[…] Giorno dopo giorno passano i mesi, ma la ferita non accenna a cicatrizzarsi, anzi diventa sempre più dolorosa.
Il medico si limita a dire che tutto procede bene, che la ferita è “torpida” e che occorre tempo. Quanto tempo? Al diavolo, se può saperlo. E poi che gliene importa? A volte ho l’impressione che mi abbia mollato e non trovi il coraggio di dirmelo. Né io ho il coraggio di affrontarlo e dirgli quel che penso.
Intanto un dolore nuovo, continuo, teso, nemico, ha invaso dall’occhio alla mascella tutta la parte sinistra della testa. Vi è penetrato profondamente, trivellandola. Ho la sensazione che stringendo forte i denti si attutisca, e così prendo l’abitudine di tenere le mascelle serrate.
Mando giù un calmante ogni quattro ore, sicché le mie giornate sono adesso scandite in sei vigilie (e sono sempre io a essere di turno) dalle compresse di sedativo.
Mi si spiega che si tratta del nervo trigemino, irritato dalle cure radianti. Fingo di accettare la spiegazione.
Vado avanti così, con l’impressione di scalare una montagna sempre più ripida, eppure con una pazienza nuova che non è rassegnazione. Forse è curiosità di sapere come va a finire. Comincio a sdoppiarmi, a sentirmi spettatore, a fare filosofia, a concepire dialoghi sul mondo extraterreno.
Mi sorprendo a pensare con un certo distacco che attraverso il duro noviziato che sto scontando potrei approdare all’ignoto meglio di tanti altri. Se non altro, senza eccessivo rimpianto. Mi interesso di parapsicologia, preparo lo spirito a nuovi rapporti, a una nuova dimensione. Provo anche a immaginarmi scaraventato in una traiettoria verso un’altra galassia e la cosa non mi riesce difficile imbottito come sono di sedativi.
Ho a disposizione molto tempo ma soprattutto le ore della notte, mentre attendo l’appuntamento con la bianca compressa per confondere la mente e cercare di ingannare il dolore.
Ed è nella notte che si sviluppano forme di egoismo contorto di cui mi vergogno. Per non disturbare Francesca con i lamenti, mi rifugio in un’altra stanza dove me ne sto al buio. Subito dopo comincio a irritarmi con lei che dorme insensibile, penso io, alla mie insofferenze.
L’oscurità e il dolore popolano di fantasmi la mia immaginazione. Nel vano recupero di memorie che si fanno sempre più lontane e avvizzite, anche le più care, che, sottili come vanno diventando, si inceneriscono rapidamente. Dov’è finita la forza che, sia pure malinconicamente, riuscivo a cavarne? Per questo, stordito, mi perdo come un automa dietro la prefigurazione di un avvenire che non mi appartiene. Non ci vorrà tanto tempo, infatti, che io non ci sarò più. Ma è già come se io non avessi più niente: non passato né futuro, non memorie né desideri, non rimpianti né attese, non gioie né dolore; soltanto prefigurazioni nelle quali posso sbizzarrirmi come e quanto mi pare.
Dall’irritazione di credermi abbandonato a soffrire da solo, la notte (nonostante mi renda perfettamente conto che ciò è inevitabile se voglio che Francesca mi assista di giorno), all’ideazione di quale potrà essere l’esistenza di mia moglie senza di me, il passo è breve.
E quel che il mio egoismo contrariato mi fa immaginare non è piacevole. La degradazione a cui progressivamente va soggetto il fisico, intacca anche il morale, in cui si aprono lunghe crepe pur se ancora non è lo sgretolarsi. Anzi, neppure io saprei dire se sto peggiorando più fisicamente che moralmente.
Certo è che al calore dei buoni sentimenti, agli slanci di amore, tenerezza, generosità, bontà, abnegazione, fiducia, coraggio e così via, si alterna il gelo di sentimenti ignobili (dai quali, chi sa poi perché, finora mi ero illuso di essere immune), messi spietatamente a nudo da insopprimibili impulsi di ribellione alla sofferenza fisica.
Così, giorno dopo giorno, vado scoprendo che nel mio animo c’è posto anche per il male. A cominciare da una oscura sensazione di rancore, di risentimento o di indifferenza verso tutti, anche verso chi non ha mai fatto cattiverie e per finire alla distorsione del senso di gratitudine, che comincio a considerare il più pesante dei sentimenti. Scopro che ci sono spazi per una personalità discontinua e vacillante. E in queste oscillazioni, veri e propri sbalzi dello stato d’animo, stento a ritrovare il punto di equilibrio. Mi pare di cominciare soltanto adesso a capire come un niente, che muta le circostanze interne, possa bastare a far cambiare i sentimenti.
Adesso tocca anche a me sperimentare, sia pure per brevi momenti e con profonda umiliazione, cose che non avrei mai voluto conoscere. Salvo a rammaricarmene e ricredermi subito dopo. Per questo guardo con sospetto, prima che ogni altro, me stesso, e mi è difficile accettarmi.
Nella calura della notte soffocante, le mie fantasie si gonfiano di pensieri torbidi. Mi sorprende che la forte dose di sedativi, dai quali purtroppo debbo dipendere, non agisca sino ad acquietare e intorpidire anche i sensi. Capita esattamente il contrario. La sensualità continua ad assillarmi e, paradossalmente, tanto più si esaspera e sembra voglia esplodere, quanto più il dolore si acuisce. Forse, ancora una volta, la causa di questo inestricabile groviglio va cercata nella vecchia storia del contrasto perenne tra Eros e Thanatos. Nello stesso tempo, d’altra parte, la difficoltà di ritrovare il controllo del mio corpo e il dominio delle passioni mi inasprisce perché mi fa misurare il vuoto che si va scavando nel mio mondo interiore.
