Nel ricordo del 4 novembre. La famosa telefonata

Trascrivo una telefonata avvenuta molti anni or sono. Il telefono allora era un privilegio. Pochi, pochissimi lo possedevano. In genere era appeso al muro. Per chiamare bisognava girare una maniglia e fare suonare la campanella. Ora tutto è più facile.

La telefonata avvenne tra una donna di nome Maria Bergamas, residente nel Friuli, e il generale Armando Diaz, duca della vittoria, comandante generale delle truppe italiane nella prima guerra mondiale. La conversazione telefonica è avvenuta realmente. Il servizio segreto che controllava la linea del generale che abitava a Roma (e che diverrà ministro della guerra, come allora si chiamava il Ministero, nel primo governo Mussolini di coalizione) ha inciso sul nastro.

Un mio amico perfetto archivista lo ha trovato “buttato” in uno scantinato. Pensando alla mia curiosità me lo ha prestato e io ne ho fatto una copia.

Ancora il telefono ci porta un frammento del nostro passato. Il telefono è anche memoria della nostra storia.

La donna Maria Bergamas è vissuta per lunghi anni ed è morta a Trieste a ottantanove anni. Ho fatto ricerche per saperne di più. Era madre di un ragazzo colpito al cuore mentre usciva dalla trincea. Dimenticavo di dire che la telefonata avviene il cinque novembre 1921. Il giorno prima era stato portato nel Vittoriano il milite ignoto da Santa Maria degli Angeli. Il nostro milite ignoto venne accompagnato dal rullo dei tamburi con le corde allentate.

Il telefono mi ha fatto riflettere a lungo sull’episodio. E adesso provve-a trascriverlo. La voce femminile è quella di Maria Bergamas. Quella maschile è di Armando Diaz. Immaginate, cari lettori, le cadenze e i toni.

Maria. “Buongiorno, signor generale”.
Diaz. “Buongiorno. Chi parla?”
Maria. “Come, non mi riconosce? Sono io Maria Bergamas. Ci siamo visti più volte.
Maria Bergamas.”
Diaz. “Ho capito. Mi dica, Signora.”
Maria. “Ecco.

Mio figlio non è stato più ritrovato. Era tra la terra quando un cecchino lo inquadrò nel mirino. Ta-pum, ta-pum, ta-pum. E chiuse gli occhi per sempre.

Finita la guerra sono stata chiamata ad Aquileia per scegliere il milite ignoto. Nell’antica basilica lasciata alla nudità della pietra ai piedi della gradinata dell’altare c’erano due catafalchi coperti di tappeti viola, crespi neri e festoni verdi. Vi erano allineate undici bare (cinque da un lato e sei dall’altro) avvolte nel tricolore. Sopra erano gli elmetti cinti di lauro.”

Diaz. “Ricordo bene, Signora. Mandai un mio generale da lei a Trieste per portarla a scegliere l’ignoto milite da tumolare a Roma. Lei doveva indicare l’ignoto tra gli undici morti sorteggiati in undici cimiteri di guerra. È così. È stata una madre fortunata…”
Maria. “Fortunata? No. Fortunata no, signor generale. Allora fu tremendo. Chiusi gli occhi e pensai al mio povero figliolo disperso tra le montagne del Friuli. Nella basilica c’era il Duca d’Aosta, i ministri, i sindaci, le scolaresche. Il vescovo di Trieste, capo dei cappellani militari, monsignore Bartolomasi sull’altare pontificale celebrò la santa Messa. Intorno, fiori e le bandiere dei reggimenti. Con me madri e vedove pregavano e piangevano per l’uomo che non era più tornato.

Non so cosa successe. Ma, nello scegliere la seconda bara della fila di sinistra, ebbi la sicurezza che dentro c’era mio figlio. E il dolore si attenuò al pensiero che tutti gli italiani per i secoli avrebbero amato e pregato per lui. Poi, il vescovo con l’aspersorio colmo di acqua del Timavo benedisse.

La cassa di legno dopo mezzogiorno venne racchiusa in una di zinco. E poi in una di quercia. Sul coperchio, ricordo, c’erano un fucile, un elmetto, una bandiera e le medaglie d’oro delle tre città friulane.”

