La parola dell’essere del mosaicosmo

La poesia è. 

         La poesia evoca, non dice. 

         La poesia, geroglifico dei sogni che si fanno poesia.

        La poesia è l’unica umana creazione che vive nel deserto del nostro tempo.

        La poesia è vita che si manifesta umile ed essenziale anche in questa nostra vita amara: trovarla, saperla leggere e, quindi, intenderla con un supplemento d’amore nell’aridità dei giorni è fondamentale. 

       La poesia è l’essenziale nel contrasto e nel caos, è meditazione della parola nella caducità, pregna d’ironia ed etica insieme.

      La poesia, risonanza di sé stessi come testimonianza dell’orma che siamo, soli con i nostri versi, in compagnia della fantasia che è già l’eterno.

     La poesia è urgenza metafisica, laica e religiosa, a seconda le equazioni personali, e scruta da un microscopio, o come da una feritoia, il corso della vita e delle cose, proponendo la salvazione possibile. 

      La poesia, come acquisita consapevolezza dell’Essere, senza petulanti schiamazzi di gioia, di facili ed effimeri successi mondani

      La poesia è, prima che esercizio di scrittura, conoscenza ed esistenza, dono e non soltanto messaggio.

      La poesia, che è stata sempre la più alta rappresentazione del Mistero, è nella stessa natura della parola, epifania del sacro nella complessità e nel dolore, nell’attesa e nella contemplazione. 

     La poesia: universo parallelo e complesso che ha nella parola e nell’immagine il suo centro, la sua nudità e la sua incalcolabile ricchezza.

     La poesia, sequenza di verità intime, amicali, che entra dentro il cuore e si fa viaggio verso l’ignoto, infinito, per riscoprire insieme affetti e sentimenti, per sentire ancora il lieve rumore del cuore.

     La poesia. Il modo di essere. Per leggere l’anima di ognuno e del mondo. Dei sentimenti e delle sconfitte, delle gioie e delle angosce.

     La poesia è metànoia, cammino iniziatico, esercizio spirituale profondo, intuizione e sintesi, rigore e costanza, fede nella parola che sostanzia la vita, il bene, e la lega al cosmo, al divino, quasi a consacrare una universale corredenzione.

     La poesia come partecipazione affettiva, come centro spirituale, legame quasi religioso.

     La poesia accoglie e trasmette lucentezza e tenebra, colore e musica nella inesausta ricerca di quell’Armonia originaria che sostanzia di verità e di vita il fondamento dell’esistenza umana.

      La poesia appare come realtà vivente contro l’astrazione e il meccanicismo, bellezza, unità e verità, nella Tradizione rivelata.

     La poesia come “versus” ossia ritorno, speranza di redenzione, magia e mito, che dal proprio significato interiore diventa patrimonio e realtà totale di vita, per chi sa consapevolmente intendere la profonda, inesauribile Verità del linguaggio e del simbolo.

      La poesia deve essere intesa come sacrificio dell’occhio mortale che transustanzia la cecità nella visione ancestrale del divino.

      La poesia non è dolore, ma il senso del dolore, la poesia non è sangue, ma il senso che scorre nel sangue e lo congela.

     La poesia non è semplicemente un’espressione dell’anima, la poesia nasce dall’ispirazione che attraverso il pensiero si unisce alla cultura.

     La poesia non domanda, non consola, non impreca. È il supremo fiat che trasforma nell’universalità del mito l’umano destino e, attraverso l’accettazione del dolore, può redimerci.

      La poesia, sapienza della forma estetica, intuizione del principio e non logica del principio. Non razionalità, né irrazionalità: pensiero che svela, logos permanente del mutamento.

      La poesia come soffio che illumina la mente e l’anima di quei valori che sono primariamente bellezza e cultura, umile ascolto e potenti verità.

