Il mio paese 

Sono nato in un paese di cui conservo solo il ricordo. Vi passai la mia infanzia, e me ne allontanai quando cominciai a guardarmi attorno, scoprendo il mondo con occhi non più bambini. 

Cosa potrei allora dire del mio paese, se non quello che mi porto dentro e mi appartiene? 

Sorge su un’altura e guarda il mare. Una volta, dalle parti più alte, ad occhio nudo si saranno viste entrare nelle rade le navi pirata ammainanti bandiera bianca, ché non credo i pirati abbiano usato qui le scimitarre o i tromboni. 

A strapiombo sul mare sorgeva il castello fatto costruire nel 1358 da Federico III Chiaramonte, conte di Modica, a cui questa terra apparteneva. Un maniero imprendibile, utilizzato come deposito di grano e roccaforte in caso di emergenza. Il visitatore l’avrebbe potuto ancora ammirare, se il tempo, le incurie e l’ignoranza degli uomini (queste ultime superano di gran lunga il primo nella loro opera di distruzione) non l’avessero reso un immenso cumulo di macerie, utile ricovero per i delinquenti o, nel casocmigliore, improvvisato ovile. 

Ricordo che il maestro delle elementari – un uomo di mezza età, serio, poco colloquiale con noi ragazzi, ma umanamente buono (anche a volerlo citare, non ricordo il nome) – parlando delle origini del mio paese, diceva che sul posto dove venne fondato sorgevano tante palme e da esse prese il nome. 

Contadini robusti, armati di accette, asce e picconi, vennero dalle vicine terre di Licata, e ci fu lavoro per tutti e per diverse stagioni. A testimoniare ciò quella brava gente lasciò una palma che, a sfida del tempo radicalmente mutato e degli uomini. resistendo, ancora svetta in cìelo i suoi rami, sicuro riparo dei passerotti. Vanno lì nella bella stagione a nidificare. 

Contadini d’una volta su cui si poteva contare, e con pochi grilli per la testa, che tramandavano ai figli i lavori, ed erano gratificati e edificati dai loro signori, ché non credo ci siano paesi che vantano santi, beati e uomini di chiesa quanti il mio. 

A fondare il mio paese furono due gemelli, Carlo e Giulio Tomasi, due sant’uomini all’antica che avevano a cuore il bene degli altri e praticavano le virtù come massime di vita a cui sempre bisogna guardare se si vuole la misericordia divina dalla nostra parte. Sta di fatto che Carlo rinunciò di lì a poco al ducato per vestire l’abito talare, e divenne teologo e servo di Dio. Al posto suo subentrò il fratello Giulio, II duca di Palma e I principe di Lampedusa. Carlo lasciò che il fratello continuasse la sua opera e che Giulio sposasse persino la sua ex fidanzata, Rosalia Traina, baronessa di 

Torretta e di Falconieri. 

Il mio paese allora doveva essere costituito da poche casupole di coloni che sorgevano attorno al palazzo ducale. Ma ben presto Giulio Tomasi si diede alla costruzione di chiese e monasteri, seguendo i consigli che gli venivano da più parti. Innanzitutto quelli del fratello Carlo che, dal monastero dei padri teatini di Palermo, dove s’era rinchiuso, insisteva perché si adoperasse a fare del bene al prossimo e, con opere più che con parole, tenesse viva la fede evangelica tra la gente. E poi quelli della moglie, Rosalia Traina, che di lì a qualche anno si sarebbe fatta suora. 

Giulio I Tomasi di Lampedusa finì per cedere il palazzo ducale che divenne monastero benedettino e se ne fece costruire un altro dove passò i suoi giorni nella preghiera e in opere di bene. 

Il duca santo – così da allora cominciarono a chiamarlo – era un uomo tutto cuore che non si faceva sfuggire la pratica della carità che, anzi, programmava e curava di 

persona, vestendo gli ignudi e sfamando gli affamati. Anche lui si era votato interamente a Dio, dopo che aveva visto farsi monache le quattro figlie e la moglie, da cui consensualmente nel 1661 si era diviso, volendo «vivere in celibato per il rimanente della loro vita». 

Da una famiglia così pia e serafica chiunque si sarebbe aspettato un santo, e il santo c’è stato nella persona di Giuseppe Maria (nato nel 1649), figlio del duca Giulio e della baronessa Rosalia Traina. 

Seguendo le orme dello zio Carlo, Giuseppe Maria Tomasi abbandonò ogni cosa e si fece religioso, entrando nel monastero dei padri teatini, a Palermo. E di qui a qualche anno andò a Roma per continuare gli studi di filosofia e teologia. 

Chi volesse rendergli visita, trovandosi a Roma, può portarsi nella chiesa di S. Andrea della Valle. Qui in una cappelletta della fiancata destra riposano i suoi resti mortali. 

Non saprei descrivere quale fu la mia impressione andando la prima volta a rendere omaggio ad un si grande concittadino. So soltanto che sembrava come chi, dormendo, è in balia di un piacevole sogno, e la sua espressione è serena, soffusa di gioiosa dolcezza. 

A volte mi chiedo dove siano andati a finire la santità e il timore di Dio degli antichi miei concittadini, ora che il paese è noto e conosciuto esclusivamente per i fatti e i misfatti che vi succedono. Chissà, forse per una rivalsa delle forze demoniache che nei tempi passati non avevano mai avuto il sopravvento o, forse. per la confusione che nella gente c’è tra ciò che è bene e ciò che è male. Ma, intanto, spesso si sconfessa la ragione e si rifiutano certe norme del vivere civile. 