Diaz. “Ricordo. Ricordo, Signora. È ancora in linea? Pronto. Sì. Iniziò così il viaggio da Aquileia verso Roma sul treno con diciassette vagoni. Tacquero le fazioni. Uomini di ogni ideologia alle stazioni ferroviarie si accostavano al treno, baciavano le bandiere e salutavano le medaglie d’oro e i decorati di guerra che scortavano l’ignoto amico.

Il treno giunse a Termini il 2 novembre. Vittorio Emanuele III con i principi venne alla stazione su berline, con staffieri in livrea rossa e parrucca bianca, precedute da carrozzieri a cavallo in alta uniforme. In attesa, il Re si fermò a conversare con un giovane dimesso che portava sul petto la medaglia d’oro del fratello caduto del quinto reggimento genio. La cassa fu deposta su un affusto di cannone e lentamente nello sventolare armonioso delle bandiere raggiunse Santa Maria degli Angeli. Le batterie dei cannoni sistemate su monte Mario, sul Gianicolo e altre alture sparavano a salve.”

Maria. “Una perfetta messa in scena. Perfetta liturgia. Sì. Pronto. Era una perfetta manifestazione.

Ma lei dove lo mette il nostro dolore di madri? Il nostro disperato dolore per un figlio partito in grigio verde e non più tornato tra le nostre braccia? Ma lei lo capisce? Ricordo che sulla facciata di Santa Maria degli Angeli c’era un’epigrafe:«Ignoto il nome, folgora lo spirito, dovunque è Italia, con voce di pianto e d’orgoglio, dicono innumeri madri, è mio figlio». Rimasi turbata perché capivo i motivi dell’epigrafe, ma non volevo dividere mio figlio morto con nessuna altra madre. Non esiste il dolore universale. Il dolore come l’amore è solamente mio. Non so se si ricorda di me, signor generale Armando Diaz. Nella basilica le venni presentata. Lei mi guardò a lungo e mi disse che la Patria onorava i suoi eroi. E io le risposi che la Patria onorava i suoi morti. Dopo questa mia battuta lei mi voltò le spalle e non ci siamo più incontrati.” Diaz.

(Dopo un lungo silenzio) “La basilica era decorata con lunghi festoni di alloro. Il feretro era circondato da tripodi di bronzo sui quali ardevano fiammelle che rendevano ancora più immenso lo spazio.

Molti dopo la preghiera si fermavano nel lato destro del transetto per osservare sul pavimento la meridiana che segnava il mezzogiorno per la città fino al 1846. Era chiamata la “clementina” in omaggio a Papa Clemente XI Albani. Venne realizzata dal canonico veneziano Francesco Bianchini. L’inaugurazione avvenne il 6 ottobre del 1702. Il papa fece coniare una bella medaglia con la chiesa attraversata da un raggio di sole.

” Maria. “Pronto. Signor Generale non se ne vada. Non abbassi il telefono. La prego. Dopo che lei mi aveva volto le spalle mentre il milite ignoto (che io, nell’illusione, forse credo ancora mio figlio) era tra le bandiere vegliato dai corazzieri, dagli alpini e dai bersaglieri che si davano il turno, anch’io sono andata alla “clementina”. C’era una linea di sole che veniva dal foro gnomonico ricavato lassù nella congiustione sud della navata con il transetto. Mi sembrò allora che il sole della meridiana illuminasse anche il corpo del figlio. Tu diventavi il mio tempo, figlio mio. E ti vedevo nel sole mentre correvi nei campi assolati o quando ti portavo al mare alle porte di Miramare a Trieste. Tu non eri più soltanto un ricordo ma la memoria della mia vita. E per quelle illusioni che prendono all’improvviso quando l’amore è grande, vedi mio figlio accanto a lei, signor generale Armando Diaz. Lui giovane sorridente e lei già vecchio e stanco.”

