ALFA-OMEGA 

O Signore Alfa-Omega, 
tu guardiano del Verbo, dove inscrivi 
il tuo simbolo astratto? 
E dove la parola non segnata, 
idea comunicata 
forma e significato? 
Mormora l’immutabile suo ciclo 
la sfera. E nello spazio che si curva 
tramo paure … 
Qui nei segni inventati come includo 
l’imponderabile 
di un linguaggio futuro? 
La parola e il pensiero separati 
– ala aperta 
e istinti di radice. 
Perché il pensiero pensa 
e la parola 
non dice. 

Maria José Giglio 

(da Poema total. Ila Palma, Sào Paulo 1971)

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 30.




 Occhi 

Racconto di Angela Giannitrapani 

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. 

Che impertinente, pensai, non appena gli occhi scuri penetrarono oltre la sottile ma resistente barriera che avevo costruito per dividermi dal mondo, fino a quel momento. 

Feci finta di niente e mi immersi nelle pagine di giornale che quasi mi nascondevano il viso. Ma non riuscivo a concentrarmi. Sapevo che, al di là dei fogli sottili, c’era quello sguardo. E mi scrutava. 

Avrei anche voluto avere una lente, non reggevo bene la vista di quei colori così intensi, dopo tutto il bianco in cui avevo vissuto. Ma, benché mi ferissero gli occhi e mi scombussolassero l’anima, ne godevo, come un affamato ad un banchetto nuziale. Mi ci era voluto un po’ per penetrare in quel punto del parco, proprio a causa di tutto quel verde e giallo e rosa e blu: solo quando mi ero seduta sulla panchina mi ero resa conto dei suoni e delle voci. Fino a quel momento avevo solo visto, come se il mio contatto uditivo con il mondo si fosse ripristinato proprio nel momento in cui, esausta e guardinga, mi ero seduta. 

Udire quell’accozzaglia di suoni desueti era un po’ come imparare una nuova lingua e nuove regole armoniche. Dapprima arrivavano mischiati e, man mano, andavano distinguendosi, ma continuavano a sovrapporsi e sentivo il cervello bombardato, ma avido di ingoiare quella musica recente. Tuttavia era troppo. Troppo, tutto in una volta. Fortunatamente avevo il giornale e lo usai di nuovo come schermo. Sì, certo, mi aiutava a filtrare quell’abbondanza che tentava di travolgermi. E cominciai a rilassarmi. Ci sarei riuscita completamente, se non avessi avuto quegli occhi puntati su di me. 

Perché proprio io, poi, tra tanta gente? Non avevo fatto nulla per essere notata ed era certo l’ultima cosa che desiderassi. In quel momento non desideravo molto, a dir la verità. L’ unico pensiero chiaro che ricordo di avere avuto in mente era quel programma, che mi ero prefissata di portare a termine. Quel progetto, fatto più di bisogni e di risoluzioni pratiche che di desideri . Non mi restava che decidere dove andare. Non doveva poi essere così difficile. Ricordavo bene da dove venivo. 

Così, mi immersi più attentamente nelle pagine del giornale. Se non fosse stato per quei leggeri capogiri si sarebbe detto che ero in perfetta forma. Allora, presi a respirare più lentamente e più profondamente, come avevo imparato. Quegli occhi erano ancora fissi su di me, avrei potuto scommetterlo. Bisognava far finta di niente. 

Cercai, tra gli articoli e le rubriche, qualche luogo che mi ispirasse; ma venivo continuamente inghiottita dalla cronaca scarna e quotidiana. Che titoli banali per fatti complessi! Chi scriveva non sembrava accorgersene. Io sapevo cosa c’era dentro quelle storie, ma avevo anche imparato a non dirlo più. 