Il paese della mia infanzia differisce di molto dall’odierno «Comune d’Europa», come recita la scritta turistica postavi all’entrata. Ora non lo riconosco più, e mi sento un estraneo tutte le volte che vi ritorno. Certo, lo starne lontano ha influito parecchio. Le cose vengono guardate da angolature diverse, e l’uomo è portato a elaborarle criticamente e a confrontarsi con gli altri, uscendo dal suo piccolo e curando i contatti, indispensabili in una società in continuo cammino come la nostra. Aumentate le sollecitazioni, crescono gli interessi e, vuoi o no, sei portato ad arricchirti culturalmente. Al contrario, quando non ci sono stimoli, tutto rimane fermo, e non c’è niente che contribuisca a farti uscire dal chiuso in cui ti sei cacciato, e vi rimani come farfalla che non sa allontanarsi da una lampadina accesa. 

Eppure qualcosa è cambiata al mio paese. C’è il passeggio, e dal primo pomeriggio fino a sera, una marea di giovani attraversa in lungo e in largo corso G. B. Odierna. Certo, l’evoluzione arriva anche qui, dove in passato bisognava stare attenti a guardare una donna. Subito veniva chiamato in causa l’onore e allora scattavano i ragionamenti chiarificatori e le scuse. Altri tempi, quando, per lo meno, si chiacchierava e tutto finiva lì, bevendo del buon vino sopra i discorsi che si protraevano fino a notte. Ora che il progresso ha mandato in soffitta l’onore, non c’è motivo alcuno di ragionare. E chi sbaglia. paga, perché la giustizia. al mio paese, non sta (nemmeno a parole) nei tribunali. 

Il progresso ne ha fatta di strada! Ci sono al mio paese le vigili, e si fanno sentire, coi loro fischietti, anche se nessuno le tiene in considerazione. E, per chi viene da fuori, è un rischio guidare. Gli stop, i divieti, i sensi unici non sono rispettati, e chiunque ha dalla parte sua la ragione. Ricordo che in uno dei miei sporadici ritorni. dettati più che altro da dovere filiale, una persona, solo perché non le diedi la precedenza, avendo la mia destra libera, mi guardò con due occhioni così brutti che, a pensarci, mi incutono ancora paura. 

C’è il passeggio, ci sono le vigili e ci sono anche i lunghi cortei funebri, occasioni di ritrovo e di chiacchiere che niente hanno da spartire col morto. Ma non c’è una biblioteca pubblica, e manca anche l’ospedale. D’altronde, come si può pretendere di elevare lo spirito, se non c’è la possibilità di curare il corpo? 

I ricordi dell’infanzia mi legano al mio paese, e niente esercita in me una così forte attrazione come i luoghi e le persone che, andandomene, vi lasciai. 

Persone che non ci sono più restano ferme e vive nella mia memoria, e i luoghi che mi videro bambino mi richiamano con prepotenza, quasi come dire: «Ecco, siamo ancora qui, nonostante. Nonostante le caotiche costruzioni che ci stringono sempre più e ci rendono irriconoscibili, siamo noi, il tuo mondo d’una volta! Vieni, soffermati un po’ con noi: Via Turati, Convento, Badia, piazza S. Angelo . . . Adesso è come se non ci fossero più bambini, attratti più che mai dalla televisione. Vieni, e resta un po’ con noi». 

Eppure mi sento un estraneo, ogni qualvolta tomo al mio paese. Quando provo a passare per queste strade e a sostare in queste piazze, è come se non ci fossi mai stato. La gente mi prende di mira, e mi scruta, considerandomi un intruso. Ma quelle piazze e quelle strade mi appartengono e sono là a dire che furono la mia seconda casa e il mio mondo. 

Piazza S. Angelo era il ritrovo dei ragazzini di tutto il quartiere. Qui passavamo tutti i giuochi in rassegna, secondo il tempo e la stagione e, come una moda, duravano poco, perché soppiantati da altri. Ma alcuni rimanevano sempre alla ribalta: quello della mosca cieca, dei coy-boy e gli indiani, del nascondino. Ce n’erano altri particolarmente singolari. Uno consisteva nel catturare più api possibile e liberarle dopo aver attaccato loro un lungo filo alle zampe posteriori. Chi riusciva a farne volare di più risultava vincitore. 

Nelle giornate d’inverno, quando pioveva o l’insistenza del vento non permetteva di stare molto all’aperto. trovavamo riparo in qualche androne, dove – come in un calderone sul fuoco – si raccontava di tutto. Si rientrava in casa a buio inoltrato, dopo che le madri ad uno ad uno chiamavano i propri figli. 

Non dimenticherò mai, tra i personaggi di pubblica conoscenza, Sarvaturi. Non so perché lo chiamassero così. anziché Turiddu o Totò, come di solito viene chiamato Salvatore. Era il banditore del mio paese, il giornale cittadino parlante, il divulgatore delle ordinanze municipali o degli avvisi che le autorità davano alla cittadinanza. Sarvaturi, con tamburo e cappello di pubblico ufficiale, si faceva il giro del paese, annunciandosi prima a colpi di grancassa e poi gridando il bando ai quattro venti, in un dialetto infarcito qua e là di vocaboli italianizzati. 