Nel buio, procedendo a tentoni, arrivo nella camera da letto. Qui rimango immobile fino a che gli occhi si abituano a vedere nell’oscurità che lentamente si attenua in penombra al fioco chiarore dell’esterno.
Francesca dorme, sembra rilassata; ma dalla piega amara delle labbra e dalle sopracciglia aggrottate, che le danno un’aria corrucciata, traspare l’inquietudine che non la lascia neppure nel sonno. Mi sollevo a guardarla meglio, col cuore colmo di tenerezza che vuole ripagarla dell’ostilità di prima. Vorrei svegliarla carezzandola e rimanere con lei. Ma ci rinuncio. So che appena coricato, il martello pneumatico che mi sta in agguato nel cervello ricomincerà a sussultare e a farmi esplodere la testa. Adagio per non svegliarla, torno in salotto e mi lascio cadere su una poltrona. Accendo la lampada, ma la luce mi ferisce gli occhi. Spengo, preferisco il buio, anche perché niente mi distragga dall’ossessione segreta che tento invano di ignorare e contrastare.
Come ogni notte, da un po’ di tempo a questa parte, lo spettacolo ha inizio.
Non sorretto da una immaginazione ricca e vivace, esso si presenta subito per quello che è: una rappresentazione noiosa e superficiale che si svolge tutta in funzione del quadro finale, l’unico a eccitare e insieme a demolire la mia fantasia. Attendo il mattino con la sua luce liberatrice che fughi i fantasmi e rischiari finalmente le pieghe della mia psiche tormentata.
(Dal buio della notte’, pagg. 23 – 27)
[…] Tre mesi, novanta giorni, novanta notti da trascorrere in quell’ospedale che soltanto a vederne le mura mi ha sempre terrorizzato. E dopo? Quali altri ostacoli dovrò superare sulla via della sofferenza? Quali altre stazioni dovrò toccare? E l’ultima non sarà il calvario?
Mi accompagna mio padre, venuto a trovarmi dalla Sicilia. È anziano. Da anni ha lasciato l’insegnamento. I nostri rapporti sono stati sempre essenziali. Di poche parole, non è mai stato espansivo con me, né io con lui. Ci siamo abituati a capirci senza parole, a interpretare i lunghi silenzi dei momenti importanti della nostra vita, sia nella gioia che nel dolore.
È un antico rapporto iniziato tanti anni fa in Sardegna, quando, appassionato cacciatore, voleva che lo seguissi ancora bambino per boschi e monti selvaggi in lunghe e per me estenuanti battute di caccia. Erano occasioni esaltanti di sgroppate a cavallo verso nuovi orizzonti che facevano impazzire la mia fantasia, che arricchivano la mia vita interiore perché la maggior parte della giornata la trascorrevo solo e solo occasionalmente scambiavo con lui qualche parola.
Ora, per la prima volta, lo vedo impacciato e, contrariamente alle nostre abitudini, cerca degli argomenti, ma non sa trovare le parole.
E così, improvvisamente mi offre un sigaro.
Lo guardo sorpreso. Anche da adulto, in ossequio a un suo desiderio-ordine, non avevo mai fumato in sua presenza, anche se lui era un inveterato fumatore.
Accetto con un sorriso, mentre un pensiero deviante corre all’ultima sigaretta del condannato. Naturalmente non lascio trapelare questa idea: ho deciso che debbo vincere le tensioni interne che mi spingono ora alla ribellione ora allo sconforto. Adesso è necessario che riesca a dominare me stesso, o meglio la parte di me più giovane, debole, emotiva.
Cerco di superare l’imbarazzo della situazione aggrappandomi al primo banale argomento a portata di mano, mentre mio padre, con cura meticolosa, si accende il mezzo toscano, aspirando rapide boccate, costringendosi così a un giustificato silenzio. , Armando editore, Roma, 1983.
«Mi fa piacere fumarlo, – dico, accendendo a mia volta il sigaro – Molte volte il fumo aiuta ad alleviare tensioni, a reggere situazioni imbarazzanti, fa compagnia. Debbo confessarti che da poco tempo fumo la pipa, ma una, due volte al giorno dopo il pranzo e la cena ».
«Io invece continuo a fumare tanto, come un turco ».
Sorrido, continuando a camminare verso la macchina posteggiata lontano.
«Chissà poi perché si dice fumare come un turco ».
Ecco, ho trovato un diversivo e così la conversazione continua battendo a tappeto questo argomento, come si usa fare negli ozi dei circoli paesani. E così saltano fuori tutte le espressioni che riguardano i turchi: bestemmiare come un turco, giovani turchi, caffè alla turca, ecc. Ridiamo divertiti delle nostre chiacchiere veramente futili. Vorrei tirar di lungo con queste assurdità per evitare che il discorso cada su cose tristi.
Mio padre non ce la fa più. Senza guardarmi domanda: «Sei preoccupato?».
Cerco di tranquillizzarlo anche se in modo maldestro: «Non eccessivamente, confido in quest’altro intervento; insomma staremo a vedere».
«Ho capito» taglia corto mio padre.