Ci fu appena un sospiro e fui costretta a scavalcare i fogli. Mi scontrai con il suo sguardo, adesso più incuriosito che mai; e ne fui scossa. Mi leggeva i pensieri? Ero certa di non aver parlato ad alta voce. Non questa volta, almeno. Mi sistemai meglio sulla panchina, che sentii un po’ più scomoda e rigida di prima e annaspai tra gesti indecisi e, ne ero certa, sguardi vaghi. Decisi, alla fine, di apparire attratta dagli alberi, dallo scintillio del sole e addolcita dal vociare dei bambini. Feci finta di concentrarmi su una pozzanghera affollata di passeri; emisi un profondo sospiro che risuonasse di soddisfazione e sperai che anche lo sguardo dirimpettaio mi seguisse, distogliendosi da me. 

Lo fece, per pochi secondi. Poi, decise di tornare a me, come se, dopo un breve intermezzo, fosse di nuovo il mio turno. 

Delusa e un po’ indispettita, trafissi i suoi occhi con il mio sguardo tagliente, antico di anni, ma dissepolto di recente. Consapevole, ne ebbi paura, nel ricordo di ciò che mi aveva sempre causato. E mi risuonarono urla, domande, silenzio, irruzioni, lunghi sonni indotti. 

Ingolfata nel mio stesso respiro, non mi resi subito conto di aver provocato soltanto maggiore interesse e un tentativo, discreto, di accorciare le distanze da parte di chi mi stava di fronte. Non era un’aggressione e questo bastò a rassicurarmi. Rallentai il mio respiro, chiusi gli occhi, svuotai la mia mente e contai finché potei, come mi era stato insegnato. Quando li riaprii, nulla era cambiato intorno, e in certo qual modo ne fui rassicurata. 

Ma che impertinente, pensai di nuovo, non appena incrociai quegli occhi scuri. Adesso, mi studiavano con una certa comprensione e sembravano volerne sapere di più. No. Non ero disponibile a far capire di più. Mi era sfuggito fin troppo. Fin troppo adesso e in passato; quando con ingenuità avevo dato in pasto agli altri i miei umori, le mie tristezze, i moti di entusiasmo, l’amore, una vitalità fastidiosa che costava fatica a tutti, e me stessa, d’impaccio per chi mi amava e odiava. 

Adesso potevo perfino sentire il suo odore, tanto vicini eravamo. Avrei voluto fuggire, ma ero inchiodata contro lo schienale della panchina. Se mi fossi alzata avrei comunque rischiato d’essere sfiorata e ne avevo il terrore. Così, decisi di sbarrare quel breve spazio con l’unica arma in mio possesso e mi nascosi ancora dietro il giornale. 

Ma le righe e le parole presero a tremolare convulsamente, prima di sparire e riapparire come per incanto, in una indesiderata quanto improvvisa liquidità, che non riconobbi subito come mia. Quanti giorni, quanti mesi, quanti anni erano passati dalle mie ultime lacrime? Quante me stessa? Frantumata in mille e dispersa in frammenti divisi tra coloro che, inconsapevoli di possederli, vivevano nelle strade, nelle case, nelle loro famiglie? Quanti anni avevo vissuto sola, più nella memoria altrui che nel mio presente? 

Non avrei permesso oltre quell’intrusione nella mia vita. Decisi che avrei fatto un gesto spazientito o detto parola, per allontanare quella sfacciata indiscrezione che mi stava di fronte. Abbassai il giornale con uno scatto dal suono secco, come una schioppettata; ma non intimorii altri che me stessa. 

Al contrario, adesso potevo specchiarmi in tutta la sua simpatia. Calda e accattivante, come di chi, sicuro del proprio passato, non teme il dolore né la gioia altrui ed è pronto alle sorprese, purché vissute in comunione. Non seppi più cosa dire e cosa fare. E, indesiderato, mi sfuggì un debole sorriso. Anche l’altro sembrò sorridermi, tra i tanti sentimenti affiorati nei suoi occhi. Sembrava, perfino, pronto alla lucida follia di consorziare il suo destino ad una sconosciuta e a scommettere su di me, senza riserve. 

