Le ragioni del castagno 

Racconto ecologico di Il boscaiolo arriva a valle e comincia la sua fatica. La motosega, come una piranha impazzita, morde la carne del vecchio castagno, padre di tutti gli alberi della vallata. Fra poco, l’ombra sarà sparita e il vecchio tronco sarà un cadavere il cui corpo sarà pasto per i denti aguzzi delle segherie chiamate industrie. 

Lì vicino, un giovane castagno assiste e una lacrima di rugiada scende dalle sue foglie, ultimo commosso omaggio dedicato all’albero genitore di tutte le piante del bosco. 

Una folata di vento giunge e scuote il ramo vicino all’uomo. Il quale si ferma. Il giovane castagno lo guarda con tristezza – un misto di pena e indignazione – e fa: «Perché stai ammazzando mio padre? Che male ti ha fatto? Il tuo accanimento, certo incosciente, mi dice che no, niente. Ora ti dico: questa vallata era spoglia, senza verde, assolata. Sai cos’è una capoeira? Questo posto era una sterpaia o pressappoco. Un giorno, un arara dai vivi colori giunse in volo da lontano. E nella zampa aveva un semino. Stanco di volare, posò qui. C’era nel terreno quasi arido una pianta di goiaba e c’era un frutto. L’arara si mise a mangiarne, ma lasciò cadere il semino che portava. 

Da questo è nato l’albero che tu stai abbattendo … Come detto, il terreno era triste e rinsecchito. Una terra malandata, ma quella semente era di sana costituzione e poté crescere robusta, grazie a radici che cercavano alimento nel profondo. E l’albero venne su e diede frutti. Tutti noi qui che vedi, siamo figli suoi o figli dei suoi figli. E formiamo questo bosco pieno d’ombra, dove uomini ed esseri viventi vengono a riposare il corpo e ad … ammazzare la sete nel vicino ruscello. Non trovi forse che sia un posto delizioso? .. Oggi uccidi nostro padre, domani me, poi un altro ancora. Così, da qui a poco, questa sarà una valle senza vita, il cui ultimo respiro sarà su quello che una volta un granello di sementi trasformò in vita e in speranza che la vita continuasse. E così, mio povero pazzo assassino, capiterai di nuovo qui e ti accorgerai che tutto sarà finito. Vedrai che non ci sarà più vita. E i tuoi figli intristiranno, condannati a vedere la fine. Come me, ora.» 

JoCalixto de Medeiros 

Il racconto si trova nella raccolta In memoriam, «L.B.», Sao Pau lo. Trad. il. di Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 42.




Dda casa abbannunata 

Ancora m’addumannu 
cu mi cci purtò, a menzanotti, 
ravanzi a dda casa abbannunata, 
tutt’o scuro 
e chi scaluna muzzicati, 
unni rapivu l’occhi ‘a prima luci 
e ‘ntisi, trimannu, ‘a prima vuei. 
Povira casa, 
un tiempu ehin’e eanzuni e litanii, 
eu tanti amici a fàrinni cumpagnia. 
“Sette per nove? 
sessan…tatrè”. 
“L’albero a cui tendevi 
la pargoletta mano…” 
e me matri chi stirava e cantava 
“Signurinella pallida”. 
Chi risati ‘ntra ddi mura, 
quantu suli ‘n’ogni stanza, 
quantu ciuri ‘nte barcuna! 
“Cantami o diva del pelide Achille…” 
e iu, vistutu ‘i palartnu, 
cummattìa contr’a mmilli. 
Povira casa mia, 
culI’occhi orbi e senza vita, 
siccasti comu ciuri ‘nto bicchieri 
comu ‘u rampicanti ca racìna 
pittatu ‘nto tettu ra cucina. 

Quella casa abbandonata.

