado commossi. Antonello ci ha estasiati. Madrid, anche se piove ancora, appare meno grigia e più accogliente. La traduzione nella realtà naturale in termini di poesia, in quel Cristo, ci ha avvinto. Alieno da ogni astrazione, indifferente ad ogni indugio formale, iridescente di pura invenzione, quel quadro non si dimentica più. É qui – mi viene da sussurrare all’amico – è qui la misura più vera di Antonello e dell’unica sua opera del Prado: le figure, il Cristo, l’angelo che tenta di sostenerlo e piange, assurgono a simboli universali, ripalpitano di umana quotidiana poesia. 

La mano distorta è l’incredibile invenzione di un intelletto ai margini di una divina follia. Non c’è , in tutto il Rinascimento, un segnale di pari espressiva fantasia. Il grande siculo tutti gli altri sovrasta e confonde. 

Ci si domanda come poté assurgere a tale grandezza. Viaggiatore accanito, studiò i fiamminghi e i veneziani, con il risultato, ritornato a Messina, di aver immesso nella propria sorgiva vocazione, ingredienti di grammatica fiamminga nella sintassi italiana, tutto risolvendo nell’umanità della sua terra, della sua isola, in una espressione finale assoluta ed eterna che attinge la sfera dell’universale. Forse Antonello è “nato estraneo” al Rinascimento, ma del Rinascimento si fa forza viva, portante, inarrestabile, legandone i fasti all’umana temperie dei nostri giorni. 

Siamo sull’aereo che ci riporta in Italia. Riattraversando il Mediterraneo, scambiamo, l’amico “storico” ed io “pittore”, pensieri e riflessioni – che ci competono per il nostro lavoro – su Antonello che ci ha toccato il cuore. Egli esprime il genio della razza, dice Gabriele De Rosa, ed abbraccia in un amplesso storicamente accertabile, tutte le civiltà isolane, inondate dai Greci dagli Arabi dai Normanni, con l’esito di bellezze secolari, sotto il sole di Sicilia. Sì, aggiungo, l’impasto che fa dei colori, rendendoli subito luce, è misterioso, indecifrabile. 

Lo sfumato delle fanne si risolve in un polverio atmosferico che anticipa di quattrocento anni i più grandi impressionisti; e la prospettiva aerea che aiuta quella lineare? Ma come diavolo fa a dipingere così? 

Antonello è una di quelle genuine miracolose apparizioni, sulla scena del mondo, di esseri privilegiati sulla cui fronte balena la carezza di Dio. 

Carlo Montarsolo

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 65-67.