Mi sentivo travolta da tanta sicurezza. Ma, invece che disagio, ne ebbi un caldo piacere che, scivoloso, andò giù fino in fondo e risalì alla mia mente riordinata di recente, facendorru dire: perché no? Pensandoci bene, il rischio più grosso l’avevo corso alcune ore prima e non potevo che compiacermi del luogo in cui mi trovavo. Nell’ultima mezz’ora, a causa di quella investigazione silenziosa, ero anche stata costretta a ripercorrere i miei anni e le mie fughe. Compresa l’ultima. E giurai a me stessa che non ce ne sarebbero state altre. 

Mi ritrovai la mano sul suo viso tiepido e, bisbigliando, dissi: «Sì, grazie.» 

Fece cenno di goderne e ricambiò lambendomi le dita con tenerezza. 

Raccolsi i frantumi dei miei ultimi pensieri e il giornale, scivolato ai miei piedi; mi alzai dalla panchina lentamente e insieme ci incamminammo. 

Sì, sarebbe stato facile trovare dove andare. Avrei chiesto di una casa con giardino. Per via del mio compagno, naturalmente. L’avrei ottenuta. 

Chi mai avrebbe potuto sospettare di una giovane donna con un cane? 

Angela Giannitrapani

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 30-32.




 Entro ogni voce d’uomo

 Entro ogni voce d’uomo, 
entro tutti gli anfratti 
sillabe d’assoluto hai seminato 
Non sono lombrico, Signore, 
che si nutre di zolle, né scattante 
puntino su pagine ingiallite. 

Gianni Giannino 

da Il nido fra le stelle. Haiku e altri versi. Ila Palma. 2007

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 37




 IL FUOCO DELLA RABBIA 

Per spegnere il fuoco 
della rabbia 
sciolgo la catena delle parole. 
L’urlo feroce del peccato 
diventa stelo sottile 
d’àloe. 
Al di là della disperazione 
l’anelito 
verso ritrovate armonie 
torna 
alla muta profondità 
delle origini 
dove il discorso 
si risolve. 

Pino Giacopelli 

Oltre la siepe, N. Calabria, Patti, 2004

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 29.




 DAL SUD di Pino Giacopelli 

Vengo dal sud, quel mito che abita ere 
trapassate e si dissolve nella zona 
degli uccelli 
nel pendio scorticato dagli artigli 
del grifone, 
quella strada in salita merlata turrita 
vaga di essenze esotiche, di cedri, 
sulfuree pietraie 
e scende nel mare della mattanza 
dove leggiadro veleggia un catamarano 
corindone, 
e le donne (stordite dal profumo 
di tuberose?) si aprono al piacere 
forse senza sensi di colpa, degustando 
sorbetti 
al gelsomino, senza coturni ai piedi. 
Corpi che sono labbra spalancate. 
Per amare 
e mentire, sognare e tradire. 
Voci della boucherie, necropoli 
macchiata 
di fantasmi che il mattino accende 
di lucerne 
e si perdono nel crocevia che spezza 
la speranza, negli ancestrali mal (umori) 
tellurici, 
nelle confidenze custodite della prima 
età e diventano marzapane e malvasìa. 
Vengo dal sud, quella sciarada 
che traveste 
di verità ventri di madreperla, dove 
per le coccinelle i pipistrelli sono 
angeli 
e lo spaventapasseri attira i corvi senza 
spaurirli nemmeno. 
Quel percorso triangolare dei gufi dove 
la gente 
viene a deporre lame di coltelli, 
a perdere 
la testa (almeno una volta) 
per somigliare 
a se stessi e sceglie la libertà che 
non conosce 
e crede che le stazioni dei metrò 
sono catacombe e l’oceano una latomìa 
abissale 
che inghiotte il sole, dove la maschera 
rugosa 
della morte ha il volto di una P-38 
carica 
di polvere di eroina, dove hai paura 
di assopirti 
e di svegliarti, mani nelle mani, 
nella morte 
che passa e ripassa sul corpo disteso 
portando 
via, poco per volta, la luce dagli occhi. 
Un’amàca tramata, 
dove allungarsi per addormentare 
il dolore 
attraversando i secoli, paesi, oscurità 
silvestri 
cariche di porfido, sfrascando steccati 
fra i passi della storia e vetrine ex voto. 
Vengo dal sud, la schiena contro 
la solitudine, 
i colori mescolati ai sapori, 
la fronte contro le illusioni (orecchie 
di cane che spazzano le pietre), 
le pietre 
pagine scritte e cancellate con rametti 
di mentastro, 
l’amante contro il fascino fatale, 
l’azzardo e il rimorso bleu cobalto, 
i ricordi contro il computer, 
vivere come i segreti, sottoterra, 
i santi contro l’assenza della vita, 
la fedeltà l’enigma, dove le brillanze 
di percorsi 
labirintici sono nascondigli, cartilagini 
di favi d’api e fuga, rifugio del tempo 
a venire, 
dove il sole ha nostalgia dell’ ombra 
e il querceto bagnato tinnisce allibito. 
M’aggrappo alla terra che si muove 
senza legami 
con la terraferma, un ponte verso 
lo zenit. 
Resto al sud, progetti di futuro: andare 
a fragole, 
arrivare alla vecchiaia con la faccia 
rivolta 
all’infanzia, senza memoria, non senza 
immaginazione. Incontrarsi vicino 
al piccolo 
castello di Eloisa, alla Ciambrina, 
la minuscola 
medina segreta e misteriosa intarsiata 
di ciottoli spuntati che schiudono 
le porte 
all’ utopia evocata dagli artisti, 
dove nelle notti di luna, negli intarsi 
absidali venati di madore adamantino, 
fa capolino 
l’anima nuda, l’aurora della vita 
e si potrà vedere l’aria e l’erba crescere 
e, nel vento che gonfia la camicia 
ed accarezza il petto, le ancore levare. 
I sogni, nervosi tentacoli barbicati 
di gemme ascellari, sono sempre 
più importanti di chi li ha generati. 