Diaz. “La prego, Signora. Lei parla con il generale Diaz. Ho organizzato tutto per bene. Una cerimonia impeccabile, mi ha detto il Re. La prego, Signora…”
Maria. “Non la offendo. Ma mio figlio è morto giovane. E lei è vivo vecchio. È contronatura. Sì. Pronto. Mi faccia finire. Santa Maria degli Angeli così carica di fiori profumati era come una giornata di primavera. E c’era mio figlio con tutti i dispersi, le medaglie d’oro alla memoria, i morti mentre andavano all’assalto. Erano vivi e insieme cantavano canzoni di pace. La chiesa diveniva così la casa della risurrezione. Poi, come lei sa, signor generale, mio figlio venne portato a piazza Venezia al Vittoriano… Pronto. Pronto.”

Il nastro è terminato. La trascrizione mia è finita.

Il telefono mi ha restituito la madre che soffre disperatamente e il generale. Il telefono non è solo comunicazione.

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 46-49.




Cronaca per Occhialì 

 Un editore di Calabria Luigi Pellegrini da Cosenza ha chiesto allo scrittore Francesco Grisi, nostro collaboratore, alcuni racconti ambientati in Calabria per raccoglierli in un libro. 

Francesco Grisi di famiglia cutrese in provincia di Crotone, cittadino onorario di Cutro, ha consegnato all’editore cosentino dieci “memorie”. Il volume sarà pubblicato tra giorni con il titolo Laggiù in Calabria nella prestigiosa collana “Zaffiri”. 

Per gentile concessione siamo lieti di pubblicare un racconto di Francesco Grisi che ci sembra esemplare per l’idea di “calabresità” che lo stesso scrittore propone nel suo libro “Racconti popolari della Calabria“. 

Cronaca per Occhialì 

Non abbiamo molte notizie sulla sua morte. L’unica cosa accertata è la data. Morì di sabato nel mese di luglio del 1595 a Costantinopoli tra le braccia odorose di una donna calabrese generosa in amore. Il suo nome è Giovan Dionigi Galeno. Era nato in un piccolo borgo sul mare Ionio chiamato “Castella” nei pressi di Cutro. Catturato dai Turchi affrontò privazioni e sacrifici. Divenne marinaio, capitano di nave da guerra. maestro, ammiraglio, dominatore dei porti del mediterraneo. Da povero profugo divenne un re trionfante per i turchi e per gli arabi che allora dominavano i mari. Quattro imperatori gli concessero stima. Solimano, Selin, Amuratte e Maometto lo ebbero consigliere. Cambiò nome, cognome e religione. Per la precisione si chiamò Occhiali o Uccialli o Kilig Ali. Con fede si converti all’Islam. E costrui sul colle di Top-Hana (sul mare azzurro del Bosforo) una sontuosa moschea che sembra volare nel cielo con le sue cupole dorate. Quando morì il suo corpo deposto tra quattro torce secondo l’antico rito cristiano e, poi. sistemato nella moschea che aveva fatto edificare. 

Navigando a destra e a manca, conquistando Malta e Tunisi e combattendo contro i veneziani a Lepanto, Occhiali non dimenticò mai la sua terra dove aveva avuto i natali nel 1520. Allora Castella e Cutro erano ancora incorporati nella Contea di Santa Severina che aveva avuto massimo splendore con Andrea Carafa che sulla collina cretosa aveva costruito un castello poderoso. Dominava il marchesato tra la Sila e lo Ionio. Poi c’era quello di Crotone e del paese di Occhiali. Era triangolo perfetto per difendersi dalle incursioni dei pirati e dei turchi. Ma le mura e gli eroismi non sono sufficienti. 

La sua terra Calabra restò sempre nel cuore del ricco e potente ammiraglio. 

Ancora ragazzo venne rapito il 29 aprile del 1536, domenica. Era andato alla Messa quando all’orizzonte apparvero i vessilli nero-bianco dei “pirati” alti sui pennoni. La madre Pippa di Cicco (chiamata Peppa della Castella) sfiorata dal presentimento corse a cercare Giovan Dionigi. Ma non trovò il figlio in chiesa. Si era nascosto con una sua compagna di nome Maria in una cantina vicina. La madre aveva intuito che tra suo figlio e Maria c’era una simpatia e quando li vide abbracciati felici (dimentichi dei turchi) chiuse la porta della cantina. Fu l’ultima volta che incrociò il figlio. 