Sironi a Marsala

Dalla fine di Giugno al 30 Settembre 1989 l’Ente Mostra di Pittura di Marsala è balzato all’attenzione della stampa italiana ed estera per essere stato sede dell’esposizione di 54 figurini allestiti da Mario Sironi nel 1933 per le scene della Lucrezia Borgia di Donizetti al I Maggio Musicale Fiorentino. Si tratta di bozzetti che suscitano curiosità e allietano l’occhio del visitatore per la vivacità figurativa e per la gioiosa varietà cromatica e ci fanno pensare a quanto stretta sia stata in Sironi la perizia del disegno e del colore con la passione del ricercatore e dello studioso della moda e delle consuetudini delle corti rinascimentali. La storia del ritrovamento dei figurini, dovuto a Mario Penelope, è ampiamente esposta nel n. 3 della rivista ?AR?E in? e nell’esauriente catalogo Sironi – i figurini ritrovati stampato dall’Ente Mostra di Marsala presso l’editore Mazzotta (Milano), con la collaborazione, appunto, di M. Penelope, C. Marchegiani (organizzatrice dell’esposizione), E. Pontiggia e del musicista-musicologo G. Petrassi. La mostra dei figurini ha avuto lo scopo preminente di voler contribuire – ha scritto Penelope – ad affermare il posto di spicco che Mario Sironi, assieme a Casorati e a De Chirico, ebbe nell’?azione di rinnovamento della scenografia italiana portata avanti negli anni Trenta/Quaranta, che determinerà uno straordinario mutamento nei criteri estetici e funzionali della messinscena?, fino ad allora basati sulla stantia e stanca concezione della ripetitività e fissità dello sfondo scenico. Se lo scopo sia stato raggiunto non è facile asserirlo, ma indubbiamente con l’esposizione dei figurini di Sironi Marsala ha offerto “alla storia dell’arte, non solo italiana (se veramente negli anni Trenta/Quaranta Firenze – secondo l’aspirazione dell’ala culturale impersonata da Pavolini ed ostacolata dal rozzo e gretto conservatorismo di Roberto Farinacci – svolse la funzione di «palestra rinnovatrice della scenografia europea»), un importante tassello mancante del complesso profilo artistico e culturale della seria e inquieta personalità di Sironi. Certo è che con il ritrovamento dei figurini e con l’argomentata illustrazione che se n’è fatta vien fuori un altro suggestivo lato del prisma affascinante che fu, e sempre più va definendosi, Mario Sironi, il lato dello sceneggiatore. Si può infatti ammettere ancora oggi che Sironi negli anni precedenti la 2a guerra mondiale fu, suo malgrado e senza ombra di servilismo opportunistico, al centro del fragore plaudente ed interessato di certa critica «ufficiale» la quale mirò ad evidenziare di più gli accenti enfatici ed ipertrofici di alcune figurazioni architettoniche o monumentalistico-celebrative. Eppure non si può negare la forte tensione morale e culturale di un uomo che sperimentò e seguì le fasi dell’arte pittorica italiana ed europea del ‘900 mantenendo integra la sua autenticità, propugnando e forgiando teorie artistiche come quella del «Novecento storico», la quale tanta parte ebbe nell’evoluzione della pittura fino ai nostri giorni e nell’avviamento al successo di tanti pittori ancora viventi, o come quella contenuta nel «Manifesto della pittura nurale» sottoscritto assieme a Carrà, Funi e Campigli. Né si può negare il suo ruolo di messaggero dell’arte italiana all’estero e di interprete onesto e serio della società del suo tempo, a tal punto coerente da subire gli strali di Farinacci per la sua presunta arte bolscevica e antitaliana e da essere per sempre escluso dalla partecipazione alla Biennale d’Arte di Venezia. Fu anche vignettista e caricaturista, illustratore e grafico di giornali e riviste di alto livello culturale, disegnatore eccelso, critico d’arte, scultore, decoratore, architetto.

Tutti questi aspetti dell’arte e della vita di Sironi, oggi, dopo l’oblio e la coltre dei pregiudizi successivi al crollo del fascismo, vanno approfonditi e volti alla ricerca del filo unitario che li collega. È questo insomma il compito essenziale dell’opera di riconsiderazione e rivalutazione equilibrata e disinteressata della questione sironiana. A tale scopo il catalogo Sironi – (figurini ritrovati fornisce una ricca bibliografia, utilissima a chi voglia avventurarsi in una ricerca seria ed efficace. A noi piace sottolineare che anche a questa domanda di ricerca dell’unità nella molteplicità sironiana la mostra di Marsala ha cercato di dare un tentativo di risposta, quanto meno perché assieme ai 54 figurini della Lucrezia Borgia ha offerto ai visitatori, venuti da ogni dove, la visione di 58 opere tra dipinti a olio e tempera, manifesti pubblicitari, schizzi e disegni a carboncino, a inchiostro, a matita, che abbracciano tutto l’arco della produzione sironiana dal 1902 al 1960. Sorprende nel confronto di tali dipinti con i figurini la differenza di tonalità cromatica: vivace nei bozzetti scenografici e prevalentemente solenne nei dipinti. Ma negli uni e negli altri predomina la scrupolosa serietà del segno e delle linee. Un’altra questione da affrontare nella ricerca su Sironi è la diversità del suo stile di vita e della sua produzione artistica degli anni successivi alla 2a guerra mondiale rispetto a quelli antecedenti. Nel periodo che precede la guerra si avverte una diffusa tendenza a non disdegnare le plaudenti frequentazioni e cerimonie pubbliche e a rivolgere messaggi «costruzionistici» all’utenza sociale dell’arte fino al punto di sentenziare il ripudio del quadro da cavalletto, perché – diceva – serviva solo per la distrazione del proprietario, per l’intimità del salotto e il gelido e marmoreo silenzio delle pinacoteche. Dopo la guerra, e sino alla fine della sua vita, Sironi si chiude in se stesso, dentro una solitudine asociale e scontrosa della quale mi sembra sia la più emblematica parossistica e sublime trasposizione quel dipinto famoso, l’Invocazione o l’Urlo, che avemmo modo di ammirare nella 1a Mostra Collettiva Nazionale di Pittura Contemporanea svoltasi a Marsala nel 1961, anno stesso della morte del pittore.