Il rullo del tamburo era il richiamo di noi ragazzi che scendevamo subito in campo e, con tutto ciò che poteva servire a far rumore, improvvisavamo un coro. E seguivamo Sarvaturi per tutto il quartiere, fino a quando, stanchi di gridare, non tornavamo ciascuno nel posto da dove eravamo venuti. 

Sarvaturi era un uomo sui generis: bonaccione, facile allo scherzo ma pronto a montare su tutte le furie! Ed erano guai. Dovevi dartela subito a gambe, se non volevi buscarti una sassata in testa. Per questo, lo accompagnavamo coi nostri tamburi improvvisati, ma poi dovevamo ascoltarlo in silenzio, se volevamo tenercelo buono. 

Spesso Sarvaturi prestava la sua opera a privati che, avendo smarrito un porco, una capra o un tacchino, ricorrevano a lui perché, rendendo pubblico lo smarrimento, qualcuno si facesse avanti e restituisse al padrone l’animale. In cambio era previsto un premio per chi l’avesse trovato, a parte la tariffa prevista per il banditore che, in ogni caso, veniva pagato. 

Non ho saputo più niente di Sarvaturi, e non so quale fine abbia fatto. Proverò a chiedere notizie e. state certi, ve ne parlerò qualche altra volta. 

È curioso il mio paese. non è vero? 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 33-37




 A Jerry Essan Masslo 

Jerry, amico mio, 

perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità, come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità, i giornali se ne sono occupati per un po’, a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre. 

Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano. che venga fuori a dir la tua? 

E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? Tu che eri desideroso solo di un po’ di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’odio fratricida … 

Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al paese d’origine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’ostinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità. 

Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa. 

L’Europa che nel corso dei secoli ha dettato leggi in materia di civiltà, ora ha da fare i conti con insorgenti forme di razzismo che fanno veramente pensare. Per non andare troppo lontano, l’Italia, a più di cent’anni dalla sua unificazione territoriale, assiste a «lighe» politicamente organizate contro i «terroni», segno che l’unificazione vera e propria ancora non si è avuta, ea niente è valso lo sforzo dei tanti uomini che vi hanno lavorato. Quando in una città come Torino si legge «Non si loca a siciliani», o in una Milano esiste ancora il «Vietato l’ingresso ai meridionali», città dove – lo sanno bene tutti i settentrionali – enorme è stato ed è l’apporto degli Italiani del Sud, i commenti vengono da sé. 

Amico, come vedi, la discriminazione s’annida dappertutto; nelle scuole, per le strade, nei bar, e noi, presi come siamo dai nostri interessi, non ce ne accorgiamo o, meglio, non ci rendiamo conto che, così agendo, coltiviamo un terreno che a lungo andare potrebbe franare. L’Italia – mi si dice – non è stata, poi, tanto razzista. Vero. Durante il ventennio, grazie anche all’influenza della Chiesa, non si ebbero quegli eccessi che in Germania culminarono nell’uccisione di una gran moltitudine di Ebrei e di zingari. Eppure da noi 

c’è un’insofferenza che via via s’è manifestata e si è accentuata negli ultimi decenni, da quando, insomma, nelle piccole città o nelle metropoli, sono sorti grandi complessi popolari – con tutti i problemi che si portano dietro – privi dei servizi più elementari, spesso incontrollabili e, perciò, facili preda di delinquenti e uomini senza scrupoli che vogliono ad ogni costo arricchirsi alle spalle degli altri. In ambienti del genere, viene praticata ogni sorta di violenza, e non solo gli scippi e le rapine sono di casa, ma sono anche frequenti le aggressioni ai deboli, agli handicappati e alla gente di colore. A parte il tuo, che ha toccato veramente il fondo della vigliaccheria più spietata, è recente il caso di quella giovane madre negra che, tornando dal lavoro da uno dei quartieri periferici di Roma, viene malmenata e costretta a scendere dal mezzo pubblico proprio perché negra. Aberrazioni isolate, senza dubbio, ma non per questo meno pericolose. Ad esse già sul sorgere, vanno trovati i rimedi, e solo così si potrà evitare il peggio. 

Lo Stato con le sue istituzioni e i mass-media devono adoperarsi perché si crei nel cittadino una coscienza di fraterna solidarietà fra tutti gli individui, senza alcuna distinzione di razza o di religione. È quanto di più umano si possa sperare. Messa da parte, e per sempre, la famigerata superiorità dell’uomo bianco. che non è nemmeno il caso di prendere in considerazione, il problema va posto entro i termini della fortuna: questi nostri fratelli, vicini di casa, tra l’altro, per questioni storiche e ambientali, sono stati meno fortunati di noi ed ora, più che mai, ci chiedono aiuto, stanchi come sono di vivere nella miseria e nello sfruttamento. 

Un giovane africano, l’altra sera, per televisione, parlava della situazione di disagio in cui si vengono a trovare gli immigrati di colore in Italia e non riusciva a spiegarsi questo trattamento di distacco proprio da un paese che ha sempre allacciato rapporti di amicizia e di commercio con l’Africa e tuttora trae vantaggi dall’emigrazione di tanta sua gente all’estero. Ed è anche vero. I Paesi industrializzati e l’Italia devono accettare i lavoratori di colore, così come dai Paesi europei e d’oltremare vennero accolti e accettati i nostri emigranti per accudire ad umili e faticosi lavori, proprio quei lavori che ora fanno da noi gli Africani. 