Giunsero i turchi che rapirono il giovane che, a quanto si dice, si fece prendere per nascondere Maria. Comincia cosi la storia di Occhiali. 

Non ebbe grandi amori ma sposò la figlia del Sultano. Impegnato a combattere per la gloria e il potere considerò l’amore un privilegio o una abitudine. La cronaca è carica di “stravaganze”. Un giorno del 1562, ad esempio, nominato dal 

Sultano capo della guardia di Alessandria, organizza con il grande comandante Dragut una spedizione a Napoli canora capitale del vicereame. Nelle carte non risulta lo sbarco dei turchi sebbene il popolo napoletano si era già preparato a riceverli con trik-trak e fuochi di artificio di mezzelune di vari colori fabbricate a Pozzuoli. La cronaca dice, invece, che Occhiali con un gruppo di fedelissimi sbarcò a Ischia-porto mentre si svolgeva la festa della infiorata. Canti, suoni, chitarre e amori all’infinito sulla riva del mare. Occhiali e i suoi fedeli si incontrarono per una notte con le donne ischitane e al chiarore della luna ogni cosa divenne splendore. Nacquero anche numerosi ragazzi di bella fattura che ancora a Ischia si chiamano i turchi. 

Dopo la “prova” d’amore Occhiali non assaltò Napoli ma scrisse una nobile lettera al vicerè. 

-Avrei potuto saccheggiare e vincere. Il vostro popolo non è fatto per la guerra. Ama la pace e mi avrebbe ricevuto con corone di fiori. Ma non sono sbarcato perché a Ischia. in una notte d’amore, ho capito che a Napoli e dintorno sono le donne che comandano con la loro allegria. E contro le donne non si combatte•. 

La lettera venne affissa anche nelle case di appuntamento e le puttane la conservavano nel petto come una reliquia. 

La cronaca dice anche il 21 maggio del 1562 Occhialì sbarcò a San Leonardo di Cutro a un tiro di schioppo dal luogo dove era nato. Raggiunse Castella e subito si recò nel cimitero dove riposavano Birno e Pippa, il padre e la madre. Era musulmano ma entrando si fece il segno di croce e pregò la santa Madonna anche venerata nella religione islamica. Il cimitero di Castella è su una collina odorosa di ulivo e di mare. Occhialì, in sogno, rivide i mattini rugiadosi, la colonna di Hera nel cielo di Crotone, la fiamma nel camino della legna della Sila. gli antri verdi delle rocce marine e le cento cose della infanzia felice prima di essere preso prigioniero. E pensando la stagione della infanzia quando il sole levigava la pelle, si ricordò di Maria. Non l’aveva mai dimenticata ma era rimasta nel territorio dell’anima dove depositiamo le memorie più care e fedeli che ci accompagnano sempre. E allora Occhialì uscì dal cimitero e si precipitò in paese. Tutto era silenzio. Gli abitanti fuggiti si erano allontanati verso Cutro. Allora Occhiali si recò nella casa di Maria. Spalancò la porta e vide nella penombra una donna accartocciata su una sedia, immobile che non poteva più muoversi perché paralizzata. Era Maria ma Occhialì non la riconobbe. E Maria non fece niente. La donna calabrese aveva capito che doveva rimanere nella immaginazione di Occhialì la ragazza di tanti anni fa quando si era concessa vergine al compagno di giochi in una cantina mentre i turchi sbarcavano. Qualcuno poi disse a Occhialì che Maria era morta. Ma il figlio di Calabria. grande ammiraglio turco. ebbe sempre dubbi in proposito. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 23-25.




 Il racconto del sole 

di Patrick Grainville* 

Faccio il professore in un liceo di periferia. Un anno fa mi è accaduto un fatto irrimediabile. Il sogno di ogni insegnante di lettere. Addirittura l’incubo, la sua maledizione. 