La soluzione della questione, intrecciata implicitamente con quella dell’evoluzione materica della sua pittura, non è facile. Ma può azzardarsi l’ipotesi

che il crollo di un’epoca e dei sogni esistenziali e prospettici ad essa connessi abbia inciso profondamente nell’animo dell’artista fino a fargli intendere che tutto ciò che l’uomo presume di costruire finisce travolto e distrutto dagli eventi inevitabili del tempo e che l’unica architettura che resta eterna, fino a identificarsi con il Dio da lui negato per tutta la vita e forse invocato nel dipinto l’Urlo, è la materia o natura che dir si voglia. A tal proposito mi pare che il giudizio più valido e più sintetico sulla pittura di Sironi sia quello espresso da Massimo Bontempelli che magistralmente così definisce l’oggetto delle prevalenti e conclusive attenzioni pittoriche dell’artista: «un mondo millenario che pare prosciugato dai miliardi di occhi che lo hanno veduto esistere».

Gaspare Li Causi

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 51-53.




 L’itinerario umano e artistico di Germana Parnykel 

Nel 1988 cadeva il decennale della morte di Germana Parnykel a Torre Pelice e il novantesimo della sua nascita a Kiev. 

Un po’ per la singolare coincidenza di date, un po’ per la validità di questa donna inconsueta che tanto incise nella vita artistica italiana negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, l’Ente Mostra Nazionale di Pittura Contemporanea della città di Marsala ha voluto renderle un omaggio, curando una retrospettiva delle sue opere, con l’intento di recuperarne la memoria, i pregi e i meriti, e di ripresentare alle nuove generazioni una nobile e singolare figura di artista. 

Un suggestivo profilo della pittrice e dell’autenticità dei suoi personalissimi valori artistico-culturali l’ha tracciato Gioacchino Aldo Ruggieri, dandoci un segno tangibile della grandezza della Parnykel. Un’altra bella testimonianza la dà Umberto Palestini che per l’occasione ha curato il catalogo: «Germana Parnykel è un’artista del Novecento di cultura cosmopolita, poliglotta, partita dalla Russia zarista con la convinzione che l’arte realista aveva una sua funzione sociale, oltre a contribuire a strappare il velo delle apparenze, purché supportata dalla forza delle idee: opere coerenti con il suo incrollabile credo nel valore dell’uomo e nella ricerca del vero. Essenzialmente ritrattista – con notevoli risultati nel paesaggio e nella natura morta – sonda attraverso questo tema il grande problema del superamento della fisicità anatomica, della schematizzazione somatica, per giungere all’unitarietà artistica in cui si esprime il rapporto inscindibile tra materia e spiritualità». 

Ma, dopo averne contemplato le opere e dopo avere avuto l’occasione di guardare con gli occhi della mente e dell’anima i ritratti, i dipinti paesaggistici, le raffigurazioni dei gatti tra i comignoli e i «dammusi», le nature morte, i disegni, gli schizzi, le grafiche, cioè il patrimonio d’arte e di cultura che la pittrice ha lasciato agli eredi e ai tanti amici sparsi un po’ dovunque, si ha effettivamente la sensazione di trovarci al cospetto non delle solite dilettantistiche produzioni di un’artista di provincia, brava e inevitabilmente limitata dall’esiguità dei confini storici e geografici della sua vita, bensì di una grande, forte e tenera insieme personalità di elevatissimo talento che travalica i limiti del circuito nazionale. 

Basti pensare al fatto che le testimonianze del suo impegno mai interrotto di interprete pittorica del mondo e della vita spaziano dalla raffigurazione del Contadino Tumminia di Calatafimi a quella di un’altissima palma che sorgeva davanti al porto di Marsala, da un quadrettino di paesaggio russo dipinto nel 1917, ove sembra aleggiare l’influenza di Kandiskiy, al ritratto della Contessa Sbordoni, in cui si avverte una potenza impareggiabile di penetrazione psicologica, dalle decorazioni proprie dell’iconografia russa alle immagini solari nostrane (Campagna romana del 1960 o Saline del 1954). 

Abbiamo appreso dalla conversazione col figlio Oliegh – sia pure sommariamente – l’accidentato percorso della vita di Germana Parnykel e le tappe più significative della sua esperienza artistica. 