Ma cosa hai capito, vorrei dirgli. La mia disperazione? Il mio desiderio di fermarmi qui in mezzo alla strada e
dire basta? Di urlarla questa parola,
infischiandomene della gente. Vorrei soprattutto gettarmi tra le tue braccia per un bisogno di protezione, di calore, come fanno i bambini. Come mi accadeva anche negli anni più ingrati dell’adolescenza quando, pur vedendoti a volte come antagonista, m’era sempre necessario sentire la tua presenza che era sostegno e rassicurante certezza. So di essere, ora, alla ricerca di un rifugio provvisorio, di memorie lontane che mi aiutino a sopportare il presente.
«Ricordi come ti seguivo volentieri quando mi svegliavi all’alba per andare a caccia? Ci vai sempre? ».
«No, sono anni che non mi muovo più, che non sparo un colpo. Ma vedrai, appena guarirai, almeno una volta dovremmo ritornare sui monti che circondano il nostro paese in Sicilia, non fosse che per fare un po’ di moto».
Non mi sento di disilluderlo. So bene che quelle passeggiate non si faranno mai, mi piace però che se ne parli, che ricordiamo assieme gli itinerari percorsi, che si ritorni assieme indietro negli anni certamente più spensierati e felici: la giumenta nervosa che ci trasportava, i cani irrequieti, la preparazione delle cartucce, il ritorno a casa all’imbrunire con la selvaggina.
I ricordi scivolano dolcemente, quasi ovattati, e giungono con naturalezza, ma necessariamente a un’altra memoria cara, a una persona che da tempo ci ha lasciati, la mamma. Nessuno dei due credo ne avrebbe voluto parlare per non acuire quella pietosa rappresentazione.
«Ricordi, babbo, l’ultimo Natale che ho trascorso a casa prima di partire per Roma per raggiungere il mio lavoro? E’ Stato l’ultimo Natale trascorso tutti assieme».
Forse è la presenza di mio padre, parte di un tutto che mi è ancora assai caro, a riportarmi più insistente il ricordo della mamma. Ma nel ricordo non c’è, come dovrebbe esserci dopo tanto tempo, più dolcezza che nostalgia. È un sentimento struggente fatto di desiderio di pace, quiete, serenità. Per un momento non riesco a controllarmi: più che col babbo ho l’impressione di sfogarmi con me stesso, le parole hanno toni monocordi, incolori quando dico:
«Sai, credo che possa anche essere misericordia la morte…».
Mi fraintende: « Ma che vai dicendo! » reagisce, infatti, alzando la voce e guardandomi con espressione non so se più angosciata che irritata.
«Alla mamma, per esempio, ha evitato la pena di vedermi così malridotto».
Per la gola secca stento a continuare.
«Quanto a te, babbo, puoi immaginare cosa avrei fatto per non darti questi pensieri… ma ormai ho esaurito le ultime scorte di altruismo. Vedremo come si risolverà quest’intervento, Valdoni, si sa, è un mago… però, vorrei consumare subito, il più in fretta possibile, quel che mi resta di sofferenza e… chiudere, come dire, l’argomento. Non importa come, pur di trovare pace».
Non mi lascia finire, questa volta. Si ferma un attimo per guardarmi. Voltandomi verso di lui e leggendo nel suo sguardo trepidazione, capisco che la tenerezza paterna, anche se mascherata non svanisce con l’allontanarsi dell’infanzia, non spetta a questa più che alle altre stagioni della vita. Mi afferra sottobraccio e riprende il cammino tenendomi più accosto a sé.
Nel breve silenzio che regna distinguo nei rumori della strada il ritmo cadenzato dei nostri passi.
«Devi convincerti, figlio mio – mi dice appena riesce a parlare senza che le parole gli tremino troppo – devi essere il primo a essere convinto che ce la farai. Non basta che sia io o gli altri a esserne sicuri. Tu devi essere, tu, il primo ad avere questa certezza: ficcatelo bene in testa… ».
«Sì, d’accordo, ma…».
«Non interrrompermi, per favore. So bene che le mie possono essere parole scontate, che ti sarai sentito ripetere molte altre volte da quando hai cominciato a star male. Eppure contengono una verità antica. Naturalmente, per convincerti di questo è indispensabile prima di tutto che tu voglia guarire. Una voglia che non potrai trovare, se non ti sarai liberato dalla paura, non dico completamente, che sarebbe irrazionale, ma in buona misura, almeno quanto basta per non arrenderti a ogni assalto emotivo. Non disperare mai: il mondo è degli ottimisti, i pessimisti non sono che spettatori ».
«Sì, lo so; lo so anch’io » lo interrompo con voce soffocata.
«E di un’altra cosa devi persuaderti – continua mio padre – che non tutto è dolore nella vita. Anche quando non ci fosse più niente da fare, e non è così. .. Esiste ancora la gioia di fare qualcosa per le persone care, innocenti. A questi valori bisogna mirare per averne forza spirituale, per sperare. Sì, abbandonarsi anche alla speranza e farcene travolgere sino a che diventi certezza e quindi dare senso alla vita».
Non lo riconosco: dov’è l’uomo di poche parole? Ha parlato tutto d’un fiato. Lo guardo perplesso, senza rispondere. Allora lui, quasi in soggezione, come colto in fallo, si affretta a ribadire, a chiarire il suo concetto con una sicurezza che, per l’emozione, non è più quella di pochi attimi prima.