Pino Giacopeli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 45-46.




 EMOZIONI 

 

Eu parlu cu li stiddi, 
e i stiddi lassanu u celu ‘ ncantatu 
e vennu supra a terra. 
Eu parlu cu lu mari, 
e l’unna si stenni supra la rina 
e tutti i pisciteddi cu i sireni si mettinu,
iddi puru, supra l’unna. 
Eu parlu cu li ciuri, 
e i margariti spuntanu ‘nte rocchi 
e i cunigghiedda vennu cu amuri 
e cantanu i cicali sutta u suli. 
Eu parlu comu si fussi profeta, 
e u ciavuru di ciuri 
s’ammisca cu lu cantu di l’oceddi. 
Quannu sugnu cu tia 
mi tremanu li gammi, 
mi batti ‘n pettu u cori forti forti 
e ‘un sacciu cchiù parlari. 

Erminio Gandolfo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 49.




Danza rituale

Viene qualcuno e ti veste
di foglie come un dio solare
estate matta ti dà da bere
finché si avvelena
il tuo sangue chiaro e raro
poi ti fa ballare
davanti alle stelle
e non hai un nome e non credi più
in chi e come e dove
la mia parola, in un sabato venduto
a tutti i mercati della vita,
accetta di uccidere gli amori
e i sogni a metà
dimenticato nella morte dello scritto
all’ombra vecchia del paradiso.

Dan Fruntelata

(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 56.




 GIORNI E NOTTI 

La luce e il buio 
intrecciano canzoni all ‘ infinito 
in queste nostre vite. 
È melodia la rosa che si apre 
è melodia il fiore che appassisce. 
Hanno un ritmo gli uccelli 
che si librano in volo nell’immenso 
lontano … 
Un andare di passi quasi umano 
si percepisce 
leggero come quello d’un bambino 
lungo il cammino 
del sole sino all’ora della luna. 
C’è la tempesta 
che sconvolge per aria foglie morte 
ma aiuta a rinverdire nuovi rami. 
C’è un forte aroma delle nostre vite: 
amore, 
è l’amore che esala il suo profumo 
sotto i raggi del sole che riluce 
sin che si appaga. 