Ancora mi chiedo/chi mi portò, a mezzanotte,/ 
davanti quella casa abbandonata,/tutta 
al buio/e con le scale sgretolate,/dove 
aprii gli occhi alla prima luce/e sentii, 
tremolante, la prima voce./Povera 
casa, / un tempo tutta canzoni e litanie, / 
con tanti amici a farci compagnia./ 
“Sette per nove?/ sessan… tatrè”./ 
“L’albero a cui tendevi/la pargoletta 
mano.. .”/e mia madre stirava e cantavaf” 
Signorinella pallida”‘/Che risate 
dentro quelle mura,/quanto sole in 
ogni stanza,/quanti fiori nei balconil/ 
“Cantami o diva del pelide Achille.. .”/ 
ed io, vestito da paladino, combattevo 
contro mille./Povera casa mia,/accecata 
e senza vita,/sei appassita come 
un fiore nel bicchiere/come il rampicante 
con l’uva/dipinto nel tetto della cucina.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 20




Littra a dda Sicilia buttana 

Ora c’haiu l’occhi sicchi 
pi quantu l’anni haiu chianciutu 
e pi quantu fieli haiu masticatu, parrannu ‘i tia, 
ti scrivu ‘sta littra 
cu ddi picca paroli chi m’arristaru. 
Tierra mia, unni ‘u suli è patruni 
e ghioca ch’i vecchi e i picciriddi, 
unni ‘u pnmaroru è focu addumatu 
e i ciuri cantanu supra i mura, 
ti lassavu chiancennu ddu jomu ‘nfami 
e tu sai picchì. 
Tu, matri mia, 
nunn’avievi chiù pani pi nuavutri sfurtunati 
e iu, comu cani vastuniatu, 
vinni ccà nnà ‘sta tierra fridda 
ca mi rapiu ‘i sò vrazza. 
Ti pensu sempri, Sicilia buttana, 
e ti vasu ‘a notti, 
quannu cu l’occhi sbarrachiati 
ti viu ‘nto tettu. 
I figghi criscinu e sientinu parrar’i tia, 
ti vonnu canùsciri pi cusirità, 
ma sù figghi ‘i cità e tu l’ha capiri; 
nun ponnu trtmari comu mia 
‘o ricordu ru ciavuru ru girsuminu 
o ru pani cavuru c’a giuggiuliena. 
Iu, sugnu ‘u figghiu pirdutu 
‘nna ‘sta cità chin’e fumu 
e ‘nmienzu a ‘sti “Kartofen” biunni. 
Ma i me ossa nun ci lassu ccà; 
c’è cu m’aspetta ‘o campusantu 
e dda ann’arritumari. 

Lettera alla Sicilia puttana.
Ora che ho gli occhi secchi/per le lacrime 
piante/e il fiele ingoiato, parlando di 
te,/ ti scrivo questa lettera/con le poche 
parole che mi sono rimaste. / -Terra 
mia, dove padrone è il sole/e giuoca 
con vecchi e bambini,/dove fuoco 
acceso è il pomodoro/e i fiori cantano 
da sopra i muri,/ti ho lasciato piangendo 
quel giorno infame, / e lo sai 
perché. /Tu, madre mia, non avevi più 
pane per noi sfortunati/ed io, come 
cane bastonato,/venni qui in questa 
terra fredda/che mi apri le braccia./ 
Ti penso sempre, Sicilia puttana,/e ti 
bacio la notte,/quando con gli occhi 
spalancati /ti vedo nel tetto./I figli 
crescono e sentono parlare di te,/ti 
vogliono conoscere per curiosità,/ma 
sono figli di città e tu devi capirlo:/ 
non possono tremare come me/ricordando 
l’odore del gelsomin% del 
pane caldo col sesamo./ lo, sono il 
figlio perduto/in questa città piena di 
fumo/e in mezzo a queste “Kartofen” 
bionde. /Ma le mie ossa non le lascio 
qui;/c’è chi m’aspetta al camposanto/ 
e lì devono ritornare.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 19




Tempo presente 

Sono qui a guardare 
diamanti sparsi nell’acqua 
che riflettono raggi di sole 
e il mare di Sicilia 
che traduce l’azzurro del cielo. 
Solo il rude profilo dei monti 
nudi di roccia 
nasconde una città che piange i suoi morti. 
Chi sono quei giovani così disperati 
che hanno paura di vivere 
in un mondo di adulti così degradato? 
che marciano in composto silenzio? 
l fantasmi della nostra coscienza!

Romano Cammarata

 

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 47 




Chi sono? 