Nasce a Kiev nel 1898 da una famiglia di nobile borghesia intellettuale (il padre, laureatosi a Colonia, era stato ingegnere costruttore della transiberiana); giovanissima studia a Mosca con due famosi maestri della pittura russa, le cui opere si trovano presso la Galleria Tretiakov e, cioè, con l’accademico Kassàtkin e con il paesaggista Iuon «premio Stalin per la pittura». Poi frequenta lo studio del pittore d’avanguardia Maskov. 

L’incendio della Rivoluzione d’ottobre la sorprende a Odessa, ove si trovava con la famiglia per motivi di salute; da qui passa a Istanbul, rimanendovi per due anni e mezzo nell’angosciante attesa, mai soddisfatta, di ritornare in patria una volta che le acque si fossero calmate. Tra le opere più significative di questo periodo vanno ricordate Casa tartara e Tetti di Odessa, dove già il dosaggio dei colori evidenzia il tocco magistrale della Parnykel più matura. Ecco cosa dice Umberto Palestini: «Ne la Casa tartara del 1917, l’artista, attraverso piccoli tocchi di colore accostati con raffinato equilibrio tonale, esplora la lezione dell’impressionismo, movimento filtrato attraverso Iuon; ne i Tetti di Odessa del 1919, la composizione si iscrive in un rigoroso e severo ordine di campiture strutturate su elementi orizzontali e verticali, dove probabilmente la Parnykel tenta di fare propria la magistrale lezione cézanniana». 

Successivamente, nel 1921, come gran parte degli indesiderati dalle forze rivoluzionarie, la famiglia Parnykel approda a Parigi, ove Germana frequenta l’Accademia di Belle Arti, soffermandosi nell’assidua contemplazione del Louvre e conoscendo da vicino le esperienze degli impressionisti e dei post-impressionisti. Poi è la volta di Venezia, 1926, dove consegue il diploma di Magistero e si dedica appassionatamente alla difficile arte dell’affresco. 

Dal 1940 al 1941 ricopre l’incarico di lettrice di lingua russa presso l’Istituto Superiore di Commercio alla Ca’ Foscari, dopo aver conosciuto il marsalese Tommaso Giacalone Monaco, docente di economia e diritto, che sposerà nel 1931. Risalgono a questo periodo veneziano opere come Autoritratto con marito, Contadina ampezzana, Oliegh, dove la pittrice rivela un forte senso introspettivo nella perfetta simbiosi di colori e di tecnica. 

A Marsala visse in dolce e schivo colloquio con l’ambiente dal 1946 al 1959, producendo buona parte delle sue opere. Leggiamo, in proposito, Palestini: «La tavolozza dell’artista esalta i suoi caratteristici colori marroni caldi, rossi, ocra – derivati dall’arte bizantina – immergendoli nella concertata sinfonia di tonalità chiare e luminose, riflesso della preziosa luce della Sicilia e omaggio allo splendido paesaggio marsalese come le Saline del 1954. Nello stesso periodo l’artista realizza due ritratti del padre in cui nella fierezza aristocratica dello sguardo si insinua una cocente malinconia, preludio anticipatore di una crisi esistenziale che Germana Pamykel avvertirà sempre più forte e che la porterà ad intraprendere un nuovo viaggio verso Roma nel 1959». 

Il gusto artistico isolano a quei tempi non era certamente tale da capire interamente il valore della Pamykel e può darsi che l’esigenza di sentirsi più a proprio agio rabbia spinta a trasferirsi prima a Velletri e poi a Roma. 

La prima affermazione della pittrice è del 1932 alla Galleria «Il Milione» a Milano, ove fu presentata da ugo Nebbia. Poi, seguono le altre tappe importanti dei suoi incontri col pubblico: una personale alla Galleria Charpentier di Parigi e altre in varie Gallerie di Venezia, la partecipazione nel 1938 alla XXI Biennale d’Arte di Venezia con Autoritratto e Carnevale a Istanbul e alla Quadriennale d’Arte di Roma. Negli anni di permanenza a Marsala espone alla Galleria Virzì e a Trapani. Va detto anche che prima di lasciare la Sicilia consegue il premio Selezione organizzato dall’Amministrazione provinciale di Trapani e conclusosi a Roma con una mostra a Palazzo Venezia. 