Eugenia Freire

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 36.




Il profumo del gelsomino

Faceva un caldo soffocante quella notte in cui uccisi la mia piccola Aldonza. Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro. Il silenzio della notte era squarciato dal latrato di un cane.

 Non ricordo se ci fosse la luna nel cielo; ma se ci fosse stata, non avrebbe potuto impedirsi di velare il suo volto per la vergogna e il dolore, mentre la vecchia pianta di gelsomino si contorceva, salendo su per gli spalti del castello a riempire l’aria con l’essenza inebriante dei suoi mille fiori bianchi, così piccoli e così impertinenti.

Quella notte di agosto, io, Antonio Piero Barresi, principe di Militello e signore della terra, consumai il delitto più odioso: mi vendicai dell’innocenza e della purezza. In preda all’ira e alla gelosia, strangolai mia moglie, dopo averla tormentata per ore con domande crudeli e meschine, mentre lei mi guardava sempre fisso negli occhi, negando fieramente ogni colpa.

Spezzai il suo corpo, così fragile e così pervicace come i fiorellini del gelsomino, finché non si afflosciò fra le mie mani, senza opporre più alcuna resistenza. Ma non riuscii a spegnere la luce dei suoi occhi verdi, che mi fissavano ancora dal bel volto senza vita e che continuano a fissarmi tuttora, ovunque io vada.

Se sono sfuggito alla giustizia umana, per via del mio rango, giacché nessuna Corte Criminale ha osato condannarmi, non posso certo sfuggire alla mia coscienza, che è implacabile. Da anni digiuno spesso e mi privo di tutte le comodità. Dormo sul pavimento, ai piedi del letto che ci accolse entrambi, Aldonza e io, ai tempi felici della nostra unione, a contatto con la pietra dura e fredda, come dura e fredda è la pietra che pesa sul suo corpo.

Avevo incontrato Aldonza per la prima volta nel castello di suo padre, Raimondo Santapau, marchese di Licodia. Avevo desiderato possedere i suoi pensieri, prima ancora che il suo corpo. Esile e slanciato, esso non aveva certo la forza di seduzione prepotente delle contadine dalle forme morbide che avevano frequentato il mio letto. I suoi capelli castani erano raccolti in una lunga treccia dai riflessi colore del rame e gli occhi erano di un verde caldo e profondo come l’Oriente, con pagliuzze dorate disseminate in mezzo all’iride e concentrate intorno alla pupilla. Avevano una bellezza ammaliante, luciferina.

I primi mesi dopo il matrimonio furono i più felici. Aldonza era innamorata e l’amore la rendeva bella e florida come una rosa nel suo pieno splendore. Ma c’erano momenti in cui la sorprendevo assente e distaccata, come se i suoi pensieri fossero volati via, chissà dove, inaccessibili al mio possesso. Alle mie domande non sapeva dare una risposta e talvolta aveva una tale difficoltà a tornare in sé che decisi di non farci caso; faceva parte del suo carattere e io l’amavo troppo, per farla soffrire con la mia curiosità. Del resto, la cosa succedeva più di rado, se l’assillavo con domande.

L’inverno molto freddo e una grave carestia colpì il territorio di Militello. A valle la neve imbiancava i tetti delle case che si stringevano come un gregge impaurito intorno alla chiesa di Santa Maria. Le piante di gelsomino dormivano sotto la coltre gelata, mentre i ramoscelli più sottili si arrampicavano disperati verso l’alto, ma ormai ridotti a un ammasso di arbusti secchi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia che scricchiolavano al solo sfiorarli.

Aldonza mi aveva chiesto il permesso di ospitare i poveri del paese nei locali adiacenti al cortile del castello, per sfamarli e dar loro un riparo dal freddo. Il suo entusiasmo era insolito e imprevisto, più forte della mia riluttanza. E così decisi di dargliela vinta, come si fa a volte con i capricci delle donne, soprattutto quando non costa quasi nulla accontentarle.