Chi sono? 
Ragazzi, 
Uno, cento, mille e poi? 
Vediamo scorrere numeri che 
Quantificano entità, 
Ma non ci dicono nulla 
Sulla realtà, sulle identità 
Di questi uno, cento, mille, 
Come i consuntivi dei morti in guerra. 
Perché non cerchiamo da subito queste 
Identità perché possano aiutarci ad 
essere realisticamente vivi, per 
Stabilire da ora un rapporto con 
Questi uno, cento, mille. 
Allora sarà più facile contarli, 
Non solo, ma guardarli, conoscerli, 
Capirli e così non saranno più 
Soltanto uno, cento, mille, 
Ragazzi. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 46




Ho sognato i miei sogni 

Ho sognato i miei sogni. 
Sogni di un tempo lontano 
eppure necessariamente presente. 
Sogni già fatti sofferti o gioiti, 
persone, magie, gesti d’amore. 
Fantasie confuse al reale 
che si concreta al mattino. 
Mi risveglio? Non so! 
Forse è un cadere nel vuoto 
di una vita assiderata, 
che non appartiene a nessuno 
che ti lega i gesti, comprime le idee 
che subito esauste 
creano soltanto 
un nuovo bisogno di sogno 
un bisogno di sognare i tuoi sogni. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 45




Magellano ’90 

Avevo pensato 
non sognato 
a oceani d’acqua 
a orizzonti lontani 
a rotte complesse 
per approdi intelligenti. 
Ho ripiegato 
sul piccolo mare 
sul traffico interno 
in circoli chiusi 
con approdi a vista 
scontati con burrasche sperate. 
Oggi governo un traghetto 
con l’unica fatica 
ad ogni approdo 
di voltare le spalle 
per ricominciare 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 44.




Fantasmi a Milano 

Nel cortile cercato 
come un traguardo 
Visitato nel buio 
ho trovato i fantasmi 
Lungo il muro su per le scale 
Figure aggrinzite sbiadite 
Di compagni lasciati un giorno lontano 
eppure presente 
Li ho visti necessariamente immobili 
Come il ricordo 
Ho teso la mano non per toccarli. 
Un saluto? Nemmeno 
Cari fantasmi del vecchio cortile! 
Via Commenda ancora ci unisce 
Per come eravamo coi segni sul viso 
Per quello che siamo coi segni nel cuore. 
Viviamo lontani un giorno diverso 
Stasera tornato tra voi 
Col volto bagnato da lacrime e pioggia 
Grido nel buio la mia redenzione. 
Vi lascio leggero con ignoto sorriso 
Appeso a quel muro 
C’è l’altro fantasma di quel che ero io. 

Romano Cammarata

Da Spiragli, anno IV, n.3, 1992, pag. 43




Un sogno

Ho aperto le porte del canile municipale e 
cani senza collare mi sono venuti dietro. 
Poi sono andato allo zoo e ho aperto le 
gabbie, i cancelli e leoni, tigri, orsi e uccelli di 
tutte le specie sono usciti liberi e si sono uniti 
ai cani e insieme siamo andati davanti alle 
scuole e tutti i bambini saltando e ridendo si 
sono confusi con gli animali, poi siamo passati 
vicino alle caserme e i giovani sono usciti senza 
fucili per unirsi a noi, e donne e uomini 
lasciavano le macchine in mezzo alla strada e 
tutti andavamo liberi nella luce per fondare la 
città del sole. 
D’un tratto uomini vestiti di bianco, 
piangendo, mi hanno fermato, portato dentro 
una stanza e legato ad un letto e ora mandano 
via gli uccelli che, dalla finestra aperta, vengono 
a farmi compagnia. 

Romano Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 42

 




Torno all’isola 

I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine 
attraverso l’oceano 
della vita passata 
correnti invisibili 
tessono lo spazio 
rotte segnate dal destino 
tomo all’isola 
circondata di ignoto 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni 
Illuso 
il tempo rotolando 
beffardo sulla mia vita 
ha dato a me 
nuova dimensione. 
Non trovo i margini 
i nomi delle cose 
non trovo i simboli 
miti realtà 
e disperato cerco 
vane coordinate 
(Per dare colore al tempo’, pag. 51) 

Romno Cammarata

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pag. 41