Mi chiedo, come si fa a essere all’altezza del genio? Figuratevi il professor Izambard che un bel giorno, al collegio di Charleville, scoprì nella sua classe Arthur Rimbaud! Uno shock incredibile: frasi dettate da Lucifero, in un’alchimia degli Inferi. Una pioggia di ukasi stellari. Proprio lì davanti a te, nel tuo angolo sperduto in capo al mondo, la catastrofe della bellezza. Un sisma verbale inedito. 

È settembre a Sartrouville; un rientro dalle vacanze come tanti altri. Non noto nulla di particolare nel ventaglio di alunni che mi si squaderna davanti… Lei, non la vedo neppure! La ignoro per ben due settimane. Lei, il mostro! Potremmo battezzarla Arturina, in ricordo di suo fratello Rimbaud! 

Lei, tiene nascosta la sua essenza coriacea. 

Per valutarli, decido di assegnare loro un primo tema piuttosto libero, invitandoli a una galoppata di prova. 

Le regole del gioco, quelle dell’esame di maturità verranno a suo tempo. Si torna dalle vacanze estive: l’argomento è il sole. Cosa rappresenta per voi il sole? 

Comincio a leggere gli elaborati a casa, senza eccessiva curiosità Sono meno entusiasta di una volta. Qualsiasi vocazione finisce con l’attenuarsi, prima o poi. All’improvviso, il fuoco mi investe in pieno volto. Un dardo di fuoco. Parole che mordono, possenti, di una bellezza inesplicabile. Non frasi, ma parole carnivore. Senza una costruzione compiuta, ma ruvide e incastrate in associazioni audaci e calcolate. Un susseguirsi di corto-circuiti, lampi, saette e meteoriti. Non ho parole per descrivere le sue trovate. Ma, attenzione! Nessuna anarchia adolescenziale in tutto questo. Nessun rigurgito surrealista. Solo espressioni compatte, allucinate, lucide. E poi, necessarie, solide, crude e magnetiche. E quelle massime infuocate si alternano ad assiomi gelidi. Il contrasto mi affascina, al pari della speculazioni sul sole e sul desiderio, e ancora sull’amore e sulla carnalità Un miscuglio di sottigliezza ed efferatezza che sconvolge in un’alunna così giovane. 

Allora, mi precipito sulla sua scheda personale. Appartiene a una famiglia modesta e ha 17 anni. Giustamente, la stessa età di quell’Altro, il suo gemello fulminante: Arthur. Ed è nata ad agosto. 

Mi piace che il suo mese sia quello dei parossismi, degli eccessi anche del tempo, delle sue parentesi nude e roventi. 

Ho un solo desiderio: conoscere il volto dell’autrice. L’indomani mi fiondo al liceo. Come sempre, restituisco gli elaborati nell’ordine in cui si presentano. Quando arriva il suo turno, pronuncio il suo nome. Lei alza il dito e io mi dirigo verso Arturina, finalmente rivelata. Eccola! È bella, di una bellezza dissimulata. Da lontano la si crederebbe un po’ slavata o insignificante. Da vicino, sotto il mio naso, mi si offre un viso d’acciaio, di un freddo polare. È alta e slanciata, con occhi di un grigio purissimo. Dà l’impressione di uno spessore e di una concentrazione offuscata, ma studiata. C’è qualcosa di agguerrito in lei, come l’attesa di un’imminenza. Di colpo, me ne sento minacciato, ma ignoro il pericolo che potrebbe piombarmi addosso. 

Lei, non sorride. Quando le poso davanti il suo compito, sento che è necessario tacere e che non posso esprimere il mio entusiasmo, lì davanti agli altri. Sento che mi giudicherà in base alla mia capacità di tacere. Io, taccio; mentre i suoi occhi mi spiano, sondandomi lentamente. Poi, fuggo verso la cattedra. 

Finita la lezione, mentre lei si accinge a uscire dalla classe, le faccio un segno e aspetto che gli altri si dileguino. Allora, le svelo la mia sorpresa e le chiedo se è consapevole di avere scritto delle pagine… straordinarie. Lei risponde con calma: 

– Sì penso di sì… Lo credo bene. 
– Ne hai scritte delle altre? 
– Sì tante. 