Nel 1961 si afferma ancora con una personale alla Galleria «Il Traguardo» di Forte dei Marmi e nel dicembre del 1962 alla Galleria «Albatro» di Roma. Ottiene l’ultimo suo successo alla Galleria «Club Migros» di Losanna con una personale di olii, tempere, pastelli, nel dicembre 1977. 

Dinanzi ad una produzione così vasta e molteplice, ad un’esperienza tanto travagliata e sofferta e ad un humus artistico-culturale veramente imponente, si è fatto bene a rendere omaggio alla memoria della pittrice con una retrospettiva delle testimonianze del suo ciclo pittorico. 

È augurabile che a questa iniziativa dell’Ente Mostra Città di Marsala altre ne seguano e, soprattutto, è auspicabile che si dia impulso ad uno studio attento e approfondito della sua storia di artista inconsueta. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 51-55.




 Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 

Nato a Eisenstadt (Burgenland) nel 1939, Walter Grillenberger si è affinato nell’Istituto superiore d’insegnamento di Vienna Strebendorf, in particolare – per qiuanto riguarda le discipline artistiche – alla scuola del Kuhn. Dal 1970 insegna educazione artistica, a Salisburgo, nelle scuole superiori. 

La sua partecipazione a mostre inizia nel 1965, Jugendring di Innsbruck. Le sue mostre personali, invece, cominciano nel 1974 a Oberwart; e si svolgono a Salisburgo, St. Johann, Hallein, nella sua città natale. Adesso la sua esposizione personale «Prospettive astratte», promossa dal ministero federale austriaco per l’Istruzione, a Roma nell’Istituto austriaco di cultura (che, da anni, svolge un’attività variegata e intensissima). 

I dipinti ad olio di Walter Grillenberger – come ricorda Michael Stadler, in catalogo – «mostrano una forte influenza del cubismo, la cui caratteristica è» la «trasformazione delle forme visive in geometriche e piane. Come i cubisti egli tratta il motivo illustrativo con logica analitica e realizza i suoi quadri a mente fredda. Partendo da uno schizzo, cerca di mettere in risalto» quanto punge il suo interesse «tralasciando tutto il resto». 

«Le forme realistiche vengono radicalmente semplificate. Le case» – «cubi colorati» – «mantengono però la loro realtà, come anche le figure che nelle loro forme arrotondale contrastano efficacemente con gli elementi a spigoli vivi». 

Si direbbe che gli oli di Grillenberger si presentano come intarsi tonali, pentagrammati coloristicamente e nella stessa sinuosità delle linee (forma e colore sono tutt’uno, e i rari chiaroscuri pongono in evidenza questo aspetto) al punto che gli spigoli – «vivi» se considerati isolatamente – forniscono anch’essi, nell’insieme del quadro, una musicale partecipazione all’andamento sinuoso dei diversissimi brani del puzzle. 

Case, animali, elementi decorativi, figure umane, si fondono a instaurare un paesaggio le cui profondità prospettiche si contrappuntano alla piana geometricità delle scomposizioni (e ricomposizioni). Ne risulta una scena mossa, vivace, in cui i colori chiari si lasciano assorbire da quelli scuri; e le connotazioni più stabili – essenzialmente statuarie – contribuiscono, per implicita metafora, a movimentare l’andamento della composizione. 

A ben guardare, ogni quadro è una giustapposizione di forme fisse le quali – nella sintesi racchiusa dai limiti della tela – riescono a darsi un timbro da opera in via di svolgimento; un trascorrere ininterrotto, asciutto ma fluente, sommesso però deciso. 

Questa astratta combinazione di cubismi possiede, dunque, un’attualità che travalica le possibili utilizzazioni illustrative. E indica un processo d’identificazione per cui costantemente il paesaggio – anche quello con figure – diviene foresta. Noi camminiamo velocemente nella foresta, ed è come se gli alberi si muovessero: passando davanti alla nostra sosta. 

Sarebbe un fenomeno analogo a quello di chi, dal treno, guarda fuggire i pali del telegrafo. Non lo è, in quanto tutto assurge alla dimensione della foresta: di tempo sospeso in luce soffusa. La civilizzazione non sarà o non si è avuta ancora; all’autore importa l’umana essenza, nella sua esplicazione meditativa che non è mai ferma: anzi, è sempre in un viaggio che non sappiamo se e quando potremo avere compiuto. 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 41-42.




Sicilia: mito e realtà a Trapani 

Dopo la grande e riuscitissima mostra Ori e argenti di Sicilia di un anno fa, Trapani, sempre a cura dell’Amministrazione provinciale, ospita un’altra grande manifestazione artistica che ha per titolo: Sicilia: Mito e Realtà. 