«Voglio dire, Andrea, che soltanto così… con una gran forza morale noi possiamo uscire dal particolare e portare le nostre vicende su di un piano universale… solo così possiamo giudicarle e sopportarle non più da un punto di vista ristretto, ma in una prospettiva così aperta e così vasta da comprendere l’infinito campionario delle esperienze passate e presenti degli altri. Nessuno di noi appartiene completamente a se stesso…
Naturalmente, non è che non senta !’imbarazzo di sapere che io… io che parlo qui, adesso, non sono l’ammalato. Non è facile parlare, farsi maestro. Tu immagini che spina ho nel cuore e allora mi domando: che cosa farei, se mi trovassi nelle tue condizioni? Ce la farei a non arrendermi, a non essere vigliacco? Perciò penso che la nostra credibilità di uomini risulti solo dalla prova personale che sappiamo dare ».
Conclude dopo una pausa, chiedendomi quasi con umiltà: « Non credi anche tu che, tutto sommato, le cose siano da vedere in questo modo?». Una domanda in cui c’è tanta trepidazione affettuosa.
«Sì, babbo, credo proprio di sì » rispondo con Un filo di voce.
Parlare, sacrificando i suoi principi, che conosco bene, a un po’ di retorica, a qualche frase fatta per simulare una fiducia e una sicurezza che è ben lontano dal possedere, gli è costato un grande sforzo. Anche la sua commozione è evidente. Vedo, adesso, da adulto, un uomo a cui la perdita della compagna e ora la malattia del figlio hanno mutato in smarrita apprensione il lampo ardito e ironico dello sguardo. Mi accorgo che paradossalmente è lui stesso adesso a chiedermi aiuto, con le sue esortazioni a essere come vorrebbe che io fossi.
Tocca dunque al figlio ora difendere il padre dalla commozione, e anche dal dolore che forse per un vecchio è meno sopportabile.
Comincio col trovare la forza di non umiliarlo fingendo di non vedere i suoi occhi lucenti e il labbro che trema.
Tra la folla ignara della nostra pena, camminiamo nell’aria trasparente del crepuscolo, ancora una volta insieme, consapevoli che ci stiamo inoltrando nel buio.
(Id., pagg. 30 – 36)
Trascorrono giorni di dolore lungo, violento, crudele, in cui lo spirito umiliato, confuso sembra voler cedere, e dalla nebbia che invade la mente si scioglie ancora un disperato desiderio del nulla. Ma il sangue giovane, ignaro nel suo pulsare, alla fine prevale e con mestizia considero che è anche difficile morire.
Tolgo finalmente l’apparecchio dalla bocca e mi accorgo con terrore che quando provo a parlare emetto suoni inarticolati. Rivolgo anche un rassegnato pensiero a quel mio povero occhio che dopo le analisi sarà finito chissà dove.
A tirarmi fuori da queste amare riflessioni giunge la notizia che gli esami istologici non hanno rivelato nulla di preoccupante.
Ho, finalmente, le braccia libere e posso vedere il grosso lembo a forma di tubo che coltivo in petto. Lo guardo con amore, perché mi darà la possibilità di riavere un volto «umano».
Per consentirmi di parlare e mangiare mi imbottiscono con garza la cavità orale mancante, ma questo è un male minore.
Dopo parecchi giorni posso ricominciare a leggere e a scrivere; una sensibilità nuova, che però ritengo patologica, mi porta a comporre poesie, e ogni idea, ogni fatto, diventano occasioni per questo esercizio finora mai affrontato. Trovo che non c’è niente di meglio per tenere occupata la mente, per coltivare la speranza e risalire in superficie, confortato anche in questo dalla presenza continua di Francesca che in quei giorni ha trovato da dormire in una pensione nei pressi della clinica.
Quante notti è rimasta accanto a me su una sedia, pronta a ogni mia necessità, quante volte alla incerta luce dell’alba l’ho trovata a dormire col capo reclinato sul mio petto, stringendomi la mano nell’attesa di un altro giorno.
Povera Francesca, quante preoccupazioni, quanto dolore nella tua giovane esistenza, e io egoista che ho desiderato di andarmene, di lasciarti.
Dormi, e forse il miracolo dell’incosciente sonno ti porta qualche mio bacio che tu ricambi con un sorriso alla mia mano che ti accarezza lieve. Per questo sfuggi il risveglio, sfuggi la realtà. Stringi nel sonno la mia mano, perché ti aiuti ad andare lontano, a portarmi in un luogo diverso e, libero da pesi, a volare con te nel sogno dove più non ci tocchi il male.
Sogno anch’io i tuoi baci, le tue carezze, e quando mi sveglio ti trovo seduta accanto a me, a dirmi con la luce del giorno e del tuo viso che esiste un paradiso anche per me.
La primavera è già inoltrata e sono sempre ad attendere, a vivere di ricordi, a trasferirmi idealmente nel mondo di fuori. Roma, la città che mi sembra di aver lasciato da chissà quanto tempo, torna di frequente nei miei pensieri.
Sono i giorni del concorso ippico di piazza di Siena, e mi piace ricordare Villa Borghese, gli alti pini, il verde, la folla festosa, gli agili puledri, i cavalieri. Purtroppo il sogno dei ricordi si frantuma come uno specchio e mi ritrovo sempre nell’angusto cortile della vecchia clinica di Milano. Mi sento ugualmente pago e senza invidia; sotto la mia finestra, nel cortile, un cespo di rose ha messo i fiori e il verde pulito delle foglie, il colore dei petali portano anche a me una parte di primavera.
La clinica, come ho detto, è ubicata in un vecchio edificio circondato da alti palazzi, e l’unica possibilità per « prendere l’aria “, secondo il gergo dei carcerati, è l’angusto cortile tra queste alte mura: un pozzo. E lì ci troviamo ogni giorno, appoggiati al muro a chiacchierare, qualcuno appartato in preda a malinconie e pensieri lontani.