Sono d’accordo con te, Jerry, quando dici che gli uomini del Continente nero non tolgono lavoro a nessuno. Per la maggior parte dei casi, questi immigrati vengono utilizzati o in fatiche ove si richiede tanta manodopera o in altre prettamente tradizionali che i nostri lavoratori non vogliono più praticare. Il benessere, per la maggior parte, – perché in Italia c’è ancora gente che vive nella miseria e tra gli stenti – ha portato anche questo: il rifiuto di quelli che vengono considerati. da che il mondo è mondo, lavori umili, umilissimi. La corsa verso la città ha spopolato, come mai in passato, le campagne, ed è qui che vengono maggiormente utilizzati i lavoratori di colore. Portano al pascolo greggi, raccolgono frutta, vendemmiano. Di tutto fanno questi poveri diavoli! Basta inizialmente guidarli, e allora trovi il manovale, il giardiniere, il marinaio, il tutto fare insomma, e il commerciante che va in lungo e in largo dappertutto: il «vu’ cumprà». A negri è affidata la cura dei boulevards parigini, Negri trovi a Londra e un po’ dappertutto. Si accontentano di poco, con la sola sacrosanta richiesta di vivere anch’essi umanamente la loro vita. 

E così noi bianchi ce ne serviamo e poi li ghettizziamo. senza per niente curarci della loro presenza. Li mettiamo da parte come oggetti da riutilizzare alla bisogna, mentre – più degli altri – necessitano di comprensione e di amore. Se non altro, consideriamoli per quelli che sono, uomini che cercano, senza togliere niente a nessuno, un po’ di spazio per acquisire anch’essi una loro dignità. 

Se facessimo almeno questo, Jerry, certamente ci troveremmo sulla buona strada e tu, per lo meno, non saresti morto invano! Sì, se accettassimo questa gente con quel tanto di umanità che è dovuta agli uomini, non assisteremmo a certe escandescenze, frutto di eccessiva birra, o a litigi che tra essa si verificano a volte per futili motivi. Ma è sempre un modo, come un altro, per reagire ai soprusi, allo sfruttamento, alle meschinità che spesso deve subire. In ogni caso, non c’è in essa certa spavalderia di Italiani all’estero che non sempre si sono mostrati riconoscenti presso i Paesi ospitali. 

Caro amico, male, veramente male ci rimasi quel mattino di marzo del ’75 quando, trovandomi nel bar della stazione ferroviaria di Karlsruhe, un gruppo di Italiani, ultimato il turno di lavoro e consumata la colazione, cominciò a schiamazzare. gettando a destra e a manca tazze e piattini, imprecando «bastardi» ai Tedeschi. A niente valsero le proteste del gestore che, ad un certo punto, fintosi indifferente, diceva tra sé parole di biasimo e di riscontro in un gergo incomprensibile. Fu la polizia a disperdere in malo modo quell’ingrata gentaglia. Me lo ricordo ancora quel mattino – la primavera era già alle porte, la temperatura mite – me lo ricordo. 

Eppoi, da più parti si predica un nuovo umanesimo. Ma quale? L’uomo nella corsa verso il benessere è impazzito, non domina più se stesso, ha messo da parte gli antichi valori, dandosene altri, inumani ed effimeri. 

Scusami, Jerry, se mi sto dilungando. Non vorrei tediarti con le mie chiacchiere. Ma tu mi guardi con indifferenza, come se la discussione non t’interessasse. Mi agito. A volte non trovo le parole: è il mio io che, sconvolto, non mi dà pace. Spesso mi chiedo: perché nascondere la realtà delle cose? A fatti avvenuti, c’è la falsa pretesa di volersi dare delle risposte risolutorie, come se si volesse far tacere la coscienza. Non si ricercano nemmeno le cause e, nel caso tuo, c’è stata la volontà di addossare ad altri uomini di colore il tuo assassinio. 

Gli abitanti di Villa Literno avrebbero voluto uscirne indenni: si preoccupavano della rispettabilità della cittadina. Lo stesso parroco del paese non ha fatto un discorso coerente, e le sue parole palesano un certo disagio. Il fatto è che ci si ostina tanto a nasconderci dietro ad un perbenismo che non regge ai primi scossoni e ci riveliamo spesso vuoti e inconcludenti. 

Vorresti, caro amico, che per lo meno il tuo sangue servisse a qualcosa, a far capire agli uomini che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia, dove il rispetto e l’amore verso il prossimo, al di là delle razze e del colore, devono star di casa. So che non chiedi vendetta; ma, purtroppo, non ci sarà uguaglianza e giustizia sino a quando permarranno nell’uomo sentimenti di odio e di prevaricazione, rimanendo così indifferente ai problemi degli altri. 

La strada da seguire non è poi tanto semplice, Jerry! Non per questo bisogna desistere: occorre adoperarsi perché i governanti prendano seriamente in considerazione il problema – di problema qui si tratta – la cui soluzione rimuoverebbe tanti ostacoli e dissolverebbe molte perplessità. 

L’estate scorsa, in Italia, per esempio, si sono inscenate manifestazioni contro i «vu’ cumprà» e tanti commercianti sono caduti veramente nel ridicolo. Ebbene, per il momento assisteremo a proteste e tafferugli del genere, ma cosa si verificherà nel giro di qualche anno quando – statistiche alla mano – la popolazione diminuirà e gli immigrati aumenteranno a dismisura? A questo punto non rimane che affidarci al buon senso dei nostri governanti e a quanti operano disinteressatamente per il bene e la pace sociale. 