Per settimane il cortile fu occupato da una folla di presenze silenziose che si animava soltanto all’ora della distribuzione del cibo, quando la stessa Aldonza compariva in cima allo scalone per sorvegliare che tutto procedesse con ordine. I miei fratelli mi avevano raccontato che in mia assenza Aldonza scendeva in mezzo a quella gentaglia e si soffermava ad accarezzare i bambini. Quando ero presente, lei non osava mai farlo, né feci mai nulla per incoraggiarla.

Prima che finisse l’inverno dovetti lasciarla, per correre in Spagna al fianco di re Giovanni. Quando giunse il momento di separarci, solo i suoi occhi pieni di lacrime tradivano l’angoscia. Il suo corpo rimaneva immobile, senza un gesto, nella penombra di una fredda mattinata invernale. I suoi pensieri mi erano già preclusi. Nell’istante in cui l’abbracciavo, sentivo che per lei era come se già fossi andato via.

Mi allontanavo in groppa al mio cavallo, seguito dagi uomini più fidati, mentre un vento gelido tagliava la faccia ed entrava nelle ossa. Pensavo ad Aldonza e alla tristezza dei suoi occhi. Mi chiedevo come mai una donna intelligente e colta come lei, che spesso mi aveva affrontato in certe discussioni, dandomi prova della loquacità e delle sue conoscenze in vari campi dello scibile, potesse invece, nei momenti in cui erano in gioco le sue emozioni più forti, restare muta e impassibile, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, quasi privata improvvisamente dello spirito. Forse era un suo modo speciale per difendersi dalle aggressioni del mondo: opporre sempre una superficie dura e impenetrabile, come la pietra che non conosce il dolore.

Avevo affidato l’amministrazione dei beni al fedele segretario Pietro Caruso. Ci tenevo che vegliasse sui miei fratelli Luigi e Cola, più volte incoscienti e buoni a nulla. Per questa ragione chiesi a Pietro di essere duro con loro e di non soddisfare sempre le loro continue richieste di denaro. Magari avessi potuto immaginare che ciò sarebbe stato causa di tanto odio!

i dalla Spagna in piena estate e mi fermai per pochi giorni a Palermo per risolvere alcune questioni. Fu qui che mi raggiunse un messo che i miei fratelli avevano inviato per portarmi la notizia che Aldonza e Pietro erano diventati amanti e se la spassavano fra feste e ricevimenti.

Non potrei dire con assoluta certezza, se davvero credetti a quell’infamia. Ma essa, per il solo fatto di essere stata pronunziata, mi fece perdere il lume della ragione, e da quel momento diventò impossibile per me discernere la verità dall’inganno. Ecco il motivo dei silenzi e delle stranezze! Ecco spiegato tutto! Adesso mi era tutto chiaro come la luce del sole.

Come furia scatenata lasciai la città e mi lanciai al galoppo in direzione di Militello. Mille pensieri assalivano la mia mente e opprimevano il mio cuore. E se davvero Aldonza mi avesse tradito? Pietro Caruso era un uomo molto galante e di bell’aspetto, talmente da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia abile nella danza, che lo chiamavano “Bieddupedi”. Mi sembrava di vederli, mentre danzavano, e magari ridevano, mentre si abbandonava a gesti e parole che un tempo erano stati solo per me.

A dire il vero, non riuscivo a credere che la mia piccola Aldonza avesse potuto farmi questo. Ma c’era un’idea che mi torturava ed era che, seppure innocente, Aldonza era ugualmente colpevole, per aver fatto sì che una tale infamia andasse per il mondo a macchiare il mio nome.

Giunsi a Militello sul calar della notte, in uno stato di sovreccitazione indicibile. Mi precipitai da Pietro e lo torturai per farlo parlare, ma non riuscii ad ottenere alcuna ammissione di colpa. Lo trascinai sugli spalti del castello e tornai alla carica con le domande, minacciando di buttarlo di sotto.