Un giorno, nuvolo e grigio, mi trovo solo in quel cortile. A un tratto il cielo si apre a un raggio di sole, che viene a scaldare la mia solitudine. Gli offro il volto ferito, deturpato, quasi felice di quella inattesa carezza. Per quanto tempo non so. Dopo, passato lo stordimento, provo la sensazione di avere rubato quel raggio di sole caduto distratto dal cielo fin giù nel cortile, perché con geloso egoismo l’ho tenuto nascosto, non l’ho diviso con gli altri compagni tenuti come me nel chiuso dolore.
Per questo sento di dover chiedere loro scusa, raccontando del raggio di sole.
Mi guardano con aria attonita, non capiscono questa mia preoccupazione, non intuiscono questo sentimento che invece a me dà la misura dell’umanità nuova che la sofferenza sta facendo crescere dentro di me.
(Id., pagg. 74 – 77)
[…] A quell’ora, nel parco, c’era poca gente: qualche vecchio signore, i netturbini che facevano le pulizie, qualche bimbo spinto in carrozzina dalla mamma o dal nonno.
La primavera era inoltrata e la natura splendeva partecipando alla nuova stagione, ammantandosi di verde brillante e di luce.
Fatta una breve passeggiata, si trovò seduto sulla solita panchina; si guardò attorno come se fosse la prima volta che si trovava in quel posto, poi sorrise ricordando le meditazioni del mattino e rendendosi conto che, come un automa, si era seduto su quella panchina, come ogni giorno, come sempre.
Aprì il giornale, il solito giornale, ma lo aprì alla terza pagina perché il resto non lo interessava, si diceva.
Lo soddisfaceva qualche informazione culturale, ma anche questa per abitudine, non più di tanto.
Prima di immergersi nella lettura, la sua attenzione venne attirata dal trotterellare di un cane randagio che gli era passato vicino senza guardarlo.
«Dove andrà», «così sicuro? – Si chiese – Sembra avere una meta precisa, eppure è un randagio, non ha un padrone, una casa, un punto di arrivo. Da dove viene e perché va così in fretta? Cosa pensa, quali programmi avrà per la giornata?».
Queste considerazioni lo portano su un altro piano. «Quanti uomini come lui, come quel cane, possono essere definiti randagi, senza offesa, si intende: giusto per una classificazione».
«Alcuni sono randagi perché non riescono a trovare un’occupazione, un lavoro fisso. Ci sono quelli che anche se trovano un lavoro sono insoddisfatti e preferiscono cambiare, girare. Ci sono i barboni degni del massimo rispetto, perché hanno fatto una scelta, intendiamoci, i barboni veri, classici, perché ci sono anche quelli fasulli che si introducono nella categoria, file di barboni di origine, per mimetizzare la loro condizione di semplici paria o mendicanti».
«Poi, ci sono i randagi intellettuali che non sanno da dove partire e dove arrivare, pronti ad annusare e a nutrirsi di qualche cibo, in senso metaforico per capirci, a dormire sotto ogni ponte o meglio sotto ogni bandiera, che trotterellano senza meta e senza avere lontanamente la dignità del cane passato prima».
«È gente che non sa rinunciare a nulla, neppure a un funerale, figuriamoci poi a un banchetto nuziale».
«Sono pericolosi perché difficilmente sanno di essere randagi, anzi si illudono
di avere un pedigree e anche un collare con nome e sigla. Si trovano nei ministeri, negli enti vari, specie quelli grassi, figuriamoci poi nei partiti e in parlamento».
«Sì, si possono individuare, ma come? Questo è il punto: anzitutto, chi li individua? Mentre è facile, alla vista di un barbone che dorme su una panchina o sotto un ponte, dire che quello è un uomo randagio; e questo credo possa dirlo chiunque».
«Ma quando, mettiamo, si tratta di individuare un politico, un ministro, ecco, un ministro, come randagio, bisogna avere l’autorità intellettuale e morale per definirlo tale e questa indicazione quanti possono farla con autorevolezza? Perché in tal caso si deve poter disporre, a propria volta, di un pedigree presentabile come un passaporto, altrimenti è tale la forza del politico o amministratore randagio che si corre il rischio di trovarsi a dormire con i barboni sotto un ponte».
(Violenza, oh cara”, pagg. 18-20)
Appena i due sono usciti, l’avvocato scoppia in una risata che lascia attonito Agostino.
«Mi scusi se rido, ma è buffo, tutto buffo. Mi dica in poche parole chi è lei, che cosa fa, come vive, come si trova qui. Si, lo so perché è qui; a
“Sciascia editore. Caltanissetta-Roma, 1986. me può dire tutto, capisce, come a un confessore. È colpevole o innocente?»
Agostino, senza scoprirsi di tanto, ma provando simpatia per quel giovane occhialuto, per quella risata che ha capito, anche se sulle prime lo aveva sconcertato, si mette a parlare, a rispondere con chiarezza e linearità alle domande dell’avvocato – che lo ascolta con attenzione, per concludere infine, con l’aria più convinta possibile, che è innocente.