Il rammarico per la tua triste fine è stato grande, Jerry. La buona e brava gente – ce n’è tanta ancora – è rimasta scioccata e non si spiega come fatti del genere possano ancora verificarsi. Eppure non c’è che rassegnarsi; vuol dire che doveva andare proprio così perché le cose potessero veramente cambiare, in meglio s’intende. E i primi frutti credo si stiano raccogliendo. Il fatto che si parla più insistentemente che non nel passato dei Negri in Italia, fa pensare che qualcosa già si sta muovendo in favore e che il tuo sangue non è stato versato invano. Me lo auguro di cuore, amico mio. Allora la tua anima potrà finalmente trovare pace e il sorriso ritornerà sui volti abbrutiti dalle fatiche: sarà come se non fossi mai morto, e noi ti ravviseremo nei tuoi che sono anche nostri fratelli. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 39-43.




 I TUOI OCCHI 

I tuoi occhi 
dietro le finestre scure: 
avidi spietati lucidi 
come la lama di una spada di mercurio 
che illuminano il chiaroscuro. 
I tuoi occhi 
su un campo senza orizzonte 
che attirano la selvaggina 
per lo sterpeto dei sofismi. 
I tuoi occhi 
che frusciano come la seta 
dopo una battaglia perduta. 

Igna Vasile 

(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 33.




Un cherubino a Parigi

Quasi un racconto di Mario Tornello 

Dalla notissima Place Pigalle di Parigi sale una via tortuosa; è Rue Lepic che conduce a Montmartre, il quartiere degli artisti dove la musica, la letteratura e la pittura coabitano. 

La place du Tertre è il punto focale di incontro di artisti da strapazzo in cerca di gloria radicati con i loro cavalletti e dipinti tra gli stentati alberi della piazzetta. «Au pichet du tertre» è uno dei ritrovi di questa gente squattrinata in cerca di caiore umano e, d’inverno, di quello fisico dove dinanzi ad un bicchiere d’assenzio pare scompaia il disagio esistenziale di chi lotta per sopravvivere sulle orme sbiadite di quei pittori che lì posero le basi dell’impressionismo. 

Il fumoso locale è letteralmente tappezzato di dipinti di artisti che hanno saldato così un lungo conto sospeso con il proprietario del locale. E sono tante quelle opere che ad occhi in su è possibile ammirare sospese al soffitto, rivolte verso il basso e trattenute da opportuni sostegni. 

Tanti artisti, Manet, Seurat, Monet, Tolouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Matisse e l’epigono Utrillo, vissero parte della loro vita in questo quartiere, attratti dal suo fascino particolare, dove numerose gallerie d’arte odorano di vernici e resine delle opere esposte. 

La breve rue Norvins·offre una visione ormai classica, infiorata com’è, a distanza, dalle imponenti bianche cupole del Sacre Coeur. Non c’è pittore che non ne sia rimasto ammaliato e non l’ abbia ritratta. 

Rue Rustique, la parallela, accoglie nelle sue mansarde quegli artisti squattrinati che vivono la loro bohème tra esaltazione e sconforto, tra idealismo esasperato e vicissitudine umana. I suoi lampioni, a sera, diffondono una luce che, giungendo fioca in alto, spande una luminescenza d’alba alle finestre degli studi. 

Le vecchie librerie d’antiquariato, internate negli stretti vicoli, espongono delizie grafiche di altri tempi: incisioni e volumi che, pur a prezzo sostenuto, hanno un vivace mercato, e cultori d’ogni paese vi trascorrono intere ore alla ricerca della rarità da altri non notata. 

«Le lapin agile», «Le moulin de la Gallette» e «Le moulin rouge», vicini l’un l’altro, sono luoghi che hanno consegnato alla narrativa dell ‘ arte vizi e virtù, baldoria effervescente e storie umane esasperate vissute tra interminabili discussioni. 

Quell’animata vita artistica è scomparsa quasi del tutto, e ad essa se n’è sovrapposta un’altra dai valori meno radicati, superficiali, con la prospettiva unica della resa economica in vista dell’afflusso turistico. Non c’è più un Modigliani con le sue donne e la poetessa russa Anna Akhmatova ritratta in nudi memorabili; ora non tracanna più assenzio e non assume stupefacenti alla ricerca elegiaca della poesia interiore; né c’è più de Chirico che per la sua presunzione esasperante le prendeva da Picasso irritabile. 

Ben altri tempi e personalità si sono sovrapposti con diverso marchio. Gli anni Cinquanta a Montmartre, tranne che per Bernard Buffet, non sono rimasti nella storia dell’Arte. Non hanno segnato un periodo di fertilità figurativa, cosicché quel quartiere oggi sembra spento. 

Gli artisti si sono dispersi tra i vecchi edifici di Montparnasse dai muri su cui campeggiano ancora pubblicità e scritte ottocentesche, tra boulevard Saint Michel e il boulevard Raspail, tra il «Café de la cupole» e il «Procope», dove Sartre e Simone de Bouvoir, nonché Prèvert e la Greco, attorniati da altri intellettuali di quegli anni, posero le basi dell’ esistenzialismo. 