Si tratta di un’antologica di artisti siciliani che per affermare la loro arte, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, hanno tentato la via del Continente, portando dentro di sé (e manifestandolo nelle opere) l’amore per la loro terra a cui sempre sono rimasti legati. 

Questa mostra è un’operazione culturale di grande respiro, se si considera che accoglie una cinquantina di artisti, la maggior parte dei quali solidamente affermati anche a livello internazionale. Ed è importante, perché porta a conoscenza del grande pubblico, in un quadro d’insieme, il lavoro silenzioso di questi artisti che, seppure lontani dalla Sicilia per esigenze di vita o, meglio, per potenziare di più la loro arte, hanno diffuso nel mondo un’immagine dell’Isola diversa da quella che di solito alcuni mass-media presentano. E il loro imporsi nel regno dell’arte acquista così una valenza culturale enorme, perché contribuisce a vedere nella Sicilia la terra di colore e di luce, quale effettivamente è, fatta di laboriosità, intrisa di accanimento, di fatiche mal ricompensate, di desideri inappagati. 

Così la mostra del museo Pepoli vuole essere, innanzitutto, un gesto di riconoscenza e di gratitudine verso questi artisti siciliani più o meno noti, e vuole anche dare una paronamica del loro percorso artistico sviluppatosi in un più ampio contesto, ricco di fermenti e ancor più, arricchito dei nuovi apporti che a lungo andare lo condizioneranno. E basta scorrere la lunga lista dei pittori presenti alla mostra per rendercene conto. A cominciare dai primi o, per meglio dire, sin da quelli che dalla fine dell’Ottocento in poi hanno tentato altri approdi per arricchire la loro arte e concrettizzarsi, perché – come è stato bene sottolineato da altri – è difficile volerli tutti enumerare: in ogni tempo e in ogni luogo troviamo sempre artisti (pittori o scrittori che siano) siciliani e meridionali in genere che, imponendosi, hanno detto la loro nel campo dell’arte. 

Uno di questi (ma ce ne sono altri che con la loro presenza in questa mostra arricchiscono il quadro: Catti, De Francisco, Minosi, Lojacono, Panebianco) che a cavallo tra Otto e Novecento ha portato altrove la solarità mediterranea propria della sua terra è l’Anonimo Letojanni, su cui particolarmente si è portati a fermare l’attenzione. Il mare aperto è visto tra la realtà e il sogno: il mare reale popolato di barche e di uomini intenti al lavoro, e quello che il pittore si porta dentro, fantastico, ricco di vegetazioni e di colori, che solo chi il mare ha nel sangue può dipingere. E quello che attrae è proprio la gradazione di colori che, poi, sono i colori dell’Isola, ora densi ora sfumati, ma sempre traboccanti di luce o, meglio, di una luminosità che, placando i sensi, fa riposare l’anima. 

Questa di Trapani è una mostra che bisogna vedere per farcene, se non altro, un’idea propria e per renderci conto come effettivamente in essa vi sia compendiata tutta l’arte del XX secolo, con i suoi percorsi e anche con i suoi ritorni. 

La grande stagione del realismo è degnamente rappresentata da Guttuso e Migneco: il Guttuso dai colori accesi, passionali, dettati da quell’impegno umano e sociale che caratterizza la sua arte, e il Migneco che dai volti dei suoi personaggi in movimento sprigiona la rabbia dovuta alle precarie condizioni in cui sono costretti a vivere. E il dolore e la sofferenza sono qui una denuncia silenziosa, fatta di ostinazione e di accanita perseveranza. 

La luce diventa armonia nelle sculture di E. Greco, e di G. Mazzullo, artista della forma sinuosa e gentile, e aggraziata e pura il primo, poeta raffinato e interprete della sua gente di Sicilia il secondo. Pure folta è la presenza in questa mostra di artisti che hanno contribuito, facendo proprie certe istanze che venivano da fuori, ad ampliare in Italia il concetto stesso di arte, intesa come momento liberatorio di intima e personale riflessione, che rompe i ponti con la tradizione. 