«Ma perché assume questa linea di condotta? »
«Ma mi sembra di essere stato chiaro. Vede, io sono solo al mondo, forse anche mi annoiavo, e adesso sono diventato curioso, anche se mi costa giorni, mesi di libertà; voglio stare alla finestra, fare l’osservatore di un evento che probabilmente è comune a tanti altri poveri diavoli, e vedere come va a finire. Perché una fine dovrà pur esserci, una via di uscita dignitosa per il singolo, per l’uomo e anche per la giustizia, per il Sistema, non crede? »
«Sì comprendo, o meglio riesco a comprenderla, ma si renderà conto che tutto ciò è fuori da ogni regola; c’è l’accusa che tenta di incastrarti e c’è chi si difende e controbatte tutte le accuse cercando di dimostrare !’infondatezza, l’inconsistenza ecc., perché il sistema ha previsto tre tipi di soluzione: o l’assoluzione o la condanna o l’insufficienza di prove. Non è lei il primo, è già accaduto e accade continuamente; quindi lei si deve difendere ed io sono disposto ad assisterla, a prendere a cuore il suo caso; mi è anche simpatico e non vorrei consigliarla a persistere in questo suo atteggiamento. Tra l’altro, il magistrato che conduce l’inchiesta è tra i più preparati, molto coscienzioso e serio; come si suol dire è in buone mani. E allora?»
«Avvocato, noi viviamo in una società distorta, inquinata, che ha perduto la saggezza, ed è distratta. È un mondo pazzo quello che sta lì fuori, e io, con il mio modo di vivere, avevo sempre cercato di estranearmene, illudendomi di essere padrone della mia esistenza, dei miei gesti, dei miei pensieri. Ma questo non è stato sufficiente; sono stato ghermito, coinvolto brutalmente, offeso nella mia dignità di uomo, e ora sono convinto che debbo recuperarla e che, se posso dimostrare a me stesso la mia coerenza, anche pagando, questo è il momento di farlo».
«Le ripeto, ora sono curioso. Vuole per favore condividere con me questa curiosità, che è lotta per un principio giusto? Vedrà, non dico che ci divertiremo, ma faremo un’esperienza interessante, unica. Ci sta? Non credo di chiederle qualcosa che vada contro l’etica professionale. Mi comprende? Mi aiuta?»
L’avvocato ha ascoltato questo torrente di parole, di considerazioni, e ora sta lì a guardarlo, serio, attraverso gli occhiali che sembrano essersi appannati.
Dopo un attimo, che ad Agostino sembra lunghissimo, dice:
«Bene, la seguo, la seguirò sino in fondo, anche se non so ancora quello che debbo fare o dire. Però accetto questa sua linea, stavo per dire, difensiva. Mi ha convinto». E sorride.
«Mio padre, che ora è in pensione, l’abbraccerebbe. Quante volte ci siamo scontrati per il suo modo di pensare, per quel suo concetto della dignità, per quel non voler scendere a compromessi, ed erigersi a giudice egli stesso. Ma si sa, è mio padre, e come sempre avviene è difficile comprendere i propri genitori».
«Noi figli, per la generazione che ci separa, per il tipo di rapporto che esiste, difficilmente riusciamo a comprenderli, e poi, come mi sta accadendo ora, un estraneo mi parla, mi dice le stesse cose e subito lo capisco, ne accetto le idee».
«Credo che stasera farò felice mio padre, perché lo saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione».
«Facciamo entrare quei signori che ormai saranno impazienti; vediamo che succederà»; e con un’altra risata l’avvocato si avvicina alla porta, bussa e al piantone dice di chiamare il giudice.
(Id. pagg. 54-57)
Tornato in cella, nella sua cella, Agostino ha ritrovato quasi con piacere le sue poche cose e il libro lasciato aperto: sente il bisogno di sdraiarsi, di mettersi nella sua solita posizione di meditazione, con le mani incrociate sotto la nuca.
Quella era una posizione consueta, una abitudine che aveva acquisito da ragazzo quando, stanco delle scorribande nei boschi saliva fino alla sommità di una collina che, vicino casa, dominava il largo orizzonte.
Se ne stava, allora, sdraiato sull’erba con le mani incrociate sotto la nuca a guardare il cielo e le nuvole che mosse dal vento cambiavano continuamente forma e le rondini che veloci gli sfrecciavano vicine stridendo.
Allora il cielo sembrava vicino, sulla collina, nel silenzio bello della natura.
Il vento, col cambiare d’umore, recava ora la resina pungente dei pini, ora la salsedine del mare vicino.
Volgendo lo sguardo erano suoi i boschi folti di pini e di grosse querce intessute di rovi.
Andava a ritroso a ritrovare quella sua primavera, e i suoi ricordi si fermavano al mandorlo che per lui, ragazzo, era un fantastico rifugio ai suoi sogni, ma anche una torre aerea, un rifugio dopo ogni scappata per sfuggire a meritati scapaccioni.
Ma allora in quel cielo azzurro oltre le nuvole bianche c’era Dio e la casa, vicino al mandorlo, l’amore della mamma.
Agostino si sveglia bruscamente da questo sogno e il soffitto grigio e la lampada che pencola triste lo riportano alla realtà che sta vivendo, che deve affrontare.
Ripensa all’incontro col giudice, con l’avvocato. Finalmente avrà notizie di Eva; è il suo primo pensiero; per il resto non si preoccupa, anzi è soddisfatto del proprio comportamento della decisione presa, della dignità dimostrata. È sicuro che se avesse chiesto comprensione, che se avesse spiegato, chiarito il perché di quei soldi, se si fosse arrampicato a dimostrare la sua buona fede, l’unico risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato quello di avere la commiserazione del giudice, la sua incredulità per quanto raccontato e avrebbe fatto sicuramente la figura di chi colpevole cerca disperatamente una via alla libertà e, nel suo caso, una via poco credibile.