      La poesia non è intimismo fine a sé stesso o lamentosa accettazione della contemporaneità, non è sogno di improduttivi appagamenti letterari e di ricercate parole ad effetto o di consolatori ebetismi o ancora claunesco esibizionismo dell’apparire, bensì mistero dell’essere autentico nella gioia e nel dolore, accettazione di solitudine, preghiera, sacrificio, profezia, umiltà senza illusioni, agone di chi ama e muore in silenzio.

     La poesia si riduce troppe volte a scheggia senza senso, a estrinsecazioni di banali sensazioni, a proclama ideologico, a sciatteria, a nichilismo, perdendo, in questi non pochi casi, il valore alto della profezia. l’annuncio di un destino, il disegno di un viaggio decisivo.

      La poesia, la poesia… della vita, della sua anima insonne, della sua graffiante libertà.

     Resta sempre vivo il fascino e l’importanza della poesia scritta su un foglio, che si invia e  si riceve, senza i limiti imposti dalla velocità e dalla tecnica spesso disumanizzante.

      Nel tempo della ragione allucinata solo la lucidità del sogno riscatta gli uomini. E la consistenza del sogno è nella mirabile congiunzione fra musica e parola poetica.

      L’incontro con la poesia è sempre incontro con l’anima.   

      Solo il travaglio dona poesia. 

     Anche la memoria delle cose semplici, l’impronta, il suono, l’urto possono divenire poesia.

    Solo la poesia, l’arte e la conoscenza scientifica, possono assumersi – se non degradate a millanteria, artificio e pretesa – l’onere dell’impensabile, oltre le scogliere del corrente pensare vacuo.

    Filosofia e musica si fondano, nella loro essenza originaria, nel loro spirito autentico, grazie al cuore della poesia.

    Il mistero della poesia può farsi ansia di verità, monito di umiltà, strumento perenne di rigenerazione per l’uomo.

    Nulla serve alla disarmata parola lirica viva.

    Ed è universo molto più che verso.

    Il poeta, a volte, possiede la chiave della sintesi giusta e per questo può incidere in profondità nell’animo dell’uomo più di ogni altro artigiano della parola o di qualsiasi atto creativo, senza per questo assumersi o sentirsi investito da compiti profetici o salvifici, ma piuttosto rendendosi possibile strumento di un Disegno, non solo appartenente alla razionalità orizzontale.

      Il poeta non è un uomo astratto. È un uomo concreto che vive la sua storia, la sua realtà e quotidianità e che, quindi, trasferisce nel verso la sua personale visione.

      Il poeta è un uomo libero che , opponendosi alla cementificazione dello spirito, si riconosce in  modo totalizzante nel valore della parola. 

      Lo slancio quasi religioso del poeta è humus imprescindibile per una rinascita etica.

     Anche il poeta è primariamente un uomo che testimonia una scelta. Difficile, aspra, ma al contempo esaltante.

     Vita del poeta come alchimia, fra tanti tarli e acari, a cominciare dall’utilitarismo e dall’indifferenza.

     Non tutto è possibile svelare e non tutto il poeta può ricapitolare, rinsaldare, ma la poesia, è anche una metafisica concentrata che può liberarci dallo scopo e, quindi, dalla necessità del superfluo.

     La parola non è direttamente segno delle cose, ma segno di un altro segno, cioè dono del suono.

     La parola è troppo importante per poterne a piacimento abusare. Limitarla è un obbligo.

     La poesia è sempre magia che si appalesa perché nasce da un pensiero che si manifesta.

     La poesia ha un suo valore fondante che non può essere disperso, soprattutto, quando si tratta non della parola in quanto tale, ma in quanto esperienza forte di un linguaggio che è Verità.

     La parola è, nella sua essenza, segno, nel senso che essa indica, segna, altre cose da sé, altre cose che sé, o più brevemente, indica e segna delle cose.

     La terapia della parola veritativa allevia, anche chi ascolta. Questa è la profondità.

     Grazie alla parola, ogni uomo apparso sulla terra è capace di domande, di ideazione, di sogni, di relazioni e di atti realizzativi concreti.