Non so, forse avrebbe ancora potuto salvarsi, se avesse continuato a negare. Ma all’ultimo momento Pietro non seppe rinunciare a prendersi una rivincita sulla mia caparbietà e insinuò: “Signore, io non ho mai fatto simile peccato, nè mai mi è venuto in mente di farlo, ma, ad ogni modo, se l’avessi fatto, tornerei a farlo”.

Persi il controllo. Il profumo del gelsomino era troppo forte. L’afa era davvero insopportabile. Ero come una furia scatenata, mentre spingevo giù quel disgraziato e in un baleno lo raggiungevo sulla piazza sottostante. Era ancora vivo. Ma non avevo saziato la mia sete di vendetta. Lo legai alla coda del cavallo e lo trascinai per le strade del paese, fino alla casa di sua madre.

A quella vista, la vecchia rimase impietrita dal dolore. Non potevo tollerare l’atteggiamento fiero e le imposi di cantare e suonare con il tamburello davanti al corpo straziato del figlio.

Poi, fu la volta di Aldonza. Ritornato al castello, ordinai che me la conducessero davanti e cominciai a tempestarla di domande crudeli e incalzanti che non sortivano altro effetto, se non quello di farla irrigidire, fiera e dignitosa com’era. Afferrai il suo collo esile e strinsi con rabbia, fino a sentire il respiro smorzarsi in un rantolo leggero.

Calda era quella notte in cui uccisi la mja Aldonza, e denso e dolciastro il profumo del gelsomino. Si sentiva solo il latrato di un cane.

Non so quanto tempo la strinsi ancora e non so se ci fosse la luna alta nel cielo. Quando tornai in me e mi resi conto che era morta, chiamai le guardie e ordinai di appenderla con una corda alla cisterna del baglio.

Fu l’ultima volta che la vidi, la piccola Aldonza! Rimase appesa per tutta la notte, finché qualcuno la tirò giù e la depose in una fossa accanto alla chiesa di Santa Maria. Ma il suo spirito torna spesso a trovarmi per rimanere a guardarmi muto e silenzioso.

Allora il profumo del gelsomino invase l’aria con i suoi effluvi nauseanti, e da lontano si udì un canto triste. Una voce sommessa che ripete all’infinito le parole con cui una vecchia madre, ballando sul cadavere del figlio, mi ha maledetto per sempre: Autu signuri ccu ssa biunna testa mi fai cantari ccu la dogghia in cori a ogni santu veni la so festa e a tia, signuri, viniri ti voli Brigida Fagone.

Brigida Fagone

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 51-53.




 NON ESSERE 

Perché amare è annullarsi, 
come il seme nel seno della terra. 
Predicatore ignoto dal suo pulpito 
Essere e no . .. 
Forse brilla davvero di sue luci 
la fredda pietra 
che chiamiamo brillante? E forse è vera 
l’immagine che in uno specchio d’acque 
traspare? È una finzione … 
In che consiste? 
L’unica cosa che puoi dire certa 
è dunque l’illusione. 
Così l’amore. 
Amore è un’invenzione. Non esiste 
in natura. Perché natura è vita, 
slancio vitale, lotta, non-amore 
e suo destino 
certo è la morte, come per natura. 
Poiché l’amore è eterno, amore è Dio, 
il dio ch’è in noi 
ma noi lo rinneghiamo: e la sua sorte 
è il legno della croce. Una corona 
di spine 
spetta a chi annuncia il regno dell’amore, 
che non si addice all ‘ uomo. 
Non gli si addice l’unica certezza. 
Ed ecco l’illusione. 
Così l’uomo era fatto per l’amore 
Ca immagine di Dio) 
e fu costretto a vivere, a lottare 
contro il creato e le sue creature 
e la parola d’ordine fu uccidere 
per non essere uccisi, 
è vincere per non essere vinti: 
la lotta per la vita. Amore dunque 
è la rinuncia o la rassegnazione: 
la scelta del martirio. E non è umano! 
Così la pace … 
Non è umana la pace, non è umano 
l’ amore: 
la luce del brillante nella luce, 
l’immagine riflessa 
in uno specchio d’acque, l’illusione .. . 

Vivian Emmer

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 32.