È talmente fiera che mi squadra dall’alto in basso. Sembra una spada. Fanciulla bellicosa dallo sguardo sagace, di un grigio come il Mare del Nord, senza pietà Mi sta piantando negli occhi quel pugnale grigio del Nord. 

Due giorni dopo, mi lascia un manoscritto sulla cattedra. Sono un centinaio di pagine e di un vigore che mi pietrifica. Le parole cadono come mannaie, e corrono come kriss kamikaze, facendomi sentire come crivellato dai colpi. Sì mi sento come il bersaglio di quei segni a cui è affidata una confessione in codice, esplosiva, da cui traspare un segreto terribile, attraverso l’associazione di una vitalità cieca a una lucidità atroce. 

Durante la notte, leggo e rileggo il testo di un’adolescente satura di odio solare, a tal punto che in lei l’astro stesso sembra esplodere, incendiando le nostre fatiche e le nostre certezze, e inghiottire tutto nella sua fiamma cosmica, lasciando sussistere solo due tracce di elio grigio in quegli occhi di fanciulla. 

All’ultima pagina mi ordina di non parlare mai con nessuno di ciò che ho letto, di mantenere il segreto assoluto, visto che non sarà mai pubblicato: “È un divieto categorico, senza appello!”. 

Quando le restituisco il testo, le chiedo perché me lo ha fatto leggere, se non ne devo parlare con nessuno. 

– Avevo bisogno di un testimone. Uno solo e basta. In fin dei conti, non sono talmente forte da poterne fare ancora a meno. 
– Ma il tuo scritto mi tormenta, dal momento in cui l’ho letto. 
– Lei vuole alleviare il suo peso, insomma. Certo! 
– Ma io non perdonerò la più piccola deroga. Al primo passo falso, sarò spietata… 
– Ma io non potrò dimenticare la crudeltà infinita di ciò che ho letto. Tu non hai il diritto di farmi condividere l’inenarrabile. 
– Le sarà necessario trovare la giusta distanza per non esserne divorato. Anch’io mi sentivo divorata dai miei 
racconti. Allora, ho trovato la distanza, grazie a lei! 
– Alla fine sorride e mi appoggia una mano sulla spalla. È come un gesto che sancisce un patto, ma anche il dono di una grazia misteriosa. Da quel momento mi possiede con la promessa del silenzio riguardo al suo racconto mostruoso e segreto. Non so se mi odia o se, invece, mi ama un po’. 

Patrick Grainville

(trad. it. di Brigida Fagone) 

* Patrick Grainville è uno scrittore francese (oltre che critico letterario del “Figaro”), nato il I giugno 1947 a Villers-sur-Mer (Calvados). Ha trascorso l’infanzia a Villerville, piccolo centro situato ad est di Deauville. Professore di lettere, riceve a solo 29 anni il prix Goncourt 1976 per il suo quarto romanzo, Les Flamboyants (I fiammeggiatori). 

Altri suoi romanzi: Le paradis des orages (1986), L’rgie, la Neige, prix Guillaume le Conquéant (1990), Le Jour de la fin du monde une femme me cache (2001), La Main blessé (2005), Lumièe du rat (2008), Le baiser de la pieuvre (2010). 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 49-51.




Mrs Moon

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 36.