     La parola lirica. Un linguaggio essenziale, espresso per sottrazione più che per abbondanza, teso verso la bellezza dell’Assoluto e nutrito costantemente dalla speranza vissuta, è come il consegnarsi ad una fede che oltrepassa la misura del quotidiano.

    Quante parole per spiegare ciò che non si può.

     Scrivere o comporre musica è un antidoto – non sempre efficace per essere chiari – una terapia da praticare contro il despressionismo, variante nobile della depressione. La lettura e l’ascolto sono altrettanto nodali per il raccoglimento del sé.

    Anche le increspature lievi delle parole poetiche sono capaci di acquerellare e di carezzare gli abissi.

   Resta sempre vivo il fascino e l’importanza della parola scritta su un foglio, che si invia e si riceve, senza i limiti imposti dalla velocità e dalla tecnica spesso disumanizzante.

   La creazione poetica, persa stessa natura aristocratica e atemporale, è inadattabile al potere mondano. 

   Un libro interessante può essere risolutivo o può dirigere verso una nuova determinazione o una ambigua e ingabbiante servitù. Legarsi o liberarsi dipende solo da noi.

    Il libro con la sua storia, la sua funzione insopprimibile, la sua atavica e sempre rinnovata veste, malgrado le profezie nefaste di morte e di annullamento, vive con le nuove, stupende tecnologie informatiche, non alterando la sua precipua vocazione, il suo valore non relativo, non estirpabile.

   Ogni momento importante della vita è accompagnato da un libro che pone fondamenta al dialogo interiore.

    Ciò che permane della conoscenza, malgrado l’accelerazione delle tecnologie che porta in sé la frantumazione dei saperi e la sparizione periodica delle memorie nel mutevole, è la scrittura non virtuale, è il libro – antico quasi quanto la ruota, che è il suo prolungamento.

    Raccontare è raccontarsi.

    Raccontare memoria è limitarne l’essenza.

    Ciò che è dettato dentro è difficile da esprimere.

                              T. R.

(Da Non bruciate le carte. Schegge del mosaicosmo, a cura di M.P. Allotta. Introd. di M. Veneziani, Prova d’autore, Catania 20222, pp. 41-49.)




Pioggia notturna

Un tiepido sole

m’ha inondata di raggi

nel mattino. Tra questi rami

spogli dell’inverno, parla di gioie

remote, di pigre estati in cui

spirano zefiri nella dolcezza

amara che l’anima respira.

Passeggio sulla terra 

che ha accolto la pioggia del Buon Dio

la notturna pioggia che benefica l’anima;

penetro nell’intrico di ramaglie

bagnando un poco le mie vesti

un poco il viso.

Sento gli effluvi, sotterranee essenze

spargersi in muschi e in capelvenere

nelle orme che segnano i miei passi.

Mi sento benedetta da questa lacrima

di cielo in un baluginio iridiscente,

da questa pioggia che fu data alla terra

come dono e, forse, inopinabile promessa.

Rossella Cerniglia

(da Mito ed Eros. Antenoro e Teseo con altre poesie, Genesi ed., Torino 2017, p. 31)




Ufo

Sospeso nel vuoto

riluce

scheggia di specchio

nell’etere azzurrino

e brilla indifferenza

come quando dalle mani del giorno

ti giunge l’evento quotidiano.

Così furono nel cielo terso

diamantino

un mattino forse di maggio

tanto tempo fa.