Il «Café Procope», dove alla fine del XVIII secolo nacque il gelato per genialità del palermitano Procopio dei Coltelli, è ancora un ritrovo di intellettuali di ogni lingua. Qui e alla «Cupole», come alla «Rotonde», negli anni ’20 Modigliani ed altri non lesinavano di ritrarre qualche avventore annoiato. 

Su tali orme vagheggiò, ai primi anni ’50, un giovane artista siciliano, Placido Marino, attratto da tanto nome. Si stabilì sulla collina dei Martiri per il fascino particolare e la tanta storia che vi era trascorsa, a partire da George Michel a Coro t, da Gericault a Louis Daguerre, il pioniere della fotografia, da Berlioz a Chopin, da Franz Liszt a Eugene Sue, autore del popolarissimo I misteri di Parigi, fino a Susanne Valadon, madre di Maurice Utrillo. 

Marino, presa in affitto una mansarda sui tetti di rue Rustique, vi alloggiò con idee non tanto chiare. Ebbe bisogno di riequilibrare i suoi pensieri, mentre scopriva il quartiere e la sua gente. Passò più di un mese da solo a confrontare idealmente le proprie concezioni pittoriche con quelle esposte nelle gallerie. Cercò pure un volto compiacente tra i tanti anonimi a conforto del suo iniziale scoramento. La tasca gli cantava per le regalìe di parenti e amici che avevano creduto in lui, e quel periodo di ambientamento, data la primavera avanzata, gli servì per osservare con attenzione l’ umanità che vi risiedeva e allo stesso tempo vagliare le possibilità di affermazione che vi si sarebbero potute prospettare. 

Una sera al «Pichet du tertre» si specchiò negli occhi di Angela Paraiso, una bella ragazza portoghese dai capelli “orvini e il viso ambrato. Poche parole valsero a leggersi l’anima, scoprendo lentamente che si erano cercati senza saperlo: lei raffinata, in figura esile, di eleganza naturale, orgogliosa come rosa sullo stelo con un innato senso di protezione; lui alto, scattante, pervaso da un’ansia palpitante di cavallo di razza mitigata da un’ apparenza rassicurante che celava una fragilità nervosa. 

Bastò una sera fitta di rispettive rivelazioni e gli animi furono scorticati in una confessione catartica. Si attrassero come chiodi alla calamita e furono giorni vòlti alla scoperta di sé, pervasi dalla stessa frenesia del vivere: messe insieme le scarse finanze, unirono anche i loro destini: lui in cerca del suo fazzoletto di notorietà, lei votata a mostrarsi, a bussare alle case di Moda di Montparnasse per sfilare in passerella. 

A place du Tertre il turista sbadato si soffermava curioso tra i cavalletti dei pittori e la rara opera venduta permetteva all’autore un pasto caldo ed un bicchiere di quell’anice sciolto in poca acqua che, ravvivando lo spirito, stimolava la creatività, si diceva. 

Nella mansarda dei due innamorati, d’inverno, il gelo era sovrano, cosicché qualche volta capitò loro di coricarsi vestiti tra le due coperte che possedevano. Il fornellino elettrico contribuiva a mantenere un minimo di tepore in quel nido e spesso si addormentavano abbracciati per darsi reciproco calore, mentre i lampioni da giù spandevano nella misera stanza un alone che giungeva loro come l’aurora primordiale che avvolse la terra agli albori. Eppure, d’estate, da quelletto al buio, spesso s’intravedeva il sorriso di una luna compiacente a conforto della loro indigenza. 

Credendo fermamente nel proprio talento artistico, Placido continuava a proporre ai mercanti d’arte di Montmartre una pittura che, esulando da quella vilmente commerciale, aveva tutti i numeri per affermarsi, e fu in tale rovinìo 

spirituale che assistette incredulo ad un evento inaspettato: un suo corregionale, artista anch’egli in cerca di notorietà, ebbe la casuale idea di dipingere un volto di bimbo, dolcissimo in verità, che gli spalancò d’improvviso le porte del mercato di Montmartre. Le ordinazioni gli fioccarono al punto da essere imitato da altri con uguale fortuna. 

Placido se ne avvilì e, seppure sollecitato, non volle concorrere a firmare analoga pittura come souvenir parigino. Ne fu sconvolto, ma continuò a percorrere con tenacia il binario della sua ispirazione su cui aveva adagiato i suoi soggetti. Lo sconforto lo avvolgeva e fu sul punto di abbandonarsi alla tentazione di lasciare il campo, pur conscio di dover affrontare il ludibrio di quanti avevano creduto in lui. Resistette e non volle svilire la sua pittura, anche se pressato da un’indigenza sempre più manifesta, e proseguì con la sua voce artistica inascoltata. Continuò a dipingere con il cuore i suoi paesaggi lontani, assolati, visti in un inno evocativo intriso di nostalgia per quella natura che lo aveva allevato, esaltandone persino le dune di torrida sabbia, in riva ad un mare maestoso, infiorate di fichi nani dal frutto mielato e di ginestre fragranti che concorrevano nei giorni uggiosi a lenire la tristezza. 

Quella vita stentata tra ristrettezze economiche e il rifiuto sistematico delle gallerie li portò presto a frequentare all’alba con altri artisti i Mercati Generali «Les Halles», dove, raccattando resti di ortaggi, realizzavano una calda minestra con la mente rivolta ai pranzi domenicali nel calore delle famiglie di provenienza. 