L’artista dà campo libero alla propria creatività e sprigiona in una simbiosi di linee e di colori il suo mondo che è, appunto, quello dell’astratto e dell’informale. Pietro Consagra, Carla Attardi, Antonio Sanfilippo ed altri, che questa strada hanno intrapreso e sono significativamente rappresentati, dimostrano già dal 1947, anno di nascita di Forma 1, che il colore e l’immagine avulsa dalla realtà spesso dicono l’indicibile e parlano al cuore e alla mente un linguaggio diverso e, al tempo stesso, familiare. 

Ma altri artisti sono presenti a palazzo Pepoli: tutti con un proprio bagaglio artistico-culturale, tutti con qualcosa di pregnante che emoziona e fa riflettere. È il mondo che ognuno di essi ha dentro di sé che trova nell’arte, in maniera assai diversa nell’uno o nell’altro, il mezzo per esteriorizzarsi. 

Degni di attenzione sono i dipinti di Piero Guccione, l’artista degli spazi e dei silenzi profondi. È come se avesse formato sulla tela le immense distese di mare e di sabbia (Riflesso sul mare), un mare calmo che dolcemente carezza spiagge incontaminate, dal colore oro là dove l’acqua non le tocca, scurite e pregne di liquido quelle che appena sfiora. Nella pittura di Guccione spira un’aria di evasione, e non si vede anima viva. È il silenzio che domina e si fa luce intensissima, e quasi esplode. 

L’arte contemporanea – dicevamo- è fatta anche di ritorni, come quello di U. Attardi che, abbandonata l’arte informale, si rifà ad un realismo pregno di una raffigurazione vigorosa della condizione umana, oppure, come l’altro di F. Pirruca, con cui l’artista va indietro nel tempo alla ricerca di immagini umanamente più vere che vivono la loro esistenza a dimensione d’uomo, scevre della vita stressante dei giorni nostri. 

Sarebbero da ricordare tutti gli artisti presenti a questa mostra: Mirabella, Franchina, Trombadori, Maugeri e gli altri. Ma non facciamo torto a nessuno se diciamo che tutti, indistintamente, esprimono e testimoniano il travaglio esistenziale che stiamo vivendo e il loro apporto costruttivo va al di là del semplice fatto artistico. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 41-43.




Milluzzo Artista dell’umana sensibilità 

Una personale di Sebastiano Milluzzo non può certo passare inosservata, specie per chi ha avuto modo di vederne altre, in Sicilia e altrove. L’occasione ce l’ha offerta Arte Club ’88 di Marsala, aprendo i suoi locali ad un artista tra i più validi del nostro tempo. 

In un periodo in cui il provvisorio e il dilettantismo invadono il mercato, mortificando l’arte e relegandola in confini sempre più ristretti, fa veramente bene all’anima e al corpo trovarsi dinanzi ad opere di Milluzzo, un artista che pur avendo preferito radicarsi ancor più nella sua terra di Sicilia, è rimasto sempre attento ai movimenti e alle correnti artistiche sviluppatisi in Italia e fuori, facendoli oggetto di ricerca e di acquisizione tutte proprie, pervenendo così a risultati sorprendenti ed originali. 

Figura di artista poliedrica, sia che plasmi la materia o abbozzi un disegno, sia che crei una scenografia o lavori la ceramica, ti accorgi che viene trasportato dal fuoco creativo avvincente e seducente al tempo stesso. E l’arte si fa vita, movimento e anche staticità pensosa e riflessiva come chi, proiettato in un progresso zeppo di interrogativi, si fermi un momento a considerare se stesso e gli altri. 

L’arte di Milluzzo ha proprio il dono di trasportarci e farsi seguire anche là dove i tentativi sembrano senza sbocco, perché c’è in essa sempre qualcosa che ci colpisce e. a volte, disorienta. Vuol dire che non ci troviamo dinanzi al solito imbrattatele che niente ha da dire, bensì ad un uomo prima che ad un maestro che utilizza il mestiere per elevare culturalmente il suo simile e riscattare certi valori che sono in lui, messi nel dimenticatoio e mortificati. Guarda un po’ le immagini o gli arlecchini, su cui ama il Nostro ritornare – basta considerare la sua produzione sin dai primi lavori per rendertene conto – per notare questo aspetto che ritengo fondamentale: traspare in essi un senso di innocenza che sembra smarrita, disorientata. È il timore di perderla che li lascia assorti e meditativi. 