Rossella Cerniglia

(da Il retaggio dell’ombra, Guido Milano ed., Milano 2019, p, 96)




Cielo dell’Attica

Cielo dell’Attica azzurro
spazio e respiro profondo,
un mare verde
per i marinai dell’anima.
Navigare è sogno,
la luce rincorrere, il sorriso.
Cielo dell’Attica azzurro
la sera che ti ho visto
eri raccoglimento, silenzio illimitato.
Già mi ritrovo tua memoria,
sfumato affresco negli occhi,
lievi colori, la tua bellezza.
Ma tramonta il sorriso
sfiorisce la dolcezza,
si perde il grido
nella pieghe delle labbra.
Cielo dell’Attica verde
il colore dei tuoi occhi
forse ho perduto per sempre,
chè se tornano il sorriso e la dolcezza
penserò ad un diverso cielo
senza colombe e senza voce,
un silenzio che incombe solenne
e seppellisce gloria e amore.
Cielo dell’Attica azzurro
mia tenerezza, illusione e pianto,
sei come il mio cielo cangiante
come il mio sogno errante.

Rolando Certa

(Il sorriso della Kore, Palermo, Il Vertice, 1985)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 54.

 




LINGUA E DIALETTU

Un populu
mittitilu a catina
spugghiatilu
attuppaticci a vucca,
è ancora libiru.

Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unni mancia
u lettu unni dormi,
è ancora riccu.

Un populu,
diventa poviru e servu,
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.

Diventa poviru e servu,
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.

Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu a chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.
Mentri arripezzu
a tila camuluta
chi tisseru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.

E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènniri;
i giuelli
e non li pozzu rigalari;
u cantu,
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.

Un poviru,
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.

Nuàtri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtani di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.

Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponnu rubari.

Nni ristò a sumigghianza,
l’annatura,
i gesti,
i lampi nta l’occhi:
chissi non nni ponnu rubari.

Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.

Ignazio Buttitta

(da Io faccio il poeta, Milano, Feltrinelli, 1972)

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag24.




THUCYDIDES AND LOUGH OWEL, TUCIDIDE E LOUGH OWEL

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 48.

 

 




Cantu di carritteri

Quant’avi chi ‘un mi fazzu na fumata? 
quinnici jorna chi ‘un viu la zita! 
Mi sentu cu la testa strampalata, 
‘un si po’ fari cchiù sempri sta vita! 


Supra u carrettu ci staiu simanati
pi carricari mennuli, ogghiu e alivi, 
e li nuttati mei su attarantati
quannu partu di Chiusa mmenzu a nivi! 


Lu mulu già canusci tutti i strati, 
sapi a memoria tutti i me’ suspiri; 
io rormu supra i sacchi profumati, 
ma penzu a idda e mi sentu muriri! 


Appena agghicu ‘n casa m’a’ ‘mpupari, 
m’a’ mettiri profumu a mai finiri, 
ci curru ‘n casa e mi l’aju a vasari
stringennumilla cu tanti suspiri.

Tore Sergio

CANTO DI CARRETTIERE

Da molto ormai che non fumo,
e da quindici giorni non vedo l’amata!
Come se avessi la testa strampalata,
si può fare sempre questa vita?

Sul carretto passo settimane,
carico mandorle oli e ulive,
e le notti mi fanno accaponare,
se parto da Chiusa nella neve!

Il mulo conosce già le strade,
e conosce bene tutti i miei sospiri;
dormo su sacchi profumati,
ma penso a lei e mi sento morire!

A casa andrò a farmi bello,
metterò profumo a non finire,
correrò da lei a baciarla,
e la stringerò con tutti i miei sospiri.

trad. di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 47.




Cosaruci

È veramenti certu
e unn’è poi tantu lariu
chi addivintannu vecchiu 
unu è cchiù manciatariu. 
Viscotta, viscutteddi, 
cornetti e cosaruci, 
dolcini cu li mennuli, 
gelati e mustazzoli, 
“genovesi” du Munti, 
fissa cu è chi ‘un ni voli. 
Me nanna mi ricia: 
“Fannu cariari i renti”. 
Sarà na cosa vera
Ma ‘un mi nn’importa nenti, 
tantu aiu la rintera.

Tore Sergio

DOLCI

Davvero è certo
e non è un male
se, da vecchi,
si è più mangioni.
Biscotti, biscottini
cornetti e dolci,
dolcini alla mandorla,
gelati e mostaccioli, 
“genovesi” di Mont’Erice,
da stupidi non volerne!
La nonna mi diceva:
«Fanno cariare i denti.»
Sarà una cosa vera,
ma non m’importa niente,
pertanto ho la dentiera.

trad. di Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 47.