 Questa città 

Ahi povera Italia, terra di guai, 
vai come nave senza guida 
nella tempesta, 
nazione senza prestigio, ricettacolo 
di troppe porcherie, 
se un animo gentile predica amore 
e gioia per la sua terra 
la maggior parte degli abitanti tuoi 
d’odio si pasce, d’invidia e di vendette. 
Non c’è regione in te né spiaggia 
ove si possa stare in pace. 
Il diritto di cui sei stata madre 
ora è per te motivo di vergogna. 
E il clero, anche il clero va dietro 
a favori materiali 
e le anime non guida per la retta via. 
E voi, gente di potere, guardate 
a che punto siamo: 
pensate solo ai vostri affari 
mentre lo stato 
va in malora e la gente imbestialisce 
oltre ogni limite, 
che Dio vi maledica e angosciose pene 
rovesci 
su voi e i vostri figli, sicché 
ne venga monito 
ai futuri governi, giacché l’avidità 
di potere 
vi tiene stretti alle poltrone e vi porta 
all’ abbandono del comune bene. 
Da ogni parte azzUlTi e rossi 
e bianchi e verdi fanno cagnara 
opprimono l’umana dignità 
accampano magagne; 
e a chi resta la cura del paese ridotto 
ormai al buio e all’abbandono? 
Se ci è lecito osare l’invocazione a Cristo 
non possiamo non dire: 
dove hai volto lo sguardo? 
Ci hai forse abbandonati, o Padre, 
o il nostro male rientra nel mistero 
dei tuoi disegni provvidenziali per noi 
incomprensibili? 
Certo è da stupire come in ogni città 
qualsiasi villanzone diventa 
un pezzo grosso 
per meriti di partito. 
Tu, Palermo, ne sai qualcosa, 
rallègrati davvero del falso progresso 
della tua gente, 
specie stando alla fama di mafia 
che ti porti dietro. 
Qui tutti sputano sentenze, 
tutti si affannano per conquistare posti, 
i pochi onesti vivono nascosti. 
Gli antichi saggi ormai contano nulla 
rispetto ai governanti d’oggi 
che fanno e disfanno leggi, 
futili proclami, ridicole ordinanze 
che magari durano un sol giorno, 
per cui, chi ha memoria, 
vede questa città 
come eterna ammalata che di qua 
di là si volta 
nel letto di una politica, con la quale 
anziché guarire vieppiù si ammala. 

Elio Giunta

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 63-64.




 MONTE PELOSO 

Sorge la luna piena 
planetaria sorella 
fulgida luce brilla rosa pallido, 
sorride appena giunta in cima al monte 
nel ceruleo ancora vespertino. 
L’astro pudico si nasconde, 
profuma già di sera il gelsomino, 
l’uccello di Minerva ha da ridire 
mentre grilli allietano frinire. 
Orizzontali nubi, pennellate 
sparse, 
coloriture tenui ormai soffuse 
al calare del sole, 
piccole luci tra gli abeti, 
la città, discreta, vive. 
Apre alla sera una rinascita 
e attende già l’alba, 
adesso, all’ imbrunire. 

Silvia Giudice Crisafi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




 GIOCHI DI FUOCO 

Accarezzano lo sguardo 
a mille a mille 
nuova gioia perpetuano i colori, 
stupore infondono dorate 
scintille ed è armonia. 

Silvia Giudice Crisafi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




TERMINAL

 Quest’ assenza del sacro 
mi sconforta 
ma cosa resta 
da offrire in olocausto agli déi? 
Ora più non negoziano i mercati 
le primizie del campo 
che Abele offriva. 
E sgozzano gli agnelli 
per un rituale. 
Tento di udire il sole 
che picchia come un suono 
di campana 
in un silenzio che non ha l’eguale. 

Maria José Giglio 

da «L.B.», n. 6, 1997

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.




 SOLTANTO IL SOGNO 

di Maria José Giglio 

Sono i sogni la nostra eternità 
perché nel sogno il tempo non trascorre. 
Permane, 
ma non come un rifugio nell’inerzia: 
movimento in cui tutto si riflette. 
Siamo sin dall’ origine nel sogno, 
è l’universo il mondo immaginario, 
l’unica forma che possiamo intendere. 
Non c’è animale che non abbia un sogno: 
anche nel sonno 
girano intorno a volte gli occhi suoi. 
E s’ agita 
chissà per quali oscure aspirazioni. 
Soltanto il sogno vendica l’effimero 
dell’ esistenza. 

Maria Josè Giglio

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 41.




 INVITO / l 

Vieni, 
senza magie, senza incantamento 
senza filtri d’amore. 
I pori aperti all’ intendimento 
e il passo corto che ci dà la vita 
nell’ infinito. 
Amore / l’Angelo. 
La porta s’apre tutta verso il fondo, 
dentro il grembo del mondo 
e tu sei qui. 

Maria losé Giglio 

(da Poema total, Ila Palma, Sao Paulo) 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51.