Angela era attratta dall’ artista di cui, in certe espressioni dialettali, coglieva assonanze con la sua lingua d’origine, al punto di percepirne il senso e ciò la legava di più a quella personalità scontrosa, pronta ad un’amara autoironia. Percepiva nei confronti di Placido vibrazioni d’anima mai provate e, invaghendosene sempre più, sentiva germogliare dentro l’idea sommersa di dover provvedere alla sua protezione, date le prime manifestazioni di una insofferenza fisica accresciuta da una macerazione d’anima. 

Placido si accaniva a dipingere per gionate intere, in un’euforia sfrenata, paesaggi evocati dai nudi di Angela, passando, poi, d’improvviso a giornate cariche di un’angoscia introspettiva in cui ammutoliva pervaso da un’abulia che non permetteva alla mano di accompagnarsi al pensiero creativo. Accadde che nel trascorrere di pochi anni, tra sbalzi di umori ed intime macerazioni, il fisico di Placido tendesse all’esaurimento delle energie vitali insieme ad una opacità mentale. 

Un mattino Angela ebbe chiara la sua missione terrena: appena desta da un sonno profondo costellato di sogni nebulosi premonitori di qualcosa che ritenne nefasto, avvertì su di sé, all’altezza delle scapole, due escrescenze cartilaginose dalla vaga sembianza di ali. Sorpresa e incuriosita si alzò di scatto, volgendosi al frammento di specchio alla parete dove il suo viso s’ illuminò di un radioso sorriso per ciò che scoprì, indicandole chiaramente la promozione, tanto attesa, a cherubino. Tale la felicità che, fremente, non resistette a svegliare Placido, il quale, ancora tra le braccia di Morfeo, a sguardo spento, mostrò un vago interesse per l’eclatante novità fuori da ogni immaginazione. 

Montmartre fu scossa da quella notizia e sembrò rianimarsi dal suo torpore. Gli scettici, e furono tanti, incrociando Angela per le vie tendevano a toccare quelle ali già chiaramente manifeste; dopo che, scuotendo il capo e ritenendola una mistificatrice, si allontanavano, mentre lei, orgogliosa ed altera, proseguiva quasi levitando per il quartiere. 

Qualcuno arrivò a chiederle se non si fosse prestata per una trovata pubblicitaria; fu addirittura intervistata dal «Paris Macht», ma non volle definire i termini della sua missione terrena né l’origine di quelli ali; in sintesi, riferì soltanto del gran dono ricevuto. 

Il caso fu eclatante; un angelo o pseudo tale, a Montmartre e nel mondo intero, non si era mai visto né sognato. Quelle ali bianche, carezzevoli sulla sua persona, evocando quelle di una maestosa aquila o di certi dipinti rinascimentali, fecero scalpore. Altra stampa, anche straniera, si occupò del caso, che ben presto, superata la novità dell’accadimento, fu dimenticato restando nella memoria di quel quartiere. Ed Angela s’inserì come personaggio in perfetta sintonia con le stravaganze tipiche del luogo. 

Placido iniziava ad avvertire i sintomi di una grave sofferenza fisica che minandolo di giorno in giorno ne consumavano le energie vitali, ma con fermezza continuava a rifiutare il ricovero in ospedale, desideroso soltanto di avere accanto a sé il suo angelo custode, come era solito chiamarla, a conforto dei penosi giorni che gli si prospettavano. Morì all’alba di un livido mattino d’autunno, dopo aver chiesto di baciare la mano del suo cherubino. Il trapasso avvenne nell’alone di luce dei lampioni di rue Rustique. Angela Paraiso, al dolore di quella scomparsa silenziosamente sofferta, associò la conclusione della sua missione terrena. Assorta in tale riflessione le sembrò d’improvviso di cogliere un frullare d’ali alla finestra; due colombi s’erano posati lievi sulla cordicella per il bucato, rimanendo immobili rivolti verso l’interno di quel che era stato un nido, come a chiedere di trasportare le spoglie. Si era conclusa in quella misera stanza una vita di artista svenduta ad un amaro destino. 

Sette amici, un prete ed Angela l’accompagnarono all’ultima dimora nei pressi del cimitero degli animali. Sotto un velo di pioggia la breve cerimonia religiosa suggellò il funerale. Alla fine, quelle persone, salutata Angela, tornarono ai loro affanni quotidiani. Sulla tomba scavata nel prato restarono tre garofani ed Angela, pietrificata, chiusa come crisalide nelle sue ali. 

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 38 -41.




 Ddu paisi arruccatu 

 Ddu paisi arruccatu 

(A Salvatore Vecchio) 

Arrassu ri muntagni ri Palermu, 
arruccatu comu stidda ri carta, 
c’è un paisi chin’i suli 
chi tribbìa i so jurnati. 
Chianci, riri, 
si scuòtula, comu cani vagnatu, i so rulura 
e abbrazza ‘nta chiazza i picciotti allèiri. 
Si nni sta sulitariu comu gran signuri 
e ri drancàpu si nni pria ri so culura. 
“Saecula et saeculorum” 
hannu passatu supra r’iddu 
faciènnuni a so storia 
cu jurnati r’acitu e mieli; 
ma iddu è siempri ddà, 
tisu com’un picciuttieddu, 
mientri tanti figghi so, 
straminati munnu munnu 
pi circari u paraddisu, 
gira, vota e firrìa, 
vivi o muorti, hannu riturnatu ddà, 
‘nte so vrazza. 