Alba

Mi corazón oprimido 
siente junto a la alborada 
el dolor de sus amores 
y el sueño de las distancias. 
La luz de la aurora lleva 
semillero de nostalgias 
y la tristeza sin ojos 
de la médula del alma. 
La gran tumba de la noche 
su negro velo levanta 
para ocultar con el día 
la inmensa cumbre estrellada. 

¡Qué haré yo sobre estos campos 
cogiendo nidos y ramas, 
rodeado de la aurora, 
y llena de noche el alma! 
¡Qué haré si tienes tus ojos 
muertos a las luces claras
y no ha de sentir mi carne
el calor de tus miradas! 
¿Por qué te perdí por siempre 
en aquella tarde clara? 
Hoy mi pecho está reseco
como una estrella apagada.
SI MIS MANOS PUDIEREN DESHOJAR 

Yo pronuncio tu nombre
en las noches oscuras, 
cuando vienen los astros
a beber en la luna
y duermen los ramajes
de las frondas ocultas. 
Y yo me sieinto hueco
de pasión y de música. 
Loco reloj que canta
muertas horas antiguas. 
Yo pronuncio tu nombre, 
en esta noche oscura, 
y tu nombre me suena
más lejano que nunca.
Más lejano que todas las estrellas 
y más doliente que la mansa lluvia. 
¿Te querré como entonces
Yo pronuncio tu nombre
en las noches oscuras, 
cuando vienen los astros
a beber en la luna
y duermen los ramajes
de las frondas ocultas. 
Y yo me sieinto hueco
de pasión y de música. 
Loco reloj que canta
muertas horas antiguas. 
Yo pronuncio tu nombre, 
en esta noche oscura, 
y tu nombre me suena
más lejano que nunca.
Más lejano que todas las estrellas 
y más doliente que la mansa lluvia. 
¿Te querré como entonces
alguna vez? ¿Qué culpa
tiene mi corazón? 
Si la niebla se esfuma, 
¿qué otra pasión me espera? 
¿Será tranquila y pura? 
¡¡Si mis dedos pudieran 
deshojar a la luna!! 

ALBA

Il mio cuore oppresso
sente all’alba
il dolore dei suoi amori
e il sogno delle distanze.
La luce dell’aurora reca
tanta nostalgia
e la tristezza senz’occhi
del midollo dell’anima.
La gran coltre della notte
dilata il suo nero velo
per occultare di giorno
l’alta immensità stellata. 
Che farò tra questi campi
prendendo nidi e rami,
avvolto dall’aurora,
colma di notte l’anima!
Che farò, se hai gli occhi
morti nelle luci chiare
e la mia carne non sente
il calore dei tuoi sguardi!
Perché ti persi per sempre
in quella sera chiara?
Oggi il mio petto è abbuiato
come una stella estinta.
POTESSERO LE MANI SFOGLIARE

Pronuncio il tuo nome
nelle notti buie,
quando vanno gli astri
a bere alla luna
e dormono le ramaglie
degli alberi cupi.
Ed io mi sento vuoto
di passione e di musica.
Pazzo orologio che canta
morte ore antiche.
Pronuncio il tuo nome,
in questa notte buia,
e il tuo nome mi suona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della lenta pioggia.
T’amerò come allora
un’altra volta? Che colpa
ha il mio cuore?
Se la nebbia si dilegua,
qual altra passione m’attende?
Sarà tranquilla e pura?
Se le mie mani potessero
sfogliare la luna!

Garcia Lorca

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pagg. 46-47.




Nulla mi resta

Non ho più una parola
che svegli questo cuore.

Nulla mi resta.
Aspetto nuovo un sole.

Vincenzo Gentile

Da “Spiragli”, anno XXIII, n.1, 2011, pag. 45.