I colori concorrono a partecipare questi sentimenti. Ora sono chiaroscuri, ora accesi quasi a trasmettere il fuoco che anima l’arte del siciliano Milluzzo. Una sicilianità questa, che non è un chiudersi entro i parametri ben definiti dell’Isola (Migneco, Giambecchina, per citarne alcuni), ma il rispecchiarsi della solarità mediterranea (Fiori, Paesaggio, Albero e case, la più recente Composizione), del colore represso e cristallizzato della sua terra lavica che viene irradiato a più ampi orizzonti. Volto di donna, coi capelli sciolti al vento, nei colori accesi quasi di un rosso-porpora, negli occhi così espressivi che fermano, vuoi o no, l’ammiratore, è la Penelope che richiama l’eroe, il quale, fermo nel suo sentire mediterraneo, pur attaccato alla donna, che è poi il carattere espansivo, aperto, sensitivo, caldo degli uomini di questo lembo di terra, coglie il richiamo che viene da lontano e lo asseconda. 

La ricerca di Milluzzo è come quella dell’ape: ha succhiato i fiori più belli per dare in dono la sua arte personalissima. Cézanne, Picasso, Modigliani, gli espressionisti, tutti gli suggeriscono qualcosa e tutti hanno qualcosa da dirgli per affinare ancora di più le sue tecniche e raggiungere una espressività che non è solo slancio verso la perfezione, ma bisogno insito di nuove conquiste. Quel richiamo di Ulisse che viene da lontano, insomma, e che lo spinge lontano. 

Nessuno nella ricerca artistica è un isolato, e tanto meno Milluzzo. E questo a dissentire quanti lo considerano tale. L’arte, la vera arte, quando è tale, che è anche vera poesia, non isola alcuno. Che Milluzzo abbia preferito rimanere tra la sua gente abbarbicata alle falde dell’Etna, non vuol dire niente, come niente vuol dire l’essersi allontanato dai fragori passeggeri e momentanei, a cui ricorre la gente qualunque per godere uno sprazzo di notorietà. La vera arte rifugge la notorietà spicciola per acquisire quella vera nel tempo e col tempo. L’essersi tenuto sempre aggiornato dei risvolti artistici più avanzati, vuol dire che non si è fatta sfuggire occasione alcuna per confrontarsi con altre esperienze e non si è chiuso in un ambiente che, diversamente, per quanto bello possa essere, a lungo andare, risulterebbe asfittico e improduttivo. Milluzzo ha scelto l’Isola per salvaguardare la sua arte. E non vi trovi altro regionalismo, se non il mondo o – se vuoi – le regioni del mondo, che cambiano nel loro aspetto paesaggistico, ma per il cuore rimangono tutte uguali. 

L’arte di Sebastiano Milluzzo nobilita prima di ogni cosa il sentire dell’uomo. L’espressività non è ricerca di un motivo come timbro della sua pittura, dei suoi disegni, della sua scultura; essa è. spontanea, così come spontaneo è ogni sussulto dell’animo. È qui che riesce bene Milluzzo, qui riesce grande la sua arte. Poi ci sono i colori. la cadenza delle linee, l’armonia propria di quest’arte. La Cucitrice, più che cucire. pensa; pensa con la grazia di una donna che nel lavoro affronta anche i suoi crucci e le sue ansie, siano essi di innamorata o di madre amorosa. Osserva poi le linee, i loro allungamenti. l’armonia che è nei colori. La lezione di Modigliani esce più ingentilita, quasi aerea, come la mano leggera che si posa sullo strumento del suo lavoro. 

Noi non ci stancheremo mai di ammirare Marisa: è la dolcezza personificata, la Beatrice che eleva il corpo e l’anima per attaccarli ancor di più a questa terra, alla nostra esistenza e farcela amare. Qui Milluzzo raggiunge le sfere più alte della poesia. Il bianco acquista grazia dal candore del volto, fermando così sulla tela una luce che inebria e distende. 

E questa luce emerge anche nella scultura. Si osservi un ritratto in rame o un nudo in bronzo. ad esempio. La materia, levigata e plasmata come cera, docilmente ubbidisce alle mani dell’artista che esprime la sua sensibilità di uomo e di poeta. Quei volti così pensosi, presi come sono dal travaglio esistenziale, parlano direttamente al cuore, e le linee magistralmente tirate, che sembrano abbozzate alla meglio, esprimono una drammaticità sofferta grazie alla tavolozza di Milluzzo, un artista che mirabilmente scandaglia gli angoli più reconditi dell’umana sensibilità. 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 44-46.