 

Quel paese arroccato.
Distante dalle montagne 
di Palermo, /arroccato come stella di carta,/ 
c’è un paese di sole/che miete le sue giornate./ 
Piange, ride,/rimuove, come cane bagnato, i 
suoi dolori/e raduna in piazza i giovani allegri./ 
Se ne sta solo come un gran signore/e dall’alto 
si rallegra dei suoi colori. /”Saecula et 
saeculorum”/ sono passati sopra di lui!scrivendo 
la sua storia/con giornate di aceto e miele;/ma 
lui è sempre là,/dritto come un giovanotto, 
mentre tanti figli suoi,/dispersi per ti mondo/ 
per cercare il paradiso,/gira, ruota e rigira,/vivi 
o morti, sono ritornati là,/tra le sue braccia.

Mario Tornello

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 18.




La nascita di Afrodite 

Era un’alba radiosa di primavera, 
la terra sorrideva e tra le fronde 
lo zèfiro spirava leggero a sera. 
Il mare con lento moto dell’onde 
carezzava le coste di Citèa. 
Si cullava in una conchiglia 
baciata dal sole, in cocchio regale 
una dea di Zeus figlia. 
«Afrodite! Sull’azzurro mare sale 
con i tritoni e delfini!» – disse Zeus, 
accostandosi a riva. 
Così Afrodite, con moto del capo vezzoso, 
scrollòl’acqua dai capelli, balzò come diva. 
Al suo passo si placò il mare focoso. 
Erbe e rose spuntaron al suo passo graziato. 
Felice fece tutto l’Olimpo in quel dì radioso, 
germogliarono le zolle al suo delicato fiato. 
Giovanni Teresi 
Dies natalis Veneris 

 

Collucebat prima lux veris, 
ridebat terram et frondes 
Zephyrus afflabat levis vespere. 
Mare undarum lento motu 
permulcebat Citherorum litora. 
Movebat se in concha, quasi in cuna, 
sole circumdata, sicut in regio curru, 
una ex diis Iovis filia. 
«Ecce Aphrodite! Super caeruleas aquas salsas 
cum tritonibus et delphinis!»- dixit Iuppiter 
dum ea accedit ad oram. 
Ita Aphrodite, pulchri capite quasso, 
excussit aquam e capillis, repente se tollit. 
Dum incedit maris motus se vehemens placavit. 
Herbae et rosae exortae sunt pede venusto. 
Beatum fecit totum Olympum illa die fulgenti, 
levi halito eius orta sunt germina. 

Giovanni Teresi

(vers. lat. di Gioacchino Grupposo) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 51.




BLU E OLTRE 

 Lì dove soffia il vento sottile 
tra le fragili nuvole 
abita la verità ineluttabile 
della profondità dell ‘ universo, 
il divino ingegno. 
Equilibri, orbite, vuoti 
avvolti nel blu e oltre 
annullano il tempo, 
la loro presenza / assenza in bilico 
sull’ unico filo d’ eterna luce. 
Lì oltre il blu, 
altre stelle brillano 
nella via dell’universo. 
Grandezza incommensurabile, 
incontenibile 
nella fragilità dell’ essere. 

Giovanni Teresi 

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 48.




GIARDINO DI IERI 

Inutilmente s’apre la finestra 
sul giardino di ieri. 
Ancora verde 
l’erba del prato. 
Il profumo dei fiori 
ora mi punge 
come 
il vociare gioioso dei bambini 
che fummo. 
E guardo appena. 
Perché non c’è una porta. 


Lilia Souza 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 53.




NEI MEANDRI DEL TEMPO 

 Nei meandri del tempo a ritroso 
ripercorro le galassie del mondo: 
i fondali marini, le vette, l’ombroso 
mio cielo, le nubi squarciando 
con luce del cuore redento. 
Ho lottato con le tigri celando 
teneri agnelli agli artigli 
dell’antico nemico: ho nascosto 
ritornando fra le orme torchiate 
di porpora e giallo come sogni sfumati 
dell’ alba, ho ascoltato i suoni dell’ora 
più vera, la sera, sperando fioritura 
d’ inverno di germogli per sempre perduti. 

Francesca Simonetti 

DANS LES MÉANDRES DU TEMPS 

Dans les méandres du temps je reparcours 
à reculons les galaxies du monde: 
fonds marins, hauts sommets, ombres 
de mon ciel; je déchire les nues 
avec les rayons de mon coeur rédimé. 
J’ai combattu des tigres et soustrait 
de tendres agneaux pattes, griffues 
de l’ancien ennemi: j’ai caché 
papiers et livres sous les frondaisons, 
en retournant sur mes empreintes piétinées 
de pourpre ed d’or comme reves évaporés 
de l’aube,j’ai écouté les sons de l’heure 
véridique et vespérale, en escomptant 

l’hivernale floraison de bourgeons perdus à jamais. 

versione francese di J.P. de Nola

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 52.




DICEMBRE A PALERMO 

 Solo dicembre 
qui prelude all’inverno 
perché il sole è ancora 
dolce e luminoso a tratti. 
L’araba mollezza si protrae 
per la magia dei suoni e dei colori, 
le facciate antiche 
illuminate nel contesto 
del mistero delle chiese sparse, 
ovunque c’è un mercato o il mare, 
parlano di una città 
regina e prigioniera, 
nobile negli intenti ma caduca 
e vinta nello svolgersi silente 
di tragedie e d’eventi … 

Francesca Simonetti 

Conversazioni per una poesia, Ila Palma, Palermo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.