Pensa invece alla figura che ha fatto, al giudice che si trova di fronte a una situazione a dir poco singolare. Ma quanto singolare? Non sarà stato certamente il primo a rifiutare di difendersi. E poi, perché parlare di rifiuto?
«Non ho detto che sono colpevole, ho affermato invece la mia innocenza e quindi mi sono difeso con questa semplice, ma piena parola. Chissà se mi concederanno la libertà, sia pure provvisoria; da come il giudice ha reagito non posso nutrire molte speranze. L’avvocato ha chiesto la fine del mio isolamento, il giudice ha accolto la richiesta e ciò significa che dovrò stare con altri; che sarò in compagnia. Sarà una compagnia forzata, non scelta, e non avrò più la mia intimità. Questo fatto mi turba; è vero che l’isolamento è considerato una pena, una condizione di rigore, ma a me non dispiace. Almeno qui posso rimanere in compagnia dei miei libri, dei miei pensieri, del mio silenzio, non essere costretto a parlare, ad agire con gli altri e come gli altri».
«Per favore, adesso non complicarti la vita, hai fatto una scelta, vuoi fare una esperienza e ora, da uomo coerente, vai fino in fondo, sì, fino in fondo».
Il torpore del sonno lo prende piano piano, mentre ancora pensa, mentre pensa a quel giovane avvocato, ai sentimenti che ha suscitato in lui, e al padre che, forse in quel momento, starà ascoltando dal figlio la sua storia, la storia di un uomo che proprio quel giorno si è sentito nuovamente vivo.
Finalmente il sonno ristoratore arriva ad acquietare quel fiume di pensieri, di meditazioni.
Lo coglie nella posizione di prima e questo rende propizio il rifluire di sogni che, per una sorta di contrappasso, lo riportano sempre in un mondo innocente, lontano, intimistico, di ragazzo che amava la solitudine, in continuo rapporto-dialogo con la natura, le cose.
E così, come alla moviola, si rivede seduto sull’orlo di un torrente avaro di acque che scorre tra folti oleandri, in contemplazione, quasi a bere quella natura che lo circonda, mentre alle sue spalle una collina trapunta di mandorli, ulivi e vigneti riflette il sole che tramonta.
Poi c’è il suo andare solitario fino a ritrovare le grosse querce messe lì, come tanti giganti, sulle rive del torrente, e più giù, dopo una curva, l’incontro con dei cipressi neri e dignitosi che sembrano fare la guardia a una chiesetta sbrecciata, piena di silenzio.
Salutati i cipressi, si accosta alla porta chiusa e si inginocchia per una preghiera.
La sua attenzione viene ad un tratto attirata da alcuni merli che funerei, litigiosi e arroganti, saltellano sul sagrato erboso. Il sogno continua e i passi leggeri lo riportano lungo il torrente, tra le acque che scuriscono con la sera e i ranocchi che saltellano tra un sasso e l’altro, disturbati nel loro ozio.
Un sorriso lieve si è posato sulle labbra dell’uomo che dorme in una cella di isolamento di un carcere sprofondato nel buio della notte e del tempo. (Id. pagg. 61-64)
«Ma torniamo alla violenza, esaminiamo questo mostro da vicino. La chiamo mostro, ma forse non dovrei perché la violenza è nella natura umana, è la filigrana della intelligenza e la puoi scorgere controluce».
«Come in una banconota: vedi i disegni, i colori, le cifre; poi, se la guardi in controluce, vedi qualcos’altro che connota e convalida la qualità».
«Così è per noi. Sin dalla nascita subiamo ogni sorta di violenza; la prima, forse, è quella del parto. Cosa sappiamo dei traumi che subiamo e che magari ci portiamo poi nella vita?».
«Anche un certo modo di educare può essere violenza; pensa a quanti adulti, siano genitori o insegnanti, che assolutamente impreparati, impongono ai bambini, ai giovani, senza nulla conoscere della psicologia, le loro regole, i loro principi, le loro pseudo conoscenze educative, e non sono attenti alle reazioni che possono provocare e alle distorsioni che con l’età matura divengono rancore, disinganno e anche violenza.
Ci sono poi le istituzioni, la società, la politica con le loro pressioni e responsabilità; ci sono i singoli che esercitano loro violenze personali nei confronti degli altri, e anche noi, quando violiamo i nostri istinti, la nostra natura, imponendoci atteggiamenti che non sentiamo e che magari riferiamo a proposito della ragione, a regole della convivenza».
«Ma quanta di questa violenza è esercitata consapevolmente? Quanta, cioè, con il convincimento di praticare violenza e quanta invece è imposta da gente convinta di muoversi nel giusto, nell’adempimento di un proprio dovere o nell’ambito di una posizione di primariato sui propri simili?».
«Queste ultime forme di violenza o di criptoviolenza sono le più pericolose, perché si annidano nel sistema stesso e nei suoi rappresentanti, spesso travolti essi stessi dal sistema che gestiscono. Costoro, piano piano, scivolano nella sonnolenza della deformazione professionale e mentale e si convincono col trascorrere del tempo di essere soggetti di diritti persino non riconosciuti alla totalità. Ma la conseguenza è che non essendo previsti limiti o vincoli di responsabilità, trattandosi di una violenza non penalizzata, né codificata da nessuna legge, questi fenomeni, a lungo andare, autoproducono categorie, gruppi, caste e centri di potere che incominciano ad organizzarsi, e allora siamo certi che si va cristallizzando una realtà che provoca, a sua volta, reazioni dapprima ragionate, democratiche, e poi violente. E così si ricomincia».
«Scusami Carlo, se mi sono lasciato andare a questo lungo discorso, ma forse avevo bisogno di farlo ad alta voce, di parlarne con qualcuno, perché è da troppo tempo che me lo vado costruendo, affinando. E sai queste riflessioni dove mi portano? A riconsiderare il concetto di democrazia, non quello che sta scritto nei dizionari o nei testi scolastici ma quello più profondo, più ampio, che coinvolge la struttura, i diversi piani dei nostri pensieri, della nostra coscienza, dei nostri atteggiamenti, il modo di gestire la nostra presenza in una comunità, e i rapporti col prossimo, con la vita, nel rispetto assoluto di questo prossimo chiunque egli sia, del suo essere individuo; insomma, il modo come noi regoliamo le nostre azioni e reazioni ai fatti degli altri. Ma sarebbe troppo lungo trattare compiutamente tutto questo argomento. Lasciamolo alle accademie, alle tavole rotonde, dove, purtroppo, i soliti esperti si parlano addosso, si ascoltano e tutto finisce lì».
«Adesso è ora di rientrare e potremo ritornare su queste idee, se ne saremo capaci, rifugiandoci nelle nostre meditazioni o anche ascoltando i discorsi dei nostri compagni, che, essendo essi stessi soggetti e oggetto di violenza, possono darci altri spunti di approfondimento». (Id., pagg.1 04-106).
Puntualmente illegale gli aveva fornito l’indirizzo della guardia che aveva preso Eva, e Agostino gli aveva scritto pregandolo di dargli notizie della cagnetta.
Un’altra nota positiva era stata la lettera del padre del giovane avvocato. Una bella lettera che ora conserva gelosamente.
«Caro signore», era scritto, «so del suo caso da mio figlio, che mi ha parlato a lungo e con entusiasmo di lei, tanto che mi sembra di conoscerla. So quale ingiustizia sta subendo e con quanta dignità ha preso posizione. Anch’io mi sarei comportato allo stesso modo nell’illusione di riuscire a cambiare qualcosa. Ma mi chiedo, cosa?».
«E poi mi è facile dire che anch’io mi sarei comportato come lei, ma io non ho provato il carcere, la privazione della libertà con tutto quel che segue e che conosco o per immaginazione o per averne letto o visto qualcosa al cinema. Quindi la mia vuole essere un’adesione ideale, una testimonianza più che altro. La prenda per quel che può valere».
«Ma è più come padre che desidero scriverle, perché sento che è ugualmente importante».
«Da quando mio figlio l’ha conosciuta, sì, l’ha incontrata in carcere, sento che egli è cambiato nei miei confronti. Prima, come sempre accade tra due diverse generazioni, e specie tra padri e figli, non c’era dialogo, confidenza. Era un rapporto ridotto all’essenziale, che mi poneva spesso in grave disagio e mi induceva a chiedermi in che cosa avessi sbagliato. Eppure, bene o male, ho speso la mia vita a lavorare onestamente per costruire qualcosa che mio figlio si potesse un giorno ritrovare. Con gli anni ho acquistato esperienza, conoscenza degli uomini e delle cose: esperienza che desideravo trasferire, secondo le circostanze, in mio figlio, sotto forma di consigli, di suggerimenti; e lo facevo con discrezione, nel timore di essere frainteso, di essere giudicato invadente, possessivo ».
«Ma le risposte che ne avevo erano per me mortificanti, ferivano la mia sensibilità, il mio animo, che era indenne da qualsiasi interesse che non fosse il bene di mio figlio».
«Cosa vuoi capire tu, mi rispondeva, che sei di un’altra generazione? Il mondo è cambiato e tu non lo riconosci più, non ti ci puoi ritrovare con le tue idee, col tuo modo di vedere e di giudicare gli uomini e il loro comportamento. So io quel che devo fare».
«Vede, caro signore, so bene anch’io che il mondo sta cambiando e anche in fretta, ma certi valori, certe qualità umane restano, non possono mutare perché sono i pilastri su cui necessariamente deve poggiare il vivere civile. Ma i giovani, perché giovani li respingono, forse non li conoscono o noi, nella fretta di vivere, non abbiamo saputo farglieli apprezzare».
«Tanto è vero che, con l’età matura, li riscoprono e così diventano come noi. Ma noi non ci saremo più, saremo già scomparsi portandoci dietro il dubbio di cosa abbiamo saputo fare, di cosa siamo stati per i nostri figli».
«Forse altrettanto è accaduto anche a me con mio padre, ma allora c’era più tempo per recuperare, c’erano ricorrentemente degli accadimenti che ci univano per sopravvivere; e poi la casa era l’occasione di incontro della famiglia nelle ore serali, quando c’era ancora la possibilità, la buona abitudine di parlare».
«Le ho detto tutto questo per arrivare al punto; mio figlio ha scoperto cha anche gli anziani hanno qualità e coraggio, hanno la forza delle proprie idee che è poi quella della vita accumulata giorno dopo giorno e questa scoperta l’ha trasferita anche su di me. Finalmente ora parliamo, ci confrontiamo, e questo mi fa sentire ancora utile in un rapporto generazionale nel quale, non si deve mai individuare un confine netto tra la vita di chi arriva e quella di chi deve partire».
«La benedico e l’abbraccio». (Id., Pagg. 110-112)
Romano Cammarata
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 23-40.